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Dettaglio seduta n.74 del 24/07/81 - Legislatura n. III - Sedute dal 9 giugno 1980 al 11 maggio 1985

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Argomento:


PRESIDENZA DEL PRESIDENTE BENZI


Argomento: Comprensori

Esame delle deliberazioni per l'adozione del primo schema di piano socio economico territoriale dei Comprensori di Ivrea, Pinerolo, Vercelli, del Biellese, Borgosesia, Novara, del Verbano-Cusio-Ossola, Cuneo, Saluzzo Savigliano-Fossano, Alba-Bra, Mondovì, Asti, Alessandria e Casale Monferrato


PRESIDENTE

La seduta è aperta.
Prosegue l'esame dell'ordine del giorno delle sedute precedenti con il punto sesto: Esame delle deliberazioni per l'adozione del primo schema di piano socio-economico territoriale dei Comprensori di Ivrea, Pinerolo Vercelli, del Biellese, Borgosesia, Novara, del Verbano-Cusio-Ossola Cuneo, Saluzzo-Savigliano-Fossano, Alba-Bra, Mondovì, Asti, Alessandria e Casale Monferrato.
La parola al relatore, Consigliere Valeri.



VALERI Gilberto, relatore

Signor Presidente colleghi Consiglieri, sono sottoposte oggi al nostro esame le deliberazioni relative ai quattordici primi schemi di piano socio economico-territoriale di Comprensorio sinora elaborati ed approvati.
Come è noto, per circostanze indipendenti dalla volontà di quest'assemblea, manca il primo schema di piano del Comprensorio torinese.
Questa circostanza, sicuramente non secondaria data la rilevanza regionale dei problemi cui essa è connessa, per la quale ci auguriamo siano al più presto attivate le volontà politiche ed organizzative atte a rimuoverla non può tuttavia in alcun modo sminuire l'atto che il Consiglio regionale si accinge a compiere, a sanzione dell'avvenuta conclusione della prima decisiva fase della programmazione regionale decentrata.
Una conclusione affatto scontata al momento in cui essa fu pensata dal legislatore regionale e avviata alla precedente Giunta, sulla quale hanno pesato negativamente le vicende politiche e governative che hanno sinora impedito la costruzione di un quadro nazionale di programmazione, di legislazione finanziaria e di settore atta ad assicurare alle Regioni sedi di partecipazione e quadri di riferimento certi per le loto attività altrettanto massicciamente ha influito ed influisce la mancata riforma delle autonomie.
Non fu certamente un caso che si sia parlato allora di scommessa e di atto di coraggio. Scommessa e coraggio fondati sulla volontà di non assistere passivamente al perpetuarsi delle croniche inefficienze del sistema istituzionale, e di non subire le spinte dirette a relegare la Regione in una prospettiva di basso profilo politico e culturale, ma di reagire con tutti i mezzi disponibili, ponendosi traguardi ambiziosi, ma non velleitari, atti ad esaltare il ruolo di governo e di programmazione della giovane istituzione regionale. Credo che i risultati, pur con taluni limiti ancora individuabili, abbiano corrisposto considerevolmente alle attese ed alle speranze. In particolare mi paiono rilevanti gli elementi di novità che l'iniziativa di programmazione promossa dalla Regione è riuscita ad introdurre nel modo d'essere dell'insieme della pubblica amministrazione. Verso l'alto, inducendo in importanti settori dell'amministrazione decentrata dello Stato disponibilità e stimoli a verifiche di scelte e a momenti collaborativi con le assemblee elettive locali verso le forze sociali ed economiche, promuovendo significativi momenti di validazione democratica delle scelte, di partecipazione non soltanto alla fase di formazione degli indirizzi e degli obiettivi, ma anche alla costruzione ed attivazione degli strumenti attuativi; verso le autonomie locali costruendo primi segmenti di una nuova prassi di coordinamento e di integrazione delle reciproche azioni, attraverso i quali è stato possibile far compiere importanti anche se non conclusivi passi in avanti al raggiungimento di una sintesi soddisfacente delle esigenze di autonomia e di programmazione.
A quest'ultimo proposito un contributo notevole è venuto dalla coincidenza tra l'avvio della programmazione ed il processo di formazione dei Comprensori, avvenuto attraverso il coinvolgimento diretto dei 1209 Comuni del Piemonte. La natura di organismi decentrati della Regione e nllo stesso tempo di assemblea eletta in secondo grado dai Comuni, ha consentito di valorizzare ed esaltare dei Comprensori il ruolo di raccordo tra i due livelli istituzionali, riducendo i margini di contrapposizione e ponendo le premesse per la costruzione - nelle condizioni nuove determinate dalla individuazione della Provincia profondamente riformata la probabile sede del futuro Ente intermedio - di un sistema delle autonomie equiordinato e in pari tempo collegati da comuni azioni programmatiche. Non v'è dubbio che in tal senso debba particolarmente caratterizzarsi la nuova fase della politica di programmazione che si aprirà con l'approvazione delle delibere in esame e la loro trasmissione ai Comprensori. Ma se ciò è vero, a maggior ragione occorre cogliere appieno - anche se non in modo acritico - il valore di quanto sinora è stato compiuto per far assumere alla programmazione il ruolo di asse portante di un disegno organico più complessivo, di riassetto e rinnovamento delle istituzioni, e di sintesi dei solo apparentemente contrastanti bisogni di crescita dell'efficienza pubblica da un lato e di esercizio pieno della democrazia dall'altro.
I risultati cui sono pervenuti i 14 Comprensori che hanno ultimato i primi schemi di piano, costituiscono la migliore riprova di ciò sia per quanto riguarda i tempi relativamente brevi entro i quali i materiali di piano sono stati prodotti, sia per quanto riguarda l'impegno di analisi e di elaborazione assolto in condizioni quanto mai difficili di assenza pressoché totale di fonti documentarie locali preesistenti, sia infine per ciò che riguarda la sollecitazione costante alle forze politiche ed ai diversi soggetti istituzionali, sociali ed economici a partecipare attivamente al processo in atto, a porsi al di là dei localismi e particolarismi tradizionali, ad alzare tutti assieme il livello del confronto.
L'esito, come è possibile rilevare dalla lettura dei 14 schemi e dalle relative delibere proposte al voto del Consiglio, non è stato l'appiattimento delle peculiarità socio-economiche e politiche locali, ma per la prima volta, lo sforzo di definire un quadro unitario dei problemi e delle scelte interessanti le 14 aree comprensoriali.
Credo che a nessuno di noi possa sfuggire l'importanza del fatto che mentre si è andati a dare voce a chi in passato non l'ha avuta, e a definire con un concorso pluralistico di forze le opposizioni sulle quali orientare l'iniziativa pubblica e renderle quadro di riferimento credibile per la mobilitazione anche dell'iniziativa privata, ciò abbia prodotto non le antiche separatezze e contrapposizioni, ma primi consistenti momenti di riaggregazione programmatica. Allo stesso modo penso non possa essere trascurato o sottovalutato che tale processo non si sia esaurito all'interno delle aree interessate, ma abbia assunto quali parametri di riferimento - rispetto ai quali definire le necessarie coerenze e compatibilità - i Comprensori contermini, il Piemonte nel suo insieme è la più ampia realtà nazionale.
Con ciò non intendo dire che sono assenti limiti e disomogeneità, quali si ricavano anche dalle osservazioni che per ognuno dei 14 schemi sono contenute nelle delibere proposte al voto del Consiglio, ma richiamare per l'attenzione su quelli che mi paiono alcuni dei risultati più alti e importanti del lavoro svolto in tale circostanza dai Comprensori e dalla Regione, quali il crescere di una diversa cultura di governo dei processi economico-sociali ed istituzionali e il progredire di quella unificazione culturale della nostra Regione, che è condizione indispensabile per poter affrontare al livello adeguato la prospettiva di un rinnovato sviluppo.
Signor Presidente, colleghi Consiglieri, dalle delibere in esame si evince che con l'approvazione da parte del Consiglio regionale dei primi schemi di piano comprensoriale, si chiude la prima fase di studio della situazione socio-economica e territoriale esistente, di indagine sulle prospettive di evoluzione futura e di individuazione degli interventi ritenuti più adeguati, che siano traducibili in progetti di concreta fattibilità, e realizzabili nel breve e medio termine.
La fase successiva consisterà nella predisposizione dei documenti definitivi di piano comprensoriale e nell'individuazione di quei progetti ed interventi, che rivestendo carattere di priorità si intendono realizzabili in tempi brevi, e che costituiscono il contenuto dei programmi pluriennali di intervento, previsti dall'art. 12 della legge regionale n.
43/1977 sulle procedure della programmazione.
Naturalmente questa fase sarà caratterizzata dalla necessaria verifica della relazione e degli indirizzi socio-economici, in rapporto alle eventuali modifiche intervenute nella situazione, nonché dagli opportuni approfondimenti progettuali d'ordine sia socio-economico, sia territoriale e non potrà non svolgersi in stretto rapporto di collaborazione con la Regione, onde assicurare un costante riscontro di compatibilità e coerenza con le scelte del Piano di sviluppo regionale.
A sua volta la Regione, che sta elaborando il secondo Piano regionale di sviluppo, non potrà non tener conto delle indicazioni dei piani socio economico-territoriali dei Comprensori, per cui è necessario che i due processi, che sono tra di loro interdipendenti, trovino tangibili momenti di coordinamento.
La sovrapposizione e l'intreccio che viene a stabilirsi tra la seconda fase dei piani comprensoriali e la formazione del Piano di sviluppo regionale 1982-85, pur configurandosi come una anomalia rispetto a quanto previsto dalla legge sulle procedure della programmazione può sensibilmente arricchire sia l'impegno regionale che comprensoriale. In particolare pare evidente che, affinché il piano comprensoriale possa svolgere la funzione che la citata legge gli attribuisce, di quadro di riferimento sul territorio dei programmi di intervento e di spesa della Regione e degli Enti locali, delle pubbliche amministrazioni, degli enti pubblici nonch delle aziende a partecipazione pubblica e dei programmi delle aziende private per il periodo di validità del piano, occorre che il nuovo piano regionale di sviluppo faccia riferimento alle indicazioni dei piani comprensoriali, facendo proprie quelle compatibili con le sue più generali finalità, e con le prevedibili disponibilità finanziarie. E' quindi un processo che nella situazione attuale si svolge a ritroso nel quale però la Regione non limita la propria partecipazione al recepimento della volontà dei Comprensori per articolarla in scelte prioritarie, ma partecipa alla formazione di questa volontà, sia con il primo Piano regionale di sviluppo al quale i piani comprensoriali devono in qualche misura fare riferimento come primo elemento di confronto delle compatibilità, sia con l'indicazione della nuova situazione socio-economica che si è venuta a creare sul territorio regionale, e quindi delle finalità che sono alla base del secondo Piano regionale di sviluppo.
Quale anticipo del secondo Piano di sviluppo, la Regione ha adottato un documento contenente una serie di progetti destinati a combattere le cause strutturali dell'inflazione ed a sostenere l'occupazione, dal quale si evince anche la nuova filosofia che presiede alla formazione del secondo Piano di sviluppo regionale, e che si può riassumere nell'esigenza di ricondurre gli obiettivi del piano alla realizzazione di progetti ben precisi e significativi e come tali qualificanti. Una scelta che deriva dalla mutata situazione economica verificatasi, per la quale il piano non può più soltanto costituire il quadro di riferimento per indirizzare lo sviluppo economico sociale della Regione, ma deve rappresentare uno strumento per gestire la crisi e la fuoriuscita da essa. In proposito, non vi è dubbio, credo, che i piani socio-economico-territoriali dei Comprensori debbano misurarsi con le esigenze di compatibilità rispetto alle scelte operate nel suddetto documento, nonché con i principi che lo informano, che costituiscono la filosofia del secondo piano regionale di sviluppo.
Sul piano concreto, misurarsi con queste compatibilità, significherà evidentemente da parte dei Comprensori: verificare rispetto ad esse le indicazioni di risorse necessarie per la realizzazione dei progetti di attuazione a breve termine, inseriti nel piani pluriennali di intervento determinare, anche attraverso primi momenti di consolidamento dei bilanci dei Comuni e delle Province, le quantità di risorse locali impiegabili nel finanziamento dei progetti, e di conseguenza indicare la quantità di risorse regionali necessarie per la realizzazione del piano pluriennale di intervento. In base a ciò ed alle prescrizioni del secondo piano regionale di sviluppo si potrà, da parte della Regione, procedere adeguatamente alla formazione del relativo programma pluriennale di attività e di spesa, che dovrà specificare gli interventi di competenza regionale risultanti dal coordinamento dei programmi settoriali, redatti in applicazione di leggi regionali o statali, e dei programmi elaborati dagli Enti locali. A sua volta, ovviamente, il programma pluriennale di attività e di spesa dovrà trovare uno strumento di attuazione nel bilancio pluriennale della Regione le cui previsioni di entrata relative agli anni di validità del Piano di sviluppo, evidentemente condizioneranno l'inserimento nel programma pluriennale di attività e di spesa dei progetti da finanziare, nonché nei bilanci consolidati di Comprensorio previsti dall'art. 75, comma terzo dello Statuto regionale. Questi ultimi rivestono un' importanza rilevante nel quadro della programmazione regionale, in quanto costituiscono uno strumento che, a regime, può avere almeno tre ordini di utilizzazioni di governo, oltre naturalmente al valore conoscitivo. In primo luogo consentire la verifica delle compatibilità tra le scelte finanziarie pubbliche di livello comprensoriale con gli obiettivi di livello regionale oltre a fornire naturalmente elementi essenziali per la formazione di questi ultimi. In secondo luogo, il bilancio consolidato di Comprensorio può contribuire al raccordo operativo e finanziario tra i piani regionali di settore e i corrispondenti progetti comprensoriali e locali, fino a rendere possibile la costruzione di piani settoriali di spesa improntati ad un coordinamento "verticale" dei rapporti tra i bilanci degli enti che agiscono nello stesso Comprensorio. In terzo luogo, questo strumento contabile dovrebbe fornire elementi per una distribuzione dei trasferimenti finanziari regionali agli Enti locali, riferita alla dimensione comprensoriale, secondo parametri meno rozzi ed empirici e finalità di maggiore qualificazione della spesa pubblica.
Nel quadro della programmazione regionale non si può però dimenticare il ruolo che devono ricoprire i programmi pluriennali di attuazione dei Comuni, di cui hanno necessariamente dovuto tener conto i Comitati comprensoriali nella formazione dei primi schemi di piano socio-economico territoriale, e che devono costituire punto di riferimento fondamentale per la formazione del secondo piano regionale di sviluppo, anche perch l'approvazione dei P.P.A. da parte della Regione rappresenta un impegno alla loro realizzazione.
Il ruolo che i P.P.A. vengono ad assumere nel quadro più generale della programmazione a livello comprensoriale e regionale deriva dal loro carattere di concretezza, che si estrinseca in progetti attuativi di previsioni già formulate in sede di strumento urbanistico, con l'esclusione di qualsiasi indicazione di massima, o di mera affermazione di principi. Si tratta quindi di strumenti di programmazione operativa, tanto più efficaci ove i Comuni, obbligati alla loro adozione, riescano ad evitare di ridurli a semplici elencazioni di problemi, quantitativamente sproporzionati alle risorse finanziarie disponibili, e quindi in gran parte irrealizzabili.
Essi devono esprimere invece le esigenze di spesa di urbanizzazione ed infrastrutture del Comune cui si riferiscono, indicando le possibilità di copertura finanziaria, risultanti da: 1) disponibilità derivanti dagli oneri di urbanizzazione 2) disponibilità derivanti dalla capacità autonoma di contrarre mutui da parte dei singoli Enti locali 3) disponibilità derivanti dai contributi regionali.
