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Dettaglio seduta n.215 del 29/03/17 - Legislatura n. X - Sedute dal 25 maggio 2014 al 25 maggio 2019

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Argomento:


PRESIDENZA DEL PRESIDENTE LAUS



(La seduta ha inizio alle ore 9.48)


Argomento:

Comunicazioni del Presidente del Consiglio regionale


PRESIDENTE

La seduta è aperta.
In merito al punto 1) all'o.d.g.: "Comunicazioni del Presidente del Consiglio regionale", comunico:


Argomento:

Comunicazioni del Presidente del Consiglio regionale

Argomento:

Congedi


PRESIDENTE

Hanno chiesto congedo Alemanno, Barazzotto, Baricco, Ferrero, Mighetti Molinari, Motta, Ottria, Reschigna e Valle.


Argomento: Rapporti delle Regioni con l'ordinamento comunitario

L'Unione Europea a 60 anni dai Trattati di Roma


PRESIDENTE

Ricorre, in questi giorni, il sessantesimo anniversario della firma dei Trattati di Roma, primo passo per l'avvio di quel processo di integrazione economica e politica che porterà, ai giorni nostri, alla costituzione della Comunità prima e dell'attuale Unione Europea dopo. Per molti, come per i padri fondatori, fu la realizzazione di un sogno, nato sull'isola di Ventotene sulla spinta di un intellettuale come Altiero Spinelli; per altri fu l'inizio del cammino di un'utopia che dopo l'esperienza sanguinosa della guerra appariva del tutto irrealizzabile. In ogni caso per i più fu comunque il primo mattone della costruzione di un'Europa senza più guerre.
Quel percorso, intrapreso a Roma sessant'anni fa, guardando con determinazione ad un progetto di unità tra le nazioni europee, oggi si è interrotto e lentamente si sono persi non solo l'idealismo, ma la volontà di un'Europa unita e forte. Basti ripensare al clima di entusiasmo che accompagnò l'avvento della moneta unica per comprendere quante cose, da allora, siano cambiate. Quell'Europa unita, forte, solidale e capace, com'è stato fino ad oggi, di proteggere le nazioni europee dalla tragedia della guerra, sta subendo una battuta d'arresto. Oggi ci appare scontato vivere in pace, circolare liberamente, mandare i nostri figli a studiare all'estero e invece non lo è affatto. Purtroppo i leader europei che hanno sostituito quella generazione di costruttori dell'Unione, non hanno saputo e, ripeto, non hanno saputo - proseguire su questo percorso. La crisi economica, le ferree leggi di bilancio imposte dai trattati, un "di troppo" di burocrazia, hanno fatto percepire l'Europa non già come uno spazio di opportunità, ma come un problema, cosicché ora sono in molti a chiedere "meno Europa", con un ritorno pericoloso ai nazionalismi e alle barriere sia economiche che doganali, che sono il vero impedimento alla crescita economica e all'affermazione di un sentimento di disponibilità e di solidarietà, impedimento foriero di pericolosi e animosi conflitti.
I partiti populisti e antisistema non possono infatti che crescere davanti all'inerzia europea, all'assenza di risposte unitarie al problema delle migrazioni, alla necessità di rimediare alle gravi disuguaglianze all'iniqua distribuzione dei redditi, all'impoverimento incessante della classe media e dinnanzi all'incapacità di corrispondere con nuove politiche unitarie ai timori e alle insicurezze delle persone.
La ricorrenza cui abbiamo voluto dedicare un Consiglio aperto, su sollecitazione dell'AICCRE, è tanto più importante da celebrare, perché si colloca in un momento storico molto difficile per l'Unione Europea e rappresenta un'opportunità per rilanciare il processo politico europeo.
Questo patrimonio che ci appartiene, fatto di conquiste e avanzamenti sul terreno dei diritti e della democrazia e che, soprattutto, nelle politiche ambientali ha prodotto risultati importanti, non può disperdersi in politiche sbagliate e a causa degli interessi di singoli governi. Non possiamo cedere ai ricatti di risorgenti nazionalismi che fanno leva sulle paure e le insicurezze della gente. Abbandonare questo progetto sarebbe come smettere improvvisamente di pedalare andando in bicicletta, cioè cadere rovinosamente.
Personalmente mi auguro che queste celebrazioni non siano solo parate fotografiche di Capi di Stato, ma ci conducano all'assunzione di un nuovo rinvigorito impegno a difendere le ragioni di un'Europa unita, che possa reggere il confronto con il mondo e con i suoi giganti.
Chiedo, per la gestione dei lavori e delle modalità di lavoro dell'Aula, che ogni intervento rimanga all'incirca entro i cinque-sei minuti. Cercherò di dare un'alternanza agli esterni con i colleghi che chiedono di intervenire.
I colleghi che hanno espresso la volontà di intervenire sono stati già registrati; se ci sono altri colleghi che vogliono dare la disponibilità lo facciano all'inizio della mattinata.
La parola alla Vicepresidente del Consiglio regionale, delegata della Consulta europea, Daniela Ruffino.



RUFFINO Daniela

Grazie, Presidente, e buongiorno a tutta l'Aula.
Unità e solidarietà, ecco le parole d'ordine del sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma. Sessant'anni che non sono trascorsi invano, non fosse per il fatto che rappresentano il più duraturo periodo di pace nella storia dell'Europa, anche grazie al percorso di unità europea compiuto passo dopo passo, tra molte difficoltà. La ricorrenza ci dà l'occasione per riflettere sulla storia dell'Unione europea e, soprattutto sul suo futuro.
Unità e solidarietà, dicevo. Non nascondiamoci che tali principi potrebbero rivelarsi mere enunciazioni, nel clima attuale - diffuso in Italia e in molti altri Paesi - di disuguaglianza sociale e disaffezione dei cittadini rispetto alla politica e alle istituzioni.
I segnali di scollamento si chiamano anche Brexit, si individuano tra alcune forze politiche di Paesi membri che non nascondono le proprie critiche all'Unione, proponendosi non di trasformarla, ma addirittura di abbandonarla.
L'entusiasmo per il buon esito del vertice di Roma, anche dal punto di vista dell'ordine pubblico e della sicurezza, non deve farci dimenticare l'urgenza di individuare soluzioni a criticità impellenti quali la disoccupazione, la tutela delle imprese spesso vessate da tasse troppo elevate, i problemi di un'adeguata integrazione dei migranti che giungono in Europa.
Ciò di cui probabilmente va rimproverato chi governa la "Casa Europa" è stato ben evidenziato da Papa Francesco: "Essa non può basare esclusivamente le proprie fondamenta sulla finanza. Non deve reggersi solo sulla freddezza dei numeri".
Un prestigioso quotidiano italiano, che non può certo essere tacciato di antieuropeismo, stima tra gli italiani una diffidenza nei confronti dell'Europa, superiore all'80 per cento. Probabilmente questi cittadini italiani-europei non sono contrari all'istituzione in sé, ma sono - questo sì - fortemente critici nei suoi confronti. Lo sono perché stanchi di sentir parlare solo di mercato, di conti e di severità sulle regole dei bilanci. Questi cittadini vorrebbero invece una Unione tale nei fatti giusta e concreta, capace di dare loro sicurezza, lavoro e senso di appartenenza. Sono certa che se ne tratterà nel corso di un confronto costruttivo.
In fondo, all'Europa i cittadini del Piemonte chiedono le stesse cose fondamentali, cose che si aspettano dal governo locale e nazionale: debellare il gigantismo burocratico, ridurre l'imposizione fiscale che causa troppe vittime tra le imprese, attuare politiche coordinate per favorire i giovani e l'occupazione. E allora, perché non si tratti solo di desiderata destinati a rimanere sulla carta, è compito in primo luogo delle nostre istituzioni territoriali dialogare con l'Unione Europea, saperne cogliere tutte le opportunità che offre a favore dei nostri territori e farla percepire alle comunità locali quale realtà utile, irrinunciabile e vicina. In tal senso, per quanto riguarda l'attività dell'Assemblea regionale, mi sia permesso sottolineare come un ruolo davvero importante sia rappresentato dalle azioni di comunicazione e sensibilizzazione svolto dagli organismi consultivi, in particolare dalla Consulta europea.
In questi sessant'anni - una vita per una persona e una parentesi per un'istituzione - l'Europa non sempre è riuscita a dare a tutti una risposta equa ed organizzata. Una politica a volte priva di decisionismo ha lasciato spazio ad egoismi e a ispirazioni politiche ed economiche nazionali. Per dal vertice di Roma sono finalmente emersi segnali significativi sui temi dei rifugiati, del contrasto alla disoccupazione e alle ineguaglianze e sull'Europa sociale. È necessario, allora, realizzare un'Unione più autorevole negli scenari internazionali, anche attraverso il progetto di difesa europea e una lotta coordinata al terrorismo. La bandiera europea sventola sui palazzi delle istituzioni; sarebbe bello, però, che i cittadini la sentissero sinceramente propria, la vivessero con spirito patriottico europeo e come simbolo di una federazione percepita quale patria, così come lo sono gli Stati Uniti indipendentemente da chi li governa.
Auspichiamo - auspico - un'Europa realmente unita nella diversità, come diceva il motto dell'Unione - lo ricordiamo tutti - usato per la prima volta nel 2000.
Concludo quindi affermando che la casa europea è stata fondata e ampliata negli anni; e ne è stata più volte imbiancata la facciata. Ora va ristrutturata e resa adeguata alle esigenze non più rinviabili di chi la abita.
Grazie.



PRESIDENTE

Grazie, Vicepresidente Ruffino.
Interviene ora il Segretario regionale della Federazione piemontese AICCRE, dottor Davide Rigallo.



RIGALLO Davide, Segretario regionale Federazione piemontese AICCRE

Signor Presidente, Consigliere e Consiglieri, grazie dell'opportunità che mi è data di intervenire e grazie per questa possibilità di dibattito.
Voglio esordire con una massima, solo apparentemente paradossale: la memoria storica ci restituisce il presente, ben più che il passato. Credo che questa massima valga in particolar modo per le celebrazioni dei Trattati di Roma, a sessant'anni dalla loro firma, se non vogliamo dare a queste celebrazioni un senso formale e retorico, che li consegnerebbe alla sola dimensione passata e non li relazionerebbe con la situazione attuale.
Sessant'anni fa a Roma i rappresentanti di sei Paesi europei sottoscrissero il Trattato che istituì la Comunità economica europea, la CEE. Oggi l'Unione Europea - che è la filiazione diretta del processo originato dal quel Trattato - consta di 27 Paesi. Sessant'anni fa si era all'indomani della Seconda guerra mondiale, che si era conclusa da poco più di un decennio, con le ferite del conflitto e i lutti ancora ben presenti con Paesi economicamente e socialmente ripiegati su se stessi e soprattutto, con un nuovo ordine internazionale da gestire. I padri fondatori dell'Europa convergerono nel progetto di costruire un'entità politica sovranazionale che garantisse il mantenimento della pace tra le nazioni europee e i diritti delle persone, superando quelle che erano ritenute le cause dei conflitti dell'epoca precedente, ossia le spinte nazionalistiche e quelle barriere innaturali tra le persone che erano, e che sono, le frontiere.
All'epoca furono considerate diverse strade per raggiungere questo obiettivo. Si era pensato ad un'Assemblea costituente europea (Spinelli sosteneva questa posizione); fu sostenuta la strada di un Trattato tra gli Stati aderenti che avrebbe dato vita alla Comunità (proposta di Jean Monnet), e questa fu la soluzione che portò alla firma dei Trattati di Roma. Fu anche proposto un processo di riforma federale europea che partisse dal basso, con i Comuni che dovevano intervenire nelle strutture statali a riformarle per renderle più vicine e in comunicazione a livello europeo.
Abbiamo detto che prevalse l'ipotesi del Trattato istitutivo di un centro di potere europeo - la CEE, appunto - capace di rispondere ai problemi in maniera democratica, a partire dall'integrazione economica e dunque dalla formazione di un mercato comune finalizzato a rendere una crescita stabile e duratura.
Da allora, è cominciato un processo che, di trattato in trattato, è arrivato a coinvolgere 28 Paesi; a dare vita a un organo comunitario elettivo (il Parlamento europeo); a realizzare un'area di libera circolazione di merci, persone, capitali e servizi (l'area Schengen); a istituire una moneta unica per 19 Stati (l'Eurozona); a rendere vincolante una Carta dei diritti fondamentali che mette al centro della sua azione la persona e che, dal 2009, il Trattato di Lisbona ha reso vincolante per gli Stati aderenti all'Unione europea. Un processo che, infine, è arrivato a definire l'Unione Europea come uno spazio di libertà, giustizia e sicurezza.
Questa memoria, così brevemente sintetizzata, stride però con un presente che vede oggi gli Organi comunitari messi alla prova da urgenze a cui faticano a dare risposte unitarie, incisive ed efficaci; da avvitamenti nazionali che echeggiano la situazione precedente al cammino dell'integrazione europea, che insinuano l'idea di una sua reversibilità e quindi, di un ritorno alla prevalenza degli Stati nazionali sulla visione unitaria europea. È un presente, questo, che porta a domandarci quale e quanto sia largo lo scarto che sembra aver allontanato parte della generazione politica attuale dallo spirito, dai principi e dalla capacità progettuale dei padri fondatori dell'Europa.
Più sinteticamente, occorre domandarci se, attualmente, l'Unione Europea sia un progetto di pace, di diritti, di sviluppo e di solidarietà tra i popoli, oppure sia diventata qualcos'altro: un qualcosa inquinato da elementi contraddittori, in cui ci si ostina a volervi credere solo per abitudine consolidata, per formalità, ma non per convinzione politica.
Cito brevemente alcuni fatti, alcuni fenomeni che hanno caratterizzato l'ultimo quinquennio: la crisi economica della Grecia, l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea (fatti e fenomeni che sono stati visti come profondamente rischiosi per la vita stessa e la prosecuzione del processo di integrazione europea). Cito il mancato piano di sviluppo diffuso. Cito la cosiddetta crisi europea dei profughi, gli squilibri tra quei paesi che sono naturalmente protesi nel Mediterraneo, i paesi del Nord, i paesi dell'Est, i paesi cosiddetti dell'allargamento. Cito le ripetute sospensioni di Schengen.
Sono tutti fenomeni che allarmano, perché mettono profondamente in discussione il processo di unificazione europea e, soprattutto, allontanano la percezione che l'Unione Europea possa rispondere adeguatamente ai bisogni dei cittadini. Si ha l'impressione di avere a che fare con un'entità estremamente burocratica - come si dice nel gergo mediatico: tecnocratica -, poco gestita politicamente. Con un qualcosa che segue un corso che non riesce a risolvere problemi sempre più urgenti, sempre più attuali, che si accrescono nella loro gravità.
Si tratta di un problema ascrivibile unicamente alle scelte politiche adottate dall'Unione Europea, oppure si tratta di un problema che investe la stessa struttura istituzionale dell'Unione Europea? In altre parole occorre domandarci se sia sufficiente un cambio d'indirizzo su determinate materie, oppure se occorra intervenire con azioni profonde di riforma.
In questi giorni, quasi contemporaneamente alle celebrazioni dei Trattati di Roma, abbiamo assistito ad alcune azioni importanti al Parlamento europeo, con l'approvazione di tre risoluzioni: una prima risoluzione sul miglioramento e il funzionamento del Trattato dei Lisbona presentata dagli Onorevoli Mercedes Bresso e Elmar Brok; una seconda risoluzione presentata dall'Onorevole Verhofstadt, che indica la strada per il superamento dell'Europa a geometria variabile, disegnando una vera e propria rifondazione dell'Ue; infine, la risoluzione Böge-Berès, sulla capacità di bilancio della zona euro.
Sono risoluzioni importanti perché rilevano una presa di coscienza fondamentale e additano delle strade possibili e concrete da percorrere, a cui dovranno seguire degli atti legislativi perché abbiano un'incidenza sulla struttura dell'Unione Europea. Naturalmente, sono molto complesse ma toccano veramente tutti gli ambiti in cui agisce l'Unione Europea.
Ha cronologicamente fatto seguito all'approvazione di queste tre risoluzioni, la presentazione del Libro bianco sul futuro dell'Europa della Commissione europea - il 1° marzo scorso a Strasburgo - che disegna cinque scenari sul futuro dell'Unione Europea, presentando significativamente i pro e i contro di ciascuno scenario.
Abbiamo, poi, avuto ulteriori documenti, che sono stati anche riprodotti nei materiali per questa Assemblea, tra cui la Dichiarazione di Roma, approvata il 25 marzo scorso.
Avviare un processo di revisione istituzionale, riscrivere concretamente la struttura dell'Unione Europea è una condizione necessaria per sbloccare il motore decisionale dell'Ue. È una condizione necessaria ma non sufficiente.
A questa condizione, deve seguire l'avvio di una reale dialettica politica a livello europeo, partecipata, democratica, conforme a quei diritti civili e sociali che l'Europa si è data (ho ricordato prima la Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea) e che troppo spesso non è riuscita a tradurre in politiche e prassi capaci di coinvolgere tutti i livelli di governo - da quelli centrali a quelli regionali, a quelli locali e tutte le forze sociali e politiche.
Deve essere una dialettica compartecipata.
Mi avvio alla conclusione rilevando che, senza questo passaggio, il patrimonio dei diritti che sostanzia l'Unione Europea, il progetto federale immaginato a Ventotene nel pieno della guerra, la prospettiva degli Stati Uniti d'Europa, il cambio di rotta che è stato auspicato durante questo anniversario, rischiano di diventare semplici slogan, da ripetere in maniera quasi precettistica in occasioni celebrative, ma poco concrete: semplici flatus vocis lontani dai bisogni del nostro tempo.
Grazie, Presidente.



PRESIDENTE

Do ora la parola a un membro esperto del Comitato regionale dei diritti umani: Samin Zadeh.
Prego: se riesce, nei cinque minuti. Ma, come ha visto, siamo tolleranti.



SEDGHI ZADEH Samin, Comitato regionale dei diritti umani

Grazie, Presidente. Buongiorno, Consiglieri e cittadini.
Vorrei subito farvi notare che sono esattamente sessant'anni, quattro giorni, nove ore e 16 minuti che sul suolo europeo c'è la pace.
Siamo la seconda generazione a non vedere una guerra nel nostro continente e - badate bene - una seconda generazione che non sempre, come nel caso del sottoscritto (l'avrete capito dal cognome) ha proprio un sangue europeo, ma trae anche le sue origini da terre più lontane, perch siamo una seconda generazione che ha vissuto di opportunità, di democrazia e di libertà e ha sentito l'esigenza di sentirsi parte di qualcosa di più ampio e di più grande.
Ma la pace è solo uno degli obiettivi raggiunti in questi sessant'anni di Europa.
L'Europa ha saputo garantire a tutti i suoi cittadini - dal Portogallo alla Romania - un equo e giusto accesso alle cure. La sanità ha raggiunto livelli di eccellenza e le disuguaglianze sociali, culturali ed economiche sono state totalmente annichilite. Addirittura, la mobilità sanitaria (quel fenomeno per cui i pazienti migrano da una regione all'altra o da uno Stato all'altro) è stata totalmente abbattuta e un malato ha le stesse opportunità tanto in Svezia quanto in Grecia.
In Europa non esistono più confini: paesi come Ungheria o Germania hanno deciso di abbattere qualsiasi tipo di filo spinato fosse stato costruito.
L'Europa ha risposto anche in maniera concreta alla minaccia del terrorismo, è andata - tramite i suoi parlamentari europei e tutti i membri che si impegnano in tal senso - a bussare alle porte di quelle case nei quartieri come Molenbeek, nelle banlieue di Marsiglia e Parigi, ha fatto anche un salto a Porta Palazzo e ha saputo combattere il terrorismo islamico con maggiore apertura e integrazione, puntando sui giovani e sull'educazione, coltivando i rapporti umani, quel fondamento alla base dei valori europei giorno per giorno.
Ha fatto anche di più, perché a sessant'anni dai Trattati di Roma finalmente in tutta Europa uomini e donne sono considerati in eguale maniera, hanno gli stessi stipendi e gli stessi diritti, e questo chiaramente, vale anche per le coppie dello stesso sesso.
Le carceri in tutta Europa non più sovraffollate, hanno dimenticato l'epoca degli abusi e si avviano ad essere centri di recupero culturale e sociale.
I Governi di tutti e 28 i Paesi membri si sono soffermati a discutere nella pluralità delle visioni ideologiche, culturali e religiose, a proposito di temi importanti, come l'eutanasia e hanno salvaguardato l'insindacabile diritto alla libertà di morte, così come quello della vita.
Ma ha fatto anche di più: in sessant'anni, questa cooperazione tra gli Stati ha permesso di azzerare le morti nel Mediterraneo e tutti i Paesi membri hanno adottato le consone misure per arginare la prostituzione tant'è che questa tratta ignobile di persone, sia dall'Africa ma anche dalla stessa Europa, quella dell'Est, è stata abolita. Schiavitù e abusi sessuali sono assolutamente il ricordo di un'epoca finita.
Permettetemi, ma, da venticinquenne, vi ho raccontato una certa lista di fantasie. Ci piace sapere che può esistere un mondo in cui un discorso di questo tipo è reale, ma la realtà qual è? Le incertezze economiche l'astio nei confronti tanto delle istituzioni, sia quelle europee che quelle locali, l'astio nei confronti della politica, l'astio nei confronti di ciò che è diverso, in questo caso i migranti, che adesso vengono dall'Africa, ma qualche anno fa erano quelli dei Balcani e dell'Europa hanno fatto vacillare tutte le democrazie europee, sono riaffiorate tutte le antiche ostilità tra gli Stati e devo ammettere che il ruolo dei diritti umani come pietra angolare è stato completamente eliminato.
Gli Stati membri, tutti, compreso il nostro, hanno chiuso un occhio, e talvolta entrambi, su violazioni che mai e poi mai avremmo dovuto permettere nei confronti di persone che ne hanno bisogno. E le persone bisognose, badate bene, non sono sempre i bambini spiaggiati messi in prima pagina sui giornali, ma sono anche tutte quelle persone che non hanno accesso alle cure - quindi, il riferimento al mio primo punto.
Questo, però, significa che l'Europa, oggi più che mai, deve essere un'idea all'interno delle menti, le vostre e, soprattutto, le nostre, come seconda generazione.
Un'idea viene considerata giusta - attenzione alla parola "giusta" quando ha la capacità di risorgere dalle proprie sconfitte e dalle proprie crisi. Altri prima di me hanno sottolineato come l'Europa sia in crisi e come abbia subito molteplici sconfitte, ma un'idea giusta persevera risponde in maniera concreta ed efficace a problemi come quello dei flussi migratori, combina e non contrappone accoglienza e sicurezza dei cittadini contro il terrorismo, fortifica e non va a minare la Convenzione di Schengen, non mette a repentaglio la libertà delle persone, anzi valorizza i principi di tolleranza e di empatia, quei rapporti umani che per sessant'anni sono stati eliminati. Soprattutto, ascolta i suoi cittadini con risposte moderne e concrete.
Malgrado la mia giovane età - permettetemi - è mia convinzione che momenti bui e difficili ci aspettino. Presto si dovrà affrontare la scelta per ciò che è giusto e ciò che è facile. Il mio augurio per questi sessant'anni anni di Comunità Europea è che la mia generazione sia in grado di ritrovare il significato alla base del motto dell'Unione Europea, in varietate concordia, uniti nella diversità. Questo significa che dovremo fare una scelta, che forse è quella giusta, ma sicuramente non è quella facile.
Grazie a tutti.



