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Dettaglio seduta n.26 del 01/12/80 - Legislatura n. III - Sedute dal 9 giugno 1980 al 11 maggio 1985

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Argomento:


PRESIDENZA DEL PRESIDENTE BENZI


Argomento: Presidente della Giunta Regionale

Dibattito sul programma della Giunta regionale per il quinquennio 1980/85 (seguito)


PRESIDENTE

La seduta è aperta.
Prosegue il dibattito, iscritto all'ordine del giorno, sul programma della Giunta regionale per il quinquennio 1980/1985.
Ha chiesto di intervenire il Consigliere Borando. Ne ha facoltà.



BORANDO Carlo

Signor Presidente, signori Consiglieri, evidentemente è destino che io debba intervenire con le poche parole che ho intenzione di dire o alla sera tardi, quando parecchi si sono già eclissati, o alla mattina presto, quando ci sono ancora dei dormienti. Però, se le parole hanno un significato aggiungerò il mio pensiero a quello di altri colleghi, dispiaciuto solamente perché volevo esprimere alcuni concetto ma, purtroppo, i destinatari di essi sono assenti.
Il Presidente della Giunta, nell'ambito della sua presentazione del programma, ha indicato la maggioranza attuale come una maggioranza ampliata ed irrobustita rispetto a quella che si era costituita quattro mesi or sono, all'indomani delle elezioni 1980, quando, presentando una maggioranza per dare un governo alla Regione, si era detto che era nostro dovere costituire questa maggioranza.
Noi ritenevamo che altri tipi di maggioranza si sarebbero potuti costituire e, credo, il nostro apporto sarebbe stato valido almeno quanto quello degli altri.
Oggi, non essendo cambiato niente, avendo superato soprattutto dei problemi difficili come quelli relativi all'autunno, con le agitazioni sindacali e con i grandissimi problemi dell'occupazione, ci si presenta con un programma che contiene accenni a tutti i problemi che interessano l'Amministrazione della Regione e si giustifica la costituzione e l'ampliamento di questa nuova maggioranza con il concetto del perseguimento del disegno di grande utilità della sinistra. Io sono abituato a ragionare ed a parlare come normalmente ragiona e parla la gente semplice, gli elettori nostri e degli altri, i quali si domandano come e perché alcune forze politiche riescono a trovare coagulo con la Democrazia Cristiana in sede nazionale e poi, invece, trovano alleanza con il partito Comunista in sede locale. In particolare, se vado a Borgomanero, mi domandano perch Nicolazzi fa il ministro nel governo con la D.C., mentre il suo amico Cerutti va a fare l'Assessore alla Regione con i comunisti. Se torno indietro con il pensiero di cinque anni, al l'indomani delle elezioni del '75, quando le sinistre, il Partito Comunista in particolare, avevano avuto grande successo elettorale, e nonostante questo avevano offerto alla D.C.
la possibilità di fare un governo insieme, all'insegna della cosiddetta solidarietà nazionale per affrontare i problemi del Piemonte (questa offerta veniva fatta anche in sede nazionale), la D.C. non accettò allora e non accetta adesso questo discorso, semplicemente per ragioni di coerenza e per problemi di ideologia, che esiste ancora ed è marcata. E' vero che questo discorso lo fanno anche altre forze politiche, ma non sono altrettanto coerenti nel metterlo in pratica. Quando si dice che all'insegna della grande tradizione delle sinistre si vuole costituire il governo delle sinistre, non si riesce a capire in virtù di quali equilibri un partito come quello comunista, che in quest'aula conta venti seggi dispone di soli sei Assessori, mentre altri partiti che sono molto inferiori come peso, ne contano molti di più.
Dimenticavo quel grande, e non facilmente comprensibile per me concetto della centralità socialista: quando ci si riferisce a questo si giustifica la vocazione del potere, dovunque e comunque lo si possa reperire e la nostra Regione ne è una dimostrazione lampante. Noi non siamo stati disponibili e non lo siamo, tutti lo sanno, per ragioni di ideologia.
Siamo per una società ad economia libera, non siamo per una società da trasformare in senso socialista come fino ad oggi lo vorrebbe il Partito Comunista e come lo annuncerebbe il Presidente della Giunta, che vuole la centralità socialista, una società socialista. Ma quale tipo? Perché è bene intendersi su quale tipo di socialismo: quello scandinavo, quello tedesco di Brandt, o quello del laburismo inglese, o, ancora, quello dei Paesi occidentali, con poca nazionalizzazione dell'economia, o quello del nostro Paese, che ha spinto il centro-sinistra a nazionalizzare troppo e che spingerebbe la sinistra a nazionalizzare tutto o quasi tutto? Vista l'ansia che si ha nei confronti dei lavoratori, noi riteniamo che sia un dato storico che il sindacalismo come libera organizzazione di classi e categorie in lotta per la tutela dei loro interessi, scompare quando la cosiddetta classe operaia va al potere, perché nazionalizza quasi tutta l'economia. A questo punto c'è da domandarsi come potrebbero gli operai scioperare contro il loro partito, contro il loro governo, contro se stessi, in definitiva. I grandi padri della rivoluzione Bolscevica, a cominciare da Lenin, escludono sin dal principio che il sindacalismo in Unione Sovietica potesse agire liberamente. Questa finzione politica ideologica e anche giuridica (lo sciopero come reato è problema attuale in Polonia) dura ancora laddove il socialismo comanda. L'antagonismo tra i lavoratori e le imprese di Stato, che venne negato con sofismi di vario aspetto, emerge oggi più che mai ed è ancora, purtroppo, represso; perch solo con il sacrificio delle moltitudini lavoratrici, economie inefficienti e costose possono reggere. Solo se la variabile dei salari viene rigorosamente contenuta e dosata, a seconda delle necessità di imperio, da chi vuol fare la pianificazione, il dirigismo riesce a celebrare i suoi riti e a consumare la sua violenza nei confronti delle economie di mercato.
Siccome noi siamo profondamente convinti di queste cose, sono questi i dati di fondo, i motivi per i quali, nonostante i passi avanti fatti dal Partito Comunista, non c'è ancora la possibilità di un'intesa; ma quello che noi non vediamo altri lo vedono. Allora, accade che se per caso l'on.le Berlinguer e l'on.le Forlani, o l'on.le Piccoli, vengono sorpresi a prendere un caffé insieme, si grida allo scandalo, perché si intravede la possibilità di un'intesa e la realizzazione del cosiddetto compromesso storico; quindi, verrebbe additato come sacrilegio commesso dalla Democrazia Cristiana, di fronte all'opinione pubblica, una qualsiasi operazione che gli altri fanno così, naturalmente.
Tutto questo per dire che se si trattasse solo di mettersi d'accordo su un programma, quale quello che è stato presentato qui, con la serie di indicazioni in tutti i settori della vita operativa della Regione, anche noi saremmo capaci.
Non lo abbiamo fatto, né lo facciamo, pur concordando sulle cose concrete e sui problemi operativi, per le ragioni che ho detto prima.
Allora, quando si presenta un programma, c'è da chiedersi come viene realizzato. Leggevo sul giornale, la settimana scorsa, che l'avvento di questa nuova maggioranza consentiva al Partito della Socialdemocrazia di introdursi e di porre alcune condizioni circa alcune cose e, in particolare, accennava al problema della legge urbanistica che, io premetto, ha grandissime qualità per certi aspetti, ma che presenta ancora dei difetti. L'ho detto prima, l'ho ripetuto su tutte le piazze, piccole e grandi, dove mi è stato consentito di parlare durante la campagna elettorale, e lo ripeto ancora oggi, pronto a sfidare chiunque ad andare a toccare con mano situazione per situazione, paese per paese, se non è vero che la ricerca del perfezionismo ad ogni costo, in una legge come questa crea dei grandissimi problemi, dei grandissimi ritardi che la comunità piemontese finirà col pagare pesantemente in soldi o in mancate realizzazioni.
E' vero che la legge regolamenta parecchie cose, ma le regolamenta al punto tale che i piani regolatori impiegano tre anni ad essere varati perché il Comune incarica una cosiddetta cooperativa di architetti, di progettisti, i quali in due anni riescono a preparare un piano regolatore dopo due anni si impiega un altro anno e mezzo per avere il piano regolatore a disposizione.
A Novara, per esempio, ho saputo dall'architetto Carturani (funzionario della Regione che svolge appunto consulenza sui piani regolatori) che gli sono arrivati insieme, subito dopo le elezioni, tredici piani regolatori e da solo li deve esaminare per vedere se gli architetti indicati nella sigla hanno rispettato la legge ed i coefficienti dell'Assessore Astengo. Quindi in attesa che il Comprensorio attraverso questo suo consulente abbia potuto stabilire che tutto sia in ordine, in attesa che anche il C.U.R. abbia esaminato tutti i documenti, passano tre anni, dopodiché l'operaio che doveva ampliare la casa si accorge di non avere più i soldi a disposizione per farlo, perché il costo è passato, per esempio, da venti milioni a quaranta. Detto in parole povere, prendiamo l'esempio di un paese di mille abitanti; in questo paese vi sono, supponiamo, 100 mila metri cubi di costruzioni. Astengo (che ha concepito la legge) dice che nei prossimi vent'anni questi mille abitanti diventeranno 1200; i 200 abitanti in più avranno bisogno di tanti metri cubi in più, pertanto il Comune è autorizzato a fare un piano regolatore che comprenda i metri cubi necessari per le future esigenze.
Si dimentica qui che non tutti i paesi sono uguali, che le economie e le vocazioni delle popolazioni non sono tutte uguali, che nell'ambito di paesi agricoli ci sono situazioni diverse. Il paese della Bassa Vercellese ad esempio, dove c'è una monocoltura risicola, ha probabilmente una popolazione che sarà permanentemente quella; più la tecnologia avanza, più le macchine sostituiscono l'uomo, ma per quel tipo di lavoro non sarà necessario aggiungere popolazione; mentre vi sono dei posti che o per l'insorgere di un'industria, ed ecco qui la necessità dei piani territoriali che, invece non ci sono e non sapendo come sono fatti e quale destinazione dare alle varie zone, non si può neanche fare il piano regolatore come si dovrebbe. Quindi, c'è una contraddizione, perché si pongono limiti, mentre un piano territoriale, un domani, consente di avere molto di più.
Forse, dando ai comprensori il compito di esaminare il territorio che controllano e di disceverare da caso a caso, in maniera da stabilire una variabile di quei coefficienti fissi indicati dalla legge, si riesce a stabilire un correttivo utile per l'applicazione della legge nell'interesse dei cittadini.
Ho sentito Astengo che poneva dei seri dubbi su questo. Voglio vedere come riuscirà a conciliare l'ansia di rinnovamento con il rigore cattedratico ed accademico di chi ha concepito una legge e la vuole difendere ad ogni costo.
Un altro argomento che sento il dovere di trattare è quello relativo ai trasporti. In particolare, mi riferisco al problema dell'autostrada Voltri Sempione. L'amico arch. Rivalta, Assessore ai trasporti, l'altro giorno avendo ricevuto una petizione da parte delle organizzazioni agricole, ha ritenuto di organizzare una riunione a Vercelli, circa il problema del tracciato di quel tronco di autostrada che manca (sono circa 100 chilometri, di cui 80 per il tronco vero e proprio ed una ventina per le bretelle); sono sorti problemi relativi alla scelta del tracciato, in una fase in cui esso avrebbe dovuto essere già scelto e definito. Mi rendo perfettamente conto, specialmente dopo le esperienze in provincia di Torino, non ultima la grandissima polemica relativa alla strada di Leinì che dopo aver ottenuto il crisma di tutto, ha avuto l'opposizione dei contadini i quali ritenevano di non essere stati consultati e di avere gli interessi lesi; si è dovuto, quindi, rivedere un programma già stabilito.
Per evitare questo si è voluto, ora, consultare le organizzazioni agricole: io credo che, nonostante tutto, le organizzazioni agricole di quelle zone responsabilmente, se accettano un'impostazione faranno in modo che questo non accada. Certo è che, qui, bisogna stringere i tempi: il 31 dicembre è vicino, ed è una data fatidica per decidere e, quindi, io, lasciando ampia libertà di azione all'Assessore competente, invoco che una decisione sia presa e che ci si assuma le responsabilità conseguenti.
In ultimo, accenno ad un altro problema per me importantissimo, quello dell'energia. Facendo parte della VII Commissione, mi sembra doveroso spendere qualche parola in proposito, anche se Petrini lo ha già fatto. La Regione farebbe cosa buona se effettuasse un'azione di censimento generale di tutte le risorse idrauliche, che sul nostro territorio sono numerosissime, per poter sfruttare tutta la potenziale energia idraulica che esiste. Se andiamo nelle nostre valli, o anche nelle pianure, vediamo che opifici, aziende agricole, impianti industriali ed artigianali, tutti i nostri antenati sono andati a collocarli in luoghi in cui l'acqua poteva essere sfruttata col suo salto, per produrre l'azione di una ruota idraulica o di una turbina. Si tratta, con i tempi che corrono, di rivalutare un patrimonio che, secondo me, può essere vantaggiosissimo.
Prima ho premesso che bisogna recuperare tutte le risorse recuperabili però temo assai che, se non ci si indirizza anche verso la scelta dello sfruttamento, sia pure con tutte le garanzie che si vogliono, nel campo nucleare, non stiamo al passo con i tempi. E' documentato che l'energia prodotta col nucleare costa esattamente la metà di quella prodotta con il combustibile. Questo divario, che è già da 1:2, aumenterà certamente, sia per l'ulteriore raffinamento della tecnologia nel campo nucleare, sia per la maggiorazione inevitabile dei prezzi. Quindi, qui, si corre il rischio di creare una situazione di impotenza assoluta da parte della nostra industria a reggere il confronto con altre industrie europee. Quando una fabbrica o un opificio non riesce a produrre a costi tali da poter collocare i prodotti in concorrenza con gli altri, è come "pestare l'acqua nel mortaio", questa è, purtroppo, la verità e bisognerebbe tener conto di queste cose e decidere in questo senso.
Io chiudo. Ho accennato all'argomento politico, ho toccato due o tre problemi secondo me di grande attualità: quello della legge urbanistica è una cosa da vedere e rivedere insieme; quello dei trasporti è altrettanto importante e, questo dell'energia, è un problema che credo potremo affrontare in VII Commissione, ognuno esprimendo il proprio punto di vista per poi proporre al Consiglio le decisioni. Ma già ci deve essere un clima generale di convinzione su quello che si vuol fare, se si vuol rendere un servizio alla comunità che rappresentiamo.
PRESIDENTE.
La parola al collega Carazzoni.