La funzione dei P.P.A. deve essere però anche amministrativa nel senso che essi devono costituire strumenti di integrazione tra spesa regionale e comunale adeguando le procedure attraverso le quali viene attualmente regolato il flusso finanziario dalla Regione agli Enti locali. Questo problema si pone particolarmente per il settore delle Opere pubbliche ove la dinamica della domanda di contributo finanziario presentata dai Comuni alla Regione, segue procedure diverse che fanno riferimento alle singole leggi di settore.
Nonostante gli sforzi dei Comprensori finora queste richieste di contributo, in assenza di un momento di coordinamento interassessorile hanno seguito una dinamica solo parzialmente coincidente con le indicazioni programmatiche contenute nei P.P.A., smembrandosi in diverse procedure col risultato di far perdere all'intervento comunale anche quel minimo carattere programmatico che invece occorrerebbe potenziare. E' necessario quindi individuare un momento di riferimento che possa contemporaneamente svolgere la funzione caratteristica di strumento di programmazione e quelle di procedura di richiesta di finanziamento regionale.
In quest'ottica la Regione ha un rigoroso controllo sui piani regolatori generali dei Comuni che manca invece per quanto concerne gli aspetti finanziari che costituiscono la componente primaria dei P.P.A.
Quindi, mentre è ipotizzabile una procedura che consenta ai Comuni dotati di piano regolatore generale, approvato ai sensi della legge regionale n.
56/77, di procedere direttamente all'adozione del P.P.A., non è proponibile che la Regione approvi in via prioritaria la parte finanziaria dei P.P.A.
specie per le opere la cui attuazione richieda il contributo regionale, in assenza dello strumento urbanistico.
Si tratta perciò di stabilire delle metodologie di spesa che consentano il collegamento del momento programmatico regionale e comunale, con quello burocratico-amministrativo, estendendole a tutti i Comuni, anche a quelli non tenuti ai P.P.A.
Analoga attenzione richiede infine il programma pluriennale di attività e di spesa, in quanto esso definisce in forma organica gli interventi che la Regione intende compiere nel corso degli anni di validità del Piano regionale di sviluppo, articolandoli in programmi di settore e progetti.
Per la sua strutturazione, analoga a quella del bilancio pluriennale esso rappresenta quel raccordo tra programmazione e bilancio che contribuisce ad accrescere il carattere di concretezza delle scelte operate; si ha così la corrispondenza tra quadro reale e quadro finanziario, secondo lo spirito innovativo introdotto dalla legge sul nuovo ordinamento di contabilità regionale.
Ai sensi della legge sulle procedure, il programma pluriennale di attività di spesa rientra tra gli strumenti di attuazione dei piani socio economico-territoriali dei Comprensori, insieme con l'adeguamento dei piani regolatori generali, ed i piani e programmi di attuazione pluriennale ed annuale degli enti territoriali, nelle materie di competenza, o delegate; a sua volta però, ai sensi della stessa legge, esso rappresenta uno strumento di attuazione del Piano regionale di sviluppo, per cui deve tener conto anche dei programmi di settore, che individuano le attività e gli interventi regionali per settori organici di materie, anche in relazione ad obiettivi specificatamente indicati e verificabili, evidenziandone costi e risultati in termini sia fisici che finanziari, nonché tempi e modalità di attuazione. Esso può quindi essere definito un documento provvisorio, non nel senso che esso non contiene scelte definitive tradotte in termini operativi, ma nel senso che esso potrà essere sottoposto ad aggiornamenti sia per il variare della situazione socio-economica sul territorio regionale, e quindi degli obiettivi dei piani comprensoriali e del Piano regionale di sviluppo, sia per la sopravvenuta possibilità di finanziare nuovi progetti, o di definire nuovi programmi settoriali.
Al momento attuale, fase di formazione in cui Piano regionale di sviluppo e la conseguente mancanza del programma pluriennale di attività e di spesa sono in fase di formazione, è relativamente difficoltosa un'individuazione organica dei progetti indicati dai piani socio-economico territoriali dei Comprensori, che potranno trovare immediata realizzazione.
A maggior ragione, dunque, le verifiche di compatibilità programmatiche e finanziarie, oggi non può che essere essenzialmente riferita al documento della Giunta di anticipazione del secondo Piano regionale di sviluppo, e al bilancio pluriennale 1981-1983, per quelle limitate conoscenze che esso pu fornire.
La caratteristica più importante del documento, al di là dello sforzo della Regione di sostenere l'occupazione con l'avvio ed il completamento di tutta una serie di progetti diretti in questo senso, e di combattere l'inflazione aumentando la produttività della spesa pubblica e gli investimenti, è la limitatezza delle risorse disponibili, la quale, tenuto conto di tutte le possibili fonti di finanziamento, ammonta a 3848 miliardi, mentre l'investimento globale derivante dalla realizzazione di progetti indicati, per tutti gli anni d'attuazione, ammonta a 4731 miliardi. Lo scoperto ammonta quindi a 833 miliardi, per i quali verrà ricercata la più economica ed adeguata fonte di finanziamento, mediante il ricorso agli istituti di credito ed alla Banca europea degli investimenti e mediante il massimo utilizzo dei fondi comunitari.
In questo quadro si inserisce però il D.P.R. n. 246/81 sul contenimento della spesa del bilancio statale e di quelli regionali; in base a questo provvedimento - qualora il nuovo Governo non ne mutasse l'indirizzo secondo quanto richiesto da tutte le Regioni - l'incremento del fondo comune di cui all'art. 8 della legge 281/70 subisce una drastica limitazione scendendo al 18% rispetto al 45,76 già riconosciuto a termini di legge dal bilancio statale per l'esercizio 1981.
Ora questo fondo, come quello di cui all'art. 9 relativo al Piano regionale di sviluppo, dovrebbe essere rafforzato anziché ridotto, in quanto queste fonti di finanziamento rappresentano quelle poche voci di entrata delle Regioni la cui destinazione può essere autonomamente decisa dalle stesse, e per quanto riguarda il fondo di cui all'art. 8, in quanto costituisce la base più consistente ai fini del calcolo del potenziale regionale di ricorso al credito per investimenti.
In altre parole apportando dei tagli al fondo di cui all'art. 8 si finisce per compromettere tutta l'attività programmatoria della Regione, e nel caso del Piemonte viene ad essere fortemente ridimensionata anche quella parte di attività programmatoria che discende direttamente dall'espressione delle necessità locali, e che si è estrinsecata nei piani comprensoriali.
Qualora poi, accanto ai minacciati tagli del già insufficiente fondo sanitario regionale ripartito fra le Regioni (per il Piemonte 90 miliardi) rimanessero operanti le prescrizioni del D.P.R. n. 248, tese ad imputare ai fondi liberi regionali il deficit che si venisse a determinare nella spesa sanitaria, la situazione diverrebbe addirittura sconvolgente della stessa ragion d'essere istituzionale della Regione.
Pertanto in questa situazione caratterizzata dalla limitatezza delle risorse disponibili, dallo stato di emergenza, dalla necessità di individuare problematiche di interesse regionale per la redazione del secondo Piano regionale di sviluppo, non è chi non veda come dal contesto delle indicazioni dei primi schemi di piano comprensoriale sia necessario estrapolare una serie di priorità, sulle quali il Comprensorio dovrà definire dettagliatamente la parte progettuale, ed indicare le necessità finanziarie occorrenti per la loro realizzazione, nonché i diversi soggetti che vi possono concretamente concorrere.
I criteri in base ai quali dovrà essere effettuata questa scelta di priorità sono definiti nelle deliberazioni di approvazione degli schemi di piano comprensoriale e si possono così riassumere; anzitutto coerenza con le linee prioritarie della Regione, in secondo luogo deve essere data priorità a quei programmi che concorrono al sostegno dei settori produttivi; ed infine come ultimo criterio, la scelta di quelle indicazioni comprensoriali che concorrono al raggiungimento degli obiettivi che il Comprensorio si è posto.
Appare evidente che i primi due criteri rispondono all'esigenza di una compatibilità delle scelte operate a livello comprensoriale con quelli che saranno i principi che dovranno ispirare il secondo Piano di sviluppo regionale, e soprattutto con i progetti di immediata attuazione contenuti nel documento che anticipa il secondo Piano regionale di sviluppo e che risulta da un insieme di provvedimenti di politica economica di pronto avvio.
Com'è noto i progetti previsti da tali provvedimenti sono 84 e riguardano diversi settori di attività della Regione, ognuno dei quali è corredato dall'indicazione approssimativa delle risorse finanziarie necessarie per la sua realizzazione. Si può perciò ragionevolmente prevedere che l'iniziativa progettuale della seconda fase dei piani comprensoriali dovrà in prima istanza raccordarsi ad essi, sia in termini di individuazione dei settori prioritari di intervento, sia nel senso di una progettazione tecnica e finanziaria coordinata ed integrata, tra i diversi soggetti istituzionali che possono concorrere alla realizzazione dei progetti medesimi. In tale contesto, pare anche opportuno osservare pur senza entrare in dettagli, che ai fini della determinazione delle priorità di attuazione occorra tener conto innanzitutto di quei progetti che, riguardando settori di interesse generali comuni alle pur diverse situazioni locali, sono indicati nei piani di quasi tutti i Comprensori, di quei progetti che, per la loro importanza e per gli effetti che possono produrre in diverse situazioni territoriali, riguardano più comprensori tra loro contermini, nonché quelli, tra questi, per i quali i Comprensori avranno compiuto le indispensabili verifiche di fattibilità tecnica e finanziaria.
In ordine alla parte territoriale dei primi schemi di piano le delibere proposte richiamano alcuni elementi di fondo che vanno qui sottolineati. In particolare la necessità di un ulteriore adeguato approfondimento in ordine alle indicazioni in essi contenute, specie alla luce delle prescrizioni legislative ed in particolare della legge n. 56/77, in modo da precisare più adeguatamente le relazioni tra i piani comprensoriali e la pianificazione urbanistica locale, in tale contesto ed in carenza di queste più precise indicazioni, anche di natura cartografica, relative all'uso del suolo, le delibere prendono atto dell'impossibilità di un'applicazione delle misure di salvaguardia nell'eccezione normativa della disciplina urbanistica, assumendo le indicazioni degli schemi di piano come quadro di riferimento per la formazione e valutazione degli strumenti urbanistici locali. Per questi ultimi, infatti, si dice che devono tener conto delle indicazioni dello schema di piano, al fine di non contraddirne i contenuti e l'efficacia, specie per quanto riguarda le indicazioni sottolineate dalla delibera di adozione.
L'esperienza concreta che ha visto impegnati i Comprensori non solo a definire le modalità politiche che l'attivazione di una pratica di governo basata sulla programmazione necessitava, ma gli stessi contenuti e risultati concretamente (politicamente, culturalmente) perseguibili in questa fase di lavoro.
I Comprensori, nel comprendere ed assumere questo atteggiamento pragmatico non hanno certo voluto esimersi dal realizzare una pianificazione territoriale più incisiva e vincolistica (se mai questa sia necessaria), ma hanno voluto affermare come il processo avviato abbia bisogno di tappe e passaggi graduali che, pur orientati nella direzione voluta, cerchino di adeguarsi e di sospingere al massimo livello compatibile con la realtà le indicazioni della programmazione.
Dunque il concreto realizzarsi di una pianificazione sempre più incisiva non può assolutamente essere demandata ad atteggiamenti del tipo "tutto e subito" che rischiano di disintegrarsi contro i processi reali contro il bagaglio del passato; ma bensì occorra assumere un atteggiamento processuale, in grado di conseguire, al livello compatibile, il più generalizzato livello di definizione.
L'esperienza compiuta e gli stessi contenuti degli schemi evidenziano la validità di questa impostazione.
Consapevolmente, in questa fase, i Comprensori hanno privilegiato i rapporti con la Regione più che con i Comuni.
E' stata una delle scelte qualificanti. Con ciò ci è riusciti ad ancorare le spinte localistiche a scelte programmatorie di area vasta. Con ciò si è realizzato il grande coinvolgimento degli Enti locali alla determinazione delle scelte regionali.
Con ciò si sono poste le basi per ancorare ad un quadro più generale i legami che occorrerà attivare verso il basso (Comprensorio - Comuni) nella seconda fase.
Dunque grazie a questi risultati oggi: 1) disponiamo della reale possibilità di definire un quadro di riferimento temporale regionale a livello dell'intera Regione in rapporto con il piano regionale di sviluppo, e ciò consente di ancorare le scelte regionali a quelle comprensoriali 2) abbiamo la possibilità di realizzare il necessario rapporto di coordinamento ed indirizzo dei Comuni da parte dei Comprensori e della Regione e dunque realizzare e fondare le scelte regionali sulla pianificazione locale.
Oltre a quanto sinora illustrato le delibere in esame sottolineano l'esigenza che la seconda fase di programmazione comprensoriale che si va ad aprire sia caratterizzata dal completamento dei documenti di piano non soltanto per quanto riguarda il già menzionato programma pluriennale, ma anche per ciò che concerne le norme di attuazione, onde rendere possibile la definizione di una più adeguata prassi amministrativa e di gestione dei piani.
Tanto queste necessità di approfondimento degli aspetti territoriali che le altre relative alla parte socio-economica dei piani, presuppongono da parte della Giunta e del Consiglio una più attenta disamina e specificazione, in grado di fornire ai Comitati Comprensoriali un quadro certo ed unitario di riferimento per l'impostazione del lavoro relativo alla seconda fase di formazione dei piani. In ragione del breve tempo a disposizione e della comune intenzione di pervenire entro i termini di legge, che scadrebbero il 5 agosto, al completamento dell'iter di esame degli schemi di piano e al voto delle delibere di adozione dei medesimi, è stato convenuto in sede di riunione congiunta dalla I e II Commissione d'accordo la Giunta, di rinviare alla ripresa post - feriale l'esame approfondito di questi argomenti e la formazione di un apposito documento da sottoporre alla deliberazione del Consiglio.
Il rispetto di questa scadenza potrà altresì consentire di compiere una verifica per quanto riguarda lo stato delle strutture comprensoriali rispetto ai compiti certamente non semplici cui dovranno assolvere.
Consentirà inoltre di affrontare in termini più ravvicinati e concreti il nodo politico e istituzionale della partecipazione delle Province al processo di programmazione, per individuare ambiti di competenza e forme attraverso cui rendere tangibile tale partecipazione, in rapporto al compimento di un ulteriore passo in Piemonte nella direzione della prefigurazione della futura riforma del sistema delle autonomie.
Signor Presidente, colleghi Consiglieri, quanto sinora esposto testimonia del profondo significato politico e istituzionale dell'atto che questo Consiglio si appresta a compiere. Come pure lo è l'attenzione prestata dai vari gruppi nel corso dell'esame degli atti relativi da parte della I e II Commissione.
Il lavoro svolto dalle Commissioni ha consentito, nella prima fase delle procedure di adozione previste dall'art. 80 della legge 56/77, di concorrere adeguatamente alla formulazione degli indirizzi generali e di merito espressi nel provvedimento di adozione da parte della Giunta.
Nella seconda fase ha invece permesso la formulazione di una serie di ulteriori modificazioni ed integrazioni, atte a sostanziare il giudizio di merito che quest'Assemblea è chiamata ad esprimere in ordine alle delibere della Giunta.
Credo pertanto che tanto i contenuti delle deliberazioni di Giunta che l'esito del lavoro della Commissioni incaricate, giustifichino abbondantemente il parere favorevole di questo Consiglio.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Astengo.