(Applausi in aula)



PRESIDENTE

Ormai, l'applauso c'è stato, ma ricordo che non è possibile applaudire non posso fare nemmeno io i complimenti dalla Presidenza, che, ormai, sono scappati.


Argomento: Varie

Saluto del Presidente del Consiglio ai docenti e agli allievi della Scuola Primaria "C. Casalegno" di Torino


PRESIDENTE

Nel contempo, salutiamo i ragazzi della Scuola Primaria "C. Casalegno" classe V A, di Torino.
State assistendo al Consiglio regionale aperto: "L'Unione Europea a 60 anni dai Trattati di Roma". Vi auguro buona visita al Palazzo.


Argomento: Rapporti delle Regioni con l'ordinamento comunitario

L'Unione Europea a 60 anni dai Trattati di Roma (seguito)


PRESIDENTE

La parola al Consigliere Bertola.



BERTOLA Giorgio

Grazie, Presidente.
Lo scorso 25 Marzo, si è celebrato il sessantesimo anniversario della firma dei Trattati di Roma, gli accordi che hanno posto le basi per la nascita dell'Unione Europea.
Essi sancivano, a poco più di un decennio dal termine dei terribili conflitti che avevano travolto le nazioni europee, nuove libertà, libertà di circolazione di persone e merci, fondamentali per la creazione di un'Europa basata sulla collaborazione e la cooperazione tra i Paesi membri.
Questi Trattati istituivano linee politiche comuni, come la politica agricola e il fondo europeo, il cui obiettivo era il progresso economico ma anche l'evoluzione sociale verso una sempre maggiore solidarietà tra popoli.
Oggi è però purtroppo sotto gli occhi di tutti il mancato adempimento delle "buone" intenzioni iniziali, degli impegni presi con i cittadini poiché questa Europa si è trasformata nell'Europa dell'austerity, dei vincoli economici e delle riforme strutturali che rendono le persone sempre più povere. Un'Europa che non distribuisce ricchezza e benessere equamente tra gli Stati membri.
Occorre quindi riconoscere gli errori commessi e ripartire mettendo in discussione le politiche intraprese: per esempio, gli oltre due miliardi di euro previsti dal Piano Juncker, che oggi finanziano solo le grandi opere e le lobby, devono essere ridistribuiti, per dare ossigeno alle realtà locali e alle piccole e medie imprese.
In questo scenario critico in cui si fa sempre più urgente la necessità di una rielaborazione dei principi fondanti la nostra Comunità Europea, il Movimento 5 Stelle ha voluto raccogliere in un libro tutti i punti da cui pensiamo si debba partire per una nuova idea di Europa, un'Europa dei Cittadini.
Un'Europa in cui vengano innanzitutto ridiscussi i vincoli economici.
Non è possibile accettare l'imposizione di un'Unione Europea a due velocità. Le recenti dichiarazioni del Presidente dell'Eurogruppo, secondo cui i Paesi meridionali dell'Eurozona vivrebbero una fase di crisi economica, poiché in passato dediti "a spendere soldi in alcol e donne" oltre ad essere deplorevoli, sono il segno di una divisione incolmabile tra due mondi, tra un'Europa di serie A, a scapito di un'Europa di serie B.
È necessario definire meccanismi di governance economica realmente sostenibili e solidali, in grado di dare sostegno a tutti i cittadini. Per esempio, la procedura del bail-in, che scarica le perdite bancarie su risparmiatori e correntisti, va smantellata perché in contrasto con le Costituzioni nazionali che tutelano il risparmio - anche la nostra.
Sono necessarie misure concrete, mirate alla lotta alla disoccupazione alla povertà e alle disuguaglianze e maggiori investimenti nel sociale, ad esempio utilizzando una larga fetta del budget europeo per proporre un reddito di cittadinanza, come sembrava peraltro nelle intenzioni della Commissione a inizio legislatura.
Un'Europa in cui anche il mercato unico venga ripensato.
Il mercato unico alla base dei Trattati era uno spazio aperto che doveva legare insieme le politiche degli Stati membri, affinché non si creasse una concorrenza sleale.
La deriva di questo mercato oggi è un dato di fatto: non è libero e la concorrenza non è leale, le multinazionali sono state avvantaggiate dalle politiche già citate che danneggiano le piccole realtà.
Al posto di trattati commerciali suicidi, come il TTIP e il CETA, deve vincere il principio di precauzione, perché la salute è un diritto che deve essere tutelato prima di ogni interesse economico. Le sostanze pericolose devono essere messe al bando laddove esistono pareri discordanti della comunità scientifica e a fronte di un vuoto di studi riconosciuti. Ogni decisione di politica commerciale deve salvaguardare le eccellenze del "Made-In" dagli effetti negativi dell'importazione e deve seguire gli standard produttivi, ovvero il rispetto dell'ambiente, dei diritti umani dei diritti dei lavoratori, perché il fine di una Comunità è la reciprocità, lo sviluppo sostenibile e il rispetto dei diritti dell'uomo.
Un'Europa quindi, che in quest'ottica riveda anche le convenzioni che regolamentano l'immigrazione, per un'equa ripartizione delle responsabilità tra tutti i Paesi dell'Unione Europea. L'Italia e gli altri Paesi di primo ingresso non possono diventare il campo profughi d'Europa.
Le richieste di asilo devono essere distribuite tra tutti gli Stati membri automaticamente e obbligatoriamente - pena l'incorrere in sanzioni prima che gli Stati di frontiera arrivino al collasso e si trovino in emergenza.
Bisogna prevenire il fenomeno degli sbarchi lavorando sulle cause: sì all'embargo di armi; no a operazioni di destabilizzazione in Medio Oriente e in Africa; sì alle sanzioni per le multinazionali che violano i diritti umani e ad ogni forma di finanziamento diretto e indiretto ai produttori di armi.
Chi ha diritto alla protezione internazionale deve entrare in Europa attraverso vie di accesso legali. Solo così si può arginare il traffico di esseri umani e tagliare il nodo che lega immigrazione, mafia e corruzione come dimostrato da diverse inchieste della Magistratura ("Mafia Capitale" per citarne una tra le più famose).
In materia di antiterrorismo, infine, deve essere rafforzata la cooperazione tra tutti i Paesi, eliminando gli ostacoli che non permettono uno scambio efficace di informazioni.
Un'Europa dei cittadini deve fondare le decisioni che la riguardano sulla democrazia partecipata.
L'Unione Europea deve rimettere al centro del potere decisionale il cittadino e la trasparenza del processo. Le politiche non possono essere imposte dall'alto, ma devono essere vagliate dalla volontà popolare attraverso l'uso di tutti gli strumenti di democrazia diretta e partecipata di comprovata utilità. Gli esempi di oggi dimostrano che quando i cittadini si sono potuti esprimere, molto spesso hanno bocciato le politiche dell'Unione, e il Parlamento europeo, unica tra le istituzioni comunitarie democraticamente eletta, è ancora troppo marginale nel processo decisionale.
Infine, una nuova Europa deve avere a cuore l'efficientamento energetico. Un tema legato all'ambiente, sul quale crediamo sia necessario spingere l'acceleratore, perché siano implementati i principi dell'economia circolare in tutti i cicli produttivi e di consumo, attraverso le buone pratiche del riciclo e del riuso di manufatti e materiali, ma anche vietando l'obsolescenza programmata dei prodotti.
Occorre ridurre fino ad azzerare l'importazione di minerali e materie prime da Paesi extra europei e i consumi energetici dei trasporti e rigenerare l'economia reale, avvicinando i luoghi del lavoro e della produzione a quelli del consumo e dell'abitare.
Va inoltre salvaguardato l'assetto idrogeologico e la fertilità dei suoli, imbrigliando le acque, trattenendo i terreni, adottando politiche di adattamento e mitigazione climatica e traghettando il modello dell'agroindustria verso politiche agricole indipendenti da flussi di energia fossile e materiali non locali. I popoli europei devono convivere in una reale comunità resiliente e pacifica, in grado di automantenersi con una bassa intensità energetica, al di fuori dei conflitti per le risorse e delle responsabilità del cambiamento climatico.
Concludo quindi il mio intervento riproponendo l'impegno preso sessant'anni fa dai sei Stati che siglarono l'inizio di questa avventura comunitaria, il cui intento originario era proprio quello di creare una "comunità di destino". Non, quindi, una comunità di interessi economici non una comunità dove predomini il potere della finanza, ma una comunità di Stati, di popoli, di cittadini che si impegnano in prima persona per stare insieme e realizzare in modo partecipato e democratico l'Unione, senza lasciare indietro nessuno.



PRESIDENTE

Grazie, Consigliere Bertola.


Argomento: Varie

Saluto della Presidente del Consiglio ai docenti e agli allievi della Scuola primaria "C. Casalegno" di Torino


PRESIDENTE

Saluto il secondo gruppo di docenti e studenti della classe V A della scuola primaria "C. Casalegno" di Torino, in visita a Palazzo Lascaris, ai quali auguro buona permanenza.
In questo momento state assistendo ad una seduta aperta di Consiglio regionale il cui titolo è "L'Unione europea a 60 anni dai Trattati di Roma".


Argomento: Rapporti delle Regioni con l'ordinamento comunitario

L'Unione Europea a 60 anni dai Trattati di Roma (seguito)


PRESIDENTE

Chiedo al professor Corrado Malandrino di intervenire. È professore universitario di storia delle dottrine politiche e Direttore del laboratorio di storia, politiche e istituzioni dell'Università del Piemonte orientale.
Prego, professore.



MALANDRINO Corrado, Professore ordinario di storia delle dottrine politiche e Direttore del laboratorio di storia, politiche e istituzioni dell'Università del Piemonte Orientale

Grazie, Presidente. Faccio parte anche della Consulta europea, come ben sa.
Il 23-24 marzo 2017 il Laboratorio di Storia, Politica, Istituzioni (LASPI) ha tenuto in Alessandria, a Palazzo Borsalino, sede del Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze Politiche, Economiche, Sociali (DIGSPES) - al quale il LASPI afferisce e che qui ho l'onore di rappresentare - un convegno incentrato su "Centralizzazione, decentramento e federalismo tra guerra civile europea, resistenza e ricostruzione democratica (1939-1948)". Nel quadro di questa iniziativa scientifica ha avuto luogo una commemorazione del 60º anniversario della firma dei trattati di Roma del 25 marzo 1957 istituenti le due Comunità - CEE ed Euratom - che, unificatesi completamente qualche anno dopo con la CECA diedero vita alla Comunità Europea, istituzione che a sua volta rappresent l'antecedente dell'Unione Europea fondata col Trattato di Maastricht nel 1992. In tale occasione sono state svolte varie considerazioni sul futuro dell'Unione Europea nell'era della crisi e dei populismi che qui rappresenterò brevemente.
Il 2017 si conferma un anno cruciale per l'Europa: le elezioni nei Paesi Bassi hanno evidenziato un risultato altalenante, pur negando un successo pieno alle liste antieuropee, populiste e xenofobe, e mettendo almeno apparentemente, un freno alla tendenza avviata dalla Brexit. Saranno in tal senso più decisive le elezioni presidenziali e politiche in Francia (aprile), Germania (settembre), e..in Italia, quando vi si terranno.
L'anniversario che oggi celebriamo dovrebbe aprire una fase di riflessione sul presente e sul futuro dell'UE e più in generale del processo di costruzione di un'Europa realmente più unita sotto il profilo politico.
Occorre perciò discutere di Europa, di UE, del passato e del futuro: a partire dal dato di fatto che negli ultimi tempi è aumentato il dibattito si è forse implementato uno "spazio pubblico europeo", quell'arena di discorso pubblico europeo che il maggior filosofo contemporaneo, Jurgen Habermas ha definito assai carente e bisognoso d ampliamento. Ricordare il significato storico della data del 25 marzo 1957 dovrebbe anche avere lo scopo di andare al di là della mera celebrazione, per dare attuazione a quello ben più rilevante di reagire - anche tramite una Dichiarazione di intenti che segni l'inizio di un rilancio effettivo - alla grave crisi che squassa l'unione sugli importanti problemi dei debiti sovrani, del destino dell'Euro, della costruzione di una governance economica europea, sulla questione dei migranti, sugli attacchi anteuropei dei partiti e movimenti populisti, sulla gestione della Brexit ecc. Discutiamo di Europa, pertanto della sua grave crisi, ma sapendo che è all'opera una vasta e ramificata attività di disinformazione menzognera da parte delle forze ingenti del populismo nostrano ed estero. Ciò significa che si deve parlare solo bene dell'UE? Assolutamente no!, anzi discutiamone illustrando in modo critico i problemi, facendo una critica prima destruens di ciò che non va bene in "questa" Europa, ma poi cercando di sviluppare una pars construens per un'Europa più avanzata, forte e solidale, come dovrebbero fare quelli che desiderano che l'unità europea venga veramente realizzata.
Nel suo discorso al PE del 14 settembre 2016 a Strasburgo, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker ha definito la crisi dell'UE "esistenziale". Anche secondo me si tratta di una crisi "esistenziale", sebbene non nel senso ristretto indicato da Juncker, ossia di attraversamento critico di una fase in un percorso di crescita graduale quasi come per i ragazzini che in modo naturale passano attraverso una crisi che li cambia e li trasforma dall'adolescenza alla loro prima maturità. No, c'è qualcosa di più di una crisi in un percorso difficile, ma tutto sommato graduale, sempre che lo si voglia percorrere. Occorre prendere il termine "esistenziale" nel suo senso - anche filosofico - più perspicuo: si è davanti a una crisi profonda di progetto e di progettualità politica, che è poi il genuino significato del termine esistenziale.
Occorre affermare che quello che è in crisi profonda, poiché arrivato alla sua conclusione, completato, è il progetto funzionalista-comunitario (in se stesso intrinsecamente gradualista, che non fa salti rivoluzionari) che prese avvio con il memorandum di Jean Monnet e poi col piano Schuman tra il marzo e il maggio 1950. Tale progetto, basato sul metodo funzionalistico comunitario, ha dato avvio e servito meravigliosamente bene al nostro processo di integrazione economica. Grazie ad esso le economie europee si sono quasi fuse armonicamente e oggi rappresentano, nonostante i problemi un insieme ben operante. I risultati sono da mantenere e implementare, ma sapendo che da questi difficilmente potranno venire risposte vitale per il problema politico che sta dinanzi all'UE.
Bisognerebbe ricordare di più e meglio che lo stesso Monnet scrisse che grazie al metodo funzionalista-comunitario gli europei avrebbero imparato a cooperare tra loro e a unirsi in una unità economica completa in 50 anni di storia comune. Mezzo secolo! Dopo questo lasso di tempo, gli stessi Monnet e Schuman prevedevano che si sarebbe dovuti passare a un'unione più intima un'unione politica, gli Stati Uniti d'Europa, come si legge nel preambolo del Trattato di Parigi del 1951 che diede origine alla CECA. Da allora fino ai trattati di Maastricht e Amsterdam, grazie anche al neofunzionalismo di Jacques Delors, in effetti dopo mezzo secolo circa il processo di integrazione economica comunitaria poteva dirsi pressoch completato e si poneva con tutta la sua urgenza il problema del passaggio all'unione politica. Come aveva previsto lucidamente, ma inascoltato il primo presidente della Commissione CEE negli anni Sessanta del Novecento Walter Hallstein, il processo di unità europea poteva raffigurarsi come un razzo composto di tre stadi che stilizzavano le tre tappe dell'integrazione europea: a) doganale, b) economica, c) politica.
Dalla Convenzione di Laeken al Trattato di Roma del 2004 che adottava una costituzione europea - poi sconfessato e distrutto dai referendum francese e olandese del 2005 -, questo era il problema che si poneva: il passaggio dell'UE all'unione politica attraverso un dibattito costituzionale. L'impasse post-referendaria perdurava per alcuni anni concludendosi - con una reviviscenza del metodo intergovernativo basato sulla decisione di un direttorio a due o a tre Stati membri preludente all'accordo degli altri paesi membri - col trattato di Lisbona del 2007 (ma entrato in vigore nel 2009 dopo varie vicissitudini) che, pur facendo sostanziali passi indietro sul piano politico, riconfermava i passi avanti e i risultati raggiunti sul piano economico-comunitario.
La crisi mondiale iniziata nel 2008 ha però bloccato drammaticamente la storia europea, riportando le lancette indietro e spalancando la porta alle retoriche populiste, neonazionaliste, sovraniste il cui scopo è di disgregare il più genuino risultato dell'integrazione finora conseguita.
Siamo dunque al punto in cui il progetto iniziale funzionalistico pu servire per tirare a campare, ma non serve più per andare avanti e forse nemmeno più a mantenere il passo a fronte della crisi della globalizzazione: ecco in che senso siamo di fronte a una crisi esistenziale. Cercare risposte in questo metodo, o grazie a intese intergovernative, avallate da direttorii, non farà avanzare di un passo anzi porterà indietro a causa dell'esistenza di molti, troppi governi europei che non ne vogliono sapere (si guardi per es. all'unione dei 4 paesi membri di Visegrad che si qualifica come un sabotaggio della logica comunitaria), che hanno altri progetti, in questa fase che possiamo ben definire coi termini dell'arrembaggio del populismo e del neonazionalismo.
La debolezza del libro bianco presentato recentemente per sommi capi dal presidente Juncker al Parlamento Europeo è indicativo di questa crisi.
Bisogna superare lo spirito e il sistema degli assi intergovernativi privilegiati e dei direttorii: ciò significa superare (pur senza negarlo) l'imprinting monnetiano anche nella versione rivivificata negli anni Ottanta e Novanta da Jacques Delors, nel senso di mantenerne i risultati positivi, ma aprendo i lavori per superare i problemi, previsti da Hallstein, del passaggio al terzo stadio, quello dell'unità politica e di una profonda riforma istituzionale. Tale passaggio non sarà possibile stando nella logica dell'attuale UE. Si renderà probabilmente necessario un atto innovativo dai paesi che diedero inizio all'integrazione. Un atto di nuova unione di tipo federalizzante che non sia da intendersi in modo esclusivo, ma che sia capace di mettere subito in azione un processo di formazione di un vero governo continentale nelle materie economico monetarie, della difesa e della politica estera che oggi non è più rinviabile.
Per capire, infatti, quali sono i problemi generali che si contrappongono al superamento della crisi esistenziale europea possiamo far ricorso a quello che è il paradigma scientifico proprio della storia dell'integrazione europea, che fu avviata per superare quattro grandi deficit, grazie a quattro altrettanto rilevanti idee forza: Il deficit di pace per le incessanti guerre, da superare con l'idea forza della pace perpetua Il deficit di collocazione politico-strategica della Germania in Europa, da superare tramite l'idea-forza di una Germania - sì motore economico dell'Europa, ma in un contesto democratico e regolato Il deficit di cooperazione e integrazione delle economie europee, da superare grazie all'idea-forza dell'integrazione comunitaria Il deficit di unità europea nell'arena internazionale, da superare sulla base dell'idea-forza del "parlare con una voce sola".
E' facile constatare che mentre per il primo punto i sessant'anni passati permettono un bilancio finora positivo, problemi permangono per il secondo e il terzo in parte, e resta completamente inattuato e critico il quarto. Il dramma consiste nel fatto che la crisi in corso si ingrana proprio su alcune grandi questioni che mettono in forse la possibilità di sviluppo ulteriore di un ruolo accettato da tutti della Germania, di un completamento dell'integrazione economica sul piano economico finanziario e dell'unità politica europea sulle questioni internazionali.Quali sono i problemi aperti e brucianti degli ultimi dodici anni ormai di semistasi europea? Molto schematicamente, si possono così elencare: La grande questione dei debiti sovrani e del fiscal compact, ossia dell'unione completa economico-politica dell'UE La questione dei migranti e delle frontiere La questione di una politica unitaria in tema di politica estera, di difesa e di sicurezza, specie di fronte alle minacce del terrorismo mondiale L'impatto dei movimenti e partiti populisti dopo la Brexit e l'elezione di Trump Le questioni delle politiche in materia di energia La difesa dell'ambiente.
Senza contare naturalmente le grandi questioni sociali, come la disoccupazione, in particolare giovanile; l'incapacità di promuovere oltreché la stabilità (che per ora crea anche deflazione) anche lo sviluppo e la crescita economica che soli potrebbero anche iniziare a dare soluzione all'immenso problema dei debiti sovrani, e così via.
Sono tutti problemi la cui soluzione (o per meglio dire la cui impostazione) è possibile solo in un contesto nuovo di unità politica europea, che i membri più sensibili e attenti dell'UE non possono più rinviare. Questa è la sfida che ci sta davanti. Coraggio Europei!



PRESIDENTE

Grazie, professor Malandrino.
La parola al Consigliere Gariglio.