CARAZZONI Nino

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, dovendoci dilungare nel nostro intervento, chiediamo scusa in anticipo al Consiglio e promettiamo di fare ammenda in sede di dichiarazione di voto, quando manterremo il nostro dire in termini addirittura telegrafici.
La presentazione del programma quinquennale 1980/1985 viene a coincidere con un momento di eccezionale gravità e delicatezza per il nostro Paese.
Non ci riferiamo tanto e soltanto, dicendo questo, alle calamità naturali che si sono abbattute sull'Italia, seminando morti, lutti e rovine in intere Regioni. Parliamo, invece, di un altro terremoto: di quello che con violenza, non diversamente devastatrice - ha colpito, squassandole alla base, le massime istituzioni della prima Repubblica.
Malcostume, corruzione, intrallazzi del mondo politico - di certo mondo politico - hanno profondamente turbato l'opinione della gente: la sfiducia e la disistima dell'uomo della strada nei confronti dell'uomo pubblico è inutile nasconderlo, assoluta e totale.
L'inefficienza dello Stato, del Governo, dei pubblici poteri dimostratasi in tutta la sua vergognosa ampiezza in occasione della tragedia del Mezzogiorno, ha portato a pericolosi limiti di rottura. Nè ha contribuito, certo, a ridare un minimo di credibilità alle istituzioni repubblicane la sconcertante conclusione della polemica - improvvisamente apertasi ed inopinatamente chiusasi - tra Presidenza della Repubblica e governo della Nazione. Ma come? Il Capo dello Stato compare sugli schermi televisivi, fa piangere mezza Italia, lancia accuse a dritta ed a manca. E qual è il risultato? Il Ministro dell'Interno si dimette. Benissimo, noi diciamo: siamo all'inizio, questa volta si andrà fino in fondo, è un primo passo. Ma subito dopo vediamo Forlani respingere le dimissioni e dire a Rognoni che non aveva capito niente, che il Capo dello Stato non ce l'aveva con lui. E quel che è peggio, quello che - per essere chiari - ci lascia non solo sorpresi, ma indignati, è che ci troviamo a leggere una nota del Quirinale che conferma questa interpretazione.
Allora noi diciamo: con chi se la sarà voluta prendere il Presidente della Repubblica, visto che Forlani non c'entra, Lagorio non ha colpa Rognoni non è parte in causa? Con chi se la sarà voluta prendere? Mistero.
E' un fatto però che questa conclusione tipicamente italiana tipicamente "a tarallucci e vino" non ha giovato al prestigio del Presidente della Repubblica né, tanto meno, agli organi di questa Repubblica.
Ma torniamo al punto.
L'ultimo scandalo venuto alla luce - quello cosiddetto dei petroli oltre a travolgere tutto e tutti: ministri del governo e sottosegretari in carica, generali della guardia di finanza ed agenti speciali dei servizi segreti , giornalisti e petrolieri; oltre a questo, dicevamo, ha avuto effetti rovinosi proprio in Piemonte: qui, infatti, sarebbero coinvolti uomini (donne, anzi) che ricoprono importanti incarichi governativi; e da qui sono state inviate dalla Magistratura, in relazione alla frode dell'imposta sui petroli, più di duecento comunicazioni giudiziarie..
Il cittadino, sgomento ed indignato, invoca giustizia: vi è nell'aria un'esigenza diffusa e sempre più montante di ordine, di rigore, di pulizia morale. Ebbene, davanti a questa situazione tragicamente reale ed attuale che soltanto chi è afflitto da cecità politica può fingere di non vedere davanti a questa situazione che induce persino il Presidente dei deputati comunisti on.le Di Giulio (parleremo dopo del discorso di Berlinguer), a sollecitare la rivolta degli onesti! (qui ci sta bene un punto esclamativo), davanti a questa situazione che sollecita persino il Segretario del P.S.I., on.le Craxi (e qui di punti esclamativi ne mettiamo almeno tre) a parlare di "emergenza morale", ecco, noi ci saremmo aspettati, anzi ci attendevamo, una presa di posizione precisa, ferma convincente della Giunta regionale: ma il programma, invece, non dedica una riga alla necessità, ormai fattasi prepotente, di ridare al cittadino fiducia e certezza.
Ne ha parlato, è ben vero, il Presidente della Giunta. Ne ha parlato lungamente e con proposizioni tali che noi non possiamo ignorare questa parte del suo intervento. Ed apriamo dunque una parentesi, che avremmo preferito non aprire, ma alla quale, per dignità delle nostre idee, che non chiediamo siano condivise, ma pretendiamo siano rispettate, noi riteniamo di non poterci assolutamente sottrarre.
Riferendosi alla situazione di sfascio generale, il Presidente Enrietti tra l'altro ha detto: "Certo non è per questo che gli uomini che hanno fatto la Resistenza, i giovani che sono stati nelle galere fasciste, le molte donne e uomini che sono morti per fare sì che noi potessimo vivere liberi hanno lottato, sofferto e gioito il 25 aprile di 35 anni fa".
Lei ha detto bene, Presidente Enrietti. Lei ha ragione. E non stupisca che a dirglielo sia il Consigliere del M.S.I. Coloro che 35 anni fa lottarono, soffrirono e gioirono il 25 aprile - se animati da purezza di intenti - è vero, sognavano un'Italia diversa da "questa Italia"; come un'Italia diversa la sognarono altri che lei, Presidente Enrietti, non ha ricordato, altri che il 25 aprile di 35 anni fa, ugualmente lottarono soffrirono e morirono.
Ma c'è una differenza. Questi furono gli sconfitti. Questi con i quali noi ci identifichiamo (e mi spiace che non ci sia il collega Sanlorenzo con il quale abbiamo avuto tanti e tanti scontri al riguardo) per una testimonianza storica e ideale che però non contrasta con il travaglio, con le revisioni, con i mutamenti poi avuti da me, (qui uso il singolare) e dalla parte alla quale ho l'onore di richiamarmi. Quelli, furono dunque i vinti. I vincitori furono gli altri. I vincitori, cari colleghi, foste tutti voi, le vostre idee, il vostro modo di pensare.
E la confessione che lotte, le sofferenze, le speranze di quel lontano 25 aprile sono state tradite, sono andate deluse Presidente Enrietti colleghi di tutti i Gruppi, è la dimostrazione del vostro fallimento.
Di tutto tratta questo programma: di difesa della democrazia, di lotta al terrorismo, di "potenzialità di rinnovamento che l'Istituto regionale racchiuderebbe in sé" e di "volontà di accorciare le distanze tra comunità e centri di potere", "di rimedi da porsi per spezzare la spirale inflattiva" e "di misure da prendersi per il rilancio economico".
Di tutto. Tace soltanto, con grossolana insensibilità, su quello che al momento, appare come il problema dei problemi: quali garanzie, quali prove, quali esempi, offrire per ricreare nel cittadino comprensione e stima verso la classe dirigente.
Ed è su questa inaccettabile e colpevole omissione che noi facciamo cadere la prima, motivata critica del Movimento Sociale Italiano.
Tutta la parte in premessa del documento programmatico viene dedicata a precisare quali siano gli intendimenti operativi di questa Amministrazione regionale nei rapporti con il sistema, con lo Stato, con gli Enti locali nel contesto europeo.
Per esigenza di brevità, noi rinunceremo a fare dettagliate citazioni di quei punti sui quali più ci siamo soffermati. Diciamo soltanto, in commento riassuntivo, che noi ci opponiamo fermamente a tutta la "filosofia" che ispira il discorso portato avanti dalla Giunta regionale.
Ed a questo discorso ci sia consentito contrapporre le nostre tesi: quelle di un Nuovo Comune, di una Nuova Provincia, di una Nuova Regione in una Nuova Repubblica.
Sono tesi, colleghi, che presuppongono radicali mutamenti costituzionali: ma che solo gli sciocchi ed i faziosi possono giudicare antidemocratiche ed eversive, se è vero, com'è vero, che è la stessa Costituzione, all'articolo 138; a contemplare e ad ammettere la possibilità di revisioni costituzionali.
Allo "Stato delle Autonomie" - cui si richiama il documento della Giunta regionale - noi rispondiamo, così, con la nostra concezione di uno Stato unitario ed indivisibile entro il quale l'Autonomia locale sia regolata organicamente. D'accordo, quindi, sulla necessità, urgente e già da troppo colpevolmente disattesa, di una riforma degli Enti locali: ma riforma, noi sosteniamo, basata su un diverso ordinamento, che faccia del principio della partecipazione delle categorie; della tecnica, della scienza, delle professioni, dei mestieri e delle arti, non soltanto uno strumento di democrazia organica, ma anche un antidoto alla incompetenza ed all'incapacità nella gestione del potere, che caratterizzano la crisi odierna delle istituzioni rappresentative dello Stato.
In questa logica, si colloca la nostra proposta di elezione diretta del Sindaco, del Presidente della Provincia, del Presidente della Regione nonché quella di rivitalizzare gli esecutivi comunali, provinciali e regionali mediante l'elezione del cinquanta per cento di rappresentanti diretti delle categorie sociali, quali espressione della competenza e della professionalità.
E - poiché nel documento programmatico si parla di Comprensori, di Comunità montane, di Unità Sanitarie Locali - ebbene, nello spirito delle dichiarazioni sin qui fatte, noi riteniamo anche di dover dire chiaramente che, al fine di superare e di riassorbire i conflitti di competenza e di funzioni (ci si viene a proporre addirittura - pag. 14 - un "comitato di coordinamento fra le associazioni delle autonomie locali"! ) noi giudichiamo opportuno fare chiarezza nel tessuto rappresentativo riconducendo i livelli istituzionali rappresentativi al precetto costituzionale: Regioni, Province e Comuni.
A questo fine ribadiamo e ricordiamo che Regioni, Province e Comuni - a mente degli articoli 114, 155 e 128 della Costituzione - sono i soli Enti autarchici territoriali ammessi come forme di autogoverno locale, sia pure con diverse forme di potestà normativa.
Ogni altro organismo sovracomunale o subcomunale, non previsto dal dettato costituzionale, che l'esperienza ha dimostrato essere non solo dannosi ed improduttivi, ma del tutto inutili ai fini della reale partecipazione del cittadino alla formazione delle scelte amministrative deve essere soppresso, anche in rapporto all'esigenza di ridurre la spesa corrente e portare trasparente chiarezza nella gestione del pubblico denaro.
Quanto, in particolare, ai Comprensori, ci sia permessa una nota di aperta soddisfazione. Pur riconoscendo che l'istituzione di questi organismi è stata fatta in Piemonte, su basi e con criteri meno sconvolgenti di quelli seguiti in altre Regioni, noi ci siamo da sempre, e da soli, opposti alla loro irregolare nascita ed al congiunto disegno di svuotamento delle Province. Adesso, possiamo richiamare questa nostra posizione con legittimo orgoglio: perché, infatti, i progetti di riforma delle autonomie locali segnano la tendenza ad individuare la Provincia quale unico ente intermedio - per cui, tra l'altro, ci sembrano del tutto inutili le elezioni comprensoriali del 21 dicembre- e contemporaneamente concretizzano un netto capovolgimento di posizioni e di indirizzi dei partiti dell' "arco costituzionale", costretti ad imboccare la strada indicata dal Movimento Sociale Italiano sin dagli inizi degli anni 70.
La fine dell'esperienza comprensoriale - che un'altra Regione "rossa" come la nostra l'Emilia-Romagna, ha addirittura stabilito con il progetto di legge n. 12 del 24 settembre 1980, recante "Abolizione dei Comitati Comprensoriali" - può leggersi fra le righe del documento programmatico.
Si torna, dunque, all'Ente Provincia - sia pure ristrutturato e ridisegnato secondo le nuove realtà - con compiti di programmazione socio economica ed urbanistica e di erogazione di servizi sovracomunali, sia per propria competenza, sia per delega di competenze regionali.