ASTENGO Giovanni

Non sarà il mio intervento celebrativo di questo momento, anche se è importante nella storia della politica regionale piemontese e anche se riconosco che con l'approvazione degli schemi di piano socioeconomico e territoriale di 14 Comprensori su 15 si sta dando avviamento certo alla pianificazione territoriale della nostra Regione; ma un intervento problematico, che intende toccare il significato, gli obiettivi, i contenuti, l'operatività e l'incidenza del processo di pianificazione così innescato. Ritengo infatti che una trattazione problematica, a carattere generale sia opportuna, in questa sede, come prima verifica della "filosofia della pianificazione territoriale", così come si configura attraverso gli schemi in corso di approvazione e così come traspare, in prospettiva, per gli atti successivi, dai documenti dell'Assessorato alla pianificazione territoriale. Con l'Approvazione consiliare degli schemi dei piani territoriali scatta, infatti, la fase concreta della loro formazione in veste compiuta e definitiva nei 18 mesi di legge. Ed è questa forma compiuta e definitiva che occorre guardare fin d'ora, per capire se dal seme di questi schemi usciranno i piani territoriali comprensoriali, nei modi e con i contenuti desiderati, o se questo seme abbia da essere ancora in qualche modo rafforzato o corretto, per garantire la buona riuscita che ci auguriamo. Questi schemi non nascono oggi dal nulla, così come non oggi e dal nulla nasce la "filosofia" che li informa e le relative prospettive di pianificazione territoriale, che da essi promanano e che riteniamo utile e doveroso discutere.
Alle spalle vi è un consistente retroterra culturale, sedimentato in trent'anni di approcci e di tentativi, di dispute dottrinarie, di studi seri e meno seri, di iniziative ufficiali, di comitati, commissioni e commesse, il tutto purtroppo assai rapidamente e puntualmente dissolto nel nulla. E poiché, invece, noi, qui in Piemonte, vogliamo, come forze politiche, far sì che questa ancora embrionale iniziativa di pianificazione si radichi saldamente nella realtà regionale e dia frutti, mi pare opportuno collocare storicamente questa esperienza nel suo contesto culturale e politico, per verificarne la validità teorica e pratica e contribuire così a consolidare l'iniziativa politica, chiarificando dubbi eliminando confusione e trabocchetti, oltreché prevenendo possibili improduttive deviazioni. Per poter poi camminare dritti e spediti sulla via della pianificazione territoriale, tenendo anche conto di quel che si fa e si produce - sul piano teorico e pratico - in questo campo, oggi, in un più ampio orizzonte che tocchi non solo il nostro Paese, ma anche le esperienze degli altri Paesi a sviluppo industriale maturo, tanto di quelli ad economia capitalistica, quanto di quelli ad economia pianificata. E non sembri eccessivo questo allargamento di orizzonte, essendo ormai universalmente riconosciuto come necessario strumento di governo il ruolo di mediazione e di propulsione svolto dalla pianificazione territoriale per una concreta ed operativa politica sul territorio. Ma prima di allargare lo sguardo oltre i confini è bene rientrare in casa nostra e collocare anzitutto l'esperienza piemontese in atto nel contesto regionale e nazionale. La fase attuale della pianificazione territoriale piemontese discende direttamente dalle due recenti e fondamentali leggi regionali entrambe del '77, la legge n. 43 sulle "Procedure della programmazione" e la legge 56 su "Tutela ed uso del suolo". E non è un caso che ci siano due distinte leggi. Ci troviamo infatti, qui, alla confluenza di due distinti processi (intellettuali ed operativi) che si sono autonomamente sviluppati intrecciati e combattuti con alterne vicende nell'arco di oltre trent'anni la programmazione economica e la pianificazione territoriale e urbanistica - e che, presentatisi ancora disgiunti nella legge sulle procedure, sono stati invece unificati ed integrati, con uno sforzo concettuale di sintesi nella legge sulla tutela ed uso del suolo di pochi mesi successiva, sintesi che forse, proprio per questa rapida successione legislativa e decantazione concettuale, non ha ancora potuto essere compiutamente assimilata. L'amalgama dei due filoni d'origine non appare infatti, ancora verificata in concreto: siamo, mi sembra ancora ad uno stadio di innesto, di ibridazione, non di fusione. E' ciò che cercheremo di rilevare, non sotto forma di appunto critico, ma per agevolare il per noi necessario processo di integrazione. Assai antica è l'origine di questi due filoni, su cui mi pare non inopportuno qualche breve cenno. Agli anni 30 risalgono infatti le prime esperienze - di studio - sulla "pianificazione fisica" di territori regionali e nazionali con due distinti indirizzi: quello umanistico della scuola anglosassone che ha antiche radici culturali fra cui voglio citare, agli inizi del secolo, l'apporto del biologo scozzese Patrick Geddes, che apre la strada alla scoperta delle specificità regionale; quello statalista tipico degli stati autoritari e accentratori di quel decennio in Germania ed Italia. In quest'ultimo indirizzo si colloca evidentemente la legge urbanistica italiana del 1942 per quanto concerne la pianificazione territoriale, intesa come atto di governo e di coordinamento delle Amministrazioni centrali e decentrate dello Stato, al fine di stabilire "direttive" che riguardino "Zone da riservare a speciali destinazioni e vincoli", "sedi di nuovi nuclei edilizi ed impianti di particolare importanza" e le "reti delle principali linee di comunicazione". E cioè i punti forti di una politica di intervento statale cui i Comuni "sono tenuti ad uniformare il rispettivo piano regolatore". E' bene precisare subito che le norme della legge 1150 del '42, con questi arcaici ed angusti contenuti, sono tuttora in vigore nel Paese, là dove le Regioni non hanno provveduto - come invece per primo ha fatto il Piemonte con la 56 - a ridefinire in forma aggiornata i contenuti della pianificazione territoriale. Ma, per tornare alle origini della pianificazione territoriale del nostro Paese, è nell'immediato dopoguerra che si manifestano i primi tentativi di dar vita alla pianificazione territoriale che ormai stava delineandosi, in sede di dibattito culturale non già come pianificazione statale della legge 1150, ma come pianificazione regionale democratica, e quindi non più come atto di imperio di un governo accentratore. E' dovere di cronaca citare qui il primo autonomo ed informale esperimento di studio del piano regionale piemontese (1944-1952), che mi vide in quel tempo animatore e partecipe, e che si proponeva ambiziosamente e ingenuamente di offrire un metodo di controllata ricostruzione del Paese con proposte di pianificazione fisica e di innovazioni strutturali e legislative, assumendo a modello il filone culturale anglosassone.
L'iniziativa ebbe il suo sbocco nel '52, nel Congresso, di Venezia dell'INU sul tema della pianificazione regionale, da cui partirono le iniziative ufficiali del Ministero dei LL.PP. con l'istituzione delle Commissioni per lo studio dei piani territoriali di coordinamento nelle varie aree regionali. L'impostazione di tali studi, una volta riportati nell'alveo della burocrazia statale e ricondotti alle angustie concettuali della legge 1150, mai riformata, nonostante le ripetute proposte dell'INU divenne ben presto asfittica e - in assenza di consenso politico al vertice e di un organo democratico di riferimento in sede regionale - le iniziative delle Commissioni regionali, nonostante una notevole mole di elaborati prodotti nel decennio degli anni 50, non potevano che esaurirsi e dissolversi nel nulla. Ma proprio dai tizzoni in spegnimento di questa prima fiammata di conati di pianificazione territoriale dovevano nascere come frutto del dibattito culturale sollevato da questi studi i primi germi della programmazione economica. E' del '54 infatti lo "Schema di sviluppo dell'occupazione e del reddito per il decennio 55-64", noto allora sotto il nome di piano Vanoni. Fu quello il primo tentativo di contrapporre una unitaria politica economica alle varie leggi di settore che in quegli anni si erano moltiplicate: è del '49 infatti la legge sull'edilizia economica e popolare, del '50 l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, del '52 il Piano di sviluppo agricolo, del '55 il piano delle autostrade, del '57 gli incentivi per le aree depresse del centro Nord, ecc.
Frutto di questa nuova filosofia è l'iniziativa assunta nel '59 dal Ministro dell'industria on. Emilio Colombo, di affidare alle Unioni Regionali delle Camere di Commercio schemi di piani economici regionali intesi come atti di verifica del piano Vanoni. Nacque così un meccanismo regionale in campo economico, parallelo e disgiunto da quello, ormai in fase di dissolvimento delle Commissioni per i piani territoriali, e con esso inutilmente concorrenziale, con paralleli studi, analisi e ricerche.
La disputa fra programmatori e pianificatori nasce in quel tempo e la vantata preminenza dei primi sui secondi trovava buon sostegno nella constatata inefficacia (peraltro cinicamente voluta al centro) degli studi di pianificazione territoriale. Ma il Paese si stava politicamente muovendo. Alle soglie degli anni '60 partono infatti nuove iniziative politiche su entrambi i binari. Da un lato la riforma della legge urbanistica propugnata nel Congresso a Roma dell'INU del 1960, da cui prendono le mosse le varie. Commissioni Ministeriali: Zaccagnini nel '61 Sullo nel '62 e Pieraccini nel '63. Dall'altro la nota aggiuntiva del Ministro al bilancio Ugo La Malfa, del 1962, che poneva le premesse per una seria programmazione economica. Con il primo centro-sinistra, presieduto dall'on. Moro e varato nel dicembre '63, pareva giunto il momento della svolta degli atti concreti: da un lato la riforma urbanistica avrebbe dovuto innestare nel paese un diverso processo di crescita e dall'altro la programmazione economica avrebbe dovuto orientare a finalità sociali gli interventi pubblici programmati. Sappiamo purtroppo come sono andate le cose. Saltata per prima la riforma più capillare e penetrante, quella urbanistica e con essa la possibilità di dare contenuti più aggiornati alla pianificazione territoriale, resistettero a lungo, con alterne vicende, i tentativi di programmazione economica. E' dall'ufficio del programma istituito nel '64 dal Ministro al bilancio, Antonio Giolitti, e retto dal segretario alla programmazione, Giorgio Ruffolo, che partono in quegli anni gli studi per il primo piano quinquennale di sviluppo economico '65-'69 poi slittato al '66-'70 e dopo lunghe vicende approvato in Senato nel luglio del '67, senza alcuna efficacia pratica. E' tuttavia di quegli anni nel '66, l'istituzione, in ogni regione geografica italiana dei Comitati regionali di programmazione economica (CRPE), che riprendono gli interrotti studi sullo sviluppo economico e sull'assetto del territorio con tentativi di integrazione tutt'altro che secondari. Sono questi studi che sfociano tra il '69 e il '70, in quel progetto '80, che rappresenta il punto più alto, raggiunto in sede nazionale nell'elaborazione concettuale e tecnica di un sistema di direttive per .l'organizzazione del territorio nazionale trattato per poli e per linee direttrici privilegiate di sviluppo. Inutile aggiungere che né il Progetto '80, né il successivo Progetto di programma economico nazionale '71-'75, che a questo progetto doveva fornire i mezzi operativi, ebbero seguito ed approvazione. Né sorte migliore era riservata al successivo rapporto di aggiornamento '73-'77, "che avrebbe dovuto garantire la soddisfazione dei fabbisogni sociali più gravemente insoddisfatti, fronteggiare le situazioni di congestione e di insufficienza di dotazioni sociali nei grandi agglomerati urbani e industriali affrontare la situazione di generale carenza di un sistema di dotazioni civili e sociali di tipo urbano nel mezzogiorno...". Era questa l'ultima trincea della programmazione nazionale e fu abbandonata...
E' storia di ieri, eppure appare ormai lontana nel tempo. Sta di fatto che mentre si esaurivano le iniziative promosse dal centro, che avevano registrato negli anni '50 lo scacco della pianificazione territoriale statale e negli anni '60 il successivo ed analogo scacco della programmazione economica nazionale, la scena istituzionale del Paese mutava profondamente con l'ingresso delle Regioni, come nuovi attori di iniziative politiche e legislative, pur nel quadro dell'arcaica legislazione statale.
Non è caso quindi che le Regioni, ereditando poteri non efficacemente esercitati dallo Stato, si apprestassero con forze fresche e con rinnovato vigore, a dar corpo all'antico disegno, mai giunto in porto, della pianificazione territoriale - intesa in senso ampio e ammodernato e non più secondo l'ottica statalista della legge 1150 e della programmazione economica - intesa essenzialmente come necessario coordinamento e programmazione della spesa pubblica. Appare dunque del tutto chiara, se storicamente collocata - s come in questa rapida evocazione si è tentato di fare - l'assunzione della programmazione come metodo di governo regionale così come solennemente dichiarato nella Carta statutaria del Piemonte e di altre Regioni. Era l'eco, ancor vivo, delle dispute dottrinarie sui contenuti e sull'efficacia della programmazione economica e sulla sua preminenza su ogni altro disegno politico, dispute che avevano occupato il decennio '62-'72, e che, qui in Piemonte avevano avuto autorevoli sostenitori, tra cui il prof. Siro Lombardini ed occasioni di studi e ricerche in seno all'IRES. La dichiarazione statutaria assumeva così anche il senso profondo di una rivalsa regionale intesa ad esorcizzare l'insuccesso del metodo programmato- rio, che sera stato clamorosamente sconfitto a livello statale, unito alla speranza di contribuire con la programmazione regionale alla costruzione dell'auspicata e fino ad allora e ancora tutt'oggi non concretata programmazione nazionale.
Queste, in rapida sintesi le premesse storiche dei due filoni concettuali ed operativi, pianificazione e programmazione, con il loro intreccio, le loro alterne fortune, la loro crescita indipendente i loro scontri ideali, ma anche - e sarebbe assai utile approfondire questo aspetto - con il loro inarrestabile avvicinamento, fino alla fusione in un unico integrato processo. E' quanto è avvenuto o sta avvenendo, non solo in Italia, ma anche in molti altri Paesi, dove la disputa fra pianificatori e programmatori, con le reciproche iniziali rivendicazioni di priorità dottrinaria e politica ha finito per cedere ad un processo di stretta integrazione - in Inghilterra, in Germania e in Francia, oltreché in Polonia, come è illustrato nel libro di Boleslonw Malioz sulla pianificazione nazionale, alla cui edizione italiana ho avuto l'onore di stendere la prefazione. Anche se restano per la verità, ancora aree culturali che rivendicano l'autonomia disciplinare dei due filoni soprattutto nel campo delle scienze regionali.
Si tratta comunque di un complesso processo di chiarimento disciplinare oltreché operativo in atto e quindi non è da stupire che anche in questo primo avvio della pianificazione territoriale in Piemonte si ritrovino gli echi di questa distinta origine e sopravvivano, con qualche scoria, anche i residui di antichi e superati scontri concettuali. Ma nostro compito è ora di convogliare concretamente i due filoni verso un unico alveo, così come vogliono il buonsenso teorico e pratico e la stessa opportunità politica oltreché il dettato della nostra legge regionale. La verifica va comunque compiuta, non tanto sui risultati, quanto sulle premesse, e cioè sugli obiettivi e sui contenuti, perché da queste discendono i metodi e le scelte e il tipo di conseguente operatività.
Con un preliminare chiarimento. Che il metodo dell'elaborazione degli schemi per aree comprensoriali, facendo leva sulla capacità programmatoria degli organismi comprensoriali piemontesi, costituisce un elemento di originalità in Italia, che trova riscontro con analoghe esperienze, ad esempio nella Germania Federale. E' comunque da considerare un metodo che garantisce una più larga base di partecipazione e di elaborazione rispetto alle soluzioni di elaborazione verticistica, adottate in varie altre Regioni italiane, con risultati assai meno soddisfacenti di quelli conseguiti in Piemonte, anche solo in questa prima fase di elaborazione degli schemi, che rappresentano in sostanza un insieme di dichiarazioni di intenti. Per ritornare al tema degli obiettivi e dei contenuti, una prima verifica deve essere compiuta in rapporto a quanto stabilito nei due testi di legge, la 43 e la 56 del '77, agli specifici articoli dedicati ai contenuti sia del piano socio-economico e territoriale del comprensorio (art. 11 L. 43) sia in modo più specifico, del piano territoriale (art. 5 L. 56), oltreché all'art. 1 della legge 56 che in 11 punti elenca le finalità della pianificazione del territorio.
Da queste enunciazioni emerge con chiarezza: 1) che nella formulazione dei contenuti del piano socio-economico e territoriale del Comprensorio ex lege 43 si sono privilegiati i criteri, le priorità e le localizzazioni degli interventi della Regione...e degli Enti locali per le materie ad essi delegate, ponendo quindi l'accento sugli aspetti propositivi di intervento diretto e indiretto della Regione ed alle aree da questi interessate 2) che nella formulazione dei contenuti del piano territoriale ex lege 56 si è dato corpo ad un complesso, articolato, sistema di organizzazione del territorio, che non esclude certamente l'individuazione delle politiche di intervento regionale, ma tende a costruire una piattaforma generalizzata (cioè estesa a tutto il territorio regionale) di conoscenza, di relazioni di incentivi e di freni, diretta a tutti i soggetti della pianificazione nessuno escluso, Regioni, s Comprensori, Comuni e Comunità montane per un riequilibrio economico e sociale generale. Paradossalmente si potrebbe sostenere che la legge 43 che dà sostanza alla programmazione recepisce il piano territoriale secondo l'ottica della legge 1150 e cioè come insieme di interventi forti di iniziativa di governo, mentre la legge 56, definendo obiettivi, contenuti e procedure della pianificazione territoriale e urbanistica si dà carico di evidenziare un insieme capillare di interventi di riequilibrio economico e sociale, che nella legge 43 sono solo adombrati senza tradursi in atti operativi diffusi.
Mi riferisco in modo particolare ai fabbisogni quantitativi e qualificativi di occupazione, di alloggio e di servizi, disaggregati per unità geografiche, estese dunque, senza eccezioni, all'intero territorio regionale per un effettivo riequilibrio dell'economia su tutta la regione.
E, di conseguenza, alla necessità di stabilire i criteri, gli indirizzi ed i principali parametri che devono essere osservati nella formazione dei piani a livello comunale e di settore e ancora al coordinamento generale dei programmi di intervento sul territorio delle amministrazioni e delle aziende pubbliche, a partecipazione statale e concessionarie di pubblici servizi, senza le quali operazioni il piano territoriale non può assurgere a quadro di riferimento per la programmata attuazione degli interventi pubblici e privati. Vi è dunque nell'art. 5 della legge 56 un orizzonte di obiettivi ed un complesso di contenuti di estrema ampiezza, di cui, negli schemi, non traspaiono che deboli tracce, ma che dovrà essere compiutamente realizzato nella formazione dei piani territoriali definitivi, se non si vogliono ridurre tali piani ad una sola enunciazione di specifici progetti di intervento regionale in un contesto che non è oggetto di attenzione. Il che non può essere, perché in ogni caso il contesto verrebbe modificato dagli interventi regionali con cui sarebbe in ogni caso forzato ad interagire, né gli interventi stessi, singolarmente presi senza un diretto rapporto col contesto, che va conosciuto non solo in modo approssimato, ma analizzato e riplasmato, non potrebbero avere verifica di efficacia né ex ante, né ex post.
La confluenza dunque di programmazione economica, come punto di partenza per le scelte operative, e di pianificazione territoriale, come piattaforma generalizzata per tutti gli interventi pubblici e privati, da cui discenda la programmazione operativa, pare dunque non ancora realizzata negli schemi, che si attengono, per ora, quasi esclusivamente ai contenuti dell'art. 11, lettera b, della legge 43. Una verifica di questa limitatezza di contenuti, che ci auguriamo sia solo presente negli schemi, come primo passo di avviamento del più complesso processo pianificatorio, si ha nel volume "la pianificazione territoriale comprensoriale e regionale in Piemonte" edito dall'Assessorato alla pianificazione territoriale nel maggio '81.
Significative, per chiarire, la filosofia degli schemi e di quanto ci si proporrebbe nei piani territoriali definitivi, sono alcune affermazioni generali in esso contenute. Ne cito due. La prima sulla definizione dei piani urbanistici come mappa dei vincoli agli usi del suolo, affermazione questa che dimostra come i contenuti dei piani urbanistici, ex lege 56, non siano stati compresi dagli autori di quel volume nel loro significato operativo e programmatorio, preferendo essi riprendere l'immagine ormai superata del piano urbanistico come puro insieme di vincoli. Con grave danno concettuale. La seconda riguarda il capitolo dei contenuti dei piani comprensoriali, in cui il progetto di piano territoriale è chiaramente ridotto ai soli progetti di intervento, anzi esplicitamente definito un sottoinsieme di progetti, che riceverebbero una dettagliata descrizione fino alla scala 1:5000 come progetti esecutivi di settore.
Come già detto, non si nega qui l'opportunità e la presenza nel piano territoriale di specifici interventi diretti, ma ciò che evidentemente manca nell'esposizione dottrinaria citata, è la presenza di quella che ho chiamato la piattaforma generalizzata degli interventi complessivi pubblici e privati, di riequilibrio, e che più sinteticamente possiamo chiamare il contesto, pianificato. Per essere convinti della necessità di questo contesto pianificato, basti pensare che, in assenza di direttive di contenimento o di espansione nelle varie aree regionali, coordinate con gli obiettivi generali del piano di sviluppo la pianificazione locale continuerebbe ad agire secondo i trends locali, determinando contraccolpi e distorsioni perverse al processo di riequilibrio regionale, che è alla base del Piano di sviluppo e che è pure alla base dei vari progetti di intervento. In sostanza, appare chiaro che nell'attuale impostazione della pianificazione territoriale si è privilegiato in teoria e in pratica il momento dell'intervento regionale, diretto a costruire cose concrete, opere pubbliche e zone industriali, trascurando la paziente costruzione della piattaforma riequilibratrice di base. Un correttivo di rotta - concettuale e pratico - nella direzione proposta mi parrebbe oltremodo necessario. Ed un primo segnale in tal senso si coglie nella premessa generale contenuta nelle singole deliberazioni, là dove si accenna al necessario rispetto dei contenuti dell'art. 5 della legge 56 nella formazione dei piani territoriali definitivi.
Se questo è l'indirizzo che ora emerge, anche da parte dell'Assessorato, mi siano consentiti alcuni suggerimenti. Il primo riguarda l'assoluta esigenza della costruzione a tempi rapidi di un quadro generale dello stato di fatto, che contenga gli elementi significativi dell'esistente: stato delle infrastrutture, stato degli impianti industriali, stato della capacità ricettiva attuale degli insediamenti quale emerge dagli strumenti urbanistici vigenti, stato dei vincoli di salvaguardia. Questo quadro è da costruire, ma gli elementi conoscitivi di base in gran parte esistono: il volume quinto del rapporto per le infrastrutture; le relazioni del CUR e le schede quantitative degli strumenti urbanistici per la valutazione della capacità ricettiva degli insediamenti e così via.
Sulla base di questo quadro si potrà misurare la compatibilità, la coerenza ed efficacia dei proposti interventi e si potranno individuare le direttive atte a frenare o incentivare lo sviluppo, o meglio le trasformazioni locali, al fine della costruzione della piattaforma riequilibratrice di base. Costruito il quadro generale dello stato di fatto, si potrebbero anche verificare le omissioni che negli schemi che compaiono. Ne segnalo due a titolo esemplificativo. La prima riguarda il problema del disinquinamento della falda acquifera di S. Maurizio d'Opaglio, oggi ad alto tasso di inquinamento da cromo, come è stato rilevato nell'esame del CUR sul relativo strumento urbanistico, ma che non figura - se non erro - nello schema di piano territoriale di Verbania. La seconda riguarda la conurbazione industriale tra None ed Airasca, che nello schema di piano territoriale di Pinerolo - anche qui se non erro - è del tutto ignorata.
La verifica degli schemi con lo stato di fatto permetterà infatti di ricuperare queste ed altre omissioni e forse anche di attutire alcune ipotesi di intervento, o comunque di collocarle in una prospettiva non ravvicinata. La seconda osservazione riguarda proprio il concetto di intervento. A me pare che negli schemi di Piano territoriale si indulga ancora troppo al concetto di intervento di sviluppo, mentre la congiuntura che non si presenta certo di breve durata, invita ad una maggiore riflessione sull'oculata gestione dell'esistente. E' questa la tendenza ormai generalizzata in tutti i paesi dell'OCSE, Stati Uniti compresi. Il che non vuol dire non intervenire, tutt'altro, ma intervenire preferenzialmente per operazioni di ricupero e di riordino e di completamento dell'esistente - come esplicitamente affermato peraltro negli artt, della legge 56 - più che per addizione di nuove parti, strutturali od infrastrutturali che siano, oltre a quelle necessarie per il soddisfacimento dei fabbisogni pregressi. In questo senso lo stato di fatto della ricettività per impianti residenziali e produttivi dovrebbe fornire prove documentate dell'ulteriore capacità di assorbimento del tessuto esistente: non di un assorbimento neutrale, secondo le tendenze del passato, ma di un assorbimento di trasformazioni di riordino e di riequilibrio, dunque chiaramente finalizzate.
Un esame a fondo di questo tema s'impone.
Terza osservazione. E' indispensabile che per operare le scelte di riequilibrio, sia quelle che si riferiscono alle aree in cui contenere e frenare lo sviluppo, sia quelle che si riferiscono alle aree da incentivare, si predisponga e si discuta preventivamente la scala delle priorità. La tendenza dei pianificatori e dei programmatori è, in genere quella di considerare implicita e sottintesa questa scala. Ed è un errore concettuale, metodologico. La scala delle priorità è atto politico per eccellenza ed è consigliabile che sia esplicitato, discusso e deciso nelle sedi di massima decisione: per noi in Consiglio. E' questo un tema da meditare su cui vi è ampia letteratura. Uno per tutti il libro di Malioz che ho già citato, e che ha come tema principale l'esplicitazione degli obiettivi della pianificazione e della scala delle priorità, senza la quale non possono essere impostate le verifiche di compatibilità e di coerenza interna ed esterna.
Ultimo suggerimento. Alla fase decisiva di formazione dei piani territoriali occorre prepararsi con mezzi, strutture e iniziative adeguate e prendendo i tempi occorrenti, che non possono essere costretti nei 18 mesi di legge. Non è pensabile che l'Assessorato affronti questa dura prova decisiva per la strategia del riequilibrio regionale, con le attuali strutture e con mezzi inadeguati; occorre un sostanziale rinforzo anche a costo di rivedere il riparto delle risorse, con qualche drastica riduzione di finanziamento in altri settori: troppo urgente ed impegnativa è la prova. Ma oltre ai mezzi occorre pure pensare alla preparazione culturale di tutti coloro che vi sono interessati. La discussione metodologica da me richiesta nelle riunioni congiunte della I e II Commissione, è stata fissata a settembre ed è buona cosa. Ma penso anche ad altre manifestazioni, anche esterne ed a più ampio raggio. Un seminario di studi sulla pianificazione territoriale nei paesi europei sarebbe augurabile. Ho avuto modo, come delegato italiano dell'OCSE, di verificare sul posto un esempio di pianificazione territoriale, nella Germania Federale: precisamente il piano del Nord Reno-Westfalia, una regione strutturata in distretti, che hanno forti analogie con i nostri comprensori. In quel Land opera il Piano di sviluppo regionale, ed i piani di distretto, come livello intermedio, cui si uniformano i piani urbani. Il sistema è completamente definito ed operante. Perché non farne oggetto di studio? Signor Presidente, signori Consiglieri, l'avviamento della pianificazione territoriale è atto politico troppo importante per essere solo commentato nei suoi contenuti di merito. Esso coinvolge l'intera comunità regionale e nessuno può estraniarsi da questo faticoso processo di razionalizzazione della politica territoriale. Il livello intermedio della pianificazione territoriale scelto dal Piemonte per mettere in moto l'intero processo pianificato- rio, appare corretto ed efficace. Spetta ora a noi di costruire pazientemente questo tanto conclamato quadro di riferimento, da cui emanino chiari messaggi, rivolti sia alla Regione, sia agli Enti locali per rendere veramente concreta e coerente una politica di trasformazione e di interventi, in cui gli atti singoli non siano tra loro contraddittori ma convergenti a fini comuni, di chiaro interesse politico.
Il processo, se sarà serio ed efficace, comporterà risorse, mobiliterà iniziative, solleciterà uno sforzo intellettuale considerevole. Se si opererà con intelligenza, con capacità di autorigenerazione, senza preconcetti ed in uno spirito di alacre scoperta questo evento, la formazione dei piani territoriali comprensoriali e della loro sintesi regionale, dovrà diventare uno degli elementi qualificanti della legislatura, unitamente al parallelo processo di revisione e di assestamento dei piani urbanistici locali che consentirà di costruire nel loro complesso la mappa non più dei desideri e delle ipotesi, ma delle cose effettivamente da fare, con la loro scala di priorità, in un sistema di programmata attuazione, che serva come effettivo quadro di riferimento a tutti gli operatori pubblici e privati. La pianificazione sarà allora non solo più un'ipotesi di legge, ma una realtà operante.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Picco.