GARIGLIO Davide

Grazie, Presidente.
Questa commemorazione dei sessant'anni dei Trattati istitutivi della Comunità Economica europea e dell'Euratom ci interroga.
Vorrei ricordare - ed è già stato detto - che il contesto in cui questi atti venivano firmati sessant'anni fa era un contesto in cui in Europa si erano tenute due guerre mondiali, il cui epicentro era stato proprio il nostro Continente.
C'erano stati milioni di morti, c'erano milioni di rifugiati, ma non da altre parti del mondo, qui a Torino, accampati lungo le sponde del Po o dove oggi ci sono le palazzine di Italia '61; dove ci sono le Istituzioni internazionali, c'erano piemontesi rifugiati che vivevano nelle baraccopoli, esattamente come i profughi siriani e libici oggi ai confini dei nostri Stati.
C'erano Nazioni rase al suolo. C'era un'Europa e un mondo diviso in due parti, c'erano rischi concreti di un terzo conflitto mondiale. Ricordo il blocco di Berlino, la guerra di Corea, la crisi internazionale legata al canale di Suez, l'invasione dell'Ungheria. Questo è il contesto in cui sessant'anni fa un gruppo di importanti statisti europei, prendendo le mosse da alcuni sognatori visionari, come Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, firmarono questi documenti. De Gasperi, Adenauer, Spaak, Monnet e Schuman erano persone con idee diverse, con storie diverse, però avevano un obiettivo davanti e, soprattutto, come ha ricordato il nostro Presidente del Consiglio dei Ministri, avevano deciso di agire insieme rispetto al bivio che sta di fronte alla storia dell'umanità, il bivio tra il bene e il male.
Dopo anni in cui le politiche degli Stati sovrani dell'Europa avevano portato al male assoluto, emergeva dal popolo una spinta al "mai più", a non ripetere di nuovo questi errori. Ecco perché queste persone guardarono avanti e decisero di percorrere la via dell'unione contro la via della divisione per tanti anni percorsa nel nostro Continente.
In questi anni, in questi sessant'anni attorno a questi Stati si sono integrate nuove democrazie; attorno a questi Stati sono cresciute e si sono integrate le democrazie di Spagna, Portogallo e Grecia, uscite dalla dittatura. In questi anni abbiamo anche superato crisi petrolifere. Mi ricordo, quand'ero piccolo, delle domeniche con il blocco del traffico perché non c'era petrolio per tutti, e dell'inflazione.
È caduto il muro di Berlino, è stata unificata l'Europa; abbiamo tutti in mente l'immagine del più grande violoncellista al mondo, il professor Rostropovich, che seduto su una sedia prestata da un berlinese il giorno della caduta del muro, improvvisa un concerto con tutto il mondo che lo guarda attraverso i telegiornali e con tutti i berlinesi che piangono.
Tutti abbiamo in mente le immagini di Kohl e Mitterand che si prendono per mano e piangono insieme di fronte agli ossari dei caduti dei conflitti mondiali.
Ecco, dopo sessant'anni quest'Europa non c'è più; da sei Stati siamo passati a 27 Stati; abbiamo avuto sessant'anni di pace. In un intervento precedente, si parlava della seconda generazione, ma le mie figlie sono la terza generazione a beneficiare di un periodo di pace, la più lunga nella storia del nostro Continente. Siamo diventati il maggior spazio commerciale al mondo, siamo una società aperta, una società libera, una società che ha sviluppato i più avanzati sistemi di welfare al mondo.
Questo è il frutto della vituperata Europa. Questo è il frutto della scelta fatta sessant'anni fa da persone che guardavano avanti.
Lo dico perché a volte, parlando di Europa, la politica sembra che faccia un ragionamento per cui tutto è da buttare. No, non è tutto da buttare: c'è una grande ricchezza, un grande patrimonio di valori nella scelta fatta sessant'anni fa che va custodito.
È vera una cosa: il mondo è cambiato. C'è la globalizzazione e la globalizzazione ha portato delle crisi economiche su scala mondiale abbiamo delle crisi regionali molto vicine. È nata una forma di terrorismo nuovo e abbiamo flussi migratori frutto anche di scelte politiche internazionali sbagliate e fatte alle porte del nostro continente.
Oggi, come sessant'anni fa, l'Europa è di fronte a una sfida, deve darsi una rotta: una rotta sull'immigrazione, sulla sicurezza, sul lavoro e sulla crescita economica. Se la nostra Europa non reagisce matura negli Stati membri ma , soprattutto, nella popolazione degli Stati membri la consapevolezza che l'Europa sia qualcosa non in grado di dare risposte alle loro vite; allora abbiamo la Brexit, abbiamo le risposte dei populismi abbiamo il ripiegamento su sé stessi.
Noi dobbiamo parlare ai nostri cittadini e recuperare lo spirito di chi vola alto, come quello dei padri europei di sessant'anni fa. Noi non dobbiamo avere un'Europa che si ripiega su piccole logiche contabili, anche se, affinché ci sia un'Europa, ha senso ed è giusto chiedere agli Stati di rispettare i vincoli dei trattati europei. Dall'altro lato, la politica non deve ripiegare sui sovranismi, sull'innalzamento dei muri, sui qualunquismi e sui populismi.
Mi sia consentito, ma l'ha già richiamato il Presidente della Repubblica, richiamare nella sede dell'Assemblea regionale del Piemonte le parole di uno dei più grandi statisti della nostra Regione: Luigi Einaudi.
Luigi Einaudi nel 1947 diceva che le barriere giovano soltanto a impoverire i popoli, a inferocirli gli uni contro gli altri, a fare parlare ognuno di essi uno strano e incomprensibile linguaggio di spazio vitale, di necessità geopolitiche e a fare, a ognuno di essi, pronunciare esclusive scomuniche contro gli immigrati stranieri, quasi che il restringersi feroce di un popolo in sé stesso potesse, invece di miseria e malcontento, creare ricchezza e potenza.
Credo che queste parole siano ancore vive oggi. Noi siamo stati importanti, siamo stati ricchi, siamo stati consapevoli della nostra storia e del nostro orgoglio, ma siamo nel mondo che cambia, come le grandi e prospere città italiane del Rinascimento di fronte all'emergere degli Stati unitari, di fronte alla Francia, alla Spagna e all'Inghilterra dell'epoca.
Siamo destinati a confrontarci con un mondo che è cambiato e dobbiamo cambiare anche noi. Occorre reagire, occorre che l'Europa si dia delle politiche fiscali comuni. Il Presidente della Regione in questa sede lo ha già richiamato, occorre che l'Europa si dia un nuovo assetto delle istituzioni europee camminando verso quelli che abbiamo definito Stati Uniti d'Europa, che devono diventare il sogno e la prospettiva per la generazione mia e, soprattutto, dei miei figli.
La generazione che ha girato l'Europa studiando nelle università, la generazione che non ha più idea di un'Europa divisa che non poteva avere la generazione dei miei nonni. Un'Europa che abbia la capacità di eleggere direttamente le istituzioni. Ecco perché noi, come forza politica riteniamo necessario andare verso una riforma delle istituzioni che preveda l'elezione diretta del Presidente della Commissione Europea. Ci sia un'investitura diretta dei popoli verso la persona chiamata a reggere i destini della Commissione e ci siano primarie per scegliere i candidati all'interno dei vari schieramenti europei.
Crediamo che si debba andare verso un esercito comune europeo, verso una politica estera comune e verso cooperazioni rafforzate. Non è immaginabile che 27 Stati camminino tutti alla stessa velocità, ma si deve andare avanti. Ecco perché, di fronte a scenari come questo, viene su di noi una grande responsabilità: la consapevolezza che dobbiamo essere all'altezza, a sessant'anni di distanza, della stessa visione, della stessa capacità di salto in avanti, di sogno che sessant'anni fa statisti usciti da un grande confronto internazionale ebbero.
Quella scelta, sessant'anni fa, si è rivelata una scelta profetica, che ha costruito sessant'anni di pace e di prosperità. Oggi abbiamo bisogno di una generazione politica che sappia prospettare ai nostri giovani e ai nostri cittadini una scelta altrettanto valida per i propri sessant'anni.
Questa è la sfida che interroga tutti noi e questa è la sfida a cui, come forza politica, intendiamo rispondere all'interno delle nostre presenze istituzionali nel Parlamento italiano e in seno al Parlamento europeo.



PRESIDENTE

Ha chiesto di intervenire il dottor Luciano Scagliotti, membro esperto del Comitato regionale dei diritti umani.



SCAGLIOTTI Luciano, Membro esperto Comitato regionale diritti umani

Io non sono il nonno del Consigliere Gariglio, tuttavia ricordo bene l'Europa divisa. Sono abbastanza vecchio per ricordarlo. Ricordo ancora meglio la gioia profonda che provammo la prima volta che passammo dall'Italia alla Francia senza incontrare una frontiera. Eravamo un gruppetto di cui faceva parte una persona che mi piace ricordare in quest'Aula, Rinaldo Bontempi, e una persona che tutti conoscete, Martin Schulz. In quel momento noi capimmo davvero che cosa significasse provare a costruire una Unione Europea.
Altri interventi hanno descritto che cosa l'Europa sarebbe dovuta o potuta essere, che cosa è stata, che cosa dovrebbe o potrebbe essere. Non voglio ripetere quello che è già stato detto. Allora, da membro del Comitato diritti umani del Consiglio regionale del Piemonte e da membro dell'advisory board dell'Agenzia dell'Unione Europa per i diritti fondamentali, permettetemi di non curarmi per un momento dell'architettura istituzionale, della necessità di uno Stato federale, che pur condivido, di una serie di cose che sono state dette benissimo, in particolare dal professor Malandrino, e di considerare invece un altro aspetto.
L'Unione Europea, che per tanti anni abbiamo cercato di chiamare l'Europa dei diritti e delle libertà, quell'Unione Europea che è sì unione di Stati, unione di popoli, è anche, e soprattutto, unione di persone ognuna delle quali è portatrice di diritti inviolabili. Questa Europa.
Allora, forse, dovremmo parlare, più che della presenza dell'Europa cui ci siamo abituati a pensare, ossia di un'Europa invadente, sempre presente e opprimente, dell'assenza dell'Unione Europea. Del problema che l'Unione Europea, questa Unione Europea, quella dei diritti, quella che si fonda sui diritti umani e sul primato della legge non c'è, o non c'è quanto dovrebbe esserci. Fra le tante crisi citate, anche prima, che in questo momento l'Europa affronta ce ne sono due che mi sembra chiariscano bene il problema dell'assenza dell'Unione Europa. La prima è quella dei rifugiati.
In queste settimane è stata presentata una proposta della Commissione un non paper - l'Unione ha questo linguaggio - della Presidenza maltese, e c'è una risoluzione della Commissione Libertà civili del Parlamento europeo. Tutti questi documenti affrontano molti aspetti: il ricollocamento, il reinsediamento e anche la questione dello Stato responsabile dell'esame delle richieste di asilo. E su questo punto insiste la questione dello Stato di primo ingresso.
Lo dico in modo brutale e grezzo per non perdere tempo: lo Stato di primo ingresso dovrebbe essere l'Unione Europea. Il punto, la questione dello Stato di primo ingresso, del rimandare i richiedenti asilo nello Stato in cui hanno fatto inizialmente il loro ingresso è questo, è che l'Europa è divisa tuttora in Stati totalmente sovrani su questo punto sulla decisione di chi può entrare e di chi può diventare cittadino. È l'ultima sovranità rimasta ed è la peggiore.
L'altro aspetto, l'altra crisi, chiamiamola così, è quella che definiamo "Brexit". Anche su questo ci sono aspetti economici e sociali, ma c'è un solo aspetto su cui voglio soffermarmi: il rapporto, la condizione in cui si troveranno i cittadini europei che attualmente sono nel Regno Unito, i cittadini britannici che sono attualmente in Europa in rapporto ai loro diritti di cittadinanza. E, di nuovo, questo segnala un aspetto, cioè un'assenza. Rainer Bauböck anni fa definì la cittadinanza europea come "uno strato sottile spalmato sopra la materia spessa delle cittadinanze nazionali". Anche la cittadinanza europea è un'assenza.
L'aspetto più pesante di questa crisi, cioè la perdita di diritti di cittadini europei, a seguito della decisione del Regno Unito di abbandonare l'Unione Europea, è di nuovo un problema di assenze.
Infine, è stata ricordata un'altra assenza dal professor Malandrino: lo spazio pubblico, l'arena pubblica di discussione europea. Allora permettetemi di dire in questa sede che forse ciò di cui abbiamo bisogno non è un'ulteriore commemorazione, celebrazione, ricordo o proposta. No! Ma potremmo chiederci in quale modo gli Enti locali, le Autonomie e questo Consiglio regionale possono contribuire a creare uno spazio pubblico di discussione europea.
Fra poco inizierà la campagna elettorale per il Parlamento Europeo visto che lo eleggeremo nel 2019. Siamo in grado di utilizzare tutti gli strumenti di partecipazione che abbiamo, a partire dai Consigli, per aprire una discussione che guardi davvero alle questioni europee e non alla declinazione nazionale, cioè che superi quella cosa per cui noi non eleggiamo - ed è bene ricordarcelo - i parlamentari europei, ma la quota nazionale di membri del Parlamento Europeo.
Se il Consiglio regionale può aiutare in questo lavoro, ben venga questa iniziativa di oggi, se è l'inizio di questo percorso. Altrimenti, lo dico in tutta sincerità, a che cosa è servito trovarci oggi? Grazie.



PRESIDENTE

Ha chiesto la parola la Consigliera Gancia; ne ha facoltà.



GANCIA Gianna

Grazie, Presidente.
Uno spetto si aggira per l'Europa: è quello della sovranità. La verità è che non vi è alcuna ragione per la quale se la sovranità definita ed esercitata dallo Stato nazionale ha prodotto disastri, le cose dovrebbero andare meglio quando questa stessa sovranità venisse definita ed esercitata a un livello ancora più ampio, senza controllo, dove essa verrebbe a disporre di maggiori mezzi e potrebbe fondare politiche di potenza ancora maggiore.
L'autentica questione che oggi si pone all'Unione Europea non è quindi, quella che si poneva alla fine della Seconda guerra mondiale. Non è di spostare il luogo della sovranità, ma di definire un assetto istituzionale nuovo, che non sia una replica della struttura degli Stati nazionali a favore solo di alcuni Stati. Per questo si parla di dirigismo franco-tedesco. E neanche delle federazioni settecentesche e ottocentesche che pur, in quel periodo, ebbero una loro ragione.
Le istituzioni di uno Stato federale, che noi auspichiamo, sono situate in un quadro costituzionale che presuppone l'esistenza di un demos, di un popolo costituzionale, di un singolo potere costituente formato da cittadini della federazione, dai singoli individui, dai loro diritti, ma anche dai loro doveri. E da questi dovrebbero discendere la sovranità e l'autorità suprema.
Ma questo demos federale, in Europea, diciamocelo chiaramente, non esiste; non esiste dal punto di vista giuridico e, soprattutto, non esiste nella realtà sociale e politica. E si fa una grande confusione quando si scambia la gerarchia delle norme all'interno dell'Unione, per cui il diritto comunitario viene addirittura fatto prevalere su quello nazionale con una gerarchia, che non c'è, di autorità normativa o di poteri reali.
Dal Trattato di Roma fino a quello di Amsterdam non vi è nulla che presupponga l'esistenza di un demos europeo distinto dai singoli popoli e dai singoli Stati, quindi l'individuo al centro. Non vi è nulla che giustifichi l'idea di un'Unione Europea come nuovo luogo della sovranità.
Il trasferimento delle competenze a livello europeo non equivale necessariamente alla rinuncia da parte degli Stati membri alla loro sovranità, ma corrisponde alla volontà di esercitare i diritti che ne conseguono all'interno di un sistema di associazione che permetta di raggiungere certi determinati obiettivi o svolgere certe funzioni ritenute però, desiderabili da tutti e che tutti possano condividere.
Le aree della legittimazione politica, dell'identità culturale e dell'integrazione economica sono inevitabilmente diverse non solo all'interno dell'Unione Europea, ma anche all'interno di ogni singolo Stato membro.
Lo dico senza pregiudizio, lo vediamo anche in Italia: non è possibile governare una penisola con le stesse leggi, perché non siamo alla stessa velocità. Le competenze e i poteri dovrebbero essere distribuiti e, in parte, dispersi in vari livelli: verso l'alto e verso il basso, con soluzioni diverse caso per caso.
E ancora: negli anni in cui la Comunità è maggiormente cresciuta e si è sviluppata sono stati gli anni, a differenza di quanto si dice parlando di sovranità, proprio in cui gli Stati nazionali erano forti. Quindi, come si può facilmente comprendere, il punto cruciale in questo dibattito sulla sovranità è il ruolo della legittimazione politica dell'Unione, a favore della preservazione della dimensione nazionale, della sovranità e della democrazia e, insieme, della necessità di una nuova fase per l'Unione Europea che sia irriducibilmente politica e non, com'è adesso, un semplice derivato dell'integrazione economica e monetaria.
Non abbiamo visto nessuno levarsi le vesti quando Renzi ha ricevuto il dittatore e ha coperto le statue perché non venisse offesa la sua sensibilità! Comunque, l'Europa è a un momento cruciale della sua storia. La prima visione dell'Europa consiste nel considerarla come una replica degli attuali Stati nazionali. Il percorso per arrivarvi è anch'esso simile alla via che storicamente ha condotto al costituirsi degli Stati nazionali fallimentare - e lo vediamo oggi. Il trasferimento di poteri dalla periferia a un centro politico e legislativo, al di là delle retoriche che si leggono sui libri di storia, è un processo che ha lasciato al di fuori il popolo. Tutto ciò è riassumibile con la celebre espressione dell'assolutivismo giacobino, per cui "è lo Stato che crea una nazione".
Ecco, questa è la visione del socialismo europeo: la visione dei Delors e dei Prodi, è la visione di un'Europa che si costruisce annullando le nostre tradizioni e le nostre identità nazionali e locali.
Io vorrei parlarvi, invece, dell'Europa che vorremmo noi liberali. Si tratta di una concezione che vede nell'Europa una struttura di istituzioni decentrate, dove il livello unitario ha per scopo essenziale quello di garantire uno spazio di opportunità per i cittadini, per i singoli e per le imprese (per quelle vere e non per il capitalismo di relazione), fondato su un insieme forte e coerente di diritti individuali, difesi e garantiti a livello federale anche nei riguardi dei poteri degli Stati membri; questo sì. L'unione dell'Europa per noi liberali dev'essere perseguita attraverso un'integrazione quanto più ampia possibile della vita economica e culturale; non avviene attraverso un'unificazione dall'alto, assolutamente no, ma attraverso la creazione di uno spazio di interazione competitiva che, protetta dalle istituzioni federali, favorisca la libera scelta da parte dei cittadini - vedete quante volte lo ripeto? - e degli individui.
Questa è la visione dell'Europa che hanno le forze liberali e popolari.
Desidero esprimere solidarietà e forte comprensione verso il grande intellettuale cattolico Wilhelm Roepke, che già agli inizi della Comunità Economica Europea riteneva che l'antica contrapposizione tra socialisti e liberali, fondamentale, oggi si fosse trasformata in una nuova contrapposizione tra "centristi" e "decentristi". Il problema è se l'ideale sia l'accentramento o il decentramento, se il fattore fondamentale debba essere l'individuo o il piccolo gruppo oppure la grande collettività intesa come Stato, Nazione, un vagheggiato "Stato mondiale", la globalizzazione.
Per il "decentrista" il rafforzamento politico ed economico dell'Europa deve attuarsi salvando ciò che è essenziale. Siamo noi, questi: i liberali che credono nell'unità nella varietà, nella libertà nella solidarietà, nel rispetto della persona umana - di tutte le persone umane - nella sua individualità. Il decentrismo è un fattore essenziale per noi, per quel che riguarda lo spirito europeo. Invece, il voler organizzare l'Europa come vogliono i socialisti, guidandola da un centro, il volerla sottoporre a una burocrazia pianificatrice, il volerla fondere in un blocco più o meno compatto significa solo tradirla e tradire il patrimonio spirituale dei padri fondatori.
Questa visione costituisce il punto di riferimento per avere un'Europa unita dall'autentico federalismo, che riguarda sia la struttura interna delle singole Nazioni sia la struttura istituzionale dell'Europa. Per noi liberali, infatti, nel progetto per l'Europa un ruolo fondamentale viene dato alle Regioni, secondo la logica della devolution. Insieme alla globalizzazione, la devoluzione dei poteri dal livello centrale a quello regionale e locale è infatti il più grande fenomeno politico dell'ultimo decennio. Caratterizza gli Stati Uniti, l'Inghilterra, la Spagna, il Canada, il Belgio (solo per annoverare alcune Nazioni). Devolution significa avvicinare il potere ai cittadini e non c'è nulla di più lontano da loro, in questo momento, dell'Europa. Un potere più vicino ai cittadini è un potere insieme più efficace e più legittimo, perché i cittadini possono meglio controllare come vengono impiegate le loro risorse e possono influenzare più direttamente le decisioni pubbliche.
La costruzione dell'Europa unita rappresenta un'occasione formidabile per restituire alle Regioni e alle nostre piccole realtà locali tutta una serie di poteri che in passato lo Stato nazionale centralista ha rivendicato, sia sulla base di un'ideologia centralistica giacobina, oggi obsoleta, sia sulla base di funzioni che proprio l'Europa unita rende ormai inutili perché davvero possono essere svolte meglio a livello federale.
L'Europa liberale è l'Europa della tradizione umanistica, cristiana e liberale. È l'Europa delle libertà individuali, dell'efficienza economica della solidarietà tra le persone e i popoli. È l'Europa che agisce unita in tutte le grandi questioni comuni - come la moneta, la difesa, la politica estera e l'immigrazione - ma che rispetta le identità e le diversità, al contrario di quanto ritengono i socialisti. Le identità e le diversità non sono un ostacolo, ma sono la vera essenza e la vera ricchezza del nostro continente.
Su cosa potrebbe basarsi una tale identità e come potrebbe giustificarsi in un mondo caratterizzato da un mutamento sempre più veloce della società e dell'economia? Un conservatore assume il fatto che i valori, le regole di comportamento e le tradizioni tramandate devono essere considerati con rispetto, in virtù del fatto stesso di essere stati radicati nel tempo. Se un valore, una regola e una tradizione sono durate per un lungo periodo e sono giunte sino a noi, ciò dimostra che hanno un contenuto positivo e corrispondono a bisogni profondi degli individui - lo ripeto ancora - e della società. Sono funzionali al mantenimento di un ordine sociale stabile ed efficiente. In termini diversi, le regole sociali tramandate dalla tradizione hanno un oggettivo contenuto di conoscenza e per questo meritano di venire osservate e conservate.
Vorrei in ultimo parlare del concetto di libertà, e chiudo. Questa infatti, è un'Europa che non favorisce gli individui. È un'Europa della coercizione, è l'Europa dove il mercato viene inteso per grandi gruppi di interesse; chiedo veramente a tutti voi di andare a vedere come, grazie alle leggi europee, siano stati distrutti interi reparti: ovunque, per esempio, c'è scritto Geberit (e vi darò tutti gli strumenti per poter arrivare a questo percorso) e nei bagni è rimasta solo Geberit perché tutte le nostre aziende sono state distrutte.
L'Europa ha una predilezione per la grande industria, non per quegli imprenditori che desiderano il lavoro per se stessi e per i lavoratori. Si tratta del capitalismo di relazione - questo l'abbiamo detto - e si lavora in Europa, solo per le multinazionali. Questo significa che sostenere e praticare principi liberisti in Italia è soltanto una piccola parte, ma noi continueremo perché - come cittadini - anche se in questo momento non tutti abbiamo gli strumenti per capire, abbiamo il diritto di scegliere tra contenuti e non tra etichette, che coprono la confusione delle idee soprattutto la protezione degli interessi di alcuni, camuffati da interessi generali.
Grazie.



PRESIDENTE

Abbiate pazienza: abbiamo ancora 20 interventi, pertanto chiedo a tutti di riuscire ad utilizzare un giusto spazio.
La parola al professor Roberto Palea. Il professor Palea fa parte del Cento Studi sul Federalismo ed è membro della Consulta europea.
Ribadisco a tutti i colleghi che gli iscritti ad intervenire sono una ventina.
Grazie.