Ne prendiamo atto, con aperta soddisfazione abbiamo detto: perché è il puntuale riscontro della validità e della vitalità dell'opposizione del Movimento Sociale Italiano. Un'opposizione capace di prevedere per tempo i guasti di regime; di censurarli tempestivamente; di proporre anche concrete soluzioni in alternanza. Insomma, un'opposizione che conta così poco, da imporre talora le proprie idee agli avversari! Ci resta ancora qualcosa da dire, su questo capitolo, a proposito dei rapporti Regione-Europa. Non possiamo che registrare favorevolmente la dichiarazione dell'esecutivo, sostanzialmente diversa da altre fatte in passato, che "la Regione Piemonte deve inserirsi più fattivamente nel contesto europeo ed assumere le iniziative che la collochino in un rapporto più costruttivo con la Comunità Economica Europea".
Siamo d'accordo sugli interventi che si indicano per il conseguimento di questo obiettivo, cioè per riscoprire il crescente ruolo europeo del Piemonte, finalizzato allo sviluppo del Mezzogiorno; e per trasformare la nostra Regione in un'area ad elevato livello di integrazione economica, in grado di competere con le altre "aree forti" dell'Europa.
Sono questi interventi, quelli riferiti alle grandi vie di comunicazione della Valle di Susa e del Frejus, del Cuneese e consentiteci una particolare sottolineatura, forse anche dettata da ragioni campanilistiche - quelle del Sempione.
E' un discorso, questo del Piemonte e dell'Europa, che meriterebbe - e ce ne rendiamo ben conto - più ampia trattazione, specie per quanto riguarda gli interventi immediati che si rendono urgenti proprio su questi grandi assi viari. Ci porterebbe via, però, troppo tempo e per il momento noi pensiamo di fermarci soltanto alla considerazione iniziale dell'interessante novità inserita nel programma sulla riscoperta del ruolo europeo assegnato alla nostra Regione.
Tornando al programma, accettiamo anche il progetto di una struttura regionale che ci ponga in grado di meglio utilizzare gli indispensabili strumenti finanziari della CEE. Ma, attenzione! Tutto questo deve avvenire lo diciamo chiaramente, nel quadro dello Stato unitario, senza alcuna velleità autonomistica; senza progetti demagogici di contatti diretti tranne che per le esigenze tecniche quali quelle prima ricordate, tra Regione e Comunità Europea; senza l'assurda pretesa che sia la Regione, e non lo Stato, a partecipare alla determinazione degli indirizzi della politica comunitaria.
Ci pare che non sia esattamente questo, il punto di vista della Giunta regionale: e, pertanto, noi dobbiamo dichiarare, a questo riguardo, la nostra ferma opposizione.
Ci siamo forse troppo dilungati - e ne chiediamo scusa ai colleghi sulla parte iniziale: ma una forza politica di opposizione e, soprattutto di alternativa, quale il Movimento Sociale Italiano vuole essere, non poteva sottrarsi al responsabile dovere di contrapporre, specie sul capitolo introduttivo del documento programmatico, alla "filosofia", alle tesi, alle impostazioni della Giunta e della maggioranza di sinistra, la propria autonoma ed originale "filosofia", le proprie tesi, le proprie impostazioni.
Confidiamo d'esservi riusciti.
Veniamo così ai vari piani di settore che, nel loro insieme configurano le linee programmatiche lungo le quali intende muoversi la Giunta regionale. Non è però che sia nelle nostre intenzioni e neppure nella nostra possibilità - lo ammettiamo francamente - prenderli tutti insieme in dettagliato esame, uno per uno.
Ce lo impedisce, anzitutto, la misura che abbiamo inteso dare al nostro intervento; e ce lo consiglia anche la convinzione che su molti punti del programma avremo tempo e modo di ritornare ancora in un futuro molto prossimo; oltre al fatto che in un dibattito così ampio, dove già si sono susseguiti più di 20 oratori con ricchezza di argomentazioni, fatalmente verremmo costretti a ripetere cose già note, già dette, alcune delle quali da noi pienamente condivise.
Daremo, quindi, il nostro giudizio solo su alcuni punti del documento presentatoci dall'esecutivo, cercando anche di formulare, per i capitoli che andremo intanto ad esaminare, delle proposte alternative e, in ogni caso, costruttive.
Non intendiamo però evitare di esprimere e di motivare, sul programma della Giunta regionale, una nostra opinione complessiva, che interpreti il pensiero globale e, come dimostreremo, negativo, del Movimento Sociale Italiano. Diciamo allora che - a prescindere da alcune notazioni interessanti, come - per esempio - la nuova posizione che si intende attribuire al Piemonte nei confronti dell'Europa (di cui abbiamo già detto) o la diversa collocazione a fronte del problema nucleare (di cui diremo poi) - il documento programmatico non può essere da noi considerato che "aria fritta": sono le medesime intenzioni, le stesse dichiarazioni, gli uguali propositi che già abbiamo sentito manifestare all'inizio e durante il corso della seconda legislatura.
Per gli anni '80, la comunità piemontese ha necessità di ben altro che un programma estremamente generico e vago: un programma - non esitiamo ad anticiparlo - destinato in buona parte a rimanere sulla carta, inutile sommatoria di progetti velleitari, dispersivamente elencati, senza l'indicazione di una sola precisa scala di priorità quanto agli interventi da effettuare: cosicché si vanifica il concetto stesso di programmazione.
Ecco, su questo programma, qualche nostra rapida considerazione, fatta a "volo d'uccello" secondo l'ordine seguito.
Agricoltura. Letto il capitolo, ci pare di poter dire anzitutto che vi sia contrapposizione di termini laddove - pag. 18 - si assume di perseguire congiuntamente l'aumento del reddito agricolo aziendale ed un più alto livello di occupazione nel settore. Fino all'altro giorno, si mirava ad un obiettivo esattamente opposto, e cioè la decantazione occupazionale verso il settore industriale. Non vorremmo, allora, che questo proposito programmatico fosse, adesso, ancora il preludio al cosiddetto "imponibile di mano d'opera", tanto caro alle sinistre...
Troviamo poi, oltremodo farraginoso o, quantomeno, poco chiaro, il senso di quanto espresso - pag. 19 - per lo sviluppo dell'industria di trasformazione e la "razionalizzazione delle strutture distributive".
In tema di razionalizzazioni, ci lasciano perplessi gli intendimenti manifestati circa la rete irrigua, oggi detenuta dagli agricoltori, cioè dagli stessi utenti. Si dica chiaramente, in proposito, che cosa si vuole fare con Associazioni come l'Est-Sesia, l'Ovest-Sesia, eccetera.
Consideriamo poi estremamente pericoloso l'accenno all'utilizzazione delle terre incolte: la copiosa letteratura legislativa ed operativa esistente in materia, anche da parte della nostra Regione, dimostra che tutto si riassume, solo e sempre, nell' "esproprio proletario", per noi decisamente inaccettabile.
Pochissimo o nulla, si dice circa lo sviluppo della zootecnia, che veramente potrebbe rappresentare un forte incentivo per diminuire la nostra dipendenza dall'estero. Dello sviluppo dell'associazionismo ne hanno trattato abbondantemente persino pubblicazioni specializzate a grande tiratura e di indubbia formazione ("Terra e Vita" ad esempio) dicendo chiaramente che esso è servito soltanto ad impinguare la cassa di organizzazioni sindacali.
In conclusione, crediamo di poter dire che persino gli estensori del programma siano costretti ad ammettere il fallimento della loro "programmazione" nella chiosa di pag. 21, laddove manifestano la necessità di rafforzare l'integrazione intersettoriale lungo gli attuali divergenti sentieri di sviluppo! E poi - ci permetta l'Assessore Ferraris - c'è una considerazione che avremmo visto volentieri inserita in questo capitolo.
E' prossima l'entrata nel Mercato Comune Europeo, della Grecia e della Spagna; entrata che produrrà ripercussioni notevoli sulla nostra agricoltura e che renderà necessaria ed indispensabile avere, coltivare stimolare e incentivare un'agricoltura specializzata. Noi crediamo che l'agricoltura bisognosa di un valido aiuto sia soprattutto l'agricoltura da collina: ciò che interessa direttamente il Piemonte.
Energia e nodo nucleare. Siamo apertamente favorevoli, lo diciamo senza mezzi termini, all' "apertura" al nucleare. Quindi - pur prendendo atto della radicale inversione della tendenza seguita in questi ultimi anni giudichiamo ancora, come dire? "complessata", insufficiente, troppo esitante, la decisione annunciata con il documento programmatico. Qui non v'è da perdere altro tempo, perché troppo se n'è già perso.
Ricordiamo che all'origine degli attuali problemi energetici sta l'insensata scelta compiuta negli anni '60 con la nazionalizzazione dell'energia elettrica, che ha portato il nostro Paese a dipendere, per il 75 per cento del fabbisogno energetico, dal petrolio, servendo così gli interessi dei potentati pubblici dominanti in quegli anni.
La crisi energetica del 1973 ebbe, per questo, un impatto drammatico con la realtà dell'Italia, e ripropose la necessità di trovare fonti energetiche alternative e di pensare, inoltre, alla scelta nucleare settore nel quale, del resto, vantavamo grandi tradizioni scientifiche, a suo tempo sacrificate per servilismo nei confronti degli Stati Uniti.
Ora, la tanto magnificata energia solare non sembra poter essere utilizzabile se non tra decenni e solo per una limitata percentuale del fabbisogno. Va rivisto piuttosto, l'impiego delle nostre risorse idroelettriche, ridotte a funzionare, oggi, al 30 per cento della loro capacità: in questo campo, molto può e deve fare la nostra Regione, perch come giustamente ricordava il collega Petrini - è inammissibile che il Piemonte, circondato com'è da monti e valli ricche d'acqua, abbia a lamentare un deficit crescente di energia idroelettrica.
Inoltre si può ricorrere ai pozzi geotermici ed all'uso del carbone.
Tutto questo, però, non basta. E' giusto quindi, è doveroso anzi, prendere in considerazione anche l'energia nucleare, senza aprioristiche rinunzie e senza incerti tentennamenti: se non si vuole condizionare pesantemente il futuro delle giovani generazioni e declassare il nostro Paese in un modo che l'Italia non si merita; se si vuole, insomma, che l'Italia resti in contesto europeo.
Un "sì", dunque; un "sì" netto, preciso, responsabile da parte del M.S.I. alle centrali nucleari: che accompagniamo, però, con la ferma denuncia del Governo, per la mancanza di una tempestiva e globale politica energetica; delle Regioni, in generale, per l'incapacità di adempiere ai compiti loro corrisposti dalla legge statale n. 39; della Regione Piemonte in particolare, che ha sinora evitato di localizzare i siti per l'installamento nucleare. Localizzazione che, peraltro, deve avvenire nell'assoluta garanzia delle popolazioni interessate e con rigorosa tutela dell'ambiente, senza che siano sacrificati, ad esempio, terreni fertili per l'agricoltura.
Abbiamo già detto qualcosa nella parte iniziale sul tema trasporti e comunicazioni, che furono oggetto del nono capitolo.
Sanità ed assistenza. Poche le annotazioni sul capitolo, che tratta i problemi sanitari e socio-assistenziali e che riassume le tesi sostenute nei due documenti presentati a fine ottobre, dagli Assessori Bajardi e Cernetti, cui - nella discussione in aula - avevamo già contrapposto le argomentazioni critiche del Movimento Sociale Italiano che qui intendiamo ribadire sul piano dei principi (esclusione della professionalità) come su quello dell'attuazione (mancanza di strutture e di personale medico e para medico).
Ci fermeremo solo un momento per sottolineare l'importanza che deve assumere, in un piano sanitario moderno, la medicina preventiva la quale però, può correttamente svilupparsi soltanto se parte da conoscenze certe ed aggiornate sull'incidenza e sulla frequenza delle varie malattie e delle rispettive cause. A cominciare dalle malattie professionali - per le quali sono necessarie ispezioni, non demagogicamente fiscali, ma diligenti e costanti nei posti di lavoro - per finire a quelle d'ambiente, dovute al clima di alcune zone della nostra Regione. Parliamo di tutte le affezioni della gola e dei bronchi, magari leggere, ma spesso a decorso cronico che per ore di lavoro perso e per costi sanitari - molto incidono sull'economia regionale.