PICCO Giovanni

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, gli interventi che mi hanno preceduto mi esimono dalla sottolineatura dell'importanza di questo dibattito e degli aspetti in positivo che sono contenuti nella serie di documenti che sono al nostro esame.
Debbo ringraziare il prof. Astengo per l'intervento che ha voluto svolgere, soprattutto per la parte che concerne la memoria storica della pianificazione, dei processi e dei rapporti tra pianificazione urbanistica e programmazione economica della Regione. E' doverosa questa ricostruzione per collocare gli atti che stiamo compiendo in una prospettiva temporale rispetto alla quale (senza volere fare delle inutili sottolineature alle successioni degli eventi ed alle conclusioni critiche, alle quali peraltro è pervenuto il prof. Astengo), poter collocare la nostra posizione nella realtà che dobbiamo affrontare e riuscire a dare un contenuto ad un certo pragmatismo che vorrei rivendicare, un po' in polemica con la relazione del Presidente della I Commissione.
E' in crisi il quadro di riferimento temporale rispetto al quale stiamo operando. Questi documenti pervengono in Consiglio regionale a 4 anni dalla legge sulla programmazione; a tre anni e mezzo dalla legge 56, a 5 anni dal Piano di sviluppo. Andiamo ad elaborare questi documenti in una dilatazione di tempi preoccupante rispetto alla quale la D.C, ha sostenuto in II Commissione e in tutte le sedi istituzionali che comunque, se non nel rispetto dei tempi della legge 56, vi sia una conclusione di questa fase.
Nei ritardi credo si debba vedere anche una conseguenza di una certa dialettica interna alle forze politiche della maggioranza, non sempre funzionale agli interessi della comunità piemontese; con riferimento a quanto il prof. Astengo ha denunciato nel suo intervento, tra l'opportunità del prevalere dei contenuti della legge 43 rispetto ai contenuti della legge 56.
Tutto questo finisce per diventare anacronistico ed improponibile rispetto alla gravità dei problemi e rispetto al contributo che, con riferimento al patrimonio di elaborazione la programmazione regionale, la Regione Piemonte ha finora elaborato.
Nel rispetto delle procedure dell'art. 12 della legge 43 (anche se molte sono le carenze dei contenuti), la dimensione delle indicazioni programmatiche socio-economica può essere definita specificatamente solo su riferimento alla legge 56.
Da un accenno che aveva fatto il prof. Astengo, mi aspettavo un approfondimento su questo aspetto. E' mancata tra gli Assessorati alla programmazione economica ed alla pianificazione e gestione urbanistica quella coralità o perlomeno uniformità di comportamenti e di indirizzi ai Comprensori per disporre tali strumenti. I Comprensori hanno agito con una diaspora di iniziative; il patrimonio di elaborazioni, di analisi, di strumenti tecnici è difforme e non confrontabile con obiettivi propri per predisporre i piani.
Tendenzialmente i piani sono decollati e sono approdati come una sommatoria di "elaborazioni statiche" della realtà comprensoriale e volti alla registrazione dello stato di fatto non riuscendo a cogliere le trasformazioni in atto.
Le analisi territoriali avrebbero dovuto essere criticamente recepite sulla base di una documentazione fornita dalla Regione, al limite con indicazioni delle priorità che il prof. Astengo ricordava essere la base dei contenuti e delle scelte che devono essere compiute. Il bilancio negativo degli investimenti che la Regione ha fatto in questi ultimi 5 anni, su questa materia è del tutto lapalissiano. Si sono accantonate - e su questo il nostro giudizio critico è molto severo - molte analisi che nella prima legislatura erano state compiute. La seconda legislatura non ha fatto il punto conclusivo su nulla o quasi nulla né per quanto riguarda gli aspetti geologici né per quanto riguarda la parte relativa alla fertilità dei suoli. Non parliamo di questioni relative agli inquinamenti, alle carte dei dissesti, a tutte quelle analisi settoriali e territoriali che non sono poi sempre oggetto di variazioni così accelerate da non potere, nell'arco di legislatura, farne il punto con cartografie e documentazioni sufficientemente omogenee.
La diaspora di iniziative e di documentazioni scoordinate, di sovrapposizioni, di ricerche non finalizzate ed omogeneizzate per mettere a disposizione dei Comprensori una documentazione sufficientemente chiara ed omogenea, è un elemento negativo.
La pianificazione a livello comprensoriale doveva partire da questi patrimoni ed allora potevano anche non essere strettamente necessari i contenuti di enfatizzanti dei cosiddetti "libretti rossi"; fossimo partiti da una situazione di maggiore certezza, sia pure criticamente già prospettata ai Comprensori in modo che potessero opzionalmente essere compiute le scelte, i Comprensori avrebbero certamente agito in un quadro diverso.
Non abbiamo mai posto ostacoli alle iniziative volte a dotare i Comprensori e la Regione di strumenti necessari per questo tipo di supporto. Dobbiamo però riconoscere oggi che il risultato negativo è del tutto evidente, quindi, le polemiche e le denunce che abbiamo fatto rispetto alla produzione di supporti e di strumenti di stampa credo che abbiano evidenza anche rispetto a questo problema.
A partire da elementi di valutazioni omogenee, registrate o documentate riteniamo che lo spazio critico dei Comprensori per evidenziare obiettivi e priorità sarebbe risultato del tutto più dilatato verso una pianificazione in divenire, cioè verso quelle che erano le ipotesi che si potevano proiettare nel futuro. Pianificazione e programmazione economica connessa agli aspetti territoriali più comunemente definiti "processi" sui quali non mi soffermo, per contrapporli allo "pseudoideologismo" dell'urbanistica che si vorrebbe, ma che in realtà non è.
Se ci attarderemo per qualche anno ancora su arretrate concezioni di partenza, al di là dei tempi, le risposte della pianificazione territoriale continueranno ad essere arretrate concettualmente e superate dagli eventi.
Ciò premesso, vorremmo che non si sminuisse il contributo che è stato dato dai Comprensori solo e perché la Regione non ha fornito strumenti di analisi territoriali o li ha dati in forme e in tempi sbagliati rispetto ai tempi ed alle finalità di utilizzazione.
Dobbiamo dire con tutta certezza che i Comprensori hanno elaborato i loro documenti affrontando questa prima esperienza di programmazione e di pianificazione purtroppo in un debole e sbiadito quadro territoriale regionale. Avevamo già rilevato in occasione di discussioni sulla modifica della Legge 56 e nella discussione del Piano di sviluppo che il contenuto territoriale del documento era debole nei suoi riferimenti fondamentali.
Non abbiamo mai preteso di precostituire situazioni rigide con il Piano di sviluppo, ma dobbiamo rilevare come solo nei documenti dell'aprile dell'80 (che l'Assessore Rivalta ci ha fornito alla fine dell'altra legislatura) vi sia stato un tentativo purtroppo abortito (mancando il piano di Torino mancando una conclusione rispetto a questi argomenti). Ancora oggi non si possono porre le condizioni per una sintesi della "linee di assetto territoriale regionale".
Anche qui non si sfugge all'enfatizzazione del momento più propriamente analitico, rinunciando ancora e chissà per quanto, a cogliere l'organicità e le connessioni proprie di certi fenomeni localizzativi, visto che siamo in sede di piano territoriale.
Non voglio attardarmi a disquisire sulle teorie di pianificazione n sulle esperienze che già il prof. Astengo ha ricordato, però riaffermo con forza l'esigenza di sterzare rotta in questa seconda fase di elaborazione dei piani definitivi, forse che vedrà la Regione impegnata, non solo in tempi ma anche in contenuti di grande rilievo.
Abbiamo avuto modo di dire in Consiglio e in Commissione che, senza strumenti, i Comprensori non riusciranno a concludere i piani territoriali.
Propedeutica però a strutture fisiche, ad affinamenti metodologici, a supporti di analisi e di assistenza tecnica, è l'indifferibile definizione delle linee generali di assetto regionale. Mi rifaccio al tentativo, che non ritengo ancora riuscito, del documento aprile '80 dell'Assessorato. In quella direzione si deve proseguire a tempi celeri, diversamente non si riuscirà ad uscire dal tunnel.
L'approccio torna solo attraverso le cosiddette "politiche di localizzazione" che l'Assessorato aveva tentato di definire, non lo riteniamo sufficiente; facciamo solo un accenno a questo argomento, non lo approfondiamo in questa sede e lo riprenderemo quando a settembre si dibatteranno gli aspetti metodologici.
Un secondo aspetto che ci preme ricordare criticamente è che la partecipazione alla definizione dei contenuti delle autonomie locali e delle componenti sociali è stata irrilevante rispetto alle opportunità ed alle occasioni di rilevanza storica.
Non sappiamo quale fine faranno i 15 Comprensori: questo è il dubbio che aleggia ogni qualvolta si tenta di prefigurare un rafforzamento o una diminuzione del peso dei Comprensori. Però dobbiamo dire con forza la nostra piena ed incondizionata convinzione che la dimensione territoriale ed istituzionale che il Piemonte ha individuato, al di là dei limiti e quindi dei perfezionamenti necessari sul piano legislativo, è funzionale e quasi ottimale ai compiti di governo dell'assetto territoriale. Quindi anche prefigurando in futuro assetti istituzionali di tipo diverso, non v'è dubbio che non si potrà cancellare facilmente questa esperienza per come è nata, come si è comportata rispetto ai risultati che ha prodotto, al tipo di coinvolgimento, anche se insufficiente, rispetto ai passi che stiamo affrontando. Sottolineo "governo dell'assetto territoriale" perché ai Comprensori deve essere recuperata, in armonia con le Comunità Montane quella dignità di scelta politica che li ha voluti protagonisti di grande rilievo nella politica territoriale e non già solo meri garanti di scelte di politica regionale.
Il Governo del territorio richiede e richiederà sempre più il coinvolgimento delle realtà locali, sia istituzionali sia sociali.
Riteniamo che, soprattutto in questa fase, la gestione del Piano socio economico territoriale e comprensoriale sarà in grado di comporre in un continuo raccordo evolutivo, la programmazione locale con gli obiettivi di assetto territoriale regionale. Occorre quindi fin d'ora costruire le premesse al ruolo del Comprensorio, che non può essere superato né tanto meno mortificato dall'esecutivo regionale. Potrà sembrare semplicistico, ma ritengo che la struttura operativa comprensoriale è uno strumento di supporto necessario perché si possa svolgere il compito che abbiamo cercato sinteticamente di esporre.
Il terzo punto che mi preme rilevare è che purtroppo esiste la legge 56. E' nota la nostra posizione di attesa per quanto riguarda gli aspetti relativi alla pianificazione comprensoriale. La legge 56 ci pone molti problemi. Purtroppo - e la vicenda dei piani territoriali ne è una riconferma - l'arretramento storico- del Piemonte continua, subendo punti di ritardo rispetto all'evoluzione della realtà regionale. Mi rifaccio anche al dibattito di ieri, sulla situazione industriale del Piemonte sulla sua evoluzione, sull'impossibilità di cogliere l'evoluzione e le trasformazioni che si vanno operando anche rispetto alle nuove culture in tema di evoluzione economica.
Continuiamo a 5 anni dall'elaborazione della legge 56 a perpetrare lo stato di ibernazione della realtà piemontese nel "regime transitorio" rispetto al quale la pianificazione continua ad essere penalizzata. Tutto ciò che concerne programmazione, che non va al di là della gestione dello stato di fatto, è condizionato dalla inesistenza dei piani territoriali.
Su questo, egregi Consiglieri, dobbiamo fare dei ragionamenti. Manca il piano comprensoriale di Torino e non si sa quando l'avremo, mancano le linee di assetto regionale generale. Mi chiedo quando riusciremo a comporre in una sintesi i quindici piani territoriali dei 15 Comprensori piemontesi.
Rischiamo di far passare altri 4/5 anni. Mancano le condizioni che già ha denunciato Astengo perché si possa arrivare a questi risultati.
Oltre allo stato di ibernazione del regime transitorio, in pendenza di definite certezze sull'assetto territoriale, abbiamo i contenuti dell'art.
9 della legge 56, che possono offrire pericolosi risvolti al modo di gestire l'assetto territoriale. Su questo il Capogruppo del P.C.I. mi ha risposto in Commissione, dicendo che l'art. 9 prevede delle "procedure democratiche". Che ci siano delle procedure democratiche sta bene, ma esistono anche le maggioranze che gestiscono le procedure cosiddette democratiche. E' pericolosa la permanenza e del transitorio e di questa possibilità di intervenire da parte dell'esecutivo regionale in assenza di elementi di certezza sull'assetto territoriale regionale, con provvedimenti che potrebbero sconvolgere e alterare le decisioni delle autonomie locali e quindi di fatto precostituire gravi situazioni.
Ciò nonostante non solo è opportuno ma è necessario accelerare i tempi ed il senso di responsabilità che ho già ricordato negli atteggiamenti del Gruppo D.C. è stato rivolto sempre e solo nella direzione di superare tutti gli aspetti procedurali e formali pur di concludere questa fase. Avremmo anche potuto opporci ad un'approvazione dei 14 piani senza garanzie rispetto a gran parte degli obiettivi del Piano di sviluppo: il riequilibrio, il decentramento, le funzioni primarie dei servizi della Regione rispetto alla realtà territoriale periferica, i collegamenti infrastrutturali, i rapporti internazionali; tutti aspetti che, in pendenza del piano comprensoriale di Torino, non sono sufficientemente affrontati e rispetto ai quali attendiamo il documento per poterlo poi ricomporre nelle linee generali e di assetto regionale.
Per queste ragioni, al di là dei contenuti espressi dai singoli Comprensori, non possiamo esprimere un giudizio complessivo positivo sul modo in cui la Regione ha gestito questa operazione e sul come questa operazione ancora monca, approda all'approvazione da parte del Consiglio regionale.
Abbiamo sintetizzato queste richieste in una serie di emendamenti che proponiamo all'Assessorato per l'adozione dei primi schemi. Gli emendamenti intendono evidenziare, al di là dei limiti della deliberazione proposta dall'Assessorato ed approvata dalla Giunta, i limiti delle precisazioni contenute nei documenti; quindi è impossibile far discendere da queste precisazioni quegli effetti che sono previsti all'art. 80 della legge 56 con riferimento all'art. 58 della "salvaguardia".
Una seconda parte di emendamenti ribadisce il concetto e l'esigenza di un rafforzamento delle strutture a livello comprensoriale, ivi compresa la fornitura idonea di cartografia di base, perché senza questo elemento riteniamo che i piani non possano approdare ad una conclusione finale.
Ecco perché collega Bontempi, ritengo a meno che non si cambi strada che si accantoni l'ipotesi di avvalersi dell'Istituto Cartografico e che ci si affidi a strutture private per disporre della cartografia di base dei piani definitivi. Il Cartografico forse ci potrà dare la cartografia di base fra 8/10 anni.
Per queste ragioni e anche per la mancanza di quelle strutture che sono comunque necessarie per poter approdare ad una fase finale in condizioni di maggiore coordinamento e certezza, riteniamo che non vi siano le condizioni reali per rispettare non solo i tempi della legge, ma quei tempi che si vorrebbero far credere possibili per le conclusioni.
Nella nostra espressione di voto che elaboreremo sia sul piano generale, sia sui singoli piani territoriali non vi sono elementi di disimpegno rispetto ai lavori che le Commissioni consiliari o il Consiglio dovranno affrontare per poter celermente affrontare la seconda fase di predisposizione dei piani finali; dobbiamo però sottolineare come non vi siano le condizioni politiche per un allineamento in positivo a ciò che è stato fatto dalla maggioranza.
Quindi il nostro voto sarà di astensione sia dalla deliberazione generale sia dal contenuto dei singoli piani. Vorremmo che nella replica l'esecutivo ci consentisse di poter dare, nei confronti delle realtà istituzionali che dobbiamo tutelare, quelle garanzie che sono necessarie oggi e domani per un così importante atto di politica regionale.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Bastianini.