PALEA Roberto, Cento Studi sul Federalismo e membro Consulta europea

Grazie, Presidente.
Signore e signori, ritorno da Roma, dove ho preso parte alla marcia popolare per l'Europa, alla quale hanno partecipato anche moltissimi cittadini europei, parlamentari europei e nazionali, rappresentanti dei poteri locali con i loro gonfaloni, per manifestare il sentimento popolare di adesione al progetto di Unione Europea, che va inteso non come un super Stato, ma come unione federale, cioè come unione che realizza l'unità nella diversità, accentrando soltanto quelle poche funzioni che meglio si possono esercitare a livello europeo, lasciando invece le altre competenze ai poteri nazionali e locali.
Questo è un sentimento - quello di adesione al progetto europeo - che è maggioritario nell'opinione pubblica europea. Questo è certificato da tutti i sondaggi e da tutte le rilevazioni statistiche, a partire dall'eurobarometro, anche se ha ragione, poi, la Vicepresidente Ruffino a chiarire che un'adesione così rilevante non si ha per quanto riguarda le istituzioni europee attuali e le politiche attuate. Noi stessi federalisti, siamo - su questo punto - piuttosto critici.
Devo dire, inoltre, che anche la dichiarazione firmata a Roma dai Capi di Stato e di Governo, è una dichiarazione nettamente positiva, che va giudicata in modo positivo. Ritengo che abbia affrontato in modo giusto uno dei temi cruciali: quello dell'Europa a due velocità, che va intesa nel senso in cui l'ha sempre intesa Giorgio Napolitano: un'integrazione differenziata, in cui dei gruppi di Stati che non vogliono andare oltre al livello raggiunto di integrazione, non possano impedire ad altri Stati che invece vogliono andare avanti, di fare degli ulteriori progressi.
Questa è l'interpretazione autentica che hanno dato anche a Roma i Capi di Stato e di Governo dei 27 Stati. Infatti, nella dichiarazione di Roma l'interpretazione autentica dice: "Noi agiremo congiuntamente, a ritmi e con intensità diversi" - quindi Europa a velocità differenziata - "se necessario, ma sempre procedendo nella stessa direzione".
Quindi, sotto questo punto di vista, anche la posizione della Gran Bretagna con la Brexit non va considerata soltanto un fatto negativo perché noi sappiamo che nella storia europea la Gran Bretagna ha sempre esercitato una funzione di freno per qualsiasi sviluppo del processo di integrazione europea. Infatti, la linea politica dominante della Gran Bretagna è sempre stata quella di rappresentare l'alleato più fedele degli Stati Uniti d'America, il primo vassallo degli Stati Uniti d'America e non quindi, un partner con lealtà profonda nei confronti dell'Unione Europea.
Ora ci sono tre sfide esistenziali che confrontano tutti gli Stati europei.
La prima sfida è quella del rilancio della crescita e dell'occupazione e quindi la necessità di aumentare gli investimenti in infrastrutture aumentare gli investimenti in ricerca, innovazione, formazione professionale, aumentare lo stimolo alla domanda di beni pubblici.
Questo è il primo problema.
Il secondo problema è quello della difesa e della sicurezza interna ed esterna, ove è evidente che bisogna meglio attrezzare una possibile risposta militare in caso di aggressione dall'esterno a un paese dell'Unione Europea, ma nello stesso tempo si devono rafforzare le capacità di intelligence e di lotta al terrorismo, nei confini dello Stato e oltre i confini dello Stato.
Il terzo problema fondamentale, drammatico, è quello della regolazione del fenomeno migratorio. Un fenomeno che è inarrestabile e che, anzi assumerà dimensioni sempre crescenti, anche in rapporto all'estensione della desertificazione che si sta verificando nei paesi dell'Africa.
Sfuggire alla fame è sicuramente uno dei fattori che determina questi flussi migratori. E allora, bisogna apprestare misure di accoglienza, di istruzione e formazione dei migranti, e poi anche di avviamento al lavoro dei migranti. Bisogna fare un'operazione come quella che è riuscita a fare la tanto criticata Merkel, per quanto riguarda un milione di profughi siriani.
La Merkel ha detto alla Wermacht: "Voi dovete occuparvi di questo problema". E la Wermacht, con la sua capacità organizzativa, ha accolto e sistemato un milione di profughi. Li ha formati e li ha avviati al lavoro in aziende che già erano state contattate in precedenza.
Questa è l'operazione che noi dobbiamo fare per gestire in modo corrispondente ai valori europei il fenomeno migratorio. Ma questo non basta: dobbiamo anche realizzare il "migration compact", di cui hanno parlato sovente il Presidente Renzi e le autorità politiche italiane.
Dobbiamo realizzare una sorta di Piano Marshall per l'Africa, che già era stato delineato - pensate - da Altiero Spinelli negli anni Settanta, in cui l'Unione Europea, tramite investimenti condizionati sia in grado di indurre uno sviluppo endogeno nei paesi sottosviluppati dell'Africa in grado di realizzare lo sviluppo endogeno, in modo da radicare le popolazioni sul loro territorio.
È chiaro che le politiche necessarie per affrontare questi problemi non possono essere attuate a livello dei singoli Stati membri isolatamente.
Queste sfide esistenziali possono essere risolte soltanto insieme, se uniti, da parte degli Stati dell'Unione Europea. Infatti, tutti gli Stati dell'Unione Europea sono fortemente indebitati e il loro prodotto interno lordo prospettico si aggira, come dicono tutti gli enti di ricerca, intorno all'uno per cento all'anno, mentre altre aree come gli Stati Uniti d'America si sviluppano ad un tasso del tre per cento; la Cina ad un tasso del sei-sei e mezzo per cento. Dunque, gli Stati, isolatamente, non hanno la dimensione adeguata alla dimensione dei problemi che sono chiamati ad affrontare.
I problemi si sono globalizzati, ma la politica è rimasta a livello nazionale. Ci vogliono, dunque, le necessarie politiche europee, che potrebbero essere realizzate anche in tempi brevi nell'ambito dell'Eurozona da un gruppo di Stati dotati della necessaria volontà politica, utilizzando gli strumenti già previsti dai trattati istitutivi: le cooperazioni rafforzate (in fondo, l'euro è una cooperazione rafforzata) e le cooperazioni strutturate permanenti nel settore della difesa.
Le risorse devono essere "risorse nuove", e possono essere create attraverso nuove imposte su quei presupposti impositivi che ormai sono transnazionali (penso alla tassa sulle transazioni finanziarie, sulle attività informatiche e alla carbon tax), purché siano destinate a finanziare fondi specifici.
Penso, ancora, al trasferimento di risorse dai bilanci nazionali, per esempio nel settore della difesa, a funzioni europee, sgravando quindi i bilanci nazionali di parte delle loro spese.
Questo può essere fatto con gli strumenti attuali purché ci sia la volontà politica adeguata.



PRESIDENTE

Grazie, professore. Le chiedo pian piano di avviarsi alla conclusione abbia pazienza.



PALEA Roberto, Centro Studi sul Federalismo e membro Consulta europea

Tutto ciò, naturalmente, ha un senso se si colloca all'interno di una road map in cui sia chiaro il punto di arrivo, cioè l'unione federale dell'Eurozona e un governo europeo composto anche da un ministro del tesoro europeo, che siano responsabili di fronte al Parlamento europeo.
Questi sono i compiti di fronte ai quali noi ci troviamo.
Grazie.



PRESIDENTE

Grazie, professor Palea.
Ha chiesto la parola il Consigliere Giaccone; ne ha facoltà.



GIACCONE Mario

Fornirò il mio contributo al dibattito riducendone i tempi, per fare in modo che tutti possano avere il loro momento e la possibilità di esprimere le proprie opinioni.
La ricorrenza della firma dei Trattati di Roma cade in un periodo in cui la costruzione europea attraversa un momento di crisi e in cui le forze centrifughe trovano argomenti e sostegno in fasce sempre più larghe dei popoli che costituiscono l'Unione.
La Brexit e le altre spinte divisive che attraversano il continente evidenziano le debolezze dell'Unione e mettono a rischio di implosione un progetto antico e, com'è stato detto da altri, illuminato e lungimirante.
Queste spinte auspicano il crollo dell'Europa delle banche e dei burocrati come se questo potesse essere la soluzione per liberare le potenzialità dei popoli e dei territori compressi e sfruttati da una Bruxelles che è percepita come lontana ed indifferente.
Vi sarebbe molto da dire e molto è già stato detto. Voglio soffermarmi su pochi aspetti che a mio avviso sono fondamentali. Mai come in questi casi - nel caso in cui un progetto lungimirante risente di una battuta di arresto o di un momento di difficoltà - la buona politica deve intervenire per tenere la barra dritta e per rilanciare il progetto dei fondatori, cosa che si deve fare, a nostro avviso, in tre punti: prima di tutto spiegare (e rispiegare) ai cittadini che ne fanno parte l'importanza del progetto e la sua ricaduta; in secondo luogo, essere efficaci nell'applicazione del progetto stesso; infine, fare le scelte giuste in una prospettiva di lungo termine.
Quando dico "spiegare" intendo affrontare e smontare i luoghi comuni e le posizioni preconcette che, ad esempio, addossano i costi sociali delle mutate realtà mondiali alle istituzioni comunitarie, facendo intendere che senza l'Europa tutto sarebbe andato per il meglio. Si tratta di argomenti semplicistici e semplificatori che hanno facile presa e che giocano strumentalmente sulle emozioni, ma che sono falsi e fuorvianti, e forse solo redditizi per raccogliere un consenso momentaneo.
Bisogna chiaramente spiegare che il mondo è cambiato e che questo cambiamento non si poteva fermare. E senza una cornice europea le conseguenze per i popoli stessi sarebbero state anche peggiori di quelle che subiscono in questo momento.
Pertanto, chi, come il sottoscritto, cerca di dar voce ai territori e alla società civile, deve porsi il problema di evitare di contrapporre l'attenzione al locale allo scenario globale. La scala con cui i sistemi socio-economici competono nel mondo supera queste dimensioni perché ai vecchi poli economici che operavano in uno scenario nazionale si sono ormai sostituite aree vaste in un contesto non solo continentale, ma globale.
Anche i nostri detrattori - consentitemi una piccola considerazione interna - devono comprendere che, per esempio, l'asse virtuoso Torino Milano-Trieste può avere dimensioni competitive se opera in un sistema continentale armonizzato. Senza una scala comparabile a Cina, India, USA e altri Paesi asiatici emergenti, il futuro è la marginalizzazione.
Il secondo punto è il modo in cui essere efficaci. È necessario mettere in atto quei provvedimenti che consentono di rimediare ai rischi che regole pensate per una Europa a sei, possano essere paralizzanti per una Europa a 27 e che la debolezza della politica favorisca e, in fondo, consenta lo strapotere della burocrazia e la conseguente contrapposizione degli interessi particolari e, di conseguenza, ultima e più grave, la perdita di fiducia da parte dei cittadini.
Infine, fare le scelte giuste nella prospettiva di lungo termine. Il mondo sta cambiando velocemente ed ogni cambiamento è foriero di opportunità e di rischi.
Accanto allo sviluppo della tecnologia e della conoscenza dobbiamo affrontare, per dirla come nella dichiarazione dei leader dei 27 Stati membri, rischi di conflitti regionali, terrorismo, pressioni migratorie crescenti, protezionismi e disuguaglianze sociali ed economiche.
Lascio questa Assemblea con un paio di domande: come si può pensare di affrontare questi temi, che sono non solo epocali ma sovracontinentali, da soli? Come può un Paese membro pensare che il fenomeno dei flussi migratori riguardi solo i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo? Il terrorismo e gli eventi recenti l'hanno dimostrato. Non investe, di conseguenza, anche i Paesi più forti e più ricchi che si sentono fuori da determinati problemi? Noi pensiamo che sicurezza, prosperità, sostenibilità, progresso sociale e ruolo nel mondo possano essere garantiti ai nostri popoli e ai nostri cittadini solo rafforzando e rendendo più efficaci le istituzioni europee.
Grazie.



PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE BOETI



PRESIDENTE

Ha chiesto la parola Sergio Pistone, membro della Direzione nazionale del Movimento Federalista Europeo e componente della Consulta europea.



PISTONE Sergio, Membro direzionale nazionale del Movimento Federalista Europeo e componente Consulta europea

All'appuntamento del 60° anniversario della firma dei Trattati di Roma il processo di integrazione europea - che ha realizzato grandi risultati che non vanno dimenticati come la pace fra i paesi dell'Unione Europea,uno sviluppo economico e sociale che ha fatto dell'Europa la parte più avanzata del mondo,l'unione monetaria senza cui il mercato comune non potrebbe sussistere - si presenta in una situazione drammatica. In sostanza si confronta con sfide esistenziali che aprono la strada alla sua disgregazione se non troveranno rapidamente una risposta in un forte rilancio dell'unificazione europea.
Le sfide fondamentali sono: gli squilibri economico-sociali e tra i paesi forti e quelli deboli dell'UE che producono gravi contrasti nazionalistici e mettono in forse la tenuta dell'unione economica e monetaria i pericoli gravissimi per la sicurezza europea connessi con il disordine mondiale e le minaccie ai confini meridionali e orientali dell'Unione Europea - pericoli e minacce che impongono all'UE di passare da consumatore a produttore di sicurezza, realizzando una politica estera, di sicurezza e di difesa realmente unitaria l'emergenza migratoria, che deve essere affrontata in modo solidale con coerenti politiche di integrazione dei migranti e insieme di stabilizzazione e sviluppo delle regioni da cui si sta verificando un esodo biblico la Brexit che può innestare un effetto domino.
Tutto ciò si colloca in un contesto in cui emergono potenti forze che contrastano l'avanzamento dell'unificazione europea: forze esterne, in particolare la politica della nuova Amministrazione americana di Trump e quella della Federazione Russa guidata da Putin forze interne rappresentate dalle correnti nazionalistiche (alimentate dalla crisi dell'unificazione europea e sostenute da USA e Russia) che perseguono l'obiettivo di distruggere l'UE.
La risposta a queste sfide è l'apertura di una fase costituente dell'unione federale europea evocata autorevolmente dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. In sostanza si devono realizzare misure immediate sul piano della solidarietà, della sicurezza economico-sociale e di quella interna e internazionale, collegando queste misure all'avvio di una procedura costituente di un'unione pienamente federale e democratica. E deve essere chiaro che, poiché non tutti i 27 stati membri dell'UE sono disponibili in questa fase a trasferimenti di sovranità, si deve scegliere la via dell'avanguardia che dia vita a una federazione nel quadro dell'Unione fondata su legami meno forti.
Se esaminiamo alla luce di questa esigenza la Dichiarazione del Vertice di Roma del 25 marzo 2017, dobbiamo riconoscere che, pur in un contesto di impegni non vincolanti per giungere a una posizione unanime richiesta da una scadenza celebrativa, si è affermato il principio che chi vorrà andare avanti non potrà essere bloccato dai paesi sovranisti. Va in proposito ricordato che la risposta da dare ai sovranisti è che solo la condivisione federale della sovranità fra i paesi europei può permettere ai cittadini europei il recupero del controllo sui fondamentali problemi economici sociali e di sicurezza.
Ciò detto, va sottolineato che la fase costituente oggi drammaticamente necessaria richiede un sostegno decisivo da parte di tre soggetti fondamentali politici.
Essi sono: il Parlamento europeo che, approvando i rapporti Bresso-Brok, Verhofstadt e Boege-Beres, ha indicato un percorso che collega misure immediate relative alla solidarietà, alla sicurezza e alla capacità fiscale dell'Eurozona al disegno di un'Unione a cerchi concentrici, cioè avente al suo centro un'avanguardia federale i cittadini europei che si devono impegnare in modo sistematico a favore di un salto qualitativo del processo di unificazione europea e che nella marcia per l'Europa a Roma il 25 marzo (ad essa hanno partecipato circa il triplo di quelli partecipanti alle manifestazioni sovraniste) e in numerose altre manifestazioni in tutta Europa (sono state convolte complessivamente 150000 persone) hanno iniziato un processo di mobilitazione che non dovrà più fermarsi fino al raggiungimento del traguardo gli enti locali e regionali, che hanno un interesse vitale ad un'Europa federale e democratica, e che con il Consiglio regionale aperto di oggi hanno dato un esempio che dovrà essere seguito nel modo più ampio e diffuso possibile.



PRESIDENZA DEL PRESIDENTE LAUS



PRESIDENTE

Grazie.
La parola al Consigliere Pichetto.



PICHETTO FRATIN Gilberto

Grazie, Presidente.
La celebrazione dei sessant'anni dell'Unione Europea ci permette di ripercorrere quello che sono stati questi sessant'anni con le grandi speranze, i sogni e anche i grandi risultati. In questi sessant'anni c'è stato progresso economico e progresso sociale nell'ambito dell'Unione Europea e, complessivamente, è cambiato anche il quadro da cui si è partiti, dal Trattato CEE del 1957 o, ancora prima, dal Trattato CECA del 1951. Si è vista la prevalenza del mondo occidentale rispetto alla spartizione di Yalta; poi, la caduta del muro e la cosiddetta caduta delle dittature del proletariato; così come, in ambito europeo, la caduta delle ultime dittature di stampo fascista: quelle della Spagna e del Portogallo che erano ancora dittature di stampo fascista nell'ambito europeo.
Vorrei partire proprio da questa considerazione, esaltando il fatto che l'Unione Europea coincide - forse è una coincidenza, non lo so - con più di settant'anni di pace in Europa. Mai c'era stato un periodo come questo e naturalmente, mai si era data vita a una serie di costruzioni di ordine civile e sociale e altre, anche di ordine materiale, quale quella che, in questo momento, è messa più in discussione: ad esempio, la questione euro.
Negli ultimi tempi, però, questa Europa, con le sue tante lingue e i suoi tanti meccanismi di welfare, le tante diverse origini, culture, azioni e - ahimè - istinti nazionali, ha mostrato in pieno quali sono state le proprie debolezze e i nodi irrisolti. È stata incapace di risolvere il primo banco di prova, sotto l'aspetto economico: la crisi greca, che è stata la prima minaccia alla stessa sopravvivenza dell'euro.
È stata incapace di dare risposte al dramma delle migrazioni moderne: l'Europa delle regole civili che si piega alle migrazioni incontrollabili di aree del mondo che essa stessa ha contribuito a disintegrare.
Vorrei ricordare in quest'Aula il trionfo delle Primavera arabe anche tra queste mura, in un'Europa che non sa rispondere a quella che è un'istanza di donne, bambini e uomini che fuggono da aree in balia delle tensioni del terrorismo estremista e dei conflitti etnici, religiosi e sociali.
In questo momento, è un'Europa incapace ad affrontare in modo corretto la crisi dei Paesi che si trovano al centro del nuovo confronto est-ovest.
Pensiamo all'Ucraina, che è incapace di avere una propria politica estera una politica di difesa, di sicurezza e un'omogenea politica fiscale. In sostanza, il forte rischio di dover rinunciare al buono che si è fatto per l'incapacità di affrontare i nodi veri è, ormai, all'evidenza di tutti.
È giunta l'ora di chiarire il percorso per il futuro: Europa delle Nazioni o Europa politica, il dibattito è emerso anche in quest'Aula. Si tratta di procedere con una revisione organica dei Trattati che affrontino i temi di fondo, che sono: definire la struttura e i poteri del nuovo modello politico, fiscale ed economico; stabilire il rapporto tra chi è parte dell'unione monetaria e chi non lo è; determinare le regole di consenso, per evitare che li governi solo qualcuno, il più forte o il più furbo. La signora Merkel è stata eletta dai cittadini tedeschi, la Germania è il Paese più forte, ma fa prima di tutto gli interessi degli elettori e dei cittadini tedeschi.
Solo se si supera questo momento con delle soluzioni, e non con la resistenza passiva, ciò che è stato costruito in bene può continuare ad essere una forza, a partire dal tema più immediato: dall'euro al dibattito "euro sì-euro no". La moneta è uno strumento, non è una soluzione; non è cambiando la moneta che si diventa più ricchi, ma governando la moneta si può condizionare l'economia di un Paese, quindi l'agio o il disagio dei propri cittadini.
"Doppia moneta, moneta forte o debole"; sono un fautore della necessità di una moneta forte. Dal 1930 al 1940, avevamo la moneta forte, ma era il mondo delle Nazioni e non avevamo quasi un terzo del nostro prodotto interno lordo destinato all'esportazione o, comunque, di relazioni con il mondo.
Dal 1945 al 2000, abbiamo avuto la doppia moneta, avevamo una moneta forte, pochi la citano. In quei momenti, non c'era un'importazione o un'esportazione che non fosse in dollari, in alcuni casi in marchi, ma solo negli ultimi anni, e la moneta nazionale era la lira.
Quindi, anche la valutazione sulla doppia moneta può essere fatta purché in modo diverso e più moderno rispetto al passato.
Credo - e qui concludo - che il tema vada affrontato immediatamente dai Paesi che costituiscono l'Unione Europea e vada affrontato in modo corretto, così come stanno tentando di affrontare la Brexit, altrimenti basterebbe chiudere il rubinetto. Invece si prevedono due anni di trattative, perché, vedete che, comunque, le relazioni tra i Paesi servono sono utilissime.
Colleghi, questa è la grande questione che devono affrontare i nostri Governi, altrimenti si rischia l'egoismo delle frontiere, che probabilmente, porterà beneficio nel brevissimo periodo, ma rischia di penalizzare Paesi, tra i tanti anche il nostro, che vivono di trasformazione e vivono avendo quasi un terzo del proprio lavoro in relazione con l'estero.



PRESIDENTE

Grazie, Consigliere Pichetto.
La parola al Consigliere Monaco.