Nella medicina preventiva, assumono importanza l'informazione e l'educazione, che tuttavia vanno dispensati con criteri dettati dalla scienza e dalla conoscenza, onde non trasformare l'informazione sanitaria in una sorta di informazione pubblicitaria, controproducente per l'utente ed utile soltanto ai bilanci delle tipografie che stampano libretti dispense e manifesti....
Per ciò che riguarda l'assistenza, ribadiamo come la mancata approvazione di una legge regionale di riordino fa si che ancora non si sappia quali servizi debbano essere istituiti, come essi vadano organizzati e quale tipo e quantità di personale sia necessario. Tutto ciò, nonostante che il DPR del 24 luglio 1977, n. 616, abbia trasferito alle Regioni i compiti di indirizzo, di programmazione e di controllo, con l'obbligo di definire l'attuazione entro il 31 dicembre 1978. Non vi sono scusanti od attenuanti per questo ritardo, gravissimo per le conseguenze che il cittadino paga.
Infatti gli interventi socio-assistenziali vengono effettuati senza che a finalizzarli si sia decisa una strategia, seguendo la tattica dei piccoli passi alla giornata, che assorbe capitali ingenti con risultati troppo modesti: sono gli stessi Enti delegati all'assistenza che denunciano e lamentano questa situazione. L'Assessore Cernetti me ne potrebbe dare obiettivamente atto.
Ciò che manca è la norma, la legge, il controllo. Sì, anche il controllo, colleghi Consiglieri. Dobbiamo introdurre di nuovo nel nostro lavoro questo concetto e questa prassi (ne parliamo qui, ma vale ovviamente per tutti i campi) se vogliamo far riprendere fiducia al cittadino che usufruisce del servizio, dignità al lavoratore che dà il servizio, decoro all'amministratore che istituisce il servizio.
E poi dobbiamo ancora ripeterci per dire che in questo capitolo del programma abbiamo letto soltanto di piani, di studi, di consultazioni e di .promesse di legge. Non se ne può più; siamo al limite dell'omissione degli atti dovuti. Mentre, se ci fosse la volontà di fare, se si sapesse quello che si vuol fare, pur in carenza della legge nazionale dell'assistenza, ma proprio in forza del DPR 616, si riscontrerebbe che la Regione è nelle condizioni di dare un volto moderno sul piano umano e sociale già sin da oggi, ai servizi per le persone e le famiglie più indifese.
Anche per la droga sono passate altre settimane senza iniziative concrete, senza un progetto di organizzazione delle strutture e delle relative dotazioni di personale; ne parleremo in maniera più specifica discutendo la delibera di attuazione del decreto Aniasi. Per ora prendiamo atto con soddisfazione che finalmente si viene a concordare con quanto da sempre sostenuto dal M.S.I., cioè che soltanto la prevenzione può riuscire a vincere ed evitare le ragioni per le quali i giovani, purtroppo privi di validi ancoraggi, sentono il bisogno di annullarsi nell'inferno della droga, pesante o leggera che sia.
E finiamola con tutta la letteratura sulla non pericolosità delle droghe leggere: anzi, proprio soprattutto contro le droghe leggere dovrebbe puntare la prevenzione, perché dal tunnel della droga pesante è ben difficile tornare indietro e, per contro, la droga leggera è quasi sempre il passo dovuto verso la droga pesante. Bisogna convincere i giovani a non fare questo primo passo.
Prevenzione, poi, significa informazione a livello di scuola, di fabbrica, di famiglia, ma significa, ancor più, dare ai giovani una ragione di vita, una famiglia che educhi, una scuola che formi, una società che assicuri un posto di lavoro.
Ribadendo in quest'aula la solidarietà della Destra contro ogni disadattamento, la nostra testimonianza contro ogni emarginazione, il nostro impegno caparbio contro l'aggressione e l'inganno dalla droga, noi chiediamo, ancora una volta e fermamente, che non ci si diano più parole ma fatti; cioè servizi e norme adeguate. Anche per togliere alla nostra Regione la non invidiabile fama di "via della droga" per i grossi traffici internazionali che, purtroppo, trovano in Piemonte un redditizio mercato.
Dirò brevemente, sul turismo a proposito del quale avremmo molto da dire, ma lo faremo allorquando si svolgerà, come ci aveva anticipato il collega Moretti, un apposito dibattito sull'argomento. Accontentiamoci per ora di dichiarare le nostre preoccupazioni per lo sviluppo di questa industria che tanta parte ha nell'economia piemontese.
Quest'anno il turismo ha tenuto, è vero. Ha tenuto soprattutto in virtù dell'apporto di valuta proveniente dall'estero, ma per il futuro è necessario programmare più seriamente portando avanti anche i progetti relativi alla terza età.
Notiamo che il proposito, di sciogliere gli Enti provinciali nel turismo segna il passo: ce ne compiacciamo. Occorre legiferare con cautela in questo campo, senza farsi prendere le mani da radicali innovazioni.
Allo stesso modo, contro certe tendenze del passato, ci auguriamo venga rivalutato dalla Regione il ruolo delle aziende di soggiorno che sono da mezzo secolo il principale supporto dell'organizzazione turistica periferica e che vanno dunque mantenute, ancorché diversamente strutturate e organizzate. Ma quello che in particolare noi del M.S.I. chiediamo all'Assessore Moretti, è di impegnarsi affinché il settore del turismo venga equiparato all'industria; possa cioè beneficiare di uguali provvidenze, specie quelle idonee a sostenere la competitività dei prezzi quali la fiscalizzazione degli oneri sociali, il rimborso dell'IVA per i servizi pagati in valuta speciale, tariffe particolari per l'energia ed i combustibili, il ripristino degli incentivi per la bassa stagione e soprattutto, la legge-quadro per il turismo che, tra l'altro, prevede un fondo destinato sia al finanziamento delle grandi infrastrutture turistiche regionali e comunali, sia alla riconversione urgente dell'offerta turistica.
Formazione professionale. Non intendiamo parlare qui del caso specifico che Fiat e miliardi CEE ci pongono in questi giorni sul tappeto. Se ne è già discusso mercoledì mattina quando, tra l'altro, se fossimo stati presenti anche noi, avremmo espresso (ci teniamo a dirlo pubblicamente) tutto il nostro apprezzamento e la nostra stima al collega Alasia spiacenti per le sue dimissioni dall'Assessorato al lavoro. Ci auguriamo che sulla medesima linea di imparzialità e di correttezza voglia mantenersi e soprattutto, sappia mantenersi, il collega destinato a sostituirlo.
Parliamo piuttosto dell'esigenza di un costante processo di formazione educativa che renda l'essere umano fattore di progresso e partecipe al senso della storia.
Un'istruzione professionale, quindi, non finalizzata soltanto allo svolgimento di singole, particolari mansioni, ma considerata come momento di consapevole partecipazione. Tuttavia, parlando di istruzione professionale, occorre fare bene attenzione onde discernere nel suo ambito i "veri" dai "falsi" problemi: le iniziative da attuarsi, devono, cioè corrispondere alle reali esigenze di evoluzione sociale ed economica.
Indispensabili sarà, quindi, oculare nell'obbligo della partecipazione e della durata dei corsi. Ma il problema di fondo sta nei compiti e nei significati che si intendono attribuire alla formazione professionale.
La legge regionale n. 8 del 1980 concepisce "la formazione professionale come uno strumento di politica economica che va usato per effettuare interventi sul mercato di lavoro" (sono le stesse parole con le quali la collega Marchiaro ha illustrato la legge al momento della sua presentazione in Consiglio).
Ebbene, noi dissentiamo totalmente da questa impostazione, perch interpretiamo la professionalità come dimensione dell'uomo e come capacità di svolgere funzioni lavorativo- produttive, non quali semplici mansioni ma come ruolo. Ruolo dell'uomo che deve valersi delle relazioni tra i vari fattori tecnologici, economici, sociali, culturali, al fine di partecipare alla realizzazione di progetti, di programmi produttivi e sociali affermandovi la sua libertà e la sua dignità.
Perciò, professionalità che porti il lavoratore ad essere non oggetto di economia, ma soggetto di creatività.
Abbiamo invece preso nota positiva del collegamento che nel documento viene fatto tra formazione professionale e disoccupazione giovanile, per stupirci, subito dopo, nel constatare del tutto ignorato il problema della disoccupazione femminile, ma quello ancor più grave della sempre crescente richiesta di lavoro da parte della donna, crescente anche rispetto ad una stazionaria domanda maschile (il rapporto è di 4,8% a 2%), tanto che recenti indagini e statistiche portano a considerare la donna il vero dramma sociale del prossimo decennio, il vero nodo politico dell'occupazione. E poiché non vi è dubbio che la bassa professionalità del lavoro femminile ha ripercussioni negative sulla stessa possibilità di lavoro, ecco che la sua preparazione professionale deve diventare impegno di primaria importanza.
E qui ci sia consentito aprire una parentesi per sottolineare come sia addirittura stupefacente, per non dire altro, che una Regione come la nostra - la quale ha donne nell'ufficio di Presidenza e nell'esecutivo e si avvale, o dovrebbe avvalersi, della collaborazione di una consulta femminile, presenti un programma senza dedicare neppure una riga alle problematiche femminili: che ci sono, che sono gravi, che non si risolvono con i "girotondo delle streghe" alla maniera femminista, ma attraverso meditati interventi programmatori e legislativi.
E chiudiamo la parentesi con la quale abbiamo inteso sottolineare soltanto una non piccola carenza di questo programma, per tornare alla disoccupazione giovanile e per sostenere, esattamente come fa il programma anche la necessità di programmare interventi a livello locale. Ma allora avevamo ragione noi, quando, nel settembre del 1975, presentavamo un disegno di legge sulla disoccupazione giovanile che proponeva interventi sul piano locale; ed ha avuto torto l'esecutivo, l'esecutivo di allora certo, a non portare neppure in discussione quella legge, anche perch troviamo- nel programma che stiamo esaminando, suggerimenti che si richiamano alle proposte che in quella legge facevamo e che qui ripresentiamo, perché continuiamo a ritenerle utili, pur nell'amara constatazione di aver perso 5 anni.
Proponevamo allora e riproponiamo oggi: 1) La istituzione presso l'Assessorato del Lavoro di un Comitato regionale per i problemi della disoccupazione giovanile che dovrà farsi promotore di una ricerca volta a localizzare posti di lavoro e a trovare collegamenti tra scuola, ordini professionali, strutture economiche e giovani in cerca di prima occupazione 2) la creazione di borse di studio della durata di due anni che consentono l'avvio all'introduzione effettiva dei giovani nel campo da essi prescelto per la loro sistemazione economica e sociale 3) la concessione di prestiti fiduciari senza interessi ai diplomati e laureati che intendano intraprendere la libera professione 4) incentivazioni tese a sollecitare l'impegno dei giovani nelle campagne, trattenendoli in un'attività di primario interesse per la Regione.
La realizzazione di quanto proposto può, a nostro avviso, porre un freno all'aumento della disoccupazione giovanile in Piemonte creando i presupposti per una ripresa dell'economia regionale e per una inversione delle tendenze negative manifestatesi nel tessuto sociale.
Politica culturale Tema, questo, che ci provoca e ci stimola: anche se la politica culturale che la Giunta regionale intende sviluppare è, per la verità, così vagamente delineata che neppure si riesce ad afferrarne i contorni.
Quale doverosa premessa, dobbiamo affermare che per noi la cultura è punto di riferimento e di partenza per ogni attività politica, in quanto intendiamo la cultura come concezione di vita e come modo dal quale far discendere l'organizzazione della società.
Su questo piano, è fin troppo ovvio che il nostro pensiero e quello della maggioranza siano inconciliabili.