BASTIANINI Attilio

Ancora una volta, in apertura di intervento sottolineo lo scarso rispetto che la Giunta ha per i lavori del Consiglio.
Un anno fa di questi giorni il Consiglio formava una maggioranza indicava un'opposizione, votava una Giunta. Nell'anno non sono mancate le occasioni di confronto sui grandi temi del governo per il Piemonte. Il dibattito sulla formazione della Giunta, sulle modifiche di settembre con l'ingresso dei socialdemocratici, il dibattito sul programma, le verifiche di Consiglio sull'andamento della crisi Fiat, la discussione sulle cifre del bilancio, il confronto sui progetti prioritari hanno costituito le principali occasioni per verificare in questa aula, nella sede del Consiglio, come sui grandi temi si collocavano i partiti e per scoprire quanto sta cambiando nel disegno politico per il Piemonte degli anni '80.
Ricordare oggi questi dibattiti insieme ai confronti di settore, sulla cultura, sull'energia, sull'agricoltura, sul patrimonio, sulla crisi del settore industriale, ancora svolto ieri, in premessa ad un altro momento cruciale della vita regionale, significa dare una giusta prospettiva al lavoro, che in questa sede abbiamo svolto, riscoprire una dignità dell'istituzione, di cui noi stessi spesso siamo poco convinti perch assorbiti dal respiro basso delle polemiche su fatti ed occasioni marginali. Discutere ed approvare, pur nella diversità di voto, i piani comprensoriali negli aspetti socio-economici e territoriali, costituisce oggi un punto di riferimento per la maggioranza di oggi e per l'opposizione di oggi, come momento di verifica in uno sforzo comune per usare della Regione, per fare dello Stato uno Stato diverso, capace di adattare gli strumenti di governo alle mutate esigenze dei problemi da affrontare attento a coinvolgere le responsabili autonomie degli Enti locali, rigido nel rifiutare ogni rischio di involuzione burocratica e pianificatrice.
Esaminare questi schemi non è fare pianificazione tradizionale, ma costruire un metodo di governo adatto ai problemi di una società che cambia. I piani comprensoriali non sono e non possono divenire rigidi strumenti di orientamento di attività delle amministrazioni pubbliche delle forze economiche e sociali. Sono la risposta, tardiva, ma sono la risposta, di una società matura, che cerca di progettare per il proprio territorio e per le proprie strutture socio-economiche linee di cambiamento complesse come complessa è la realtà che deve essere affrontata.
Vi è nei liberali un'adesione tecnocratica (con orgoglio usiamo questo termine) allo strumento della pianificazione alla scala comprensoriale.
L'Europa delle libertà vive ed ha costruito un'efficienza diversa della macchina pubblica ed una diversa capacità di rapporto tra pubblico e privato proprio su strumenti di questo genere (il prof. Astengo ne ha già ricordati alcuni). La nostra convinzione è che, anzi, molta strada ci resti ancora da percorrere. La pianificazione comprensoriale - il termine più esatto sarebbe "original planning" - consentitemi una civetteria, ha radici antiche, chiede una riforma incisiva degli strumenti per il governo locale con l'innesto di incisivi organi intermedi dotati di specifici compiti.
Nella situazione italiana questa riforma tarda per colpe che sono diffuse tra molte forze politiche, affidata alle disperse e contraddittorie sperimentazioni regionali e risentono di questo ritardo il Comune e la Regione: il Comune che tende ancora a riassorbire in sé ogni compito ed ogni indirizzo, la seconda, la Regione, incapace, anche per l'assenza di un giusto livello intermedio di supporto, di decollare verso il suo vero ruolo di protagonista di uno stato diverso e risucchiata quindi in una continua ed inefficace espansione nei settori del governo tradizionale. Vi sono tre punti delle premesse comuni a tutti i provvedimenti sottoposti al voto, che hanno proposto hanno richiamato in Commissione l'attenzione dei liberali e su cui i liberali hanno proposto integrazioni e cambiamenti. Abbiamo preso atto che queste integrazioni sono avvenute, ci riserviamo in sede di dibattito specifico di valutarne l'importanza o la necessità di ulteriore specificazione.
Tre punti elencavo: si tratta di una migliore definizione del ruolo della Regione, di una ancora più esplicita affermazione dei piani comprensoriali come piani di intervento, di una più puntuale definizione degli ambiti di salvaguardia.
Il ruolo della Regione. Contrapponiamo con forza i documenti oggi all'esame che propongono le linee degli investimenti per il cambiamento alla tendenza di questa Giunta di questa maggioranza, di appiattire l'azione regionale, le risorse di cui dispone nelle non finalizzate politiche di settore, capaci di costruire e consolidare il consenso, ma inadatte a sostenere realmente la prospettiva di un Piemonte in evoluzione.
La Regione dei liberali si applica con impegno al confronto sui progetti di piano comprensoriale, ma rifiuta ogni atto di governo dispersivo rispetto a questi disegni di cambiamento. Questo deve essere affermato con forza nelle premesse. I piani comprensoriali devono rigettare due pericoli, divenire strumento di descrizione di una realtà che non sia in grado di cambiare o pretendere di regolamentare in modo rigido e vincolistico atti e comportamenti del sistema delle autonomie, del corpo sociale, delle forze economiche. I piani comprensoriali devono operare a maglie diversificate, selezionando i grandi progetti strategici al cambiamento della Regione e riconsegnando al sistema delle autonomie, al campo sociale ed alle forze economiche, in un quadro coordinato, piene e complete responsabilità di decisione e di scelta. Gli attuali schemi sono ancora pericolosamente in bilico tra le due anime della pianificazione e per questo chiediamo che più e meglio venga specificato lo sforzo, non solo dei Comprensori, ma della macchina regionale, intesa come somma di Assessorati e come apparato burocratico, per approfondire negli elementi di fattibilità tecnico-economica le azioni programmate che, per gli investimenti sul territorio, per il sostegno delle attività economiche, per la promozione della società civile, possono consentite il passaggio ad una finalizzata ed efficiente spesa pubblica. Non crediamo ad una Regione che operi su tutto e che tutto creda di risolvere, né crediamo che tutto possa essere rappresentato, spiegato e regolato dai piani. Crediamo invece con forza ad una Regione capace di concentrare i suoi sforzi su alcuni grandi temi strategici al cambiamento del Piemonte. Il problema della salvaguardia va infine rovesciato rispetto ai termini riduttivi con i quali ci viene consegnato dalla legge 56; dalla cultura del vincolo e del controllo che percorre la legge 56 che ci fa essere da questa così lontani, non per finalità o per obiettivi, ma per metodi e strumenti, contrapponiamo una convinzione delicata e diversa sul ruolo nuovo che spetta alle amministrazioni pubbliche in materia di assetto del territorio. E' illusorio pensare di costruire i piani comprensoriali su azzonamenti di vincolo, non finalizzati a progetti verificati nella fattibilità tecnica economica e sociale. Questi vincoli non passano nel rapporto con le autonomie locali, come dimostra la sostanziale assenza di indicazioni in questo senso contenuta negli schemi in esame. Si crea anzi una convinzione pericolosa, che di fatto non sia possibile utilizzare alla scala comprensoriale l'istituto della salvaguardia.
I liberali concordano che in questa fase non risultava possibile operare la selezione delle zone di salvaguardia, ma ritengono che, ad una diversa azione regionale possa e debba far seguito l'uso della salvaguardia e che questo indirizzo sia opportuno, sia ribadito con chiarezza nelle premesse delle delibere sottoposte al voto del Consiglio. I liberali sono anzi convinti, e in questo senso si muovono anche alcune loro recenti proposte di legge, che l'azione regionale per i progetti di rilevanza strategica, debba essere più penetrante, garantendo alla Regione una capacità di intervento più diretta e più incisiva.
Da questa prima parte dell'intervento emerge una proposta dei liberali per il governo della Regione. Il rifiuto della dispersione dell'azione regionale, il rifiuto del progressivo assorbimento dell'azione stessa nell'ordinaria gestione, il rifiuto della dilatazione delle spese correnti in opposto, il consenso allo sforzo di selezionare i progetti di cambiamento, pochi e strategici, su cui concentrare risorse e capacità amministrative. Resta nel dibattito il buco nero del mancato piano per il sistema torinese, certo è un elemento di debolezza per il lavoro che stiamo svolgendo. Non è tanto la mancanza degli elementi fisici dì collegamento che crea problemi, anche se pesa la mancata definizione di scelte per oltre il 55 % della popolazione piemontese nelle aree di maggiore vivacità economica e sociale, manca piuttosto una correzione di tiro che ha spostato nell'ultimo anno alcuni presupposti delle politiche di riequilibrio che sono sottese negli schemi di piano al nostro esame.
Per anni si è ritenuta Torino area congesta in cui impedire ogni evoluzione in cui l'accentramento dello sviluppo terziario era visto come elemento di ulteriore indebolimento del sistema periferico piemontese. Si era anche convinti che la dinamica espansiva di Torino, controllata nelle aree di maggiore concentrazione metropolitana, potesse generare ricadute positive per lo sviluppo delle aree delle province. Oggi tutto è cambiato: il sistema metropolitano si è dimostrato un gigante con i piedi di argilla in cui si pongono oggi con urgenza prioritaria problemi di nuovo sviluppo produttivo e, più difficile ancora, problemi di rilancio per un terziario che pochi, per anni, hanno avuto il coraggio di giudicare patologicamente sottodimensionato. Da Torino non nascono speranze per sostenere il riequilibrio del Piemonte. I problemi per il Piemonte sono ancora quelli delle analisi ormai storiche, delle prime letture sulla Regione., il potenziamento delle città nelle province, cioè del sistema urbano delle province, la tenuta dei tradizionali insediamenti di valle, il riequilibrio e la riorganizzazione del sistema torinese. Sono cambiati gli strumenti su cui puntare, non più il freno su Torino per sperare a rimbalzo il sostegno delle province, ma il sostegno su Torino e la valorizzazione dei fattori locali per il rilancio della rete dei centri delle province. Questa modificata condizione nei piani al nostro esame non appare ancora e in questa prospettiva occorrerà lavorare nel passaggio alle progettazioni definitive. Alcune ingenuità tecniche percorrono i piani, si continua a credere, ad esempio, nella capacità di diffusione dello sviluppo dei collegamenti viari, si diffonde la convinzione che una più razionale offerta di suoli industriali possa risultare determinante nell'inversione delle congiunture negative e nel determinare le scelte di localizzazione.
La prima ingenuità, cioè l'affidare tutto allo sviluppo dei collegamenti viari, ci impedisce di cogliere una gerarchia di priorità che non ci porti a ripetere gli errori commessi come, ad esempio, per il ritardato collegamento del sistema torinese al traforo del Frejus responsabilità che ha un nome ed un cognome ben preciso, che non ricade con egual peso su tutte le forze politiche presenti in questo Consiglio.
La seconda ingenuità ci ha portato, nell'applicazione della legge 9, ad una dispersione delle iniziative e delle risorse, dispersione che trasforma l'azione regionale in diffuso e sbiadito sostegno alle amministrazioni locali, impegnate comunque a predisporre aree per insediamenti produttivi e non invece a selezionare e a sostenere in modo determinante i progetti strategici funzionali ad un reale disegno di riequilibrio. Più grave sembra ancora la dispersione e la disomogeneità delle proposte nei settori del sostegno alle attività economiche e di promozione della società civile. In questo ancora poco incisivo e selettivo è stato il taglio della verifica regionale, che lascia ancora troppe speranze che si possa operare in troppi ambiti e per progetti, più ambiziosi nelle intenzioni che verificabili nella pratica. L'insieme delle proposte e delle indicazioni costituisce tuttavia uno sforzo organico su cui lavorare a forbice nelle verifiche delle autonomie locali e negli approfondimenti regionali. Non è sulle prime che mi soffermo in questa fase rimandando agli approfondimenti sui singoli documenti di Comprensorio, ma sulle seconde. Vale la pena richiamare la Giunta ad alcune grandi tematiche che costituiscono la vera misura dell'impegno regionale e che risultano inevitabilmente ridimensionate nelle riduttive letture comprensoriali.
In primo luogo, lo sforzo che la Regione deve compiere in prospettiva per aprirsi, anche fisicamente, all'Europa. Il completamento delle dorsali autostradali e in prospettiva l'apertura dei nuovi collegamenti che abbattano in primo luogo nel Piemonte Sud-orientale la barriera delle Alpi non sono lussi egiziani - per ricordare antiche polemiche - ma investimenti per un futuro diverso. Il potenziamento del sistema aeroportuale mirato in primo luogo su Caselle in una visione non riduttiva è un altro elemento di intervento strategico regionale e di nuovo i fatti stanno dimostrando che i tempi e gli investimenti per il recupero a determinati livelli di servizio dell'attuale pista si stanno rivelando più lunghi ed onerosi di quanto poteva richiedere la realizzazione della seconda pista su aree non agricole e con andamento tale da liberare abitati da rumori e da pericoli. L'anello pedemontano, infine, da considerare non come uno degli investimenti viabili richiamati nei documenti comprensoriali, ma come la struttura portante per la tenuta dell'economia nei poli di testata nelle valli su cui concentrare prioritariamente gli investimenti per il potenziamento della rete stradale ordinaria.
In secondo luogo, il nodo dell'integrazione del Piemonte al sistema dei porti liguri da affrontare non con irrealizzabili progetti di infrastrutturazione, ma con un progetto complessivo che investa le aree dell'Alessandrino e del retroterra savonese per integrarle più e meglio le economie portuali e di trasformazione.
Il terzo elemento di riflessione di ordine strategico è ancora la dispersione e la casualità delle indicazioni per una reale modifica del sistema della formazione professionale nel Piemonte.
Ha ragione il Consigliere Viglione: gli investimenti non sono solo nei mattoni, ma sono in primo luogo negli uomini, manca ancora un progetto complessivo. I liberali sono convinti che oggi in prospettiva la Regione debba impegnarsi in un progetto complessivo di formazione professionale che batta da un lato la limitativa interpretazione della formazione professionale come strumento da usare in emergenza e da ritagliare sulle necessità di crisi occupazionali che di volta in volta si pongono e dall'altro batta la tentazione di affidare al mito dell'Università tradizionale la tutela ed il rilancio dei centri delle province. Questa linea serve per accogliere voti, non per costruire un Piemonte diverso. I liberali chiedono, e i piani comprensoriali devono lavorare in questa direzione, un impegno strategico nella formazione professionale che si radichi ai diversi livelli, anche di Università innovative, nelle realtà e nelle tradizioni produttive locali.
Anche il dibattito di oggi conferma che in materia di tante novità le posizioni politiche si intrecciano paradossalmente al limite con il bagaglio culturale a testimonianza di due fatti positivi: il primo, che si incomincia a capire che solo se si sarà capaci di portare il livello del confronto sui fatti e sulle scelte concrete, sarà possibile un rapporto tra maggioranza ed opposizione che sia reciprocamente rispettoso e intellettualmente chiaro nei punti di convergenza e di divergenza.
Il secondo, è che su questi fatti, sui metodi, sugli strumenti, per un nuovo governo che serva alla società, l'ideologia non serve e apre spazi di lavoro comune senza imprigionare in ruoli precostituiti e rimandando più opportunamente ai fatti della gestione, una doverosa separazione tra maggioranza che governa e opposizione che controlla. Non abbiamo riserve affermiamo anche in questa sede che la Regione dei liberali non è per finalità strategiche, per efficienza di intervento, la Regione che è stata costruita in questo decennio. Non abbiamo però riserve ad affermare che il Piano di sviluppo regionale e lo sforzo di pianificazione comprensoriale costituiscono elementi per il cambiamento dell'azione regionale e che proprio su queste conclusioni, sarà possibile costruire le linee di un governo diverso per la Regione.



PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE PICCO



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Bontempi. Ne ha facoltà.