MONACO Alfredo

Grazie, Presidente.
Vorrei fornire un piccolo contributo anch'io a un dibattito così importante e impegnativo come quello che si sta affrontando oggi sulla celebrazione dei Trattati di Roma di sessant'anni fa, che istituirono l'Europa, o, come ha detto qualche altro, sulla commemorazione, che ricorda piuttosto un qualcosa di finito ed estinto.
Quale delle due? L'intervento che abbiamo ascoltato questa mattina del nostro giovane rappresentante dei diritti umani, all'inizio, ci ha lasciati tutti attoniti, ci si guardava pensando che forse avevamo sbagliato a indirizzare questa persona nel nostro Comitato regionale, perché ci ha descritto l'Europa che si è immaginato di consegnare, oggi, ai nostri giovani e alle future generazioni. Poteva essere quella l'Europa che ci ha descritto all'inizio, poi ci ha riportato con i piedi per terra ricordandoci quale fosse, purtroppo, la triste realtà del continente.
Tutti gli interventi hanno offerto spunti di grande interesse e di grande impegno. Ritengo di rilievo, che non può essere sottaciuto e dimenticato, quanto ha detto il Presidente Gariglio, cioè di fare un piccolo percorso storico inserendolo nel contesto. Ha citato alcuni attori italiani, in confronto anche con gli attori europei che, in quell'epoca hanno avuto il coraggio di sedersi a discutere di un tema che vive da duemila anni. Sono duemila anni che si cerca di costruire l'Europa, che si prova a metterla insieme, a varie tappe, con più o meno successo.
Questi uomini che ha citato il Presidente Gariglio sono dei giganti che hanno avuto una visione e hanno avuto coraggio, inseriti in un contesto dove si percepiva il bisogno di pace, di stare insieme, di crescere, di aumentare il proprio benessere, portare avanti bene le proprie famiglie, ma con la voglia di stare insieme perché erano state vissute due guerre terribili, la Grande guerra e la Seconda guerra mondiale: la prima ha decimato la popolazione europea, la seconda ha distrutto il mondo, l'ha messo in ginocchio e ridotto in macerie.
Da quell'esperienza, dei giganti hanno avuto il coraggio di mettersi intorno a un tavolo e immaginare quello che ci ha raccontato questa mattina Samin, quello che avrebbe potuto essere. Cosa è successo lungo il percorso? Molti addebitano alla moneta (non so quante monete dovremmo coniare) la causa di tutti i mali europei e nostri. Vorrei ricordare che sono parallelismi che sono successi in altre parti del mondo e che regolarmente succedono nell'economia internazionale.
Quando siamo entrati in Europa il nostro deficit era altissimo - non che oggi sia più basso - e controllato in modo autoreferenziale dai nostri Governi che, di volta in volta, si sono succeduti. Ogni volta che arriva un governo nuovo dice di aver trovato un bilancio disastrato e chi lascia dice di aver lasciato il bilancio in ordine. Cosa sarebbe accaduto senza la moneta unica? Tutti i controlli apparentemente stringenti dell'Unione Europea scatenano la soggettiva percezione di malessere rispetto alla moneta unica ma tutte le inefficienze della lira erano coperte come polvere sotto il tappeto. Arrivati in Europa, il tappeto è stato alzato ed è stato detto: non si gioca così, dobbiamo sapere tutti chi ha debiti e come li ha, quindi sono state messe in luce delle inefficienze. I singoli Governi sono stati costretti ad assumere delle prese di posizione più stringenti rispetto ai temi.
Le nostre economie in crisi. Abbiamo anche grandi temi da affrontare che possono essere non solo temi di economia, ma possono ricondurre a questioni di civiltà e di popoli. Nelle nostre aziende abbiamo la necessità civile di rispetto ambientale e di tutela del lavoro. Le nostre aziende sono gravate da altissimi costi per il rispetto dell'ambiente e il rispetto del come si entra nel mondo del lavoro, chi deve entrare e quali sono i termini di sicurezza del mondo del lavoro, ma poi importiamo da chi fa lavorare i bambini 20 ore al giorno in sistemi di scarsa sicurezza, che inquinano l'ambiente come se il pianeta dall'altra parte del mondo fosse diverso.
Nessuno in Europa osa immaginare di creare una griglia minima di sicurezza di queste due - permettetemi di definirle così - ipocrisie del mondo occidentale e dell'economia occidentale, che in casa propria impone dei diritti e dei doveri di civiltà, di tutela ambientale e del lavoro ma dall'altra parte, importa tutto ciò che arriva dall'estero realizzato magari da bambini o con inquinanti gravi e tossici (ogni tanto scopriamo delle malefatte).
Allora, perché non creare delle griglie minime di sicurezza europea, un sistema di protezionismo che non è di tipo economico, ma è di sicurezza e di civiltà? Con una griglia minima di sicurezza ambientale e di sicurezza del lavoro, si farebbe più fatica a entrare in Europa. Forse avremmo anche qualche nostro imprenditore che avrebbe meno voglia di scappare dal nostro continente e avrebbe più voglia di starsene a casa. Dico cose che sembrano strane, ma non ne sento parlare nei contesti dove si discute di Europa e dove si discute di quanti immigranti devono entrare o quanti no e chi alza i muri.
Mi piace ricordare che l'Europa si era spaccata e nessuno avrebbe mai immaginato di fare l'Europa quando la Repubblica Democratica Tedesca alz un muro all'interno della città di Berlino. Ci sono stati oltre 251 morti nel tentativo di saltare quel muro e andare verso l'Ovest.
Vorrei ricordare un film che ricordava molto l'ipocrisia che regnava in quell'epoca: "Good Bye Lenin!". È un film bellissimo, che narra la storia di una donna ammalata costretta a letto, compagna convinta e convinta della bontà del sistema in cui era vissuta fino a quel momento, il cui figlio le tace la caduta del muro di Berlino, anzi, le dice che è caduto il mondo occidentale. Le racconta tutta una storia e le fa vivere per molti mesi una storia finta: le fa credere che non c'è stata l'integrazione fra le due Germanie e le fa credere che il mondo dell'Est, il mondo comunista, è riuscito a prevalere sul mondo dell'Occidente, quindi che l'Occidente è diventato come la sua Repubblica Democratica Tedesca.
Ipocrisia che diffondono i media regolarmente, come qualche volta anche noi nel mondo della politica.
Vorrei chiudere con un'ultima riflessione riferendomi anche ai giganti cui ha fatto riferimento il Consigliere Gariglio e alla buona politica che è stata evocata da altri. Non è colpa della politica. La politica non è mai buona o cattiva, ma sono gli uomini che esercitano, bene o male, questa alta funzione umana, questa filosofia applicata dell'intelletto umano.
All'epoca c'erano dei giganti e auspico a tutti noi di farci promotori di allevare non i nani della mitologia nordica di cui, purtroppo, ahimè, il nostro teatro della politica è costellato. I nani della mitologia nordica erano soggetti nati come vermi sotto terra, cresciuti nell'avidità nell'egoismo e nella voglia di acquisire solo ed esclusivamente il potere.
Vorrei una politica che sia capace di allevare di nuovo dei giganti che abbiano capacità di visione, che abbiano capacità e coraggio nelle scelte da prendere.
Oggi troppo spesso sentiamo parlare di accoglienza e questo termine viene percepito, il più delle volte, come una diminuzione delle possibilità di esistere sul proprio territorio, questo tentativo di uguaglianza viene vissuto come una iniquità. L'uguaglianza non porta necessariamente equità.
Invece di parlare di accoglienza vogliamo parlare, come cittadini europei, per dare anche una speranza e un valore ai giovani, che non resta soltanto l'Europa dell'Erasmus, ma anche della tolleranza, e che nella tolleranza sono allo stesso tempo impliciti i concetti di solidarietà e accoglienza, ma in maniera diversa. Abbiamo già tolleranza nell'accogliere nel nostro Paese le differenze regionali che ancora non abbiamo superato nella nostra storia. Molti vivono ancora le differenze regionali non come valore, ma come differenze di quali sospettare e diffidare.
Tutto diventa ancora più difficile se le distanze apparentemente culturali con altri popoli vengono interpretate soltanto come accoglienza tout court e non come necessità, curiosità e coraggio di andarsi a confrontare e confortare con queste nuove e diverse realtà e cercare insieme, di costruire un'Europa che sia capace di essere promotrice e motore rispetto al mondo, piuttosto che vittima di quanto accade intorno a noi in termini di finanza.



PRESIDENTE

Ha chiesto di intervenire l'Assessora Cerutti; ne ha facoltà.



CERUTTI Monica, Assessora ai diritti civili e all'immigrazione

Grazie, Presidente.
Provo, in un breve intervento, a cogliere la sollecitazione affinch questo dibattito non sia soltanto un confronto retorico e dialettico, e provo a considerare gli aspetti che possono anche essere scelte di governi locali da coniugare con l'auspicio che, effettivamente, l'Unione Europea possa essere non soltanto soggetto evocato in termini negativi, ma possa essere l'orizzonte verso cui tendere le politiche locali e dei singoli Stati.
Fino ad ora, ed è stato detto da chi mi ha preceduta, l'Unione Europea richiama - soprattutto in quella che è la nostra percezione, una percezione diffusa - burocrazia, evoca distanza delle istituzioni e, quando si tratta di ragionare sulle scelte dei singoli Stati, evoca rigidità e vincoli economici. Se poi andiamo sul fronte dei diritti, in realtà quelli che sono i richiami che l'Unione Europa fa al nostro Paese, non vengono presi in considerazione oppure diventano leggi effettive soltanto dopo tanto tempo (pensiamo alle unioni civili).
Se, invece, vogliamo adeguarci rispetto alle questioni economiche credo sia importante considerare anche gli altri ambiti. Cito una questione considerata secondaria, che io però ritengo che tanto secondaria non sia come quella in discussione da tantissimo tempo nel nostro Parlamento, che è la questione del doppio cognome. Su questo siamo stati richiamati da sentenze della Corte Europea, perché abbiamo un disegno di legge fermo al Senato da tanto tempo. Abbiamo, però, una pronuncia della Corte Costituzionale, che rende possibile già adesso - questo è bene che si sappia - adottare il doppio cognome. È una sentenza del novembre dell'anno scorso.
Quindi, in tema di diritti ragioniamo un po' a corrente alterna e ragioniamo a corrente alterna anche sull'altra questione, quella con la Q maiuscola, che è la questione dell'immigrazione. Su questa abbiamo un'Europa che non è in grado di prendere delle decisioni comuni. Abbiamo un'incapacità di definire quella che può essere un'accoglienza, prima evocata dal Consigliere Monaco, e avremmo in realtà, già ripetute, delle scelte molto concrete che, però, si è incapaci di portare avanti soprattutto perché l'Europa si divide spesso tra due blocchi, fra i Paesi dell'Ovest e ormai anche i Paesi dell'Est. I Paesi dell'Est richiamano e in qualche modo, fermano quelle che potrebbero essere delle spinte che innanzitutto, permettano all'Europa - questo lo voglio dire - di non girarsi sempre dall'altra parte rispetto a quello che sta avvenendo nel Mediterraneo.
Purtroppo sappiamo quali sono i numeri, anzi sappiamo molto approssimativamente quali sono i numeri. Per il 2016 si parla di 5.000 morti e questo è un numero che fa rabbrividire. Noi comunque rispetto a questo ci giriamo dall'altra parte, quando ci sarebbero delle soluzioni come i corridoi umanitari, che sono già stati messi in campo e dovrebbero essere una soluzione da adottare non soltanto in singole esperienze.
Certo, qui veniva anche ricordato, l'ex Presidente Renzi ha puntato molto su quello che è stato definto "migration compact". Su questi aspetti credo che bisogna continuare a lavorare, perché sul tema della cooperazione si può effettivamente provare a far sì che le persone non partano dai loro Paesi, più che stringere accordi che possono, in qualche modo, mettere in dubbio anche il rispetto dei diritti umani.
E poi sul tema della migrazione è ora che l'Europa si decida a far sì che si possa entrare in Europa con la possibilità di venire a lavorare.
Attualmente non è più prevista una migrazione economica, ma tutti gli arrivi vengono dirottati su quella che è la richiesta di protezione internazionale. Ciò fa sì che ci sia un fenomeno che diventa difficile da governare.
Noi abbiamo più volte evocato il superamento del Regolamento di Dublino, proprio perché siamo uno dei Paesi di approdo e, com'è stato detto, l'Italia non è considerata punto di approdo dell'Unione Europea. In realtà, però, l'evoluzione che si sta delineando rispetto a nuovi regolamenti preoccupa sempre di più, perché sempre di più, e questo lo voglio dire, non riusciamo a slegare quello che è il connubio nella trattazione del tema immigrazione rispetto a quello della sicurezza.
Credo che questo aspetto sia importante da sottolineare, proprio perch dobbiamo ragionare sulle politiche migratorie e dobbiamo ragionare non solo e soltanto in termini di sicurezza dell'Europa, ma rispetto all'insicurezza complessiva, un'insicurezza sicuramente di carattere economico e di carattere sociale e un'insicurezza rispetto al futuro che l'Europa dovrebbe essere in grado di delineare per i propri giovani, in una logica inclusiva.
Quindi, una logica inclusiva rispetto a quelle che sono state evocate come le seconde generazioni, quelle che a me piace chiamare "nuovi cittadini" e "nuove cittadine".
In questo vedo il fatto che non esistono più i modelli di inclusione del passato o che, comunque, debbano essere rivisti. Preferisco sempre usare il termine "inclusione" piuttosto che "integrazione" e da questo punto di vista - e qui sta un po' il lavoro che stiamo portando avanti come Regione Piemonte - credo che, non esistendo un modello da calare dall'alto sia necessario ragionare su quelle che sono delle buone pratiche dal basso del far emergere dei modelli di inclusione e quindi porre in più stretta relazione le scelte del Governo, dell'Unione Europea a livello dei Paesi che ne fanno parte, con le scelte decisionali e la possibilità di coinvolgere le autonomie locali, quindi i Comuni e le Regioni.
Sono stata eletta, come portavoce rispetto al tema della cittadinanza e del twining, nel Consiglio dei Comuni e delle Regioni d'Europa, il CCRE, e sto iniziando a lavorare su questo tema, perché penso che la cittadinanza debba essere strumento di inclusione e non di esclusione, come invece sta sempre di più diventando, considerando che la convivenza può essere e deve essere salvaguardia delle identità, non omologazione.
Questo può essere il lavoro che dobbiamo provare a mettere in campo partendo dal basso, perché non possiamo continuare a chiedere all'Unione Europea di fare passi avanti quando poi le difficoltà oggettive che si incontrano non permettono di fare questi passi avanti, certe volte anche in modo ingenuo. Quindi, partire dal basso e vedo nella società civile, e anche in una politica delle autonomie locali, l'opportunità e la possibilità effettivamente di una costruzione vera di un'Europa, ma un'Europa che non sia una fortezza che chiude le sue porte a coloro che ritiene siano degli invasori, ma che concretamente costruisca inclusione con politiche di inserimento socio-lavorativo e tutto ciò che si sta provando a fare anche dal basso.
In questo senso, faccio mie le parole di Papa Francesco: "Sogno un'Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stata la sua ultima utopia".



PRESIDENTE

La parola al dottor Avetta, Presidente ANCI Piemonte.



AVETTA Alberto, Presidente ANCI Piemonte

Grazie e buongiorno a tutti, Presidente e colleghi. Bene ha fatto il Consiglio regionale a dedicare questo momento di approfondimento e di confronto sulle celebrazioni per i 60 anni dei Trattati di Roma, anche a rischio - e ne siamo tutti ben consapevoli - di eccedere un po' nella retorica delle celebrazioni. Ma negli ultimi sessant'anni credo che mai come in questo momento sentiamo la necessità di fissare un punto sui risultati raggiunti da questo nostro progetto europeo.
Ci sono almeno due-tre generazioni di europei, a seconda di come le vogliamo contare, che negli ultimi sessant'anni hanno conosciuto solo crescita economica, sociale e culturale, e soprattutto pace tra popoli che fino al momento precedente, da sempre erano abituati a farsi la guerra.
Dunque ben venga un po' di sana retorica, se serve a 27 Capi di Stato che nel '57 erano solo sei - per impegnarsi nel rilancio dell'Unione nei prossimi dieci anni. I valori che ci accomunavano nel '57 sono attuali.
Democrazia, libertà e solidarietà sono un progetto comune, che ora - come ha giustamente affermato il Presidente Mattarella - deve evolvere in una nuova fase costituente.
L'Unione Europea è forse la più grande innovazione politica e istituzionale che il mondo abbia saputo generare. Il mondo cambia in continuazione e con esso cambiano, con la stessa rapidità, gli assetti geopolitici. Adesso, dopo sessant'anni, abbiamo l'occasione di correggere quelle criticità che pur ci sono state, senza tuttavia perdere di vista i risultati che abbiamo ottenuto e che è nostro dovere difendere da ogni aggressione populista e fanatica.
E la firma in Campidoglio dev'essere un passo avanti verso un'Unione più forte, un'Europa più solida, con una propria identità, accogliente (com'è stato ricordato), inclusiva, solidale e consapevole che i 27 Paesi non sono tutti nelle stesse condizioni ma, al tempo stesso, determinata nel richiedere che tutti rispettino le regole di comune convivenza; un'Europa unita - è stato detto più volte questa mattina - anche sul fronte della sicurezza e della difesa comune, un'Europa in grado di affrontare le emergenze che preoccupano tutti noi e inquietano i cittadini europei, ma che si sforza costantemente di non cadere in quelle facili semplificazioni che calpestano i diritti dell'uomo e vanificano il principio di solidarietà tra i popoli; un'Europa integrata e forte, che vuole continuare ad essere come lo è stata in questi sessant'anni - un punto di riferimento civile e democratico (probabilmente il punto di riferimento più importante a livello mondiale) e che non risponde a fenomeni complessi ed epocali come l'immigrazione costruendo muri; almeno, dal nostro punto di vista è così.
Noi auspichiamo che la fase costituente richiamata dal Presidente Mattarella ci consegni un'Europa che, sempre meno austera, sappia invertire la tendenza e avvicinarsi ai propri cittadini. E allora, eleggere direttamente il Presidente della Commissione europea, dotare l'Unione di entrate proprie, ridurre progressivamente l'area delle decisioni intergovernative a favore di un modello più federale in cui convivono i due livelli di governo, quello statale e quello europeo, sono alcuni degli obiettivi strategici che ridarebbero vigore e respiro all'anima europea; e in particolare, alle sue quattro libertà fondamentali che il Presidente Laus questa mattina nella sua relazione introduttiva ha ricordato: la libera circolazione delle persone, dei prodotti, dei capitali e dei servizi.
Ma anche noi, dai più piccoli ai più grandi nostri punti di osservazione - ed è la parte oggi più interessante, nella mia veste di Presidente di ANCI Piemonte - possiamo dare il nostro contributo concreto all'identità europea. Il Piemonte, con le sue Province e i suoi Comuni, è storicamente un soggetto molto attivo nella cooperazione transfrontaliera.
Allora, le relazioni che grazie ai progetti europei abbiamo saputo consolidare in questi anni con gli amici francesi e svizzeri, solo per citare le maggiori frequentazioni al di là del loro pur importante e specifico apporto in termini di investimento economico, hanno raggiunto l'obiettivo di far crescere insieme tanti Amministratori pubblici, tanti funzionari, tanti operatori privati, tante aziende, tanti studenti e tanti professionisti: tante persone che a diverso titolo, grazie a quelle politiche di coesione, oggi più di prima si sentono cittadini europei. E questo è un patrimonio di esperienza, di conoscenza, di competenza e anche di consapevolezza che, a nostro avviso, dev'essere alimentato costantemente.
EUSALP, che abbiamo ricordato in quest'Aula qualche mese fa, la Strategia europea per la macro regione alpina, è una grande occasione: le montagne - lo disse qui il Presidente Chiamparino proprio in quell'occasione - possono essere una cerniera che unisce, anziché dividere.
E a nostro avviso il Nord-Ovest ha il compito e la forza per riequilibrare il peso dell'Europa mediterranea con quello delle aree più centrali di questo nostro continente. Si tratta della stessa forza che ritroviamo, per esempio, nei programmi ALCOTRA di cooperazione transfrontaliera, che sono stati pensati e finanziati per migliorare la qualità della vita delle comunità transfrontaliere, il loro sviluppo sostenibile attraverso progetti comuni in ambito sociale, culturale, ambientale ed economico, ma soprattutto la loro consapevolezza di essere un unico popolo montano, che va al di là dei confini amministrativi e di quelli dei nostri Stati.
E non a caso anche ANCI nazionale, nel corso della recente sessione europea della Conferenza Stato-Città, ha preso posizioni chiare e determinate sul rischio che vengano ridotti gli stanziamenti alle politiche di coesione, perché questo sarebbe un danno grave e probabilmente difficile da recuperare: si tratta infatti di politiche che sono fondamentali per tutti, ma in particolare per quelle aree interne (rurali ed alpine) di cui il Piemonte è in larga parte espressione concreta e che l'ANCI considera una risorsa indispensabile.
È sulla base di queste considerazioni che ANCI Piemonte ha voluto che la formazione in progettazione europea dei nostri amministratori e dei nostri funzionari fosse tra i suoi obiettivi programmatici, rivolgendola prioritariamente ai Comuni piccoli e medi che spesso - lo sappiamo bene - a fronte di risorse inadeguate, sono capaci di intuizioni innovative che, a nostro avviso, devono essere assolutamente valorizzate e portate a fattor comune.
Nel corso del 2016, con il contributo di IFEL, che è la Fondazione di ANCI nazionale, abbiamo attivato numerosi incontri di formazione, cui hanno partecipato più di mille Amministratori. Allora, quest'anno noi pensiamo di raddoppiare, arricchendo la nostra offerta - sempre elaborata con IFEL e con l'Accademia per l'autonomia, che è l'altra fondazione che condividiamo con il sistema delle Province - di un master dedicato alla progettazione europea. Tale iniziativa, dalle nostre analisi, dovrebbe essere il primo esempio a livello nazionale, che stiamo definendo d'intesa con la SAA (Scuola universitaria di amministrazione aziendale) e con AICRE (l'associazione cui fa riferimento anche il Consiglio regionale). Facciamo questo con la consapevolezza che finanziare politiche di coesione, far crescere una classe di amministratori che le sappia valorizzare al meglio farne percepire i benefici concreti ai nostri cittadini significa investire sul futuro di un'Europa sempre più radicata, integrata, solida e soprattutto solidale.
Io credo che questo lo dobbiamo certamente a chi ha sacrificato la propria vita per un'Europa che crescesse in pace, ma lo dobbiamo anche alla "generazione Erasmus": lo dobbiamo, cioè, ai nostri ragazzi che hanno avuto la fortuna di nascere e di vivere in questi anni e di sentirsi prima europei che italiani, francesi e tedeschi.
E a proposito di giovani - e mi avvio a concludere - qualche anno fa Alfredo Reichlin, dialogando con Antonio Gnoli de la Repubblica, che gli chiedeva come si sentisse nella parte del vecchio nonno che spiega ai nipoti cosa sta accadendo, lui rispondeva: "Come un uomo di un'altra epoca.
Vedo una distanza incolmabile da tutto ciò che un tempo mi fu familiare e tuttavia, in questo cataclisma, le sole forze cui affidarsi sono le generazioni future".
Allora, con questa consapevolezza e coscienti che è nostro dovere di amministratori anche far crescere le giovani generazioni e pensare a chi verrà dopo di noi, ben venga, anche, la retorica delle celebrazioni, dei compleanni, dei 27 Capi di Stato tutti intorno a un tavolo, se questo serve a ridare futuro ai valori fondanti della nostra Europa, a orientarne gli investimenti - nel senso cui facevo riferimento prima, cioè sulle politiche di coesione - e ad attualizzare quel modello di governo che probabilmente oggi - com'è stato ricordato anche in più interventi questa mattina sconta la necessità di un "tagliando" e, dal nostro punto di vista, di una rivisitazione nel senso più politico.
Grazie.



PRESIDENTE

Grazie, Presidente Avetta.
La parola al Consigliere Grimaldi.