Tuttavia, qui, intendiamo parlare di politica culturale in senso più limitato per fare talune osservazioni ed avanzare poche proposte concrete.
Non ci piace, Assessore, il richiamo alla continuità della politica culturale della passata Giunta: un'attività che è stata sicuramente costosa, molto "assistenziale", e ognuno intende ciò che vogliamo dire largamente frammentaria, non indirizzata da alcuna idea-forza, forse neppure da quella di una coerente interpretazione marxista. A proposito del programma che oggi ci viene presentato, diciamo che, certo, il Piemonte ha tutti i titoli per entrare nei grandi circuiti internazionali, ma senza dimenticare che anche su questo piano la Regione interpreta la sua ragione d'essere, solo se agisce partendo dalle realtà locali, magari per proiettarle poi al di fuori dei suoi confini.
Ed ecco le nostre proposte: 1) Il censimento dei beni culturali ecclesiastici, civili e privati; un censimento da non far diventare l'ennesimo espediente per gettoni dati a più o meno "esperti" e magari sfaccendati, bensì che sia studio rigoroso e catasto preciso di quanto di prezioso e magari sconosciuto, conserva e nasconde la nostra Regione.
2) La rivalutazione su basi serie, potremmo dire scientifiche, della storia locale, da leggersi come anello di congiunzione con la più vasta storia italiana ed europea e anche come rivisitazione della vita di ogni giorno. Spesso nella cronaca del costume e delle piccole cose, stanno le radici di importanti fatti storici. E' un filone di studi (l'Assessore Ferrero non è probabilmente al corrente) che si sta portando avanti con successo in Francia e che potremmo noi stessi seguire, magari proprio avvalendoci dell'apporto francese, anche per la molta comunanza di storia e di vita tra il Piemonte e alcune Regioni di quella Nazione.
3) La promozione di studi sui filosofi e pensatori minori del Piemonte.
L'argomento è impegnativo e non di vasto interesse, noi ce ne rendiamo conto. Tuttavia ci hanno offerto spunto per la proposta le considerazioni fatte da Augusto del Noce, in un recente Convegno a Udine, sui filosofi friulani, secondo le quali spesso non riusciamo più a trovare le radici della grande dottrina perché abbiamo dimenticato di cercarle nella più modesta cultura locale. E così ci è venuto di pensare che il Piemonte, ad esempio Gerdil (così dimenticato da essere da molti considerato francese mentre in realtà è savoiardo), con Avogadro, con lo stesso Gustavo Cavour vanta una tradizione di pensatori della cosiddetta reazione che meriterebbero di essere meglio conosciuti. E anche su questo indirizzo dobbiamo dire, visto anche il sorriso ironico dell'Assessore Ferrero, che siamo certi, innanzitutto che egli non può concordare con noi, ma d'altra parte siamo convinti che egli, come noi, sia d'accordo che la cultura nel suo momento di studio e di conoscenza non accetta steccati, ma soprattutto è iniziativa, quella che noi ci siamo permessi proporre, che può essere indirizzata ad altre scuole minori del pensiero o dell'arte piemontese.
Siamo convinti che queste ed altre attività, se portate avanti nello spirito e negli intenti da noi proposti, potrebbero dare alla politica culturale, non il tono dell'erudizione, che non serve ai fini voluti, ma basi di studio serie e di umano interesse che ci aiutano e che ci aiuteranno a riscoprire la tradizione della nostra gente per vestirla di futuro.
Secondo una immagine che ci piace noi pensiamo che così debba essere la cultura: un' orizzonte che nasce nel passato per abbracciare l'avvenire.
Abbiamo voluto presentare alcune considerazioni suggeriteci dalla lettura del documento programmatico. Ci rendiamo ben conto, e lo abbiamo già prima annotato, che molte cose ancora andrebbero aggiunte, poiché molti e taluni anche di primaria importanza, sono i capitoli che siamo stati costretti a trascurare. Confidiamo, però di avere ancora, come dicevamo occasione di parlarne in futuro.
Ci avviamo, così, alla conclusione, anche per non abusare oltre della cortese pazienza di quei colleghi che hanno avuto la bontà di seguirci sin qui. Non possiamo, però, concludere senza esprimere il nostro punto di vista anche sui due "fatti politici" che hanno caratterizzato il momento di presentazione di questo documento programmatico e che sono stati oggetto in questi giorni, di discussioni polemiche, talvolta aspre, fra le diverse forze politiche: l'entrata dei socialdemocratici nella Giunta regionale con il passaggio del PSDI dalla estensione determinante alla piena responsabilità del governo piemontese; e la richiesta della presidenza del consiglio, ufficialmente avanzata dalla Democrazia Cristiana e condivisa dal PRI e dal PLI. Ancorché respinta dai partiti della nuova maggioranza.
Su questi due fatti, al di là dell'esame del programma, riteniamo giusto e doveroso pronunciarci: lo faremo, com'è nostro costume, con parole ben chiare, dicendo subito che noi non comprendiamo perché mai il susseguirsi di queste vicende- e, cioè, la decisione socialdemocratica e insieme, il rifiuto al cambio della presidenza - abbiano sollevato tanto candido stupore, tante stupite sorprese, tante postume rivendicazioni.
Non riusciamo proprio a capirlo e dobbiamo in verità pensare che questi atteggiamenti siano il frutto o di macroscopica ingenuità oppure di mera speculazione: in ogni caso, giungono troppo in ritardo per poter risultare convincenti od anche solo per venire giustificati.
Intendiamoci; non è, con questo, che il nostro giudizio sulla svolta compiuta dal PSDI sia meno drastico o severo o definitivo. Noi pensiamo che i socialdemocratici piemontesi abbiano, in effetti, tradito il loro elettorato e, con lo squallido (benché redditizio...) accordo di potere raggiunto, si siano squalificati agli occhi dell'opinione pubblica. Ma, per denunciarlo, non abbiamo atteso questa occasione: lo abbiamo detto subito quattro mesi fa, sin dalla nascita di questa Giunta, quando addirittura ci è stato facile prevedere i tempi e i modi del rimpasto. Scusate, colleghi se siamo costretti ad autocitarci; ma ci sembra opportuno ricordare che noi, allora, dicemmo testualmente: "E il PSDI concede il suo voto, in modo subdolo e furbesco insieme, senza, per il momento, nulla pretendere. Per il momento. Ma lasciate che il nuovo governo si formi, che Longo ritorni nella coalizione governativa, che Nicolazzi ridiventi magari ministro: e li vedrete, allora, questi socialdemocratici, farsi avanti a reclamare posti e poltrone...".
Questo sostenemmo: perché sin da quel momento era chiaro, anzi chiarissimo, come sarebbero andate a finire le cose.
E, dal suo punto di vista, fece bene, nell'occasione, il collega Cerutti a trincerarsi dietro la solita, e logora, dichiarazione antifascista per evitare di risponderci: non poteva, infatti, smentirci perché in quel momento l'accordo di potere era ormai raggiunto ed il tradimento elettorale consumato.
Sbagliarono, invece, altri. Sbagliò chi non credette alla attendibilità, di quelle previsioni. Chi si illuse - contando, figuriamoci! sulla coerenza del PSDI - che, mutata la situazione a Roma, avesse automaticamente a cambiare anche a Torino. Chi volle chiudere gli occhi davanti alla realtà e rassegnarsi ad un confronto "morbido", nella speranza di non rompere i ponti con i socialdemocratici... Ecco perché, a questo punto, l'indignazione è tardiva, se non sospetta! A questo punto, invece, ci sollecita soltanto il sapere, come reagirà il PSDI piemontese alle vicende di questi ultimi giorni. Il 28 novembre infatti, l'on. Berlinguer ha posto - sfruttando l'emergenza del terremoto fisico e del terremoto morale che ha colpito l'Italia - la candidatura del PCI ad assumere il governo della Nazione, emarginando la DC.
Durissime, da tutte le parti, le reazioni a quella sua proposta che sia detto per inciso - noi non vogliamo adesso, in questa sede, giudicare ma della quale dobbiamo pur dire che ci sembra essere avventata e strumentale, e come tale destinata all'insuccesso; la conferma che, da un po' di tempo a questa parte (il caso Fiat è significativo al riguardo) il leader comunista non riesce più a trovare una propria strada lungimirante forse perché condizionato anche da pesanti situazioni interne di Partito.
Dicevamo di reazioni durissime. E, tra le più dure che ci siamo annotate, quella del Segretario Nazionale del PSDI, on. Longo, secondo il quale, la scelta dal PCI effettuata veniva a rimettere in discussione molte alleanze locali strette tra Socialdemocratici e Comunisti.
Il PSDI piemontese che cosa ne pensa? Si allineerà alla nuova direttiva di Longo o farà ad essa orecchie di mercante, pago dei posti ottenuti nel governo e nel sottogoverno della Regione? Ma torniamo al punto.
Le stesse identiche considerazioni che facevamo prima, a proposito dell'ingresso dei Socialdemocratici in Giunta, possiamo farle, dobbiamo farle, a proposito della rivendicazione avanzata da altri partiti della minoranza, della Presidenza del Consiglio.
Noi siamo stati i soli, all'interno di quest'aula, a votare contro il collega Benzi: pur avendo dichiarato allora - e ci teniamo a ripeterlo oggi la nostra stima alla persona del presidente designato ed aggiungendo adesso, il nostro apprezzamento per il modo corretto ed imparziale con il quale, sinora, egli va svolgendo il suo compito.
Ma il nostro voto contrario era motivato, oltreché da una protesta per la discriminazione di cui eravamo fatti bersaglio, anche proprio da quelle argomentazioni politiche, prima svolte, sul ruolo che il PSDI era chiaramente avviato a ricoprire.
La DC si astenne, invece, nelle votazioni al pari del PRI e del PLI compiendo - non sappiamo se volutamente od ingenuamente - un grave errore di valutazione, cui tenta ora di porre rimedio.
E, in fondo, ha ragione il collega Revelli quando dichiara, in una intervista a "Stampa Sera" del 20 novembre: "Ma come? I Comunisti socialisti, socialdemocratici e PDUP lavorano insieme da mesi per il programma e per la Giunta, e la DC si fa viva solo ora. Perché? Che cosa è cambiato? ".
Noi siamo orgogliosi d'avere tenuto anche in questa occasione, sin dall'inizio, una posizione di responsabile chiarezza e di ferma opposizione, fuori dai tatticismi strumentali, scevra da ogni chimerica illusione, lontana da qualunque colpevole cedimento.
E' la posizione - signor Presidente del Consiglio, signor Presidente della Giunta, colleghi di tutti i gruppi - che il Movimento Sociale Italiano intende continuare a mantenere: contro la maggioranza di sinistra il cui documento programmatico respinge; e differenziandosi - non perch discriminato, come DC. PLI e PRI hanno inteso scioccamente fare con le riunioni tra le forze di minoranza per la presidenza dell'assemblea; ma perché diverso - differenziandosi, dicevamo, dagli altri partiti di opposizione.
E' una posizione certo non facile, anzi dura, scomoda, fors'anche pericolosa: ma è la sola che riteniamo di dover assumere e che pensiamo interpreti, meglio di qualunque altra, le attese e le speranze di larga parte della comunità piemontese.
Anche questo è pragmatismo, cioè azione, nel nostro caso, politica che prende atto della realtà e che si propone di operare, cioè di incidere su di essa in un certo qual modo, per cui, fatta la precisazione, sta bene anche a noi, Presidente Enrietti, la massima di Den Sia Ping: "non importa che i gatti siano rossi o siano bianchi, l'importante è che mangino i topi". L'importante è, insomma, che si raggiunga lo scopo. Ce lo ha suggerito il Consigliere Bontempi, ma al Presidente Enrietti, che ha richiamato e che ha citato questa massima della saggezza orientale, noi allora vogliamo domandare, per chiudere questo intervento anche troppo lungo, con una battuta: "posto che i gatti debbano mangiare i topi, è veramente sicuro che i topi possono essere distrutti solo dai gatti o bianchi o rossi o non, piuttosto, dai gatti di altro colore? ".
PRESIDENTE.
La parola al Consigliere Valeri.