BONTEMPI Rinaldo

Signor Presidente, signori Consiglieri, sono tra quelli che annettono molta importanza ai provvedimenti che ci accingiamo a varare e devo dire che forse non tutto il Consiglio ha colto compiutamente la portata di questi, in questo senso, concordo, anche letteralmente, con la definizione data da Bastianini. I piani socio-economici territoriali sono un punto di riferimento importante, sia sul piano dei rapporti politici sia per il loro contenuto e per la possibilità di sviluppo. Se saranno perseguite con coerenza, senza apriorismi e nel confronto aperto e schietto, potranno determinare una nuova fisionomia dell'Ente regionale.
E' vero c'è quasi un fastidio, una noia o, meglio ancora, una sufficienza nei confronti dei temi di pianificazione, di programmazione forse per le troppe delusioni del passato ad altri livelli, specialmente quello nazionale o forse perché di fronte all'emergenza, all'esplosività della crisi, c'è più il senso del provvedimento concreto, quello che si vede, che si può contare in atti concreti.
Credo però che non si sia colta la particolarità di questa operazione.
Con questa occasione andiamo a collegare continuamente, disegni indicazioni, indirizzi alla necessità di determinare subito ambiti provvedimenti concreti, progetti da avviare o da definire.
Compiamo oggi un'operazione che ha delle rilevanti novità nel panorama politico e culturale del Paese. Gli atti che oggi compiamo ci pongono in una posizione di avanguardia e di novità rispetto al panorama politico istituzionale italiano. Questo è già un fatto grosso e rilevante.
Vorrei spiegare meglio questi aspetti anche riprendendo delle suggestioni, delle ipotesi, delle osservazioni che sono venute da altre parti.
Questa operazione ha permesso a tutti di conoscere meglio il Piemonte presupposto per la formazione di una cultura regionale che è uno degli obiettivi e dei risultati a cui si è teso nella grande ventata riformatrice quando abbiamo fatto le Regioni. Conoscere meglio il Piemonte, conoscere meglio i processi in atto, le determinazioni oggi possibili e gli indirizzi ipotizzabili nel futuro è un'operazione politica di grande portata. Questo è stato un momento di ricomposizione unitaria della società piemontese. Noi crediamo che, pur nella aperta, ferma dialettica politica il dovere dei partiti e delle istituzioni che ne derivano, sia quello di fare uno sforzo di ricomposizioni unitaria attorno ai contenuti, ai progetti, ai programmi e agli indirizzi che facciano di una società parcellizzata, e purtroppo esasperatamente corporativizzata, un corpo che sia in grado di rispondere ai bisogni della gente.
La partecipazione - ritiriamola fuori questa parola - è in crisi profonda. Sono entrate in crisi quelle forme che hanno peccato di dirigismo nelle decisioni, di partecipazionismo nelle cose minute, per altro verso si sono risolte in mero assemblearismo senza direzione. Qui, invece attraverso il lavoro dei comprensori si sono coniugate con efficacia e con i limiti che abbiamo sperimentato, elementi di direzione politica e di guida politica che sono venuti dalla Regione, dalle istituzioni, dal Consiglio, dagli atti che abbiamo preso, dal Piano di sviluppo e dalle leggi che abbiamo adottato a proposte e scelte concrete. In altre parole va in crisi quella partecipazione che è troppo piena di cose dall'alto o che è troppo vuota di cose dal basso.
Non so se il cambiamento che vuole Bastianini sia uguale a quello che vorrei io come comunista, però mi va bene che, partendo dalla crisi profonda della nostra società e del nostro sistema politico, si riesca a dare questa indicazione di cambiamento.
L'intervento di Picco non lo posso condividere perché in qualche misura è ingiusto. Non si può dire: "salviamo i Comprensori" e magari alla Regione, a questi Assessori, a questa maggioranza, diciamo che "non hanno fatto bene il loro dovere". E' stato un processo comune. Se devo valorizzare lo sforzo fatto dai Comprensori - e voglio essere schietto fino in fondo - non necessariamente dai Comprensori che coincidono con questa maggioranza, devo anche riconoscere che questo è stato accoppiato ad un lavoro di direzione, di guida, di lavoro comune che ha compiuto la Regione che hanno compiuto poche strutture. Non dico che la concezione di partire con grandi staff di tecnici attrezzati sotto il profilo scientifico per arrivare a portare il verbo là, non sarebbe stata giusta, ma non sarebbe passata, non sarebbe stata percorribile e oggi non avremmo neanche quelle prime indicative, parziali statuizioni e indicazioni che, comunque rappresentano qualche cosa. Chi come me ha vissuto la fase della vita politica piemontese precedente in cui elementi di separazione e di parcellizzazione sono stati l'avallo e l'alibi per decisioni spesso in contrasto con le necessità delle popolazioni (è il caso della scuola realizzata dallo Stato magari dove non c'erano i bambini e non dove c'erano carenze e chissà quanti altri casi) può dire che, attraverso la strada della democrazia, della partecipazione, attraverso una interazione continua tra direzione, indicazione di criteri, metodi ed indirizzi contenuti nelle leggi e nei provvedimenti e riverifiche, si è ottenuto un innalzamento globale, complessivo e considerevole della cultura del governo.
Questo metodo ha innalzato la cultura di governo, ma questa cultura nuova di governo non è stata conquistata una volta per tutte: bisogna alimentarla, farla vivere, bisogna non far vivere alla periferia nuove delusioni. Questo tema attiene largamente al metodo di governo. In altre parole, vivere una fase di pianificazione con le istituzioni locali vuol dire avere la coerenza e la modestia di vivere le fasi successive.
Bastianini dice che la Regione deve sempre più essere Ente di programmazione che decentra agli Enti locali atti decisivi. Condivido questa affermazione e dico che va portata alle sue conseguenze reali. Il che vuol dire, per esempio, che i comprensori, che esistono e che vivono devono vivere una coerenza tra piani e indirizzi a cui hanno collaborato e decisioni da prendere sui programmi e sulla ripartizione dei fondi. Non credo che questa nuova cultura stia in piedi se disincentiviamo e scoraggiamo questi livelli.
Approvando oggi questi piani non approviamo solo questi schemi e non approviamo solo il pure importante tratto che ci separa dai piani, in realtà approviamo, anche per noi, una regola e un metodo di condotta che come Regione, come Giunta e come Consiglio ci vincola. Il P.C.I. esprime con molta chiarezza questa opinione, altrimenti viene travolto e cade uno dei tasselli fondamentali.
Dentro quelle compatibilità che avremo definito a livello regionale, le cose, le priorità, i fatti, le aree, saranno auto-vincolative anche per noi nei programmi pluriennali di spesa ma anche nel modo con cui l'allocazione delle risorse e degli interventi sarà decisa da quei soggetti e non da altri. Il PCI lo dice a chi governa, farà la sua parte come parte di questa maggioranza perché questo sia portato alle complete conseguenze, chiede conformità e coerenza di comportamenti a tutte le forze politiche, chiede tutto sommato che si lavori, anche nei Comprensori.
Mi sembra opportuno valorizzare questo aspetto nell'atto che oggi compiamo, anche rispetto all'efficienza e alla capacità di intervento delle istituzioni, tema che ci occupa da tempo nel dibattito politico italiano.
Sono necessari atti, riforme, leggi, lo sappiamo: non sfuggiamo però ad un passaggio di partecipazione e democrazia, di interazione fra forte direzione politica e funzione di governo che spetta alla Regione e partecipazione di governo che spetta alle istituzioni locali. Sarebbe sbagliato puntare sulla crescita degli apparati regionali e sulla loro estensione. Dobbiamo puntare sulla qualificazione sulla capacità di raccolta di elementi di sintesi per poter decidere. Gli elementi di sintesi non ci vengono, forniti se non ci confrontiamo quotidianamente con le realtà, con le tendenze presenti.
Alla luce di questa premessa, anche le metodologie, anche le premesse qui contestate da Picco mi paiono giuste. L'aver assunto insieme quell'ordine del giorno come base di partenza, fare i conti con i dati e con gli elementi conoscitivi, mettere in campo le forze per le scelte che in quella data area fossero da compiere nei vari settori, è stata la carta vincente che ci ha permesso di arrivare oggi, con largo anticipo rispetto al resto dell'Italia, e degli atti che hanno una concretezza, una possibilità di sviluppo, atti che organizzano addirittura un possibile e auspicabile modo di essere diverso dell'istituzione regionale e delle altre istituzioni.
In qualche misura, da una società politica e civile del Piemonte profondamente divisa e separata in cui arbitrio e clientela imperavano largamente, si è tentato di porre un metodo che per la prima volta ha raccordato attorno alle necessità reali delle popolazioni.
Si accusa il P.C.I. di non essere moderno, di non essere dentro alla nuova era, di non essere dentro ai cambiamenti che avvengono nelle società democratiche occidentali, lo si accusa di vincolismo, di rigorismo, di eccessi pianificatori, ma, in verità, in questi anni noi e non soltanto noi, per la parte che abbiamo in Giunta, nelle Commissioni, nel Consiglio nei Comprensori, abbiamo dimostrato che il nostro partito è capace di rapportarsi con il mondo. Ci siamo resi conto dei fabbisogni, delle necessità, delle aspirazioni dei cittadini, ci siamo confrontati come partito di massa con la realtà, abbiamo dato le risposte possibili nel momento e nei tempi giusti. Tutto questo non è possibile che lo compia un solo partito, anzi, riconosco che c'è stato su questo tema un apporto e un confronto ampio da parte delle forze politiche e laddove questo è stato alimentato dalla volontà reale di essere protagonisti del governo della propria zona e del proprio territorio, ha portato all'allargamento dei rapporti, della visione di quella cultura che prima dicevo. Questo processo è stato il contrario del rigorismo e del vincolismo, ha capito, ha riconosciuto la realtà per modificarla e per intervenire. Il ruolo del nostro partito è stato un ruolo grande, convinto. Vorremmo che le valutazioni su questa maggioranza, sul suo modo di stare al passo con i temi e di percorrere il futuro, venissero esaminate. Oggi passeremo ai piani. Ho sentito vaticinare lunghezze di tempi, di 4/5 anni per arrivare ai piani. Non condivido questa valutazione e la sfida che dobbiamo lanciare come istituzione regionale è quella assolutamente di non tenere questi tempi: io tenderei a ricondurmi ai tempi previsti dalla legge, farei tesoro delle indicazioni di Astengo sulle strutture che mi paiono fondamentali per arrivare a quei tempi, vorrei che, mentre arriviamo al piano, qualche progetto contenuto nello schema, recepito secondo i gradi di compatibilità nel Piano di sviluppo, nel piano pluriennale di spesa, si metta in moto.
Allora potremo anche spiegare, forse anche alle altre Regioni, che la programmazione non è necessariamente quella cosa per cui si blatera e si scrive, ma che poi non ha peso sulla condizione materiale dei lavoratori e della gente: programmazione può incominciare ad essere come metodo e come processo qualche cosa che spiega anche la capacità di decidere delle istituzioni e dei governi.
In questo senso vorremmo che la stessa processualità, la stessa tendenza venisse da parte del governo centrale. Nel '75 ponemmo la fiducia nella democrazia e nel confronto, quella fiducia che mi ha fatto dire che il Partito Comunista la lezione del pluralismo l'ha imparata e l'ha mandata al punto che la ricordiamo così bene, mentre altri forse se la sono dimenticata, ebbene, questo stesso animo, questa stessa volontà dovrebbe animare il governo centrale e lo Stato nazionale. Non ne sono certo perch gli atteggiamenti verso le Regioni e verso i Comuni sono diversi.
Chiudo il mio intervento con un rilancio ad un lavoro politico, a un lavoro di confronti e di idee che implica mezzi scientifici e culturali ma anche disponibilità di elemento soggettivo, di volontà di quel cambiamento che magari non sarà quello del collega Bastianini, che sarà il nostro, ma che, per un tratto comune rispetto alla situazione del paese, pu raccogliere elementi di consenso e di confronto molto più ampi che lo stesso schieramento di questa maggioranza.



PRESIDENTE

La parola all'Assessore Rivalta.