GRIMALDI Marco

Avevo appena compiuto nove anni quando, il 9 novembre del 1989, veniva demolito il Muro di Berlino e guardavo gli adulti commossi e plaudenti che assistevano alla fine delle due Germanie; i miei genitori no, ma questa è un'altra storia di cui non racconto oggi.
Ho letto più avanti che, nei giorni in cui le ruspe erano in azione tutto il continente festeggiava: mai più muri, mai più simili crudeltà, i tedeschi dell'Est che si riabbracciavano con quelli dell'Ovest, che li accoglievano festanti. Poteva avverarsi il sogno di un'Europa unita. Già poteva, perché a 27 anni di distanza da quell'89 che cos'è successo? Purtroppo non vediamo nemmeno l'ombra di quello spirito di fratellanza che dovrebbe unire i popoli europei. L'Europa dei muri e degli egoismi nazionali è più presente e viva che mai. I muri ci sono ancora; anzi, si sono moltiplicati. Di fronte alla "pericolosissima minaccia delle nuove invasioni barbariche", ci sono Paesi che hanno innalzato barriere invisibili, ma efficaci: Germania, Francia, Austria, Danimarca, Svezia e Norvegia hanno infatti reintrodotto i controlli alle frontiere, in palese disarmonia con la libera circolazione di uomini e merci prevista negli accordi di Schengen, la più grande conquista dell'Europa unita e condizione indispensabile per la sua sopravvivenza.
L'Ungheria, invece, il suo fossato medievale se l'è proprio costruito materialmente: si tratta di un ammasso di reti, filo spinato e cemento che dovrebbe tenere alla larga gli "invasori". Ecco, peccato che questi "barbari" non siano armati, non vogliano dichiarare guerra a nessuno e anzi, dalla guerra fuggano. E gli altri di cui si dice che "a casa loro non c'è alcuna guerra" fuggono da una miseria che, per molti versi, è peggiore di una guerra stessa.
Invece, i capitali viaggiano incontrastati.
Leggevo, l'altro giorno, che le principali banche europee impoveriscono le finanze pubbliche, nascondendo miliardi di profitti nei paradisi fiscali.
La nuova denuncia arriva dall'ultimo rapporto stilato da Oxfam, secondo cui i primi venti istituti dell'eurozona, nel 2015, hanno indirizzato circa un quarto dei loro profitti verso paesi con regimi fiscali più favorevoli.
Non ci sono solo le Cayman, non ci sono solo le vere isole del tesoro: ci sono altri paradisi europei.
"Aprire le casseforti", così il titolo inequivocabile del report, che calcola in circa 25 miliardi di euro i profitti dichiarati in 58 giurisdizioni considerate come paradisi fiscali, che corrispondono al 26 per cento dei profitti generati complessivamente dalle grandi banche, nel 2015.
Secondo i dati raccolti dall'ONU, le sussidiarie delle banche che operano nella giurisdizione con i più bassi livelli di imposizione sono due volte più profittevoli della media e i loro dipendenti hanno un livello di produttività quattro volte maggiore che altrove, generando un profitto medio di 171 mila euro ciascuno, all'anno, contro una media di 45 mila euro.
Per capire i sessant'anni di Europa, dobbiamo iniziare da qui: dalla fonte delle disuguaglianze, dalla fonte dell'accumulo dei capitali. Ma è riduttivo parlare di banche, se non si affronta, più in generale, la grande questione fiscale e le altre isole del tesoro.
Sono, infatti, anni che i colossi dell'industria digitale come Google Facebook o Amazon sono tra i primi soggetti quotati delle borse internazionali. Quello che, però, sta avvenendo va ben oltre la valorizzazione finanziaria delle piattaforme Internet, che tutti comunemente conosciamo.
Stando ad un recente rapporto proprio della Commissione Europea, in un anno Apple, Google, Amazon, Twitter, Facebook ed eBay hanno versato al fisco italiano soltanto nove milioni di euro, a fronte di un mercato e commerce in cui sono egemoni e che vale più di 11 miliardi.
Com'è possibile? Vediamo un attimo il caso Apple: l'azienda paga un centesimo e mezzo per cento di tasse, perché le imposte sul reddito generato delle vendite italiane vengono trasferite in Irlanda (Irlanda: Europa), o attraverso tecniche di transfer pricing, oppure fatturando direttamente nel paese. Una volta in Irlanda, la somma viene abbattuta e poi trasferita alle head office, senza dipendenti né sede geografica, ossia praticamente senza tasse.
L'esito di tutto ciò è che nel 2014 Apple ha realizzato in Italia entrate sopra il miliardo, versando al fisco italiano 4,2 milioni, e in Irlanda - dove questi profitti sono stati dirottati - ha pagato lo 0,005.
Basterebbe forse tassare i redditi d'impresa? Ossia far pagare dove il reddito viene generato, introducendo una web tax, una digital tax, come chiedono da tempo, in tanti? Vorrei parlare di tutto questo (di tax ruling), ma - in realtà - le top player di Internet non sono le sole ad usare certi stratagemmi. Quanto appena descritto non è tanto dissimile da quello che vi raccontavo l'altra settimana: quell'indagine che abbiamo svolto e che ci dice che le aliquote IRAP delle grandi imprese piemontesi oggi valgono meno del cinque per cento delle entrate.
Vorrei partire da lì: se in questi anni l'Europa avesse mostrato la stessa severità che ha riversato sul popolo greco e sullo stato sociale europeo, per esempio verso i re della moda e dell'elusione, se invece di difendere i dogmi dell'austerity avesse chiesto indietro le ingenti somme di tasse non versate, detenute nei cosiddetti "paradisi fiscali", se tutto ciò fosse avvenuto, avremmo avuto più risorse da ridistribuire e forse non saremmo sommersi in questa crisi.
Invece, la politica tutta, con l'Europa, anche dei nazionalismi e dei populismi in testa, sta fallendo nella propria missione: mentre si alzano barriere per escludere i più poveri, i dannati della terra, da un'opportunità di crescita e di vita, i padroni del vapore finanziario cosa fanno? Manovrano indisturbati i loro capitali.
Di certo, è più facile prendersela con chi scappa da guerra e miseria che schierarsi contro i più potenti: loro sì, extracomunitari di successo spesso col doppio passaporto, magari solo in Svizzera. E qualcuno gli propone ancora una flat tax per ritornare, magari dopo qualche anno! Nel suo libro, Piketty parte da Karl Marx - sì, da lui - e dalla sua tesi che il capitale si accumula all'infinito, ma con rendimenti decrescenti; cosa che porta a conflitti tra capitalisti, sempre in cerca di nuove opportunità. Siamo ancora lì! E se i rendimenti del capitale, per sono comunque maggiori della crescita dell'economia reale, i ricchi diventeranno sempre più ricchi e la disuguaglianza aumenterà.
Il turbocapitalismo è più forte di ieri e ha, purtroppo, pochi nemici per le strade.
La politica, allora, deve puntare i riflettori addosso ai generatori di crisi, che sono in strada, impuniti. Vivono spesso dei regali di Natale comprati su Internet, delle nostre e-mail, degli articoli che pubblichiamo.
Siamo di fronte a un cambiamento radicale e graduale assieme. Eppure c'è un'altra Europa: è la nostra generazione, a discapito della crisi politica, prima che economica e sociale, forse la più europea di sempre nata in un continente unito, senza guerre interne, una generazione Erasmus (dicono in tanti), per la quale parlare due o tre lingue è la norma disponibile a spostarsi per studio e lavoro. Insieme, però, è anche la più critica, perché nell'Europa unita ha prevalso la necessità della finanza rispetto a quella dei cittadini, la logica delle austerità e dei numeri rispetto a risposte utili alla comunità, in termini di welfare solidarietà, diritti, saperi.
Forse, questa generazione è chiamata a una battaglia politica. La nostra battaglia per un'altra Europa deve articolarsi almeno verso tre direttive fondamentali (e finisco, Presidente): un diverso modello economico che rifiuti austerità e fiscal compact nei Trattati, pretenda un'unione bancaria, pretenda la mutualizzazione del debito e il lancio di un vero green new deal, una mobilitazione radicale diffusa per l'accoglienza, contro ogni muro, ogni rigurgito xenofobo. Ma anche ogni accordo che abbia al centro la rimozione dei profughi, consegnati a governi spesso tirannici e violenti. Altro che esportare la democrazia! Una lotta per ottenere più democrazia e più diritti nello spazio comune europeo attraverso una profonda riforma dei suoi meccanismi decisionali e delle sue istituzioni.
Solo così, ritrovando lo spirito di un'Europa libera, unita e solidale potremo davvero tornare a festeggiare e celebrare qualcosa; se no, credo che il sogno di Altiero Spinelli e delle tante persone che sono cadute per ridarci questo continente, rischi di rimanere solo un ricordo del sogno che non abbiamo mai realizzato e che non abbiamo avuto la forza di costruire ogni giorno.
Grazie.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Marrone.



MARRONE Maurizio

Credo che nella passerella odierna - non aggiungo mediatica, perché di attenzione mediatica personalmente ne vedo molto poca, dall'inizio della giornata - sia venuto il momento di una nota stonata.
Incentrerò il mio intervento su un concetto molto semplice e basilare che però oggi non ho sentito ripetere in nessun intervento, ovvero che l'Unione Europea è sostanzialmente morta. Noi oggi stiamo parlando di un'entità che è politicamente defunta, o - meglio - sopravvive esclusivamente in modo del tutto artificioso all'interno dei palazzi. In palazzi peraltro come questo, con molte poltrone - molte vuote, peraltro molta poca gente.
Non vive di sicuro nelle piazze, peraltro blindate e rese deserte dalla paura, non vive sicuramente nei mercati, non vive nei luoghi vissuti dalla quotidianità dei popoli europei.
L'Unione Europea è morta, per molte ragioni: è morta perché in questi ultimi anni si è preoccupata più di dettare le lunghezza obbligatorie per le zucchine o i limiti di produzione di latte, o i divieti rispetto alla fiorentina, piuttosto che - invece - andare a tutelare la qualità magari anche enogastronomia, o più in generale manifatturiera di ciò che viene prodotto nei nostri territori, nei territori degli Stati dell'Unione Europea.
Non si è preoccupata assolutamente di tutelare le imprese, piccole o medie o grandi che fossero, degli Stati membri rispetto alla concorrenza sleale di quegli imperi concorrenti che dello schiavismo fanno una carta da usare sul tavolo del libero mercato e della concorrenza senza limiti. Non ha di sicuro adempiuto alla sua missione di Unione Europea e quindi è morta nella difesa rispetto ai propri confini, e non mi riferisco ai confini tra gli Stati membri, mi riferisco ai confini continentali; mi riferisco, per esempio, al paradosso per cui nel Mediterraneo, di fronte alle nostre coste, troviamo sostanzialmente territori in mano ai tagliatori di teste in mano al Califfato delle bandiere nere dello Stato Islamico. Ma invece di schierare lì il nostro esercito, invece che fermare e ostacolare questa tratta di esseri umani che continua ad aumentare i propri numeri di sbarcati, ma anche i propri numeri di morti, consentiamo a ONG profumatamente pagate dai soliti noti dello scacchiere internazionale di aiutare gli scafisti. Questa Unione Europea, evidentemente, lo consente ritirando quelle che sono le navi istituzionali delle forze armate, quelle che almeno arrestano gli scafisti, quelle che almeno affondano le zattere dei disperati dopo aver salvato le persone che trasportavano.
È un'Unione Europea - qui devo sfatare un altro mito che oggi ho sentito ripetere in più occasioni - che non fa un granché neanche sul tema della pace. Oggi nessuno lo ha ricordato, ma non è poi così vero che non ci siano venti di guerra sul territorio europeo. Recentemente la NATO ha preteso che lo Stato italiano presti parte delle proprie truppe e le disponga nei Paesi Baltici, schierate, per quanto dicano loro, in chiave preventiva contro la Russia. Eppure non mi risulta che siano russi i terroristi che si fanno saltare in aria o che uccidono con altri tipi di attentato le popolazioni civili nelle nostre capitali europee. Non mi risulta che siano russi. Anzi, mi risulta che siano espressioni di quel fondamentalismo islamico che non sta venendo sconfitto dai gessetti colorati; non sono i cuoricini fatti con le mani in piazza, né gli hashtag sui social a sconfiggere il Califfato. Guarda caso, è proprio quella Russia che ha restituito Palmira alla civiltà, strappandola a quei carnefici che hanno decapitato Khaled Asaad, l'archeologo che era rimasto lì a difendere un patrimonio della civiltà. Ebbene, alla civiltà lo ha restituito proprio la Russia con il sacrificio dei propri soldati. Eppure, evidentemente l'Italia e gli Stati membri dell'Unione Europea preferiscono obbedire alla NATO e prestarsi a questa incredibile nuova guerra fredda, che va a sfatare, quindi, un altro dei capisaldi che questa benedetta Unione Europea doveva garantire, ovvero il mantenimento della pace.
In un intervento che mi ha preceduto ho sentito citare l'Ucraina.
L'Ucraina è Europa, oggettivamente. Può essere considerata Europa anche se non è parte dell'Unione Europea da un punto di vista culturale e storico.
Eppure - lì sì - c'è una guerra dal 2014; una guerra che non è solo tollerata dall'Unione Europea, ma che è scatenata da un Governo - quello di Kiev - che è spalleggiato dall'Unione Europea.
Questi fieri sostenitori e sventolatori di bandierine di Bruxelles in questi ultimi tre anni hanno massacrato migliaia di vittime civili nel Donbass. Ho visto con i miei occhi le scuole rase al suolo, le chiese date alle fiamme, gli ospedali bombardati. Ho potuto vedere con i miei occhi le lapidi per strada delle vittime dei bombardamenti: sapete che i bambini hanno lapidi a forma di nuvoletta per distinguerle da quelle degli adulti che sono quadrate? E sono così recenti che ci sono ancora i peluche depositati alla base. Questi morti sono sulla coscienza dell'Unione Europea e di quei regimi figli delle destabilizzazioni che anche l'Unione Europea ha portato avanti in questi anni. Questa è, finalmente (in senso negativo) sul territorio europeo, dopo le Primavere arabe che hanno lanciato, in un clima di terrore, di sangue e di massacro generalizzato, tutto il Nord Africa e gran parte del Medio Oriente, generando quel flusso di disperati che, sempre per le guide di questa Unione Europea, hanno deciso di trasformare l'Italia sostanzialmente in un filtro tra l'Europa continentale nordica e, dall'altra parte, l'Africa e il Terzo Mondo.
L'Unione Europea è morta, sì. Lo è oggettivamente, anche se sopravvive solo in queste stanche celebrazioni, colme di riferimenti di paura che hanno fatto capolino in molti interventi (ho sentito ripetere con terrore e allarme i termini "nazionalismo" o "populismo"). In realtà, non sarà il nazionalismo a porre fine a questa Unione Europea, ma le nazioni. Non saranno i populismi a porre fine a questo baraccone tecnocratico, ma i popoli che, ogni volta che saranno consultati con un appuntamento elettorale, daranno dei segnali molto chiari, ancorché ignorati.
Cari colleghi, non avete troppo da temere, però. Perché finita l'Unione Europea, grazie al cielo non finisce l'Europa. L'Europa esisteva prima dell'Unione Europea con i suoi anfiteatri romani, con le sue cattedrali con la filosofia greca, con l'epica, con i miti veri e fondanti, con la civiltà. E non, invece, con ingegnerie astruse e obsolete estremamente istituzionali e non popolari.
Vado a concludere, Presidente, con un auspicio, che io so si avvererà: l'Europa non è destinata a terminare, ma è destinata, evidentemente, a rinascere dalle ceneri di questa Unione Europea. Ma sarà per definizione partendo dagli errori commessi, una libera scelta sovrana - e sottolineo "sovrana" - perché sarà una scelta dei popoli europei, che la rifonderanno sopra presupposti radicalmente diversi da quelli che abbiamo visto in questi ultimi decenni. Non sarà sicuramente l'economia a prevalere sulla politica; non sarà sicuramente la speculazione finanziaria a prevalere sull'economia reale; non sarà sicuramente il multiculturalismo e l'assoluto relativismo sia etico che culturale a prevalere sull'identità tradizionale che ci unisce, al di là dei confini nazionali.
Di sicuro l'Europa rinascerà; lo farà, però, dopo un passaggio politico fondamentale. Ci vorrà del tempo e di sicuro non abbiamo democrazie mature come quella statunitense, dove un atto sovrano della popolazione, contro tutti i pronostici e contro tutti i poteri forti, riesce a cambiare l'orientamento di una nazione. Qui ci vorrà più tempo, perché abbiamo evidentemente nuovi reati di opinione; abbiamo nuove leggi di censura su internet e sui social network all'orizzonte; abbiamo ormai questo trend del tutto consumato e rodato di "governicchi minestrone", figli di alleanze politiche assolutamente contro natura e non in grado di adottare una linea chiara.
Tutti questi fenomeni faranno perdere tempo alla rivoluzione di cui oggi vi accennavo, però non possono mutare il corso di una storia che è ormai scritta. Perché non è scritta nei palazzi, ma è scritta nei cuori e soprattutto, nelle menti libere di tanti cittadini degli Stati nazionali prima ancora che europei.



PRESIDENTE

Ha chiesto la parola il Consigliere Vignale; ne ha facoltà.



VIGNALE Gian Luca

Grazie, Presidente.
Io credo che l'intervento che è stato fatto in apertura di mattinata quello del componente della Commissione per i diritti umani, che è apparso paradossale, in realtà non sia così paradossale. Perché, in molti casi quando sentiamo parlare - lo abbiamo fatto anche questa mattina - di ci che è l'Unione Europea, vi sono aspetti che vengono ricordati che sono quasi simili. Proverò a fare alcuni esempi.
Rammento che la nostra è una generazione che ha assistito ad una guerra europea lacerante, perché la guerra dei Balcani è stata una guerra profondamente europea. Ed è uno dei momenti in cui l'Europa si è trasformata in Unione Europea. Cioè l'Europa si è trasformata da quello che era, verosimilmente, il sentimento di chi, sessant'anni fa, aveva siglato i Trattati di Roma, quando si pensava a un'Europa che era quella in cui io sono cresciuto nella mia forza politica. In quegli anni l'Europa era divisa fra l'Europa della NATO e l'Europa della cortina di ferro, e non molti soggetti politici - quello a cui facevo parte, ovvero il Movimento Sociale Italiano, invece sì - auspicavano un'Europa dei popoli, cioè ad un'Europa comune che non fosse divisa, "dall'Atlantico agli Urali", come si diceva.
Io credo che quello fosse il sentimento di chi, sessant'anni fa, ha siglato i Trattati di Roma. Non casualmente noi ricordiamo la festa d'Europa il 9 novembre, cioè il giorno in cui viene a cadere il muro di Berlino. Dovremmo anche ricordare alcuni padri più recenti di quest'Europa di coloro i quali hanno mantenuto quello spirito europeo.
Quando in Italia Giulio Andreotti esclamava "Amiamo talmente tanto la Germania che vogliamo tenerne due", Helmut Kohl decise non soltanto di unificare la Germania, nel 1990, pochissimi mesi dalla caduta del muro di Berlino, ma la volle unificare a parità di marco e a dare a tutti i popoli dei Länder della Germania Est, che avevano una moneta che in quel momento era carta straccia, una moneta forte e importante come quella del marco.
Per questa scelta perse le elezioni, perché va ricordato che uno dei più grandi fondatori dell'Europa che ho in mente perse le elezioni successive perché il peso del cambio uno a uno fra il marco della Repubblica ex Federale Tedesca e quella Democratica non poteva reggere nell'immediatezza; però è quella l'Europa che hanno immaginato i Padri fondatori, ma che abbiamo visto essere tramontata in pochi anni.
Un punto nodale è esattamente la crisi balcanica.
Nella crisi balcanica, che è durata molti anni, e molti di voi lo ricorderanno, non c'è una politica europea. Mentre alcuni Stati riconoscono immediatamente la Croazia e la Slovenia, altri lo fanno dopo, ma soprattutto in tutte le guerre, in quella croata, quella slovena, quella serba, quella bosniaca, a quella kosovara non c'è mai una politica comune dell'Unione Europea, mai. Stati si comportano in modo diverso, per parlare del nostro Continente, che ha vissuto una lunga, lacerante, terribile guerra. Per cui non abbiamo vissuto - purtroppo - due generazioni di pace ma non abbiamo neanche vissuto due generazioni di pace sociale.
L'aspetto di cui oggi non ci rendiamo conto è che, come diceva il collega Marrone, oggi l'Unione Europea da un punto di vista del sentimento collettivo (lo dicono i sondaggi, ma poco ha a che fare un sondaggio su un grande ideale) è un'idea che oggi è morta. Non è morta rispetto all'idealità di un Continente che non abbia le frontiere. Ognuno di noi è affascinato dall'attraversare una frontiera, e vi posso anche dire che sono stato inizialmente affascinato dall'usare una moneta comune in più Stati.
Tuttavia, il problema vero è che si è dimostrato, com'era facilmente prevedibile, che nel momento in cui queste dinamiche non diventano più politiche, nel momento in cui la dinamica dell'euro non è una dinamica unificatrice, ma è una dinamica che ha una sua logica finanziaria e che per esempio, pesa all'interno del nostro Continente e della nostra Nazione quanto è pesato! - o che l'Unione Europea è la direttiva Bolkestein, è la limitazione di diritti, è l'obbligare altri popoli a interventi che limitano la loro sovranità peggiorando la condizione di vita, è evidente che l'Unione Europea non può, rispetto a quell'ideale, che essere morta.
C'è solo una via per far rinascere la grande idea di Europa: è l'Europa dei popoli, non è l'Europa della Banca Centrale Europea, non è l'Europa che chiede all'Italia un intervento da 3,5 miliardi di euro e si dimentica che la Germania da cinque anni supera il surplus finanziario in termini di export. Nei Trattati che ci vengono sempre ricordati, c'è il rispetto del tre per cento del PIL, ma c'è anche il divieto di superare una certa percentuale di export. La Germania è da cinque anni che supera la percentuale ed è la nazione più "mercatista" che c'è all'interno del continente europeo, ma violando anche quel Trattato. Allora, non può essere equa un'Unione che penalizza un soggetto che ne fa parte dimenticandosi di un altro che altrettanto ne fa parte.
Poi, guardate, c'è un grafico (si trova su Internet e che è molto semplice) sulla produzione manifatturiera all'interno dei Paesi europei.
Molto spesso abbiamo ascoltato talmente tante volte delle fandonie che le trasformiamo quasi in verità: la migrazione è un fenomeno incontrovertibile, accade esclusivamente all'interno della nostra Nazione la produzione manifatturiera è incontrovertibilmente in riduzione e non potrà che essere altrimenti, non potrà che continuare a peggiorare. Allora noi prendiamo alcuni dati e vediamo, per esempio, che è vero che la Germania ospita un milione di migranti, ma ospita un milione di profughi siriani. Ciò non è uguale a dire che se ne ospitano 200 mila, solo nel 2016, persone che scappano dalla miseria e dalla fame, che hanno un livello di istruzione, ma anche un luogo da cui vengono via che non è lo stesso.
Inoltre, da un punto di vista della produzione industriale, c'è un altro meraviglioso grafico che trovate facilmente in Internet, in cui si vede, dal 2001, anno dell'entrata in vigore dell'euro, ad oggi quali sono i Paesi che aumentano la produzione manifatturiera e quelli che la diminuiscono. Incredibilmente, troverete che la Germania rispetto al 2001 aumenta la produzione manifatturiera, non quella turistica, non quella del turismo verde o quant'altro, ma quella manifatturiera classica, che era molto presente in questa regione.
Per motivi molto pratici, molto banali e avvertibili quotidianamente muore quel concetto e quell'idea di Unione Europea. Credo che, se vogliamo bene al nostro continente, dovremmo cercare di rispettare i motivi dei Trattati di sessant'anni fa, che sono stati violentati dall'Unione Europea di questi anni.



PRESIDENTE

Grazie, collega Vignale.
La parola al Presidente Chiamparino.



CHIAMPARINO Sergio, Presidente della Giunta regionale

Grazie, Presidente.
Prendendo spunto dall'incipit del discorso della Consigliera Gancia direi che di spettri in Europa ne sono già girati troppi e sarebbe forse utile se si guardasse più alle persone in carne e ossa che non agli spettri, veri o presunti tali, che si sono aggirati e che potrebbero aggirarsi per l'Europa.
Quest'attenzione alle persone in carne ed ossa è un'attenzione che la storia ci ha dimostrato che è possibile; molto semplicemente, è possibile.
Detta in modo diverso, non sto tirando conclusioni, ma se c'è una considerazione che ha accomunato, pur con accenti diversi e punti di vista diversi, un po' tutti, è che tutto sommato la storia europea, dal secondo dopoguerra fino a questa fase che stiamo vivendo nei giorni nostri, è una storia di pace, libertà e benessere, in cui questo angolo del mondo ha avuto l'insieme di questi ingredienti fondamentali per la vita delle persone più elevato che in tutte le altre parti del mondo.
Il che non vuol dire, e lo dico a Vignale, di cui ho colto alcuni passaggi politici che non possono essere banalizzati ma, come Vignale sa come me, la politica, salvo nelle cose inutili, non è mai un pranzo di gala, mi permetto una citazione del grande timoniere d'Oriente...