VALERI Gilberto

Molto giustamente nell'illustrazione fatta dal Presidente Enrietti è stato ribadito che il carattere aperto del documento programmatico della maggioranza offre ampi spazi ad un confronto libero da pregiudiziali ideologiche.
In particolare, vengono individuati terreni operativi che, per loro stessa natura vanno al di là degli schieramenti e si prestano ad un impegno dell'insieme delle forze democratiche. Si tratta di un terreno di alto significato e per nulla settoriale se si considera che, portare a nuovi traguardi l'attuazione della riforma regionalistica ed il processo di riordino dell'amministrazione locale, fa tutt'uno con la programmazione con tutti gli aspetti della problematica economica e sociale e con l'assunzione di un ruolo di sintesi e di direzione unitaria dei processi economici da parte delle assemblee elettive.
Anche le ultime drammatiche vicende che hanno interessato Torino ed il Piemonte hanno mostrato che l'impresa, anche la grande impresa, non è più e non può più essere considerata il fulcro su cui basare la direzione dello sviluppo.
Limitandosi al campo della sola politica industriale, è sufficientemente agevole constatare quanto sarebbe pericoloso e velleitario pensare che il sistema delle imprese, da sole, o con il sistema bancario sia ancora in grado di affrontare i suoi stessi problemi di riorganizzazione, di conversione, di innovazione, e di dare risposta soddisfacente ad un numero crescente di proprie contraddizioni interne ed esterne, tra cui quelle tra sistema ed ambiente, tra sviluppo e riequilibrio. Lo stesso confronto tra le imprese - a livello internazionale il fenomeno è più macroscopico, ma ormai in varie circostanze ciò accade anche all'interno - non obbedisce più a spontanee logiche di mercato, ma passa sempre più attraverso la mediazione attiva e consapevole dello Stato.
Esiste dunque una situazione oggettiva che con crescente intensità sollecita dallo Stato, dalle Regioni, una più adeguata capacità di individuare linee di fondo,compatibilità finanziarie, finalità ed obiettivi di un nuovo modello di sviluppo. Non si tratta di copiare modelli di pianificazione centralizzata, ma neppure di mantenere le istituzioni in posizione subordinata rispetto al cosiddetto libero mercato, non soltanto perché da Ricardo ad oggi molto è cambiato nel ruolo dello Stato e nei processi economici, ma soprattutto perché nessuno è in grado di avanzare altre proposte alternative capaci di progettare altre strade di fuoruscita dalla crisi.
Il documento programmatico e l'illustrazione svolta dal Presidente Enrietti sono percorsi per intero da questo impegno teso a proseguire e sviluppare l'intenso lavoro condotto congiuntamente, soprattutto nella seconda metà della precedente legislatura, dalla Regione e dai Comprensori.
Un impegno che non si esaurisce all'interno delle istituzioni, ma che si rivolge all'insieme della comunità regionale ed alle sue espressioni economiche e sociali, in ottemperanza ad una concezione della programmazione contrattata e aperta a concrete forme di partecipazione, non limitate alla sola, seppure fondamentale, fase di elaborazione delle scelte, ma estendentesi alla fase realizzativa, mediante iniziative congiunte ed originali, quali ad esempio quelle sperimentate nel caso della partecipazione bancaria ed imprenditoriale alle società d'intervento per le aree industriali attrezzate.
Al riguardo, nel documento programmatico sono richiamate le prossime scadenze di lavoro, che impegnano la Giunta, il Consiglio, in ordine all'esame dei primi schemi di piano socio-economici e territoriali di comprensori, all'ultimazione degli stessi e, più in generale, alla formazione dello schema di piano territoriale regionale.
Accanto alla evidente importanza di questi impegni che ci attendono, ci pare necessario richiamare la particolare rilevanza che dovrà assumere nelle prossime settimane e mesi l'elaborazione del secondo piano socioeconomico regionale. Sarà questo uno dei momenti più alti ed incisivi di espressione di quella capacità che prima richiamavo, di costruzione, in un contesto di coerenze e compatibilità nazionali, dell'indispensabile quadro di riferimento e di direzione di un nuovo sviluppo nella nostra Regione.
Un quadro di riferimento necessario per la nostra politica di bilancio e per l'intero sistema delle autonomie, atto a garantire la necessaria integrazione dei programmi settoriali e territoriali, nonché i parametri di coerenza per i relativi progetti di intervento. Peraltro, è su questo aspetto, essenzialmente, che sarà possibile garantire anche un quadro di certezze ed uno sbocco operativo ai piani comprensoriali.
L'infittirsi delle scadenze della politica di programmazione non dovrebbe allarmare eccessivamente. Le procedure fissate dalla legge regionale n. 43, oltre ad incalzare le strutture politiche e burocratiche regionali, corrispondono alla concezione di una programmazione che nella processualità e nella continuità ha due dei suoi maggiori punti di forza e di sperimentazione. L'esperienza compiuta ne è una conferma e quanto di nuovo è stato creato negli anni trascorsi con i comprensori e con gli enti strumentali offre ulteriori margini di operatività e rende più agevole oltre che necessario, avviare il lavoro di formazione del secondo piano regionale. Inoltre, c'è da tenere conto che i tredici schemi di Piano comprensoriali deliberati, di cui si sta avviando l'esame, costituiscono un bagaglio di analisi e di proposte che possono consentire, credo, di procedere molto celermente alla formazione del secondo Piano regionale, sia nell'elaborazione degli indirizzi, sia alla formazione dei progetti integrati che ne debbono consentire la sua rapida traduzione in atti operativi.
Dall'esperienza compiuta in questi anni mi è parso che il collega Genovese abbia tratto spunto per porre alcuni interrogativi sul come e perché programmare, interrogativi che vorrei, almeno in parte, raccogliere.
Credo che nessuno in quest'aula, neppure dai banchi della Giunta e della maggioranza, intenda considerare perfetta ed intoccabile l'esperienza fatta in materia di programmazione. Volendo, però, compiere un'analisi spassionata e franca anche dei limiti registrati, credo sia bene non smarrire che quanto è stato compiuto sinora a livello regionale costituisce un accumulo di elaborazione e di esperienze concrete che ha contribuito non poco a far crescere la cultura della programmazione. Occorre altresì riconoscere che la nuova fase apertasi nel nostro Paese in questi ultimi anni, caratterizzata dallo sforzo di definire e attuare una programmazione che fosse insieme metodo di governo e progetto di sviluppo, ha avuto inizio proprio a livello regionale, con il Piemonte in prima fila, nel vuoto pressoché assoluto di iniziativa governativa. Cosa ha significato ciò in concreto? Che proprio all'iniziativa della Regione Piemonte (e di non molte altre) va il merito di avere posto alcuni punti fermi, che possiamo considerare ormai acquisti alla cultura della programmazione e che rappresentano primi consistenti elementi di novità. Mi riferisco all'esigenza del raccordo tra programmazione economica e pianificazione territoriale; alla necessità di mutare le tecniche di incentivazione finanziaria all'iniziativa privata, mediante il potenziamento delle forme non di assistenzialismo ma di ausilio indiretto; all'articolazione del programma di sviluppo regionale in specifici progetti che definiscono contenuti ed iniziative di tipo coordinato rispetto ai problemi di riassetto territoriale e di sviluppo socio-economico di singole aree possiamo aggiungere, inoltre, la ricerca, in larga misura riuscita, di costruire un processo di formazione e di controllo delle scelte programmatiche volte ad associare gli Enti locali tanto alla fase di elaborazione che di attuazione del piano, fondata su una reale partecipazione ad entrambe le fasi anche delle forze economiche e sociali operanti sul territorio.
Certo, arch. Picco, c'è ancora molta strada da fare, ma occorrerebbe riconoscere che tanta ne è stata fatta, anche di nuova e di originale rispetto a quelle esperienze europee a cui lei ha fatto sommario richiamo.
E' stato questo avvio dal basso della programmazione e l'uscita della nostra e di altre Regioni in campo aperto, senza attendere che si risolvessero spontaneamente le passività e le resistenze centrali (nel '75 si fu costretti a parlare del piano regionale come di una scommessa necessaria, ma incerta e non garantita, in assenza di un indirizzo che muovesse in questa direzione da parte dei poteri centrali). E' stata quella scelta che ha ormai consentito di fare del ruolo regionale nella programmazione un principio politico, oltre che istituzionale, ormai acquisito anche dalle pur discusse leggi nazionali di settore, seppure attraverso procedure defatiganti e non sempre efficaci. Tutto ciò non era né scontato, né automatico, soprattutto se si considerano i pesanti condizionamenti negativi tutt'ora gravanti sulla nostra esperienza a causa della mancanza di un quadro di obiettivi e di coerenze nazionali atti a delineare un quadro di certezze entro cui collocare l'azione regionale; a causa, anche, dell'assenza di un nuovo modello di legislazione nazionale adeguato alle esigenze dell'autonomia regionale, nonché di sedi e momenti di coordinamento idonei al realizzarsi di una continuità di rapporti tra Stato e Regioni, per la definizione, l'attuazione e la verifica degli atti di programmazione. Si tratta di inadempienze non certo occasionali, che esprimono una tendenza politica di fondo a ridurre la programmazione ad una semplice riorganizzazione della spesa pubblica, volta per di più a porre vincoli e bardature settoriali alle politiche regionali.
I riflessi di questa situazione sono tanto più preoccupanti se misurati in rapporto ad una crisi economica le cui caratteristiche strutturali richiederebbero una programmazione determinata a promuovere effettivi mutamenti del vecchio modello di sviluppo e, dunque, diversa da una semplice manovra centralizzata della spesa pubblica, in ruolo di sostegno acritico dell'iniziativa privata e di pura mediazione delle sue contraddizioni. Anche le resistenze centrali, non risoltesi neppure con il DPR 616, al riconoscimento di adeguate competenze regionali in materia di politica industriale, esercitano pesanti condizionamenti negativi, tanto più gravi per una Regione con le caratteristiche della nostra. Anche per questa strada il tentativo in atto è quello di costringere la programmazione regionale a indirizzarsi prevalentemente verso l'organizzazione del territorio, dei servizi e di una migliore finalizzazione della spesa pubblica; di relegarla, insomma, al campo della distribuzione delle risorse, privandola della possibilità di intervenire adeguatamente sui meccanismi di produzione delle risorse stesse sull'indirizzo, sulla finalizzazione di tali meccanismi. Il rischio che ne deriva è che la programmazione regionale veda progressivamente ridursi la sua capacità di riuscita sul terreno delle riforme economiche, per esaurirsi in un affinamento del metodo di governo, il che non è certo da considerare conquista di poco conto, ma che non può essere considerata soddisfacente ed adeguata a fronteggiare i problemi della costruzione di nuove condizioni di sviluppo. Vi è qui, indubbiamente, ampia materia per il dibattito e l'iniziativa dell'insieme delle forze politiche e sociali, che non si esaurisce nel confronto con i poteri centrali, ma da affrontare con lo sviluppo dell'iniziativa e della sperimentazione regionale, per affinare contenuti, strumenti, procedure.
La programmazione regionale potrebbe infatti ridursi di incidenza anche qualora non si accompagnasse alla consapevolezza che occorre rimodellare il sistema statuale, anche a livello regionale e locale dei suoi apparati.
Non v'è dubbio che le iniziative finora condotte dalla Regione Piemonte abbiano con vigore perseguito questi obiettivi, attraverso il superamento dei condizionamenti centralistici finora frapposti ad una piena caratterizzazione della Regione come ente legislativo di programmazione e di indirizzo. Analogamente è stato per quanto concerne la prefigurazione attraverso i comprensori, di un ente intermedio di programmazione, di coordinamento e di raccordo tra i livelli regionale e locale. Altrettanto attraverso le deleghe, è avvenuto in ordine alla valorizzazione del Comune quale Ente di rappresentanza generale degli interessi locali. Tuttavia molto opportunamente, il documento programmatico prende implicitamente atto che le intese sin qui raggiunte in sede parlamentare mentre da un lato, dal punto di vista delle competenze che dovrà avere l'Ente intermedio recepiscono il carattere eminentemente programmatorio che la nostra Regione ha attribuito ai Comprensori, dall'altro esse individuano nella Provincia riformata il futuro nuovo Ente.