RIVALTA Luigi, Assessore ai piani territoriali

Ho ascoltato con attenzione e con particolare interesse gli interventi dei colleghi, ho colto spunti critici e atteggiamenti positivi. Al di là di questo fatto, che fa parte della dialettica, intervengo in questa discussione avendo come riferimento un dato di coscienza: che in questi anni questa struttura di lavoro, politica e istituzionale fondata sui Comprensori, tecnica fondata sull'Assessorato (le unità che vi operano comprese le segretarie si possono contare sulle dita delle due mani) fondata sull'apporto importante di altri tecnici, sul lavoro di ricerca e di elaborazione già fatto dalle varie comunità nel passato, dagli istituti di ricerca, in particolare dall'Ires, questo lavoro, che ha aggregato altre forze di ricerca che sino a quel momento erano state disconosciute dall'attività amministrativa, ha prodotto dei dati positivi. Intervengo con questo spirito non poggiandomi quindi agli atteggiamenti positivi che sono venuti da questi interventi. E' la coscienza che i 14 schemi di piano socio economico-territoriale redatti ed adottati dai Comitati Comprensoriali offrono alla Regione un primo quadro di proposte per un più razionale assetto del territorio regionale. Questo è un dato incontrovertibile e proprio sulla base di questo dato oggettivo si può fondare la coscienza della positività del lavoro svolto, al di là del fatto che io ci sia stato dentro soggettivamente fino in fondo.
Questo quadro, per il modo con cui è stato formato, assume un significato ed un valore che va al di là del suo stesso contenuto specifico, investendo aspetti che sono fondamentali per valutare la riuscita o meno di un processo di programmazione e sono gli aspetti che sono stati particolarmente presi in considerazione dagli interventi del Consigliere Bastianini e del Consigliere Bontempi, sono gli aspetti che si rifanno al rapporto tra livelli di governo nella pubblica amministrazione l'affermazione nel concreto processo di programmazione del metodo della partecipazione democratica che non può essere soltanto inclusa in una norma statutaria e poi non essere parte integrante delle procedure di pianificazione, delle procedure amministrative, il coordinamento e la razionalizzazione del processo decisionale. Non può infatti sfuggire ad alcuno il grande significato politico dell'azione che i comitati comprensoriali hanno condotto in poco più di due anni di attività dedicata alla formazione dei loro piani. Per la prima volta nella Regione, ma solo nella nostra Regione, gli Enti locali, le forze economiche e sociali presenti sul territorio in modo sistematico e generalizzato, hanno avviato un processo di programmazione dentro la Regione, hanno affrontato i problemi dello sviluppo economico e sociale dell'assetto territoriale di vaste aree del Piemonte. Il lavoro avviato è stato di grande importanza ed ha gettato le basi per un più diretto coinvolgimento degli enti e delle forze locali nel governo dell'economia e del territorio della Regione. Qui si sono messi i germi per un rinnovamento e per un cambiamento che richiamava il Consigliere Bastianini.
Si è, con tutta probabilità, individuata la strada giusta per evitare errori di metodo politico nella gestione della programmazione regionale errori che avrebbero potuto condurre sul terreno fallimentare di una sorta di neocentralismo, di burocratismo e tecnicismo del governo regionale.
La programmazione comprensoriale ha questo duplice significato valorizzare il potere dei Comuni secondo Io spirito con cui era stata costituita la Regione, riconoscendo loro il diritto di partecipare direttamente alla soluzione dei problemi che li riguardano e che possono essere razionalmente affrontati e risolti solo ad un livello sovracomunale e al tempo stesso fondare le scelte di programmazione regionale su di un solido tessuto partecipativo delle amministrazioni locali. E' importante non perdere di vista questo grande prioritario obiettivo, altrimenti si corre il rischio di esprimere sull'attività dei comitati comprensoriali valutazioni fondate su criteri che sono difformi dal senso vero dell'idea che ispira il progetto politico-istituzionale e culturale dei Comprensori piemontesi.
E' sulla base delle considerazioni che ho adesso fatto che ritengo che il significato degli schemi di piano socio-economico e territoriale dei Comprensori trascende il contenuto specifico degli schemi stessi, poich essi costituiscono per la comunità regionale una prima importante democratica scelta degli Enti locali sulla propria politica, sulla politica del territorio comprensoriale, sulla politica del territorio regionale.
Questa scelta è stata spesso compiuta con grande unanimità di consensi.
E' stato comunque una scelta discussa, dibattuta e confrontata pubblicamente. Come si potrebbe non tenere conto delle decine e decine di consultazioni compiute dall'insieme dei Comitati comprensoriali, una prima volta nella fase di adozione delle delibere programmatiche e una seconda volta nella fase di formazione degli schemi. Siamo di fronte ad un processo decisionale importante, che si misura su questioni di rilievo, che ha fatto superare i particolarismi delle visioni limitate e puntuali.
Credo che si possa dire con estrema certezza che questa Regione amministrata da noi o amministrata da altri, non avrebbe potuto ottenere questo risultato senza il concorso dei comitati comprensoriali, senza di essi non sarebbe stato possibile innescare un processo di tare portata e con queste caratteristiche.
Oggi, intorno a queste scelte, la Giunta ed il Consiglio regionale sono chiamati a pronunciarsi. Giustamente - è stato rilevato dai colleghi - si tratta di un impegno di lavoro che giunge molto opportunamente in un momento in cui la Regione deve procedere all'aggiornamento del Piano di sviluppo, aggiornamento che può avvenire fondandosi sulle proposte avanzate dai comitati comprensoriali, il Piano di sviluppo che dobbiamo elaborare entro la fine dell'anno potrà essere elaborato con una partecipazione preventiva, approfondita, minuziosa, partecipata, dialetticamente promossa dalla comunità regionale.
In particolare va rilevato come un riferimento specifico agli schemi territoriali, con riferimento a questi, la Regione si trovi per la prima volta di fronte ad un quadro complessivo e già molto articolato di proposte in ordine all'assetto strutturale del territorio regionale. C'è il vuoto di Torino e nessuno vuole con l'approvazione dei 14 schemi colmare questo vuoto. Ma è indiscusso che da questi 14 schemi emerge e si sostanzia un quadro territoriale regionale. Si precisa quel quadro regionale che era stato introdotto in termini descrittivi nel Piano di sviluppo della passata legislatura, che è stato poi precisato in termini più particolari nel momento dell'approvazione del piano dei trasporti, come sostegno alla stessa politica dei trasporti, quel quadro che è incentrato su un tendenziale sviluppo più equilibrato della Regione e che è fondato su quella fascia pedemontana, su quell'arco trasversale collinare e sull'asse della Voltri-Sempione di Alessandria e di Novara.
Si tratta di un fatto nuovo che per certi versi ci coglie non del tutto preparati ma che, anche per questo, risulta importante perché stimola la ricerca e l'azione su terreni nuovi e più avanzati da parte delle stesse strutture regionali a partire dall'Assessorato, coinvolgendo l'intera struttura del Consiglio regionale. L'esame di questi schemi pone sul tappeto un intreccio complesso di questioni, politiche, procedurali e tecniche. Si tratta della prima proposta, molto articolata e, al tempo stesso, globale che gli Enti locali, nel modo detto, formulano alla Regione e pertanto per la Regione e per le scelte di programmazione regionale questa formulazione deve risultare impegnativa.
L'assunzione dei 14 piani comprensoriali deve risultare impegnativa per la Regione. Il fatto che i Comitati comprensoriali abbiano realizzato un processo di programmazione regionale, fondata sulla partecipazione reale e non formale degli Enti locali, è stato un risultato importante che traduce in realtà quella che è la filosofia della programmazione socio-economica e territoriale di livello intermedio nella nostra Regione, filosofia che ha permeato la legge n. 43 del '77 e che è stata recepita, almeno nei principi ispiratori, anche nelle leggi 56 e 77.
Proprio per questo il lavoro svolto dai Comitati comprensoriali costituisce un risultato di rilievo, un esempio importante di come le Regioni possano programmare con l'apporto e il consenso dei Comuni, che si realizzano come soggetti della programmazione democratica e in tal modo valorizzano ed esaltano il loro ruolo. Da questo bisognerebbe partire, non per eludere gli altri problemi, ma perché questo è un fondamento originale e importante del lavoro della nostra Regione.
Tra i motivi per cui l'esperienza comprensoriale piemontese è l'unica in atto ed è l'unica che sta producendo tangibili risultati, vi è il diverso modo di concepire la funzione dei Comprensori che in Piemonte è stata prevalentemente quella di fondare il processo di programmazione regionale sulla partecipazione degli Enti locali, mentre nelle altre Regioni, è stata prevalentemente quella di avviare la pianificazione urbanistica intercomunale che più propriamente si sarebbe dovuta affrontare con altri strumenti.
Due grandi filoni, per chi si è affacciato negli anni '60 all'attività tecnico-culturale, all'attività politico-amministrativa, ci stavano davanti; l'uno costituito dall'approccio tipico dell'economia regionale ed urbana, cioè dalla branca del pensiero economico che si misura con l'economia dei suoi sistemi nazionali, quelli che potremmo oggi chiamare sistemi regionali se non ci fosse appunto quell'equivoco nell'accezione regionale che richiamava Bastianini, ed è trascinata dalla stessa evidenza delle cose a considerare la variabile spazio come una delle variabili economiche.
Risulta più agevole da questo punto di osservazione verificare come una determinata risorsa economica collocata in punti diversi dallo spazio regionale ottenga effetti diversi. Emerge cioè con chiarezza che per condurre correttamente una politica economica regionale occorre avere presente l'immagine spaziale del sistema economico. Questo approccio finisce necessariamente per ripartire lo spazio economico della Regione in sub-spazi economici e precisamente in sistemi urbani o in economie fondate su sistemi urbani, con il loro intreccio di economia e di agglomerazione con il loro legame di interscambio e di dominazione. Questi sistemi coprono vaste aree, la loro organizzazione territoriale appare a questo tipo di lettura come una struttura spaziale di aggregati di unità economiche. Di qui discende la concezione del piano territoriale come piano strutturale con la funzione prevalente e prioritaria di coordinare sul territorio le diverse politiche settoriali di spesa o, come suol dirsi con un termine molto di moda oggi, di attuare progetti integrati.
L'altro filone è quello di derivazione più propriamente urbanistica.
Anche l'urbanistica è stata indotta a ricercare una dimensione di piano che va al di là del perimetro abitato comunale, ma vi è stata indotta dalla necessità di progettare un sistema degli usi del suolo urbano conforme ad un modello normativo di assetto degli usi stessi, la cui struttura organizzativa è sostanzialmente determinata dalla gerarchia dei servizi alla popolazione; ciò induce in molti casi l'urbanistica a superare i limiti comunali per poter localizzare i servizi di rango più elevati e per poter definire la mappa degli usi del suolo.
Dunque l'approccio economico è sospinto a ricercare un livello sub regionale e l'approccio urbanistico è sospinto a ricercare un livello sovracomunale. Tuttavia questi moti convergenti non sono arrivati ad incontrarsi, l'economista si è fermato sull'area vasta, il sistema urbano l'area di forte interazione economica tra popolazione ed attività economica, l'urbanistica si ferma sull'area intercomunale di piccole dimensioni nella quale organizzare e gestire i servizi di rango medio-alto.
Quelle Regioni che hanno avuto un approccio alla pianificazione territoriale di tipo economico regionale hanno individuato aree vaste hanno adottato la concezione del piano territoriale come piano urbanistico intercomunale, come piano che norma gli usi del suolo, in pratica la premessa, ma molto ravvicinata, ad un assemblaggio di piani regolatori comunali e una loro foto-riduzione ad una scala più piccola.
Queste esperienze non sono andate avanti. La Regione Lombardia ha addirittura approvato una legge che elimina i Comprensori.
L'esperienza piemontese si colloca all'interno di un approccio culturale proprio dell'economia dello spazio. In questo senso, c'è un'ottica diversa da quella che ha espresso questa mattina il collega Astengo. La storia della pianificazione territoriale in Piemonte, peraltro è nata sotto questo spirito. Si possono infatti individuare due periodi l'uno precedente l'istituzione della Regione, caratterizzato da un lavoro di costruzionne teorica e metodologica e di sua divulgazione ed acquisizione, l'altro che segue l'istituzione delle Regioni e che è caratterizzato dall'impegno sul terreno concreto dell'avvio del processo di piano.
Il '75 può essere indicato come l'anno di divisione tra due periodi; si tratta infatti dell'anno in cui, esaurita la prima legislatura dedicata all'autofondazione della Regione, come istituto di governo, e conclusosi l'iter formale delle deleghe da parte del governo centrale, la Regione ha proceduto all'avvio concreto dell'attività di programmazione. Il primo periodo è stato caratterizzato da un'attività di elaborazione teorico metodologica e di dibattito culturale e politico intorno ai problemi della programmazione regionale e della pianificazione territoriale regionale. Il nucleo più significativo di questa elaborazione è costituito dal lavoro dell'Ires. Devo richiamare come questo lavoro dal momento della sua fondazione, ai periodi successivi, alle elaborazioni successive di Lombardini, di Detragiache, di Maspoli, di Bodrato, di Bertulia abbia costituito una scuola culturale che non è rimasta astratta, ma che ha permeato la vita politica della nostra Regione, che è entrata, tanto che la si vede nello Statuto e nelle leggi successive, nel modo di essere della nostra Regione. La pianificazione territoriale sovracomunale veniva cioè collocata all'interno di un più generale approccio alla programmazione regionale. Il suo ruolo ed i suoi contenuti venivano ad essere precisamente in relazione all'esigenza di attuare una politica di piano regionale. E' come si è detto, la visione del piano territoriale tipica dell'approccio economico-regionale urbano, è la concezione del piano territoriale come piano strutturale e strategico dei sistemi urbani. Quando, all'inizio della seconda legislatura, la Regione ha varato il proprio programma di attività per la pianificazione territoriale, la matrice culturale che domina il campo della nostra struttura politica e amministrativa è quella che sopra ho schematicamente delineato.
E' questa differente filosofia del ruolo dell'Ente intermedio che si è voluto affermare nelle leggi quadro e che si è voluto applicare nella pratica dell'esperienza comprensoriale. La constatazione della rilevanza ai fini della programmazione regionale delle indicazioni contenute negli schemi comprensoriali è già essa stessa sufficiente a trarne una valutazione complessiva positiva. Peraltro, tali indicazioni portano il segno evidente di uno sforzo da parte degli Enti locali di superare le spinte campanilistiche (e qualche collega ha anche fatto qualche esempio) cioè il superamento di quelle spinte municipalistiche che provocano la dispersione delle risorse e l'inefficienza delle attrezzature che si realizzano; e tutto questo per affermare l'ottica programmatoria che impone di individuare quei punti necessariamente limitati di numero se li vogliamo affrontare seriamente su cui collocare progetti di rilievo territoriale.
Certamente, i progetti proposti negli schemi sono ancora in numero elevato le stesse aree industriali che costituiscono davvero una grande riduzione rispetto alla prassi corrente, alla realtà di insediamento industriale sono ancora in numero troppo elevato.
La stessa viabilità che viene proposta credo che superi largamente ancora le possibilità effettive di affrontare i problemi. Emergono questi fatti proprio dal confronto con le risorse disponibili. Essi costituiscono tuttavia, una prima importante selezione da cui partire per estrarre quei progetti che sono da realizzare. E sarà questa la scelta qualificante del prossimo piano regionale di sviluppo, che partirà da questa prima selezione per configurare i progetti, la realizzazione da effettuare concretamente nei prossimi anni. E sarà questa una scelta relativa al Piano regionale di sviluppo, che verrà operata parallelamente e concordemente con la collaborazione, con il conforto del lavoro che i comitati comprensoriali dovranno contemporaneamente fare per passare dalla fase degli schemi alla fase dei piani comprensoriali. Finalmente riusciremo ad avere, per questa coincidenza di tempi che ci vede non perdere tempo, proprio perché si è lavorato nel passato a formulare questi primi schemi, arriveremo davvero ad avere un Piano di sviluppo regionale che, come dice la nostra legge, sarà articolato e specificato attraverso i piani comprensoriali. E' dunque questo lo spirito con il quale si è impostata la pianificazione di livello intermedio.
Attivare una programmazione regionale per progetti intersettoriali afferenti, a determinate aree concernenti oggetti di questi progetti rilevanti con funzioni motrici dello sviluppo economico e sociale, centro del processo di pianificazione della Regione e della pianificazione territoriale di questi schemi c'è la filosofia dello sviluppo non dello stare fermi, non del guardare il passato e chiudersi nello schema del passato.
Se non fosse stata questa la linea di fondo, cioè quella della messa in moto di una programmazione territoriale per progetti, volta allo sviluppo delle varie aree, con caratteristiche di imprenditorialità, di dinamicità con funzione di coordinamento della spesa e di razionalizzazione del processo decisionale, non avrebbe avuto alcun motivo d'essere la complessa esperienza comprensoriale piemontese. Se per ipotesi si volesse considerare una pianificazione territoriale che introducesse soltanto alcuni vincoli dunque sotto molti profili statica, non relazionabile con i processi economici e sociali, dinamici, flessibili come ci mostrano anche gli ultimi eventi, sarebbe stato del tutto sufficiente emettere alcune semplici leggi regionali di vincolo.
In proposito non si può non osservare come proprio alla luce dell'esperienza comprensoriale si ponga il problema di una precisazione forse della stessa legge 56/77. Nel dire questo, collega Astengo, non faccio assolutamente una abiura alla legge 56 del '77, che considero una legge fondamentale, sulla sua struttura intoccabile, dico che l'esperienza condotta in questi anni, con questo spirito culturale, ma al di là di questo, con lo spirito del muoverci nell'ambito di una programmazione democratica che attivi le forze presenti nella nostra Regione, forse qualche verifica sul capitolo riguardante la pianificazione territoriale oggi siamo in grado e in necessità di compierlo. In proposito si rende quindi opportuno svolgere alcune considerazioni di carattere generale sulla pianificazione del territorio nella sua articolazione per livelli e sulla funzione dei piani ai vari livelli.
Nella legge 56 sono previsti due fondamentali strumenti di piano: il piano regolatore generale di livello locale e il piano territoriale di livello comprensoriale regionale che si ritrova nella legge 43 e anche nella legge 56. In sintesi, la funzione affidata al piano locale è quella di definire una razionale organizzazione degli usi del suolo, in modo particolare di quelli interni ai centri abitati e più strettamente connessi allo sviluppo dei centri abitati. La funzione affidata al piano territoriale è quella di definire una razionale organizzazione della struttura territoriale complessiva, in modo particolare incentrata sul sistema dei centri abitati, attorno a cui vive, non soltanto l'economia dei centri urbani, ma vive l'intera economia territoriale. Affinché il piano locale possa definire con correttezza gli usi del suolo, esso deve trovare i riferimenti quadro in un piano territoriale (e questo lo sancisce la legge 56) che assegna a ciascun centro abitato il ruolo che questo deve avere all'interno dell'intero sistema dei centri abitati, nel senso di fornire opportunità, occasioni di vita, di servizio e di lavoro all'intera popolazione dislocata su tutto il territorio comprensoriale. Senza questo inquadramento territoriale, comprensoriale al piano locale, vengono a mancare quei punti di riferimento che sono necessari per decidere se destinare o no, e in che misura, usi del suolo per attività di rilievo sovracomunale. Peraltro la corretta determinazione degli usi del suolo e delle necessarie introduzioni di vincoli sull'uso del suolo (uso la parola vincolo, non in termine dispregiativo, ma per indicare a quale livello deve essere posto il vincolo) può essere fatta soltanto a livello di piano locale, comunale e intercomunale, che opera su di una scala adeguata per compiere tale operazione. D'altra parte non c'è bisogno di ricordare che nella giurisdizione urbanistica un vincolo sugli usi del suolo è veramente tale quando incide con chiarezza sulla proprietà del suolo e dunque su scale catastali che non sono proprie della pianificazione territoriale.
Possiamo dire che la corretta determinazione dell'uso del suolo e dei vincoli sugli stessi, seppur detto schematicamente, è dominio del potere locale che viene giuridicamente esercitato con il piano regolatore generale ed i suoi strumenti di attuazione. Viceversa la corretta determinazione del ruolo dei vari centri abitati all'interno dell'organizzazione territoriale della Regione e dunque la corretta localizzazione, e in generale non dell'ubicazione sul lotto, degli oggetti aventi un'elevata indivisibilità tecnico-economica e una conseguente elevata rarità spaziale e una consistente qualità nell'obiettivo di fornire condizioni e servizi di vita alla comunità, è dominio del potere che si colloca a livello dell'area vista: Comprensorio e Regione e viene giuridicamente esercitato proprio con il piano territoriale di Comprensorio e i suoi strumenti di attuazione.
Occorre affermare con chiarezza questa complementarietà dei ruoli fra i due fondamentali livelli di pianificazione del territorio che la Regione si è data.
Con questo non si vuole teorizzare che la Regione ed i Comprensori e dunque i piani territoriali non debbano occuparsi di vincoli sugli usi del suolo. La Regione ed i Comprensori possono e devono farsi promotori di un più corretto uso del suolo, anche attraverso l'introduzione di vincoli, ma deve essere chiaro che ciò significa incidire su di una materia che in generale deve essere lasciata anche per motivi di efficienza gestionale oltreché di rispetto delle autonomie comunali e di partecipazione democratica dei Comuni, alla competenza dei Comuni stessi e quindi dei piani regolatori generali, comunali o intercomunali. Su alcune tematiche è certamente opportuno e conveniente procedere centralmente come Regione all'individuazione con metodologie omogenee di vincoli sull'uso del suolo ma soprattutto per fornire ai Comuni elementi che incideranno direttamente sui piani regolatori generali.