(Commenti fuori microfono)



CHIAMPARINO Sergio, Presidente della Giunta regionale

Non era Mao Tse Tung che diceva questo? Ma lo hanno detto in tanti sono quelle frasi che...
Nel senso che è indubbio che, nel momento in cui cade il muro di Berlino e si apre un processo con uno scenario storico completamente nuovo esso passa attraverso contraddizioni e tragedie, com'è stata la guerra nei Balcani, ma pur tuttavia è vero che quell'insieme che la storia europea ha saputo costruire è caratterizzato dalla pace tra i popoli, dalla libertà tra le persone, dal benessere economico, che nessun'altra parte al mondo ha raggiunto. Ciò ha prodotto l'effetto di mettere in discussione quei sistemi e quei regimi che, invece, rispetto a questo insieme avevano una composizione assai più asimmetrica, soprattutto nei confronti delle persone, che non erano al centro del loro modo di operare.
Da questo punto di vista - e finisco su questo punto la storia lasciando da parte le volgarità di chi dice che esiste una civiltà occidentale contrapposta al resto - sarebbe sufficiente un ripasso di storia studiata nelle medie per sapere che agli Assiri, ai Babilonesi, ai Persiani e agli Egizi, allo stesso Estremo Oriente, siamo debitori di importanti conquiste scientifiche nei confronti di quelle civiltà - è pur tuttavia vero un fatto: la civiltà europea è stata quella che ha saputo misurarsi con il fenomeno della modernità capitalistica - perché questa è la modernità: la rivoluzione capitalistica dell'economia e della società nel modo più efficace possibile e più di quanto hanno fatto altri sistemi e altre civiltà da altre parti del mondo. Questo ha dato un vantaggio all'Europa rispetto ad altre parti del mondo per tutta una fase storica, ed è questo che ha consentito di assemblare benessere, pace e libertà secondo una modalità che ha attribuito ai popoli europei, per un periodo storico lungo - perché settant'anni sono un periodo storico lungo - condizioni che non hanno avuto paragone in nessun'altra parte del mondo.
Oggi, ovviamente, la globalizzazione mette in discussione tutto ciò, e per una parte credo non sia superabile. Mi riferisco al fatto che nei Paesi europei l'economia non può più battere alla stessa intensità con cui batteva sessant'anni fa per una ragione semplice: alla fine della fiera per dirla in volgare, l'economia è figlia dei bisogni da soddisfare, ed è chiaro che i bisogni da soddisfare che ci sono da queste parti del mondo sono infinitamente minori di quelli in altre parti del mondo. Poi, l'icona contemporanea dei tassi di sviluppo, alla fine, è figlia della situazione per cui da qualche parte ci sono bisogni primari, secondari e terziari infinitamente maggiori da soddisfare rispetto a quelli che ci sono da noi.
La globalizzazione ha determinato curiose schizofrenie politiche se oggi, pensiamo che la potenza capitalistica più grande al mondo è l'unica che issa ancora la bandiera comunista - io la chiamo così, schizofrenia politica, perché è tale - e se pensiamo che - non me ne voglia il Consigliere Marrone - il colonnello del KGB, "compagno", tra virgolette Vladimir Putin, è oggi l'icona di tutti i movimenti populisti di destra altro elemento di schizofrenia politica forte...



(Commenti del Consigliere Marrone)



CHIAMPARINO Sergio, Presidente della Giunta regionale

Sì, ma di tutti. Sto parlando di schizofrenie che attraversano il mondo politico ed economico indotte dalla globalizzazione, con cui bisogna misurarsi. Come? A differenza dell'intervento del Consigliere Vignale penso che l'Unione Europea come costruzione politica abbia lo spazio per essere rilanciata e per riconquistare un suo spazio, per cercare di ridurre lo scarto - altra schizofrenia che si è determinata - tra l'economia e il controllo dell'economia, perché quello che, forse, fa apparire più distante di tutto la globalizzazione dagli interessi delle persone è l'assenza ormai della percezione di luoghi dove la politica possa dire la sua nei confronti chi di compie le grandi scelte economiche. Credo che su questo terreno l'Unione Europea, come costruzione politica, abbia delle carte da giocare.
Non dimentichiamo che tutti gli Stati sono costruzioni politiche, alla fine, sono costruzioni politiche fredde. Non voglio polemizzare, anche perché non c'è più la Consigliera Gancia, ma c'era qualcuno che fino a non molti anni parlava di "popolo padano". Le retoriche possono valere per le costruzioni politiche, ma anche per la costruzione del demos, non sono unidirezionali.
Credo possa essere rilanciata. Certamente - e su questo voglio spendere una parola netta, poi affronto l'altro punto e termino - questo ricreare luoghi di possibile controllo dell'economia globale non avverrà mai rincorrendo i vari, come si usa dire adesso, sovranismi; non avverrà mai pensando di fare dello Stato nazionale il luogo a ciò deposto, non avverrà.
Non pensiamo di uscire dall'euro, di svalutare la lira e che gli altri che ricevono le nostre merci stiano lì ad aspettare tranquilli e pacifici i nostri comodi, non credo.
In un'economia in cui abbiamo il 133 per cento del debito sul prodotto interno lordo prevalentemente in mano alle banche, noi pensiamo che questi stiamo ad aspettare che gli si restituisca il debito in carta straccia? Non credo.
Se c'è una cosa che mi sento di dire che non potrà avvenire è pensare che lo Stato nazionale sia la dimensione politica con cui si cerca di riconquistare un controllo dell'economia. L'Unione Europea dà le carte da giocare. Come? Qui faccio riferimento a quanto ha detto Avetta: anch'io penso che la retorica in alcuni casi sia utile, a condizione - credo che Alberto sia d'accordo con me - che non si sostituisca alla politica, perch se si sostituisce alla politica diventa controproducente.
Ricordo - per concedermi un vezzo letterario - una citazione - che faccio a memoria, quindi non è letterale - di Italo Calvino ne "Le città invisibili" quando parla della città che il viaggiatore vede da lontano e che gli appare come un inferno. Poi, si avvicina e scopre che nell'inferno c'è anche qualcosa che inferno non è. Lì Calvino dice che ci sono due modi per affrontarlo: uno, adeguarsi all'inferno e, l'altro, cercare di fare vivere quel poco o tanto che nell'inferno inferno non è. Credo che questo voglia dire "non sostituire la politica con la retorica ".
Da questo punto di vista, ritengo importante il passaggio della Dichiarazione di Roma per il sessantesimo anniversario, dove si parla di velocità differenziate pur con un obiettivo unico: non vi è ombra di dubbio che se noi vogliamo anche solo provare ad attuare quelle politiche che qui sono state indicate anche in modo trasversale - perché, al di là dei punti di vista e delle ottiche diverse, ci sono temi comuni - occorre che ci siano condizioni sufficientemente omogenee tra i Paesi che si cimentano per realizzarle. Non è possibile pensare di tenere allo stesso passo economie e società che hanno dinamiche così diverse, perché vorrebbe dire, da una parte, non fare il passo adeguato, oppure lasciare troppo indietro gli altri. Secondo me, questo è un punto cruciale, per provare a rilanciare l'Unione Europea come dimensione politica che consenta di tornare a misurarsi con i grandi temi dell'economia e della società.
Non ho molto da aggiungere - poi concludo sul tema del terrorismo - a quello che qui è stato detto. Certo, bisogna rilanciare gli investimenti il Piano Juncker è la caricatura di un piano di investimenti, diciamo la verità, bisogna rilanciarlo sui temi strategici. Qui non voglio polemizzare con il Consigliere Bertola, ma, certamente, i temi ambientali sono strategici, forse le ferrovie sono meglio di altre cose, da un certo punto di vista, ma è una facile polemica per me questa, non è neanche il tema centrale come il tema del capitale umano. Se di questi grandi investimenti sulle grandi infrastrutture materiali e immateriali che devono connotare l'Europa, non se ne fa carico direttamente l'Europa, senza sacrificare i fondi di coesione sociale, magari mai curandone un utilizzo più accurato e preciso da parte di chi ne è il maggiore destinatario nei vari Paesi membri, non vedo chi possa farlo se non l'Unione Europea.
L'armonizzazione fiscale e sociale, certamente sì. Non è pensabile oltre le questioni che ha citato il Consigliere Grimaldi, che ci siano regimi di diritto societario, di diritto fiscale e fiscale tout court, che siano diversi fra Paesi che fanno parte del nucleo fondatore dell'Unione Europea. Tanto per non fare nomi e cognomi, ma facciamoli, è quello che ha fatto un'importante azienda torinese che ha scelto di portare la sede fiscale a Londra e in Olanda per ragioni di diritto societario e di diritto fiscale.
Le questioni sociali sono sicuramente un altro tema. Se noi vogliamo parlare di una misura di dignità e di inclusione che valga per i cittadini non se ne può che pensare a livello europeo, a livello di nucleo di Stati di Paesi e di comunità che sono in grado di reggerla. Io credo che queste siano le politiche che servono.
Ne ha già parlato l'Assessora Cerutti, ma non vi è dubbio che se c'è un soggetto che può pensare di organizzare dei corridoi umanitari che partono dagli Stati della sponda sud del Mediterraneo in cui arrivano i grandi flussi di migrazione che provengono dal centro dell'Africa, anche eventualmente con la tutela militare, questa è l'Unione Europea. Noi, di fatto, adesso, stiamo lavorando come se ci fosse un corridoio umanitario che inizia dove iniziano le acque internazionali del canale di Sicilia, e giustamente, perché la vita umana vale più di tutto, dopodiché manca tutto il resto. E tutto viene scaricato su di noi. Non basta chiedere soldi, ma anche organizzazione. Sono solo esempi.
Io credo che la sfida dell'Unione Europea - ho finito, Presidente, e la ringrazio per la flessibilità, visto che parliamo di Europa - sia la stessa che abbiamo vinto per questi primi sessant'anni, ma che rischiamo di non vincere più. Come l'Europa ha saputo civilizzare la rivoluzione mercantile industriale della modernità, rendendo l'economia, per quanto possibile utile alle persone, la stessa sfida si pone nei confronti di una rivoluzione che è quella della globalizzazione.
Queste sono le grandi carte che noi dobbiamo giocare in questa direzione: dobbiamo essere capaci di sostituire le politiche alla retorica.
Questa sfida la possiamo vincere. Questa è la strada maestra per battere il terrorismo. Alla fine, il terrorismo, lo si contrasta come ha dimostrato nel suo piccolo, in forme diverse, l'esperienza italiana con gli strumenti di polizia e di intelligence. Credo di interpretare il pensiero di tutti se dico che intanto le nostre forze di polizia si stanno dimostrando non inferiori, per non dire superiori, a quelle di altri Paesi europei. Ma questo non basta.
La sfida vera del terrorismo, specie di questo terrorismo, la si vince se si dimostra che noi, con le nostre regole, con i nostri modi di vivere e con la nostra concezione dei diritti, riusciamo a far tornare i processi globali dell'economia al servizio e non contro la persona. Qui, noi, se passiamo su questo terreno, vinceremo storicamente la sfida anche con i peggiori nemici dell'umanità.



PRESIDENTE

Grazie, Presidente.
Ha chiesto di intervenire Lido Riba, Presidente UNCEM Piemonte; ne ha facoltà.



RIBA Lido, Presidente UNCEM Piemonte

Grazie, Presidente.
Come non molti, qui ho vissuto la circostanza di essere abbastanza grandicello quando si è fermato il Trattato di Roma. Allora frequentavo le scuole medie. All'epoca posso dirvi che c'era stata una grandissima vulgata di sostegno, tant'è che il nostro professore di lettere ci diceva: si sono fatti i primi passi per la costruzione degli Stati Uniti d'Europa. Nelle scuole si facevano i temi sull'integrazione europea e all'esame di terza media avevano dato il tema sull'integrazione europea. Questo per dire che era stato un grande circuito, sempre accompagnato da un clamore culturale da un clamore all'interno della società.
Negli anni Sessanta ancora a scuola - per noi era l'unico veicolo di apprendimento e di informazione, non avevamo altro - un insegnante liberale come ci teneva a dirlo, ci spiegò che la Comunità Europea si reggeva su due pilastri. Uno era il pilastro culturale, l'idea di un'integrazione dei popoli e della coesione, l'altro erano gli interessi economici.
Credo che sulla discrasia tra due questi due elementi sia proseguita tutta la storia dell'Unione Europea, e guardate che ha portato dei grandi vantaggi fin dal suo inizio.
Non so se qualcuno di voi ricorda la Comunità del Carbone e dell'Acciaio, che era una questione che riguardava le grandi sovrastrutture industriali, ma cominciò subito a organizzare il territorio agricolo. Non so se ricordate - ma credo che molti sì - quando la Comunità Europea faceva la politica del surplus alimentare facendo portare al macero milioni di quintali di frutta, facendo ammazzare le vacche da latte e distillare il vino per farne dell'alcool da rottamare. Volevo solo portare degli elementi di dissenso, ma naturalmente fu una politica particolarmente ardimentosa ancorché fondamentalmente dissuasiva e sbagliata nei confronti del percorso dell'Unione Europea.
Quando siamo arrivati a fare la politica della zootecnia e fu fatto l'inventario di tutto il latte che si produceva in Europa, l'Italia ne produceva 100 milioni di quintali, ma si disse che se ne facevano 80 per paura di essere tassati e così ci hanno assegnato 80 milioni di quintali quello che avevamo denunciato. Naturalmente siamo andati avanti per vent'anni con le quote latte sfondate, le manifestazioni dei leghisti in piazza e via dicendo.
Oggi la politica agraria funziona bene, paradossalmente, nonostante non sia favorevole alle coltivazioni meridionali, ma alcuni indirizzi sono stati seguiti in modo comune attraverso molte tortuosità, e non è una piccola cosa per noi che in Piemonte abbiamo basato la nostra ultima crescita - l'ha detto spesso anche il Presidente Chiamparino - proprio sull'agroalimentare. Naturalmente ci vogliono le filiere, altrimenti un prodotto agricolo, con due ore di lavoro in più, triplica il prezzo.
Soltanto che noi facciamo il primo prodotto e altri fanno le due ore di lavorazione, ma dall'uva al vino si triplica il prezzo.
Quello che secondo me, sulla base di questi ragionamenti, ha avuto un peso negativo è stato l'allargamento all'Est, ma proprio perché non c'era l'altro pilastro, quello culturale, quello della formazione di un'Europa che aveva vissuto, che aveva fatto un suo percorso, tant'è che le maggiori difficoltà le abbiamo sul fronte dove prevale soltanto l'interesse economico.
Però, quando siamo arrivati alla libera circolazione delle persone e alla moneta unica, non è che non si è vista un po' di Europa, anche se non tutta quella che occorrerebbe.
Vorrei concludere intanto con una valutazione che è stata fatta anche qui, ma è nell'aria: le oligarchie finanziarie finiscono per prevalere troppo sulla direzione politica e finiscono per snaturare irreversibilmente e irrevocabilmente. Non si può avere una politica comune quando poi c'è una finanza che va per conto suo e cambia completamente i caratteri e i connotati.
Faccio un esempio. Stamattina sul giornale si scriveva che la Ferrero ha toccato dieci miliardi di fatturato; la Ferrero è un'azienda piemontese non è solo italiana, e i figli parlano piemontese. E allora perché deve avere la sede a Lussemburgo? Io capisco che in Piemonte fa soltanto un quarto della sua produzione, ma in Lussemburgo non ne fa proprio di produzione. La stessa cosa vale per la FIAT. Qui avrà non più del dieci per cento dei suoi interessi, ma in Olanda ha solo la sede per gli interessi finanziari.
Se il mondo economico europeo non si pone questi problemi evidentemente finisce per correre con una bicicletta con una ruota sola. Si va avanti lo stesso, ma si va avanti con una ruota sola.
Chiudo con una considerazione che il Presidente Chiamparino ha ripreso e che aveva già svolto il dottor Avetta molto opportunamente. Noi abbiamo di fronte il progetto EUSALP, che è un elemento quasi rivoluzionario all'interno dell'Europa. Ormai in Europa vanno avanti quattro progetti territoriali: quello scandinavo che va bene, quello danubiano che va abbastanza bene, quello adriatico che va male perché non siamo riusciti a metterlo insieme, e adesso ci sarà l'EUSALP; 75 milioni di individui dei quali l'Italia rappresenta ben un terzo.
Da un punto di vista linguistico, la lingua italiana finisce per essere la più parlata, nonostante non ne facciamo un grande uso, perché sul settore occidentale la lingua tedesca è fortemente radicata. Ma è una partita che ci dobbiamo giocare e siccome c'è un ruolo anche delle Regioni su queste partite, io sommessamente, come esponente dell'area montana che è la caratterizzazione portante di questo progetto dell'EUSALP, direi che sarebbe opportuno iniziare a lavorarci. In questo modo possiamo recuperare un po' del nostro spazio, perché è chiaro che tutta la partita dell'economia europea, per quanto riguarda la parte alpina, è sempre stata spostata verso i Paesi di lingua austriaca e di lingua tedesca. Per abbiamo un'opportunità che direi di raccogliere ed utilizzare in più in fretta possibile.
Grazie.



PRESIDENTE

La parola alla dottoressa Breda, Presidente della Fondazione promozione sociale e membro esperto del Comitato dei diritti umani



BREDA Maria Grazia, Presidente Fondazione promozione sociale e membro esperto del Comitato dei diritti umani

Buongiorno e grazie dell'invito.
Mi richiamo all'intervento che è stato fatto all'inizio dal giovane esponente del Comitato dei diritti umani, che aveva posto l'attenzione sull'importante necessità di garantire il diritto all'accesso alla salute e quindi alle politiche sanitarie. Infatti, la Carta dei Diritti fondamentali dell'Unione Europea, che vorrei ricordare, prevede proprio alcuni articoli a tutela della garanzia del diritto alle cure anche alle persone che non sono autosufficienti, e che quindi non sono in grado di difendere i loro diritti.
Parla, infatti, di "divieto di pratiche eugenetiche", perch evidentemente siamo molto vicini alla pratica eugenetica che era stata perpetrata proprio prima della Seconda guerra mondiale da quelle che poi sono state le azioni atroci dei nazisti, ma che è cominciata con l'"Operazione T4" che ha previsto l'eliminazione fisica e premeditata di migliaia e migliaia di persone con disabilità, con malattia mentale persone che sono state eliminate o alle quali sono state negate le cure con il pretesto del limite delle risorse.
Quindi, questo limite delle risorse, che torna e ritorna con frequenza sempre più cogente sia a livello europeo e poi nelle politiche nazionali nostre e anche in Regione, è da collegare con i fatti sopra ricordati e da tenere ben presente, perché la memoria storica serve per evitare di ripercorrere percorsi che abbiamo visto come sono andati a finire.
La Carta dei Diritti fondamentali dell'Unione Europea lo ha messo al terzo articolo "Divieto delle pratiche eugenetiche in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle persone". La Carta prevede inoltre all'articolo 21: "È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata sul sesso, la razza, il colore della pelle, ma anche sull'handicap e sull'età".
Quindi, torniamo di nuovo sulla questione delle persone che sono malate non autosufficienti o che hanno gravi disabilità intellettive e autismo.
La Carta e l'Unione Europea ci sollecita al rispetto del loro diritto a quello che all'articolo 35 definisce: "Politica e attività dell'Unione quale garanzia del livello elevato di protezione della salute umana".
Di fronte a questi 3 articoli della Carta dei Diritti io chiedo attenzione, perché nella documentazione, nei trattati dell'Unione europea è sparito negli ultimi anni qualunque riferimento esplicito ai diritti fondamentali, quale il diritto alla salute per le persone malate croniche e non autosufficienti. Penso ai malati anziani che, tra l'altro, sono anche quelli che hanno contribuito a costruire l'Unione Europea con qualunque ruolo abbiano esercitato, e quindi avrebbero anche il diritto di morire con dignità e di non essere abbandonati dai nostri ospedali e scaricati letteralmente sulle spalle delle famiglie.
Credo che l'accoglienza delle persone diverse che vengono a chiedere il nostro aiuto possa essere possibile se noi accogliamo i nostri cittadini non autosufficienti e che sono in difficoltà e diamo garanzie alle famiglie che li accolgono a casa, in primo luogo, di non sentirsi sole ed abbandonate dallo Stato e dagli Enti locali che dovrebbero tutelarli.
Perché quando riceviamo le telefonate delle famiglie, ad esempio della moglie di un malato di Alzheimer che non può permettersi di ricoverarlo in una RSA che costa 3.500 euro, perché l'ASL non gli riconosce metà della retta e lei è una casalinga e vive solo con la pensione da 1000 euro del marito, e se il marito viene ricoverato lei non ha più di che vivere e non c'è santo che tenga, perché l'ASL dice che non ci sono risorse e la tiene in lista d'attesa, diventa difficile poi capire gli interventi che vengono fatti per i rifugiati, per i migranti e per tutte le altre persone che arrivano, che sono giovani e che sono anche in grado di lavorare.
Quindi, credo che la politica debba farsi carico ovviamente dell'emergenza contingente rispetto ai migranti perché questo è un dovere che abbiamo nei confronti dell'accoglienza di chi scappa perché ha problemi perché anche noi nel nostro passato siamo scappati quando c'era il problema della fame oltre che della guerra - ma abbiamo anche il dovere di non dimenticare chi è più debole in casa nostra, proprio per creare le condizioni di accoglienza e di coesione sociale che è la premessa fondamentale per poter garantire i diritti di tutti.
All'Unione Europea dovremmo chiedere di lavorare affinché il Parlamento Europeo riprenda le politiche finanziarie, come sono state fatte ad esempio negli anni Ottanta., in primo luogo bisogna dare però l'esempio prima in casa nostra e quindi lavorando perché il nostro Governo garantisca il diritto alle cure alle persone con disabilità e non autosufficienti.
Penso ai nuovi LEA che, invece, hanno aperto ulteriormente il problema, con l'estensione della platea delle persone non autosufficienti che non avranno più diritto alle cure sanitarie e sono chiamate a sostenere costi molto gravosi per le cure, caricando di oneri economici le famiglie, e quindi contribuendo a creare impoverimento della famiglia media italiana e non solo - Tornando all'Unione europea tantissime iniziative innovative sono state promosse nel campo della disabilità e sono nate dai fondi europei degli anni Ottanta, su cui poi sono state costruite le politiche nazionali e regionali nel nostro paese.
Oggi la sfida potrebbe essere quella di richiamare, per esempio l'impegno dell'Unione per il sostegno delle famiglie che accolgono a domicilio una persona che sia non autosufficiente, di qualunque età.
Abbiamo infatti molti minori che sopravvivono alla nascita, ma con gravi problemi sanitari per tutta la vita; abbiamo vittime di incidenti d'auto o infartuati giovani, che sopravvivono ma che restano con gravi problemi di disabilità per tutta la vita. E abbiamo tutta l'area degli anziani che fanno sopravvivere grazie ai risultati della medicina; ma con quale qualità della vita, poi, se non vengono garantite cure domiciliari o ricoveri dignitosi in strutture adeguate? Allora, su questo bisognerebbe lavorare insieme perché i Trattati comprendono anche la tutela dei diritti fondamentali - qual è quello alla salute - delle persone che non sono autosufficienti e che purtroppo non possono essere lì presenti a protestare, neanche a Bruxelles.
Grazie.



PRESIDENTE

Grazie.
La parola alla Consigliera Frediani.



