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La Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone detenute ha deciso di promuovere una mobilitazione per tornare a porre, con urgenza e con forza, la questione dell'esecuzione penale in carcere.
Il sovraffollamento in continua crescita, il numero di suicidi (15 dall’inizio del nuovo anno), le tensioni dilanianti e la sostanziale mancanza di speranza nel sistema penitenziario fanno dell'Italia un caso unico in Europa.
L'appello, che porta il titolo Un silenzio assordante, è stato promosso come figure di garanzia nei confronti delle istituzioni e della società civile, a cominciare proprio dalla politica: anche su temi così sensibili e delicati come il carcere, che nella società contemporanea ha sempre più assunto una valenza fortemente simbolica, i veri avversari da fronteggiare appaiono essere innanzitutto gli indifferenti, piuttosto che coloro che nutrono altre prospettive o visioni in merito alle possibili soluzioni.
Quali osservatori esterni designati dagli enti locali e dalle Regioni i Garanti hanno l'ingrato compito di agire – anche in modo intrusivo - per un monitoraggio del rispetto dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, segnalando “a chi di dovere" (con il solo potere della moral suasion) le azioni necessarie per far sì che la detenzione sia volta al recupero e al reinserimento della persona incarcerata. Un compito doppiamente ingrato, visto che il ruolo prevede come primo interlocutore proprio le istituzioni che hanno nominato i Garanti e che spesso finiscono per pensare di aver esaurito il proprio intervento con l'individuazione di un "delegato al problema".
Sono trascorsi ormai cinquant’anni dall'approvazione dell'Ordinamento penitenziario (la Legge 354 del 26 luglio 1975) che mette tutte le principali attività del trattamento in capo a istituzioni “altre” chiamate a collaborare con l'Amministrazione penitenziaria per l'esecuzione penale dentro e fuori dal carcere. E in molti settori, come la sanità, la competenza è addirittura esclusiva.
Le narrazioni che si fanno del carcere finiscono per essere determinanti nell'approccio dell'opinione pubblica, ma anche dei decisori politici: riuscire a parlare dei detenuti partendo dalla loro umanità sofferente e dalle inaspettate risorse personali che le mura contengono, ma non cancellano, appare essere l'unico modo interessante e fecondo per poter affrontare efficacemente anche la questione della sicurezza sociale, cui tutti ambiamo.
L'appello dei Garanti, che ricorda le parole del Presidente della Repubblica dello scorso 31 dicembre, non vuole essere un richiamo morale o ideale, bensì concreto e operativo. Molto c'è da fare qui e ora e il tessuto sociale e istituzionale dei territori non può più pensare di lasciar gestire l’esecuzione penale ai soli operatori penitenziari.
La sfida deve – quindi - essere quella di vedere, con le difficoltà e le oscurità del pianeta carcere, anche e in primo luogo le potenzialità sociali e persino economiche di un efficace servizio pubblico di esecuzione penale (intra ed extra moenia) che, laddove necessario ed extrema ratio di un sistema complesso di misure restrittive, deve riuscire a conservare la dignità della persona e alimentare la speranza in un cambiamento possibile.
I dati ci dicono che investendo sui progetti trattamentali si raccolgono risultati "imprevisti", ma occorre pur sempre scommettere sull’uomo e sulla donna, anche quando tutto sembra perduto. Una scommessa – per dirla con le parole di San Paolo che danno anche il titolo a un progetto dell’Associazione “Nessuno tocchi Caino” – “Spes contra Spem": un impegnativo “essere” speranza contro uno sterile “avere” speranza.
Peraltro, è proprio il motto ufficiale del Corpo della Polizia penitenziaria che recita "Despondere spem munus nostrum", garantire la speranza è il nostro compito: ecco, questo deve essere il compito di tutti i cittadini di buona volontà e costituzionalmente orientati.
bruno mellano