In tal modo si offre ai Comuni un contributo in termini di accrescimento dell'economia necessaria per una più razionale gestione urbanistica e si offre alla Regione uno strumento per la valutazione ed il controllo della gestione urbanistica dei Comuni. Per inciso osservo che questa complementarietà di ruoli non è presente sempre con chiarezza nelle legge 56, che, anzi, sovrappone dei compiti, infatti essa attribuisce al piano territoriale un peso rilevante di vincoli relativi alla tutela delle risorse naturali, agricole, produttive, storico-artistiche ed ambientali alla difesa del suolo e della prevenzione della difesa dall'inquinamento vincoli peraltro anche attribuiti ai piani regolatori generali. Questa analogia di competenza ai due livelli di plano può risultare ridondante rispetto alla chiarezza ed all'efficienza del processo di piano e pone delicati problemi di conflitto e di competenze e di coerenza di indicazioni se non verrà specificata e chiarita e quindi sotto questo profilo l'esperienza ci può indurre davvero ad una precisazione anche di questi contenuti della legge 56. Si sente dunque l'esigenza sotto questo profilo di procedere ad una più puntuale elencazione di contenuti dei piani ai vari livelli. Ciò consentirà implicitamente di essere anche più rigorosi nella giusta determinazione della scala cui riferire le tavole di piano.
L'insieme di questi problemi è stato ovviamente posto ed affrontato con i Comprensori al momento di decidere sul contenuto degli schemi e si è scelta una soluzione coerente con il ruolo che si voleva attribuire ai piani territoriali e alla funzione dei Comprensori; un compito coerente che fosse praticabile a livello di tutta la Regione sulla base delle conoscenze scientifiche disponibili.
Sono stati fatti appunti sulla non conoscenza e sulla non sufficiente elaborazione scientifica. Non voglio dire che si sia partiti da zero perché non si parte mai da zero, ma si è partiti da un livello di conoscenza del tutto insufficiente a farci fare un cammino con passi più spediti. Si è così scelto di introdurre negli schemi degli indirizzi di vincolo (li richiamava prima il Consigliere Bontempi nel suo intervento) agenti non già direttamente sugli usi del suolo. Non è stato soltanto il limite della conoscenza, fatta a grande scala come rappresentano le carte che sono nel corridoio, ma fu anche una ragione di rispetto delle autonomie comunali, dell'esigenza di far partecipare alla definizione di questi vincoli le autonomie comunali esse stesse in un rapporto dialettico che va da queste indicazioni regionali al loro momento di decisione e all'approvazione dei piani regolatori da parte della Regione, affinché quei vincoli diventino un fatto proprio della politica comunale e non un fatto imposto. Abbiamo quindi introdotto indirizzi di vincolo, criteri e contenuti che i Piani regolatori generali devono adottare per porre correttamente l'uso del suolo, cercando in tal modo di precisare puntualmente le indicazioni generali fornite dalla legge 56. Si sono così scelte alcune fondamentali tematiche di vincolo, e precisamente il vincolo derivante dalla salvaguardia di fondamentali risorse primarie riproducibili le foreste, non riproducibili i suoli, il vincolo derivante dalla salvaguardia dei beni ambientali: aree di tutela naturalistica ed architettonico-urbanistica.
Ci sono parsi questi i vincoli fondamentali rispetto ai quali introdurre il cambiamento. Si tratta di tematiche importanti nella pianificazione del territorio, perché individuano vincoli estesi e forti nel loro contenuto e nel loro significato rispetto all'acquisizione di una qualità della vita migliore e di un'organizzazione dell'attività migliore sul nostro territorio. Rischio idrogeologico forestazione incidono pesantemente ed estesamente sulle aree montane e collinari, le foreste della nostra regione sono estese a 600 mila ettari, quasi ad 1/4 del territorio regionale e sono il residuo di una presenza forestale che fu ben più ampia. La capacità d'uso agricolo del suolo, i beni architettonici urbanistici incidono fortemente su tutta la pianura e su larghe zone dell'area montana.
Sono rimasto sorpreso in queste settimane dalle formulazioni che erano contenute in documenti, in pareri attorno ai piani territoriali e da alcune espressioni che ho sentito negli interventi di questa mattina, che hanno denunciato l'assenza di una qualsiasi conoscenza della situazione del territorio sotto il profilo fisico.
Il pronunciare e l'insistere su queste cose è fare un atto di non giustizia rispetto al lavoro fatto, rispetto all'apporto, all'elaborazione tecnico-scientifica che è provenuta da una serie di istituti presenti nella nostra Regione, che avevano vissuto nelle cantine, disconosciuti non cercati da nessuno fino al '76/77.
Ricercando da parte mia qualche strumento di conoscenza del valore dei suoli ho incappato nell'Ipla, che aveva una documentazione, che aveva schedari sulla natura dei suoli, ho conosciuto la presenza dell'Istituto di idrogeologia del CNR che mai nessuno era andato a toccare che aveva 700 mila informazioni chiuse negli armadi sulle situazioni storiche del nostro Piemonte, sufficienti a fondare più ancora che qualsiasi ricerca e prospezione la conoscenza sulla natura del suolo regionale.
La stessa ricerca sulle presenze architettoniche e culturali della Regione che va verificata perché probabilmente alcune delle indicazioni contenute in quelle documentazioni non esistono più, perché sono state distrutte, costituisce una base di conoscenza che non esisteva nella nostra Regione e che ci è richiesta dalla stessa Sovrintendenza per averla come base del proprio lavoro.
Una corretta determinazione di gestione di questi vincoli rappresenterebbe già di per sé un salto qualitativo senza pari e forse del tutto singolare ed originale nel quadro nazionale, per un migliore insediamento degli insediamenti umani nel territorio dell'ambiente.
Purtroppo all'interno della nostra Regione non abbiamo la forza, la volontà di rispettare queste indicazioni oggettive e scientifiche.
Nello schema di piano territoriale di Novara introducendo peraltro la salvaguardia, volendo bloccare la presenza del terziario, quaternario della nostra Regione, per non lasciarlo andare a Milano, oggi sanciamo che, per esempio, un'infrastruttura di carattere terziario vada a localizzarsi in aree di elevato valore di fertilità. Si può ritenere che gli schemi di piano territoriale comincino davvero a fornire un valido contributo, a patto che le loro indicazioni siano rigorosamente rispettate in sede di esame ed approvazione dei piani regolatori generali. Occorre per riconoscere che su questi temi non esiste attualmente una conoscenza adeguatamente approfondita su tutto il territorio regionale.
Proprio in relazione a questa situazione di non conoscenza da cui siamo partiti si è scelto di cominciare dalla formazione di un quadro sintetico generale. Sono responsabile della lettura di queste caratteristiche fisiche del territorio a questa scala. Mi sono scontrato sia all'Ipla sia al CNR con l'atteggiamento di cautela ed il rigore scientifico dei ricercatori che non volevano produrre una carta a quella scala, che volevano partire dalla scala minuta. Partire da una scala minuta con la scarsità di professionalità oggi presente avrebbe voluto dire lavorare per 10/15 anni e giungere in tempi lontani a qualche risultato.
Abbiamo quindi proceduto alla formazione di un primo quadro sintetico e generale qual è consentito dalle carte tematiche di piccola scala per procedere immediatamente e contemporaneamente per gradi, cominciando dove i problemi sono più urgenti, agli approfondimenti alla grande scala. Sulla scala della fertilità c'è già l'esempio dell'approfondimento fatto partire attorno all'area torinese, verso la direttrice di Ivrea e di Vercelli dove ci sono i terreni di maggiore valore sotto il profilo della fertilità.
Prima di pervenire alla copertura dell'intero territorio regionale con approfondimenti di grande scala (1/25.000, 1/20.000, 1/50.000 secondo le zone) passeranno molti anni, necessiteranno molte risorse, certamente più di quelle che abbiamo utilizzato in questi cinque anni per la pianificazione territoriale.
Accolgo la sollecitazione che faceva Astengo e, mentre la faceva richiamavo l'Assessore al bilancio perché ne tenga conto.
Certamente la pianificazione territoriale deve avere più strumenti avere più disponibilità. Per questo lavoro, per le pubblicazioni, per le documentazioni abbiamo speso di più di altri lavori che sono stati fatti per un singolo aspetto all'interno della Regione. Necessiteranno capacità tecniche in misura alla qualità e all'astensione del lavoro da compiere.
Quando si ricercano forestali per i piani di assestamento forestale, quando si ricercano tecnici per svolgere un lavoro su queste caratteristiche fisiche del suolo, troviamo limiti di capacità a mettere in moto questa macchina.
Condivido quanto dicevano Bastianini e Bontempi sul significato della programmazione come processo evolutivo, che mentre approfondisce ed estende la lettura della realtà, comincia a prendere le decisioni possibili e cautelative sulla base delle conoscenze disponibili; che non attende di avere disegnato staticamente un futuro, forse illusorio, della nostra Regione, ma incomincia a procedere a disegnare nei fatti, nei processi reali il futuro.
E' con questa metodologia, realistica e scientificamente rigorosa, che si dovrà passare dagli schemi ai progetti di piano territoriale introducendo quegli approfondimenti di cui oggi cominciamo a disporre consapevoli che non si raggiungerà ancora uno stadio di piena e completa conoscenza della complessa e dinamica realtà territoriale.
Se si vuole fare entrare in vigore dei vincoli con carattere di operatività, occorre scendere a scale molto elevate, addentrandosi nella dimensione propria della pianificazione locale. Si tratta di operazione importante questa, ma in generale non propria del livello di piano territoriale, il quale deve misurarsi con i progetti di rilievo territoriale, con la loro integrazione, con il coordinamento e la razionalizzazione della spesa, con la promozione dell'imprenditorialità pubblica e la creazione di quel quadro di convenienza e di certezze che sono necessarie per indirizzare e coordinare l'investimento privato; in sintesi, con i problemi di sviluppo economico e sociale nel quadro di un uso più razionale dell'ambiente e delle risorse.
Su questo terreno gli schemi di piano territoriale cominciano a porre una base per una visione integrata dei vari progetti di settore riguardanti l'agricoltura, l'industria, le comunicazioni, il terziario, le residenze.
In tutti gli schemi è stata utilizzata la carta di capacità d'uso agricolo del suolo e si sono forniti i primi criteri normativi di indirizzo ai piani regolatori generali per la salvaguardia dei suoli più fertili. Tutti gli schemi hanno privilegiato, di interventi di riordino urbanistico e funzionale, delle aree industriali esistenti.
Abbiamo la documentazione della localizzazione di tutti gli insediamenti industriali della nostra Regione. La gran parte delle aree industriali attrezzate sono aree di riordino e di completamento e non aree nuove. Si possono contare sulle dita della mano le aree industriali effettivamente nuove. Questo conferma che le scelte non sono state fatte tenendo conto della situazione esistente, non per chiudersi in quella, ma per andare avanti e operare ulteriori sviluppi.
Il Piano regionale dei trasporti era improntato sulla filosofia dell'esistente.
Tutti gli schemi hanno assunto, verificato e precisato le indicazioni fornite dagli studi settoriali regionali nel campo del commercio. Solo due Comprensori, Casale ed Alessandria, hanno allegati alcuni punti circa il fabbisogno residenziale, Tutti gli schemi hanno assunto e arricchito le indicazioni del piano regionale dei parchi. Gli schemi di Vercelli, di Biella, di Borgosesia, di Novara, di Casale, di Verbania hanno indicato le aree di rischio idrogeologico e oggi sono comunque presenti e disponibili a tutti i comitati comprensoriali la carta del rischio idrogeologico e la carta dei dissesti dove sono rilevate e segnate 5.000 frane nella nostra Regione. Si sta procedendo alla schedatura delle 2.000 frane di maggiore consistenza. Non soltanto si sono tratte indicazioni di carattere generale ma si sta procedendo a precisazioni che vanno addirittura al rilevamento delle situazioni di maggior significato. In generale si tratta di progetti che sono coerenti con l'obiettivo di riequilibrio regionale e intercomprensoriale, si collocano sui nodi della struttura territoriale dotati di una buona accessibilità. In generale i progetti utilizzano il nuovo insediamento anche in funzione, il riordino e la razionalizzazione dell'esistente, proprio come richiedeva il collega Astengo.
I Comitati comprensoriali hanno operato quindi secondo una linea di scelte razionali. E' questo il giudizio di fondo che emerge dall'analisi di merito di tutte le politiche di settore, anche se vi sono incompletezze smagliature e vuoti che andranno colmati; analisi che consente altresì di pervenire a livello dell'intera Regione ad una sintesi ragionata e critica degli schemi di piano, che abbiamo preparato, ma poiché è stato deciso in Commissione di non presentarla non è agli atti.
Dunque, con riferimento alle indicazioni di progetto vale quanto già detto a proposito degli indirizzi di vincolo e cioè che il contributo degli schemi alla costruzione di una linea di più corretto governo del territorio è un contributo apprezzabile e anche per questo aspetto esso dovrà essere fatto applicare in sede di formazione, esame ed approvazione dei piani regolatori. Nel sottolineare questo apprezzamento e questi contenuti difendo e valorizzo il lavoro dei Comprensori e dei Comitati comprensoriali nel loro complesso.
Nello studio che si sta conducendo per pervenire alla sintesi ragionata degli schemi di piano territoriale, intesa come quadro di riferimento regionale, necessaria per procedere alla successiva fase di formazione del progetto di piano territoriale e del programma pluriennale di attuazione che lo accompagnerà, si sono condotte delle qualificazioni economiche demografiche, che vogliono essere l'indispensabile al riferimento socio economico dei piani territoriali ed un utile elemento per la valutazione dei piani stessi.
Con riferimento alla quantificazione del piano territoriale si avverte l'esigenza di precisare elementi di carattere metodologico. E' ovvio che un piano deve portare in sé delle quantità. In particolare se un piano territoriale vuole assumere veste operativa, non può limitarsi ad indicazione di tipo qualitativo sulla gerarchia territoriale, ma deve associare a queste delle quantificazioni. Ciò che ci pare meno ovvio, ed anzi ancora poco chiaro, anche perché non sarebbe facile da parte di chiunque delineare delle certezze su un problema sul quale scarsa è l'esperienza, essendo un terreno molto aperto alla sperimentazione scientifica di tipo interdisciplinare, è il tipo di quantificazione che occorre associare al progetto di pianificazione territoriale. Ci si trova di fronte ad un problema scientificamente aperto e affatto concluso.
Quali sono le quantificazioni più utili per un piano territoriale e quali sono le quantificazioni su cui concentrare lo sforzo tecnico e finanziario e come a queste quantificazioni si può arrivare, in modo che queste siano scientificamente fondate e non abbiano ad offendere l'esigenza di partecipazione, di espressione autonoma da parte dei Comuni? Enuncio pur sinteticamente i criteri che si ritiene di dover seguire su questa materia, inviando a documenti di natura tecnica le necessarie definizioni e specificazioni di carattere operativo e ribadendo che si tratta di proposte che hanno tutta l'apertura necessaria a recepire le modifiche in corso d'opera che si richiedono allorquando ci si avventura su un terreno nuovo e dunque con carattere di sperimentalità.
Il piano socio-economico territoriale del Comprensorio, così come è definito nella legge 43, assomma in sé di fatto 2 piani, uno di lungo periodo per il quale sia la 43 che la 56 indicano un arco di validità temporale di 10 anni, l'altro di breve periodo, il programma pluriennale consolidato di intervento e di spesa, il cui arco temporale deve essere analogo a quello stabilito per il programma pluriennale di attività e di spesa della Regione (5 anni).
I contenuti dei due piani e le relative quantificazioni devono pertanto essere complementari in relazione alle diverse funzioni da attribuirsi ad un piano di lungo periodo e ad un piano di breve periodo, Molto schematicamente si può dire che la funzione che si attribuisce ad un piano di lungo periodo è quella di configurare uno scenario socio-economico e territoriale di riferimento al quale si mira attraverso le politiche ed i programmi di breve periodo. Il piano territoriale, inteso come progetto di lungo periodo, concernente gli interventi strategici per i cambiamenti della struttura territoriale, è, come è noto, una proposta che ha ampi gradi di aleatorietà, tuttavia da essa non ci si può esimere poich altrimenti non si avrebbero punti di riferimento per orientare l'azione di breve periodo.
Troppe sono le variabili fondamentali che sfuggono al controllo, per poter essere certi di riuscire a realizzare le indicazioni che si collocano a così grande distanza di tempo. Dunque, nel lungo periodo il piano socio economico e territoriale assume il carattere di scenario normativo della struttura territoriale, associato ad uno scenario delle principali grandezze socio-economiche. Occorrerà attraverso l'azione di verifica e controllo del processo di piano aggiornare continuamente tale scenario certamente ad intervalli più brevi dei 10 anni previsti dalla nostra legislazione come durata massima per l'aggiornamento. Così come occorrerà che i piani contengano proiezioni che vadano anche al di là dei 10 anni, in qualche misura che diano anche delle indicazioni, certo molto futuribili a 20/30 anni, così come ad esempio si richiede per i piani strategici e strutturali anglosassoni. Diversamente il programma pluriennale di intervento e di spesa ha il compito di definire ed attuare gli interventi che sono ritenuti prioritari e fattibili, in base alle risorse disponibili fra quelle indicate nel piano di lungo periodo.
Anche qui vi è un grado di aleatorietà, ma più ridotto, perch l'aggiornamento ed il calcolo che stanno a fondamento delle scelte e la stessa possibilità di partecipazione reale delle forze economiche e sociali si basano su dati e su previsioni più certe, più vissute direttamente dalla comunità regionale.
Qui non interessa più tanto tratteggiare e quantificare uno scenario di struttura economica, demografica e territoriale, quanto piuttosto definire i progetti esecutivi, i loro requisiti di fattibilità tecnica ed amministrativa, quantificare le risorse necessarie, i tempi di attuazione gli enti interessati, la promozione, l'attuazione e le forme più appropriate di organizzazione che gli stessi si devono dare per l'intervento.
Anche il piano di breve ha i suoi tempi di aggiornamento e di revisione, ma ad intervalli più ravvicinati ed in funzione delle esigenze proprie del processo realizzativo. Possiamo subito dire che questo aggiornamento avviene annualmente alle scadenze dei bilanci.
Ciò precisato come si può pensare operativamente di condurre queste quantificazioni? E' ovvio che la quantificazione è cosa complessa, se la si vuole fare con gli strumenti adeguati. E' altrettanto ovvio che ogni Comprensorio dovrà adottare gli stessi strumenti allo scopo di arrivare a risultati confrontabili. E' altresì ovvio che la quantificazione dovrà essere fatta a comprensorio aperto, cioè tenendo conto delle quantità collocate o che si prevede di collocare nei Comprensori circostanti.
Quest'operazione è dunque opportuno che sia organizzata centralmente fornendo ai Comprensori l'assistenza tecnica per eseguirla correttamente.
L'Assessorato alla pianificazione territoriale ha già eseguito una prima serie di quantificazioni economiche demografiche per unità geografiche e su di un inventario di possibili scenari alternativi. Lo si è fatto per sondare e valutare gli schemi all'interno delle linee di assetto territoriale-regionale. Queste quantificazioni, fondate sostanzialmente sulle politiche territoriali proposte dagli schemi, verranno fornite ai Comitati comprensoriali e verrà loro richiesto di valutarle ed eventualmente proporre ad ulteriori verifiche e sondaggi di possibili scenari alternativi. Si tratta di un passo che può essere compiuto con grande rapidità consentendo di pervenire a quanto richiesto all'articolo 5 della legge 56/77.
Questa è solo la quantificazione da associare al piano di lungo periodo, occorrerà aggiungervi la quantificazione da associare al piano di breve, cioè la quantificazione dei progetti da indicare nel programma pluriennale.
Qui interverranno altri criteri ed altre tecniche di quantificazione.
In tutta questa materia l'Assessorato alla pianificazione territoriale sta concludendo la predisposizione del manuale operativo che fornisce le tecniche da autorizzare e che sarà oggetto di discussione e di lavoro nelle sedi della Commissione regionale a partire da settembre.
Ritengo che il segno principale che occorre dare con il passaggio dallo schema al piano socio-economico territoriale di Comprensorio sia quello di dare l'avvio alla realizzazione di progetti complessi intersettoriali per aree. Intorno a questa operazione occorre fare uno sforzo di coordinamento degli interventi della pubblica amministrazione per tentare di indirizzare in maniera più coordinata le risorse di provenienza privata. Si tratta di un'operazione complessa. Occorrerà avviarla per gradi, senza velleità, da prima su di un numero non troppo elevato di situazioni. Bisognerà poi consolidarla ed espanderla nei successivi continui aggiornamenti di piano.
Al piano dai contenuti complessi e di grande dettaglio si arriverà per gradi di mano in mano che la conoscenza si complessifica e si approfondisce, di mano in mano che la capacità di programmare e di agire secondo i programmi si afferma e si consolida.
La linea di lavoro più opportuna appare quindi quella di approfondire le conoscenze nei vari settori, di formulare proposte sempre più precise e con concrete di piani di settore di far confluire le proposte settoriali all'interno delle griglie di coordinamento e di coerenza costituite tra i piani globali, tra i quali riveste un ruolo centrale il piano socio economico e territoriale di Comprensorio, poiché esso costituisce anche il momento di raccordo e coordinamento delle politiche dell'insieme degli Enti locali della Regione, dunque il momento della partecipazione democratica.
Per queste ragioni, non mi è possibile avere dubbi sul lavoro dei Comprensori. E' stato un lavoro positivo, bisogna darne loro merito perch insieme alla Regione, hanno operato per farci giungere a questo risultato.
Manca il Comprensorio di Torino. Certamente è un buco grande nel processo di pianificazione piemontese. Qualche cosa delle indicazioni che necessariamente devono emergere da Torino e che in qualche misura sono già emerse è dentro come momento complementare di indicazione nei 14 schemi di piano comprensoriale soprattutto in quelli dei Comprensori contermini.
Questo, però, non è sufficiente.
Confido che l'esperienza positiva condotta dai 14 Comprensori sia una ragione, uno stimolo a far sì che anche il Comprensorio di Torino raggiunga rapidamente questo livello di elaborazione. Perché ciò avvenga bisogna che tutte le forze politiche, come si sono impegnate nel lavoro dei 14 Comprensori, creando un'esemplarità di comportamento con la volontà di applicare norme statutarie e di fare politica di programmazione, si impegnino altrettanto al livello del Comprensorio di Torino, ciò che forse in questi mesi scorsi non è sempre stato.



PRESIDENZA DEL PRESIDENTE BENZI



PRESIDENTE

I lavori terminano a questo punto e riprenderanno oggi pomeriggio.
La seduta è tolta.
(La seduta ha termine alle ore 13,35)



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