FREDIANI Francesca

Grazie, Presidente.
Intervengo quasi alla fine di questo dibattito, quindi in un'Aula che sicuramente è già stanca di ascoltare i numerosi interventi.
Il collega Bertola ha già affrontato nel suo intervento a inizio mattinata i temi per noi più rilevanti e questo mi consente di portare l'attenzione su alcune questioni più puntuali e soprattutto sul tema che dovrebbe essere al centro della nostra discussione che è - sì - l'Europa ma soprattutto l'Europa rispetto al Piemonte; e quindi riporto l'attenzione sui cittadini piemontesi.
Questa Europa non ci piace. Di questa Unione non ci piace la continuamente ribadita irreversibilità, in particolare della moneta unica.
Invece di un progetto comune a cui tutti i membri contribuiscono secondo le proprie capacità, è diventata una gabbia che serve a garantire gli interessi di pochi Paesi egemoni a discapito dei più deboli: l'esatto contrario di quanto sancito dai Trattati fondanti.
Non ci piace che si sia sancito che la cosa sia più importante per l'Unione sia la sua stabilità economica e finanziaria, a cui vanno asservite tutte le altre politiche: quelle del lavoro, del welfare, della sanità.
Non ci piace un'Unione le cui politiche sono decise più dai rapporti tra i Governi che dai rappresentanti a livello europeo democraticamente eletti dai cittadini europei.
Non ci piacciono istituzioni come l'Eurogruppo che, da informali diventano determinanti nelle scelte comunitarie.
Non ci piacciono istituti come il meccanismo europeo di stabilità e il fiscal compact che, al di fuori dei Trattati dell'Unione, ne condizionano il funzionamento a prescindere dal controllo democratico.
Vorrei rispondere al Presidente Chiamparino, anche se non lo vedo più in Aula. Al di là della retorica su come si possa riportare l'economia al servizio dei cittadini, soprattutto se si pensa che l'euro sia intoccabile non si tratta di farsi la guerra con la moneta, cioè della svalutazione competitiva, ma di dare ad ogni Paese la moneta adatta alla propria economia.
Quella che vogliamo è un'Europa non necessariamente unita politicamente, ma che sia una vera comunità di popoli, di diritti, di solidarietà, di condivisione e incontro delle culture, di libera circolazione delle idee, delle persone e, certamente, anche dei capitali ma all'interno di regole comuni che tutelino i più deboli - siano essi cittadini, aziende o interi Paesi - e garantisca i diritti fondamentali sanciti da tante Costituzioni nazionali: diritto alla salute, alla casa, al lavoro, alla partecipazione democratica e alla dignità e all'uguaglianza degli essere umani.
Sento ovviamente il dovere e la necessità di iniziare ad affrontare delle questioni più legate al territorio, a partire da quello più vicino a me, la Val di Susa: un territorio che più volte ha cercato di far sentire la propria voce nelle istituzioni europee.
È noto a tutti come la quasi totalità dei Comuni della Val di Susa e della cintura torinese - e anche la Città di Torino - abbiano, e non certo da oggi, dichiarato la completa contrarietà alla nuova linea Torino-Lione.
Questa Europa, che qualcuno vorrebbe addirittura come Europa delle Regioni cosa ha fatto? Ha ignorato completamente il parere degli Enti locali interessati, accogliendo a scatola chiusa quanto deciso dal Governo italiano senza l'accordo dei Comuni. L'Europa non può commettere gli stessi errori compiuti dal nostro Paese: l'Europa non può essere sorda di fronte ai suoi cittadini. Eppure lo è, nei fatti; come quando la Commissaria ai trasporti Violeta Bulc, interrogata in merito ai finanziamenti europei sul TAV - quindi sui soldi nostri, soldi dei cittadini europei - il 13 febbraio 2017 ha risposto così: "A seguito dell'accordo politico (Accordo di Pra Catinat) con le Autorità locali, il Comitato interministeriale per la programmazione economica, CIPE, ha riconosciuto la galleria della Maddalena come variante del tunnel di Venaus".
Di fatto, l'Europa accetta senza battere ciglio quello che il nostro Governo vuol far credere, ma che risulta falso alla stragrande maggioranza di chiunque viva quotidianamente i territori. E intanto, i veri interessi e le richieste dei cittadini della Valle vengono ignorati dall'Italia e dall'Europa: interessi ed esigenze che non riguardano certo questa grande opera inutile, bensì un servizio di trasporto pubblico locale efficiente sanità, scuole sicure, lavoro, tutela del territorio. Ma questo è solo un esempio, quello più vicino al territorio in cui vivo. Di casi simili ce ne sono in tutto il Paese e in tutto il Piemonte.
Pensiamo per esempio alle nostre imprese e alle nostre eccellenze: pensiamo ai produttori di riso della nostra Regione nelle province di Vercelli, Novara, Biella. Mentre l'Europa apre all'importazione, l'Italia tace. I dati dell'importazione di riso sono impressionanti: più 489 per cento dal Vietnam, più 46 per cento dalla Tailandia (una vera e propria invasione). Stiamo parlando di un milione di tonnellate di riso che entrerà nel mercato europeo senza pagare dazi. I produttori di riso piemontesi sono in ginocchio e i consumatori sono preoccupati.
Nel 2016 si sono verificati ben 12 stati di allerta sanitaria, con sequestri di riso contaminato e pericoloso per la salute. Ma dove sono Gentiloni e il suo Ministro Martina? Sicuramente non sono a Bruxelles, dove potrebbero chiedere misure di salvaguardia e difendere il made in Italy e il made in Piemonte. Le nocciole delle Langhe hanno rischiato di non poter utilizzare la denominazione "Langhe", ovvero quella della terra in cui vengono prodotte. E l'Europa in tutto ciò che cosa ha fatto? Questi sono i temi tangibili, i problemi reali dei nostri cittadini e delle nostre imprese. L'Europa, il Piemonte e l'Italia devono dare risposte concrete, partendo dall'ascolto dei cittadini e delle imprese. Il pericolo non è il non meglio precisato "populismo", che è un termine ormai ampiamente abusato, anche oggi in Aula, con il quale viene bollato tutto e niente. Il vero pericolo dell'Europa è che non sa più ascoltare i propri cittadini, perdendo così lo spirito con cui tutto è iniziato sessant'anni fa.
Si parla spesso di pace, ma se veramente riteniamo che la pace sia un obiettivo da perseguire insieme, i Paesi europei che non possiedono armi nucleari proprie partecipino ai negoziati del Trattato per la messa al bando delle armi atomiche. Papa Francesco l'ha richiesto a gran voce ma, a differenza di altre volte, il Governo non risponde al suo appello.
Ascoltare i cittadini e, insieme a loro, trovare soluzioni: questa crediamo sia la strada giusta da percorrere al di fuori della vuota retorica e con la massima concretezza.



PRESIDENTE

Grazie, collega Frediani.
La parola alla Consigliera Conticelli.



CONTICELLI Nadia

Intervengo rapidamente, perché è tardi ed è stata una lunga mattinata.
Intanto, metodologicamente, non credo che per noi questa mattina l'intenzione dovesse essere solamente quella di una commemorazione, perch se no avremmo potuto portare collettivamente, tutti, una corona di fiori per l'Europa.
Siamo un'istituzione - e credo anche l'istituzione più vicina al livello europeo - e siamo una delle Regioni di confine, che quindi gioca anche un ruolo strategico importante. E quindi ritengo sia anche necessario, poi, mettere a frutto questa mattinata con qualche impegno che ci prendiamo.
Avrei parlato del Libro bianco ma, data l'ora, tratterò solo rapidamente due argomenti rispetto a tutto quello che è stato detto nella mattinata: uno è il tema dei trasporti, l'altro quello delle infrastrutture del Piemonte.
In particolare, dal Trattato che è stato siglato dai 27 paesi, la scorsa settimana, a Roma, emerge il ruolo importante delle Regioni addirittura più che gli Stati. Le Regioni sono indicate come decision making a livello europeo nell'elaborazione dell'implementazione della decisione politica, e questa è una delle conditio sine qua non.
Addirittura, nelle proposte che venivano menzionate stamattina negli scenari futuribili (le cinque proposte), c'è anche la proposta di una Camera legislativa delle Regioni. Noi, purtroppo, non siamo riusciti a realizzarla a livello italiano: magari ci si può provare a livello europeo.
Tra i capisaldi degli obiettivi, tra i capisaldi del Libro bianco, che sono stati ricordati pressoché da tutti gli interventi, c'è la coesione economica, sociale e territoriale, in un momento in cui siamo in una crisi economica (la crisi dell'euro e naturalmente non può essere la cancellazione della moneta il modo per cancellare la crisi). C'è il tema dell'immigrazione, di cui abbiamo a lungo parlato.
La Commissione europea individua nello sviluppo infrastrutturale la chiave di volta per il rilancio dell'economia e dell'integrazione anche sociale, oltre che politica, europea.
Quindi, le infrastrutture e i trasporti rappresentano un potenziale strumento di unificazione, non solo dello spazio europeo continentale, cioè dell'Europa in sé e per sé, ma di un'altra area che - al tempo stesso rappresenta molto bene la dimensione locale e globale, cioè il Mediterraneo. I trasporti sono stati uno dei primi settori di cui la Comunità Economica Europea ha dibattuto; adesso non c'è il tempo, per ricordo che nel 1985 ci fu una sentenza della Corte Europea proprio per il mancato sviluppo di una politica comune dei trasporti.
Questo è stato ripreso nel Trattato di Maastricht, nel Libro bianco del 1992, nella Convenzione di oggi.
L'Unione Europea ha anche stanziato molti fondi su questo, che starà agli Stati attivare. Ci sono oltre sette miliardi destinati alla soppressione delle strozzature, allo sviluppo dell'interoperabilità ferroviaria, 300 milioni per i sistemi di trasporto sostenibili ed efficaci, e altri due miliardi per l'intera operabilità e intermodalità.
Come si costruisce, però, una politica europea dei trasporti efficace? L'Europa può dare un supporto finanziario - come dicevo - e può sostenere la ricerca e l'innovazione, però una volta che le tecnologie sono disponibili servono anche degli organismi e degli strumenti regolatori anche a livello politico.
La nuova programmazione della Commissione europea trae origine dalla consapevolezza che ci sono delle difficoltà forti nella frammentazione esistente tra le varie tipologie di infrastrutture e di trasporto a livello europeo. Abbiamo la struttura del progetto, delle reti transeuropee di trasporto, reti TEN-T e anche le nostre infrastrutture (quelle di cui parlava anche la collega Frediani) vanno viste in questa prospettiva, nei nove corridoi principali a livello europeo.
Tra l'altro, ricordo che la Commissione europea stessa si è data come obiettivo - entro il 2050 - dei 30 minuti, cioè che la stragrande maggioranza delle imprese e dei cittadini europei non distino più di 30 minuti di viaggio da una delle reti principali. Questo vuol dire collegare realtà urbane, realtà portuali, interportuali, aeroportuali; vuol dire collegare merci, persone, idee, prospettive. Vuol dire combinare le varie modalità, dalla gomma, alla ferrovia e alla navigazione marittima. Vuol dire avere un trasporto economico affidabile e sostenibile. Vuol dire, in pratica, quella coesione economica e sociale di cui abbiamo tanto parlato questa mattina.
La Regione Alpina è un importante crocevia europeo (lo ricordava prima Riba, nel suo intervento): è una zona di transito oppure può diventare un ostacolo alla rete transeuropea di trasporto. Oggi, diversi corridoi della rete stradale sono prossimi alla saturazione e ci sono vari problemi anche dal punto di vista ambientale.
Bisogna aumentare i volumi di traffico, manca una regolamentazione armonizzata in tema di trasporto merci e, soprattutto, riequilibrare - come dicevo - la proporzione gomma-ferro.
Credo che il Piemonte, in questo ambito, possa giocare un ruolo importante a livello europeo e a livello nazionale. Peraltro, la nostra area metropolitana (l'area metropolitana di Torino) è l'unica che ha un confine con uno Stato europeo.
Quindi, ritengo che in questa direzione debba andare il nostro impegno e, poiché alla fin fine l'Europa dipende un po' anche da tutti noi e da noi, in particolare, perché siamo un'Istituzione regionale, spero che alla mattinata di oggi poi seguano degli approfondimenti ed anche una direzione in cui - grazie anche al Presidente Chiamparino, che ha anche un ruolo nazionale - possiamo portare l'Italia.



PRESIDENTE

La parola al dottor Simone Fissolo, Presidente Movimento Giovani Federalisti Europei e membro della Consulta regionale europea.



FISSOLO Simone, Presidente Movimento Giovani Federalisti Europei e membro della Consulta regionale europea

Grazie, Presidente, e grazie, Vicepresidente Ruffino.
Consiglieri, sono molto felice di essere qua. Non ne sono state fatte molte di assemblee aperte, quindi sono molto lieto di essere qui oggi.
Due motivi principali: il primo, perché avendo la Presidenza nazionale della Gioventù Federalista Europea, ho avuto il piacere (è già stato ripetuto prima) di partecipare, anzi di organizzare la marcia per l'Europa che è avvenuta sabato scorso, a Roma.
C'erano molte migliaia di persone, secondo la Questura, ma quello che mi interessa è portare la testimonianza di un clima di festa. C'era un clima di festa, c'era una coalizione di forze politiche progressiste, c'era una rete della società civile: l'ho vissuto come un raduno di cittadini europei. Cittadini europei che si sono ritrovati in piazza per difendere i risultati raggiunti dall'Unione Europea, in primis, ma anche per proporre un'Europa più democratica, un'Europa del futuro, vorrei dire.
Il secondo motivo per cui sono molto felice di trovarmi qua oggi, è perché ho avuto l'onore di far parte di un Comitato, composto da sette membri, istituito dalla Presidenza della Camera dei Deputati. Questo Comitato è stato costituito per valutare i risultati di una consultazione pubblica online (ho sentito parecchie volte sottolineare l'importanza della consultazione dei cittadini, della partecipazione dei cittadini). Ecco questa consultazione pubblica online che è stata aperta da febbraio ad agosto del 2016 ha visto la partecipazione di più di 10.000 cittadini.
Come Comitato, abbiamo elaborato le risposte a questa consultazione pubblica sullo stato e le prospettive dell'Unione Europea. Il documento che è il rapporto del Comitato sullo Stato e le prospettive dell'Unione Europea, è stato pubblicato a febbraio, ma la cosa che mi interessa oggi dire è che il rapporto è servito a costituire la posizione politica italiana, delle istituzioni italiane, per celebrare al meglio l'anniversario dei sessant'anni dei Trattati di Roma.
Il rapporto finale, infatti, è stato distribuito il 17 marzo in occasione dell'Assemblea Interparlamentare avvenuta a Montecitorio, alla presenza del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che ne ha fatto menzione nel suo discorso.
Farò sicuramente avere, dopo questa Assemblea aperta, il testo del rapporto ai Consiglieri, al Consiglio della Regione Piemonte.
Consapevole, quindi, di quanto è stato fatto sia dai cittadini europei cioè dalle organizzazioni della società civile che hanno marciato il 25 marzo a Roma - sia da parte delle istituzioni italiane (quindi questo rapporto ne è una dimostrazione), volevo anche portare i miei ringraziamenti alla Regione Piemonte e alla Consulta Regionale Europea.
Questi ringraziamenti li porto per due motivi: il primo, perché era presente la Regione Piemonte, in piazza, il 25 marzo, con il gonfalone della Regione stessa, e il secondo perché credo che il contributo alla formazione di nuovi cittadini europei (in particolare cito il concorso "Diventiamo cittadini europei" e il Seminario di Bardonecchia) sia proprio l'elemento chiave della partecipazione e della creazione di nuovi cittadini europei, che sono scesi in piazza e che partecipano alla posizione politica delle istituzioni italiane.
Voglio quindi ricordare velocemente che l'Unione Europea ha consegnato io credo, nelle mani dei cittadini più giovani settant'anni - sessanta, se prendiamo in considerazione l'anniversario - di pace e di progresso.
Voglio però far presente, come hanno fatto gli interlocutori che mi hanno preceduto, che le istituzioni europee oggi non sono più in grado di affrontare le sfide che hanno di fronte.
Cito, allora, le quattro sfide della Dichiarazione di Roma: la sicurezza, lo sviluppo economico, la crescita economica e la disoccupazione, la politica estera.
Io credo che le istituzioni europee oggi non siano in grado di affrontare con forza queste sfide che abbiamo di fronte: il terrorismo internazionale, il degrado ambientale, la bassa crescita economica e l'alta disoccupazione giovanile, nonché l'anarchia internazionale che abbiamo ai nostri confini. Ribadisco con forza che solo i cittadini - mi faccio dunque portatore di alcune istanze che ho sentito qui, ma che in realtà condividiamo trasversalmente - possano spingere per un rafforzamento degli strumenti di partecipazione democratica in Europa. Io credo che oggi sia proprio la maggioranza dei cittadini italiani a volere l'Europa, un'Europa del futuro, un'Europa democratica. E penso che la manifestazione del 25 marzo ne sia stata la dimostrazione.
Concludo dicendo che sicuramente dobbiamo guardare indietro con orgoglio quello che è stato fatto e quello che siamo stati in grado di costruire. Prima si accennava al fatto che i Padri costituenti dell'Europa fossero degli statisti, persone che forse oggi non ci sono più. Però voglio anche dire che dobbiamo guardare avanti, per riuscire a proseguire e a perseguire quei valori che ci accomunano ancora oggi e per realizzare quegli obiettivi che ancora oggi necessitano di più coraggio da parte dei Paesi membri.
Vi ringrazio per l'attenzione e per l'organizzazione di questa Assemblea molto importante per i cittadini piemontesi.



PRESIDENTE

Ha chiesto la parola il Consigliere Rossi; ne ha facoltà.



ROSSI Domenico

Grazie, Presidente.
Basteranno pochi minuti per intervenire in questo importante momento.
Sono contento che oggi il Consiglio regionale discuta di Europa, anche perché su questo tema siamo in disaccordo, sia sull'analisi che sulle prospettive.
Io sono tra coloro che ritengono sia una necessità il fatto che la politica debba superare il livello nazionale. La dimensione europea è un obiettivo minimo all'interno di questa cornice.
I problemi che ci sono oggi sono dovuti alla troppo poca politica in quella che è l'Unione Europea e, forse, a un eccesso di dominanza di quelle che sono le dinamiche economiche. Noi dobbiamo far sì che la politica aumenti il suo ruolo.
Le ragioni di questa necessità sono diverse: quelle di natura storica sono già state elencate da chi mi ha preceduto, in particolare quando abbiamo parlato di un tempo di pace da contrapporre a lunghi secoli di guerra; una pace non scontata, come qualcuno ha ricordato, richiamando anche le guerre dei Balcani. Ma ciò che è avvenuto lì è accaduto perch nazionalismi e particolarismi hanno preso il sopravvento sulle dinamiche inverse di cui parliamo oggi; dinamiche che invece ci devono portare ad uno sguardo internazionalista.
Ci sono, poi, ragioni di natura economica e demografica. Al riguardo fornisco solo qualche numero: dal 1960 al 1999 la popolazione mondiale è passata da tre miliardi a circa sei miliardi; nel 2050 saremo circa nove miliardi (come abitanti del pianeta Terra).
Osservate il peso dell'Europa in questa dinamica e prendete, per esempio, il dato del 2000: su circa sei miliardi di persone, l'Asia è popolata da 3,6 miliardi, l'Africa da 800 milioni circa, l'Europa da 727 milioni, l'America latina da 521 milioni. In questo quadro, l'Europa pesa l'11,9 per cento. Nel 2010 pesava il 10,6 per cento. Con le stime attuali nel 2030, con l'Asia con quasi cinque miliardi di persone e l'Europa ferma su 720 milioni, l'Europa peserà, in termini demografici, 8,7 per cento, per arrivare nel 2050 al 7,6 per cento della popolazione mondiale.
Da un punto di vista demografico il dato è molto semplice: siamo minoritari e rischiamo di essere marginali come Europa. Immaginatevi quanto rischiamo di essere minoritari come singoli Stati: semplicemente non esistiamo.
Questo è il dato demografico. C'è, poi, un dato economico. Velocemente prendiamo come esempio il dati sul PIL nominale del 2013-2014: Stati Uniti 17 milioni di milioni di dollari; Cina dieci milioni di milioni di dollari Germania, che è lo Stato europeo con il PIL più alto, 3,8; l'Italia 2,2.
Soltanto se mettiamo insieme la "zona euro" arriviamo a 16 milioni di euro.
Voi capite che, anche in questo caso, da soli il rischio è quello di essere marginali.
L'aspetto più interessante, però, è quello di mettere assieme i due dati: noi, che contiamo demograficamente poco in termini percentuali abbiamo una ricchezza che invece è pari a quella di zone che ci superano di gran lunga per quanto riguarda il numero di abitanti. Questo cosa significa? Che nella distribuzione della ricchezza in questo mondo diseguale c'è un problema: dunque, se la politica non si occupa di come regolare i conflitti, tali conflitti saranno semplicemente regolati attraverso la guerra.
C'è poi il tema della globalizzazione dell'economia, che molti hanno citato prima di me. Io non mi addentro, perché è tardi, dico solo che abbiamo aziende che pesano più degli Stati. La Danimarca ha nominato un ministro per gestire i rapporti con Apple! L'altro giorno ero in Prefettura ad un tavolo di una crisi aziendale perché l'azienda sposterà la produzione in Slovenia. Al di là del costo del lavoro e delle politiche fiscali, un altro tema riguarda i costi della politica energetica. "In l'Italia - ci diceva l'azienda - abbiamo dei costi energetici di gran lunga superiori non alla Slovenia, ma alla Germania".
Se non riusciamo a trovare un luogo dove elaborare insieme le politiche fiscali, le politiche sul costo del lavoro, le politiche sui costi energetici, come politici non potremo fare altro che assistere - impotenti a dinamiche che sono tutte decise da altre parti. Ecco perché sono d'accordo con Slavoj Zizek, un filosofo contemporaneo, quando dice che gli Stati nazione sono falliti, semplicemente perché non sono più in grado di svolgere il compito per cui sono nati; semplicemente perché il mondo in cui sono nati e per cui sono nati non esiste più. Sta a noi trovare una nuova forma di organizzazione politica e di Governo adatta a risolvere i problemi del nostro tempo.
L'ultima ragione - e con essa concludo, Presidente - che ci porta a vedere il superamento dello Stato nazione come una necessità è di natura epistemologica, afferisce al pensiero. Edgar Morin ci dice che viviamo nell'era planetaria, ma che cos'è? È l'era in cui c'è consapevolezza che la Terra è una, è una casa comune, è una patria unica per tutti gli esseri umani. Le ultime scoperte scientifiche ci aiutano in questo percorso perché man mano che scopriamo altri pianeti, altri mondi, altri universi il vicino e il lontano cambiano, il senso del "noi" e del "voi" cambia perché sempre di più si allarga e sempre di più la comunità tende a vedere sé stessa come più ampia, perché è più piccola all'interno di un sistema più grande.
Questo è l'orizzonte in cui dobbiamo muoverci: superare la dimensione nazionale e affrontare la sfida di quella che Jürgen Habermas definiva "la costellazione post-nazionale", con un rischio: se non riusciremo a farlo con la politica, significa che dovremo rassegnarci al fatto che impariamo solamente dalle catastrofi e dalle guerre. Ma credo che nessuno di noi voglia rassegnarsi a questo.
L'ultimo passaggio, Presidente, riprende Altiero Spinelli, come ha già fatto il collega Grimaldi: nel 1941, nel Manifesto di Ventotene a un certo punto traccia una linea di demarcazione netta tra progressisti e conservatori, e lo dice in maniera chiara.
Ne riporto la citazione: "La linea di divisione fra i partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò oramai, non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa coloro che concepiscono, come campo centrale della lotta quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie lasciando che la lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido Stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l'unità internazionale".
Lette oggi, queste parole del 1941 assumono per me un senso profetico Presidente: la strada è una sola. Utilizzerei in questo caso una frase che non ha avuto fortuna, che è stata applicata per il mercato: "There is no alternative". In questo caso non ce l'abbiamo l'alternativa, quella di un'unità internazionale, perché l'alternativa è la guerra.
Grazie.



PRESIDENTE

Grazie a lei, Consigliere Rossi.
Grazie a tutti gli ospiti per il loro contributo.
La seduta è tolta.



(La seduta ha termine alle ore 13.55)



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