Tale situazione ci pone problemi nuovi e non di passiva attesa della riforma, sia per incalzarne i tempi che per anticiparne per quanto possibile i contenuti, anche al fine di evitare, nel nostro piccolo regionale, che quando essa verrà varata debba attraversare una lunga e tormentata fase di decollo, indotta dal disordine organizzativo e dal sistematico sabotaggio che normalmente incontrano le leggi innovative.
A fronte dell'attuale condizione della Provincia la riconferma dei Comprensori si imponeva, ma nello stesso tempo mi pare occorra porsi in termini più ravvicinati l'interrogativo sul come gestire questa che, come ricordava Enrietti, ha ormai tutti i caratteri di una fase di transizione.
Per un verso credo che la riflessione debba riferirsi a quanto occorre mettere in campo per evitare la caduta di tensione e di impegno dei comprensori. Nel documento programmatico sono, peraltro, richiamati e sottolineati i capisaldi di un ruolo, quello dei Comprensori, che resta fondamentale ai fini del compiersi del processo generale e settoriale di programmazione; non solo per quanto concerne i piani socio-economici e territoriali, ma anche per quanto riguarda la pianificazione dei trasporti il coordinamento dei piani agricoli zonali, compiti di notevole rilevanza che abbisognano semmai di un rilancio da parte dei Comprensori medesimi.
Per converso, rispetto a questa preoccupazione, occorre che, al fine di sempre meglio identificare processo di programmazione e metodo di governo mi pare occorra con maggiore decisione procedere alla territorializzazione del bilancio regionale, nonché all'estensione delle procedure di partecipazione dei Comprensori alla definizione dei programmi di settore e alla dislocazione delle risorse sul territorio, in analogia a quanto già sperimentato, ad esempio, in materia di edilizia scolastica e residenziale.
Non si tratta soltanto di un'esigenza posta dalla vita dei Comprensori, ma anche e soprattutto di un'esigenza regionale di perfezionamento di strumenti e di procedure atte a realizzare quella coerenza tra politica di spesa e priorità di piano, nonché di democrazia e di partecipazione sottolineata da Enrietti. Su tale base è da considerarsi una esigenza regionale, non solo locale o comprensoriale, quella di conservare ed estendere le conquiste realizzate nel campo del protagonismo e della partecipazione dei Comuni alla costruzione di una cultura di governo diversa, in parte almeno, svincolata da esasperazioni di carattere municipalistico; conquiste che rimangono uno dei patrimoni più preziosi dell'esperienza comprensoriale, che va conservato gelosamente ed ulteriormente incrementato e che non è in contrasto, per altro verso, con l'esigenza della crescita della capacità regionale di accompagnare alla destinazione delle risorse e dei contributi ai Comuni la fissazione di una rigorosa finalizzazione programmatica.
Per l'altro verso la riflessione credo debba rivolgersi sulla base di quanto richiamato nel documento programmatico, all'ideazione di forme concrete di coinvolgimento diretto delle Province nel processo di programmazione e di anticipazione del futuro Ente intermedio. E' una riflessione che va condotta congiuntamente anche dalle Province piemontesi essendo evidente che l'avvio della riforma dell'Ente Provincia non può che muoversi sulla base degli indirizzi già assunti come probabili dalle forze politiche in Parlamento e, dunque, in direzione di un Ente essenzialmente di programmazione.
Non avrebbe nessun senso, in tale contesto, pensare a deleghe di carattere amministrativo-gestionale; altri debbono, invece, essere i terreni di iniziativa. Innanzitutto l'associazione delle Province al processo di programmazione decentrata, apportando le necessarie ed opportune modifiche alla legge sulle procedure di piano; un secondo terreno può riguardare la delega alle Province, decentrando gli appositi uffici regionali, dell'approvazione degli strumenti urbanistici locali e la verifica di congruità con i piani territoriali comprensoriali. Un terzo pu riguardare l'assegnazione alle Province, in collaborazione con i Comprensori, del compito di redigere i bilanci consolidati.
Su queste basi può avviarsi concretamente il processo di riforma delle Province e di riqualificazione delle sue strutture.
In parallelo, però, si pongono alle Province due ordini di esigenze complementari a queste grandi linee di lavoro identificate dal documento programmatico, volte a far sì che la prefigurazione dei caratteri del futuro Ente intermedio comprenda anche un impegno del personale politico ed amministrativo delle Province ad operare scelte di autotrasformazione delle Province stesse. La prima di queste esigenze concerne la territorializzazione dei bilanci provinciali ed il loro raccordo con gli obiettivi di Piano e con le procedure di partecipazione istituite dai Comprensori.
La seconda riflessione che vorrei aprire scaturisce dalla necessità che si sviluppi un impegno coerente generalizzato verso un completo trasferimento ai Comuni del personale oggi ancora impegnato nei settori provinciali trasferiti, come competenze, ai Comuni. Credo anche, per fare un solo esempio, che esistano le possibilità di accedere, attraverso apposite convenzioni, all'anticipazione di uno dei caratteri del futuro Ente intermedio, che certamente comprenderà anche la gestione da parte dei Comuni, assieme ai licei classici, agli istituti magistrali, anche degli istituti scientifici e tecnici. Perché quindi, - non anticipare anche in questo caso, non solo per ciò che riguarda la Regione, i caratteri del futuro Ente intermedio di programmazione, andando, appunto, attraverso forme apposite di convenzionamento, a trasferire alla gestione dei Comuni queste strutture? Un secondo tema suscettibile di verifica e di approfondimento dovrebbe riguardare il processo di delega ai Comuni delle competenze amministrative regionali, accompagnato dal conseguente trasferimento di strutture e di personale. E' un tema di grande rilievo, per due ragioni in particolare: in primo luogo perché la necessità di reggere alla sempre più importante domanda sociale ed al rilevantissimo peso di un intervento pubblico, ormai ingente in tutti i campi della vita sociale, presuppone, assieme ad una più adeguata struttura operativa, la più ampia disponibilità a rispondere a tutto ciò collocandosi correttamente in un rapporto democratico con le popolazioni. Nel contempo, lo stesso obiettivo di qualificazione della Regione i termini di programmazione, legislazione ed indirizzo, è in modo decisivo condizionato dalla trasformazione del Comune in effettivo Ente generale, capace di interloquire a livello adeguato con la stessa Regione.
L'esperienza compiuta in questi anni, peraltro, non è né uniforme, né priva di ombre: le difficoltà incontrate dai Comuni ad attrezzarsi per ricevere le deleghe deliberate dalla Regione, l'atomizzazione comunale particolarmente accentuata in Piemonte ed altre cause ancora del ritardo che si registra andranno più attentamente analizzate. Occorre però la consapevolezza che, da qualsiasi parte si guardi, tanto la riforma regionale, quanto il futuro Ente intermedio e la programmazione, non possono non avere il loro punto di partenza proprio nel Comune, nelle sue attribuzioni, nella sua natura, nella sua organizzazione, nel suo rapporto con le popolazioni. Consapevolezza, altresì, che il processo di delega non ha alternative, non solo per quanto riguarda la garanzia di un'erogazione soddisfacente dei servizi, anche per ciò che concerne la gestione degli interventi periferici nell'economia: perché occorre rifuggire dall'ingenerare nuove pericolose forme di settorializzazione, siano esse in agricoltura, nell'artigianato o in altri campi, delle competenze e degli interventi in campo economico a, livello decentrato, dato che uno dei poli fondamentali della riforma del sistema delle autonomie è quello di garantire l'unitarietà non soltanto nella gestione della politica dei servizi, ma anche nella gestione degli interventi economici di carattere periferico. Il problema, semmai, a fronte di queste ombre, di queste difficoltà, è la creazione delle condizioni istituzionali operative idonee ad un efficace esercizio delle deleghe stesse; il problema, cioè, della creazione di forme associative volte a superare gli effetti della polverizzazione comunale, senza peraltro espropriare i Comuni medesimi dalla potestà decisionale.
Sotto questo profilo, almeno in questa fase in cui non appare opportuno mutare la fondamentale zonizzazione socio-sanitaria, il percorso da seguire potrebbe individuarsi nell'attuale zonizzazione dei bacini di traffico, che hanno il vantaggio di essere multipli della maggior parte delle odierne forme consortili, nonché delle Comunità montane, per cui, mentre possono costituire una base valida per la costituzione di organismi associativi intercomunali riferiti a zone ottimali di gestione a carattere polifunzionale, offrono, contemporaneamente, margini consistenti per procedere in tempi successivi al riordino ed alla razionalizzazione delle forme di zonizzazione. Un processo di questa natura, che presuppone il coinvolgimento e l'impegno di tutti i 1209 Comuni che compongono la nostra Regione, non può procedere senza che diventi, per la Regione, i Comprensori, le Province, un punto di impegno di tutta questa legislatura e senza che questo impegno si sostanzi di adeguati stimoli, aiuti ed assistenza. Aiuto che può comprendere anche la qualificazione e la messa a disposizione di personale regionale (penso ad esempio a parte dei giovani della ex 285 ed all'esperienza che in tal senso è già compiuta dall'Assessorato ai trasporti).
In questo contesto si inserisce l'iniziativa promossa dalla I Commissione, approvata dalla Presidenza, circa la costituzione di un gruppo di lavoro interdisciplinare volto a fornire nell'arco di pochi mesi un'analisi dello stato di attuazione delle deleghe già deliberate, delle competenze amministrative ancora delegabili, nonché dell'efficacia e dell'eventuale necessità di omogenizzare le procedure di delega finora sperimentate.
A conclusione di queste riflessioni su alcuni aspetti della vita della Regione e degli Enti locali, crediamo si possa affermare che esistono sostanziali motivi per andare ad un'ampia e non episodica serie di iniziative del Consiglio e della Giunta in ordine ai numerosi ed importanti problemi politico-istituzionali aperti.
Crediamo che la proposta avanzata dal Presidente della Giunta ieri mattina di un'assemblea non rituale dell'insieme del sistema autonomistico della nostra Regione, possa essere assunta quale base di un'iniziativa congiunta del Consiglio e della Giunta nelle prossime settimane. Dal dibattito generale in quella sede potrebbero poi trarre spazio iniziative più articolate sui diversi aspetti dei problemi ed approdare, qualora se ne constaterà l'opportunità oggettiva, di forme permanenti, anche di coordinamento tra i diversi livelli dei poteri regionale e locale, quali il Comitato d'intesa suggerito dalla Commissione parlamentare per gli affari regionali.
Signor Presidente e colleghi Consiglieri, senza diffondermi su quanto vado a dire, credo che i caratteri del programma che la maggioranza intende perseguire hanno un impatto molto ampio sulla stessa immagine della Regione e sui suoi meccanismi istituzionali. La crescita di una caratterizzazione della Regione in termini di programmazione, legislazione, indirizzo, alta amministrazione, è oggettivamente destinata a postulare una più equilibrata espressione del momento consiliare, accanto al momento esecutivo. In una fase in cui deve crescere ed affermarsi come prevalente il momento politico dell'indirizzo e della scelta dei grandi obiettivi, dei programmi e dei progetti da parte della Regione, occorre procedere per tempo a predisporre gli strumenti per una più adeguata espressione del ruolo del Consiglio e delle sue articolazioni interne ed esterne, unitamente alla creazione delle condizioni funzionali di una sua più adeguata ed alta operatività, volta a consentire al Consiglio di svolgere un più preciso ruolo di formazione e di diffusione di una nuova cultura delle istituzioni. Ciò può anche riguardare un uso più coordinato delle strutture tecniche e burocratiche della Regione nel suo complesso, evitando tanto i doppioni che le frantumazioni, ma garantendo un analogo grado di supporti tecnici all'insieme dell'istituzione Regione. In questo contesto occorre anche operare per il realizzarsi di un rapporto più definitivo e permanente del Consiglio regionale con gli Enti strumentali. Per intanto, però - è questa la sottolineatura che vorrei fare chiudendo - il corrispondere a queste esigenze deve significare, riteniamo, operare per dare piena attuazione e sviluppo agli spazi di iniziativa politica e programmatica che le norme regolamentari consentono ed auspicano.



PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE MARCHIARO



PRESIDENTE

Sospendiamo la riunione per cinque minuti per una riunione dei Capigruppo.



(La seduta, sospesa alle ore 11,55 riprende alle ore 12,05)



PRESIDENZA DEL PRESIDENTE BENZI



PRESIDENTE

La seduta riprende.
La parola all'Assessore Ferraris per la replica.



FERRARIS Bruno, Assessore all'agricoltura e foreste

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, sono grato al collega Revelli che ha saputo collocare nel suo intervento a carattere politico generale i problemi dell'agricoltura, sottolineando sia il ruolo strategico che si deve assegnare e che la Giunta ha assegnato al settore primario per il risanamento economico del Paese, sia le scelte di fondo compiute con lo Statuto e dalla Giunta mantenute ed esaltate nella precedente legislatura.
La Giunta intende continuare ad esaltare un'agricoltura che si fonda sull'azienda coltivatrice.
Al collega Lombardi ed al suo gruppo dico che non si tratta tanto di contare le pagine e le righe che nel programma sono state dedicate all'agricoltura, quanto di valutare se ciò che è stato scritto nelle tre pagine e nei pochi altri periodi collocati nel testo, sia o meno, per contenuti e per collocazione, adeguato per confermare questo ruolo centrale, per proseguire, in una situazione, certo, più difficile, quella politica che aveva avviato il recupero ed il rilancio dell'agricoltura regionale, obiettivo del precedente Piano di sviluppo, che ha registrato risultati positivi sia in termini di produzione lorda vendibile sia in termini di reddito.
Questi risultati oggi sono messi in forse dall'aggravamento della crisi economica generale e dalle spinte inflazionistiche che si scaricano interamente sull'agricoltura provocando una progressiva divaricazione della forbice fra costi e ricavati in una situazione che vede da un lato il progressivo aumento dei costi e dall'altro un incremento dei prezzi all'origine, in parte rigidamente predeterminato dai vincoli della politica comunitaria, che si trasforma in decremento, come è avvenuto per il settore vitivinicolo; non vi è dubbio, che si rischia una repentina flessione e forse il congelamento della spinta espansiva che si è verificata nel quinquennio 75/79 e nella campagna agraria 1979/80, che per il Piemonte ha raggiunto il massimo storico. Naturalmente, non bastano gli interventi regionali perché tale tracollo venga impedito. Le certezze di cui hanno bisogno i produttori non possono derivare dalle scelte regionali, una delle scelte da compiersi a livello comunitario e a livello nazionale. Qui si potrebbe aprire il discorso sul piano agricolo alimentare, sulla revisione della politica comunitaria. In proposito mi pare che si possa sottolineare il fatto che il Presidente del Consiglio, on. Forlani, nella sua dichiarazione programmatica ha fatta propria la richiesta della rinegoziazione della politica comunitaria, il che è qualcosa di diverso dalla semplice revisione o dagli aggiustamenti: si tratta di ottenere il riconoscimento della specificità del fattore Italia all'interno della comunità in relazione alla situazione strutturale preesistente agli accordi di Stresa. E' inutile dire adesso che Manschold non era un democristiano o era un socialdemocratico, il fatto è che quella politica fu accettata e voluta da tutti. Semmai Manschold ebbe qualche barlume di lungimiranza e comprese che occorreva integrare la politica dei prezzi con la politica delle strutture; che poi quella lungimiranza sia stata da altri o da lui stesso costruita sul dosso di un'agricoltura diversa dalla nostra e che non abbia potuto incidere, è tutto un altro discorso.
Si dovranno tener presenti i problemi che deriveranno dall'entrata nella Cee dei paesi mediterranei, soprattutto occorre una nuova strategia a livello comunitario e nazionale che stabilisca un rapporto nuovo e diverso che faccia giocare il fattore agricoltura nei confronti dei problemi della fame nel mondo, nei confronti dei problemi della politica dell'Europa e dell'Italia, nei confronti dei Paesi in via di sviluppo del Terzo Mondo.
Rispondo al collega Lombardi in ordine alla presunta nostra disinvoltura secondo cui, quando le cose vanno bene ce ne appropriamo i meriti, quando vanno male scarichiamo le responsabilità sul governo e sulla Comunità europea. Non credo ci si possa imputare una visione così manichea come Lombardi ci rimprovera, dal momento che al positivo trend di sviluppo verificatosi in agricoltura nel trascorso quinquennio, nonostante una politica comunitaria penalizzante per il nostro Paese, non è stato estraneo l'impegno della Regione Piemonte con le leggi, con le scelte, con l' azione, anche se modesta, svolta dall'Assessorato a cui sono preposto: interventi per l'ammodernamento delle strutture, singole e associate, per l'allargamento della base produttiva, per l'equilibrio delle zone svantaggiate, di collina e di montagna, o dei settori più deboli interventi a favore delle infrastrutture civili in collina e in montagna interventi a favore della cooperazione per la trasformazione e la commercializzazione.
Gli obiettivi, collega Carazzoni, non sono nuovi: sono gli obiettivi del 1975/76. Ricordo un dibattito tenutosi alla Fondazione Agnelli nel quale veniva attaccata una presunta contraddizione. Si parlava di una riduzione per gli anni '80 delle forze attive in agricoltura. Quella riduzione per fortuna non c'è stata, forse in questo ha concorso la riduzione delle occasioni di lavoro nell'industria; è certo però che seppure i redditi non siano ancora adeguati, c'è stata una stabilizzazione dell'occupazione a quei livelli. C'era allora e c'è oggi l'esigenza di ringiovanimento rispetto al tasso di invecchiamento. Dicevo allora e dico ancora ora che è possibile ed auspicabile in alcune zone, soprattutto della pianura, andare anche ad una ulteriore riduzione, degli attivi, dove è possibile l'ammodernamento delle tecniche di lavorazione, che in Piemonte sono già avanzate. Per evitare un'ulteriore riduzione della popolazione attiva in collina e in montagna si dovranno trovare incentivi nuovi, non puramente assistenziali, aprire il discorso alla pluriattività.
Non riteniamo di essere stati gli artefici di ciò che è stato fatto.
Posso dire che la Regione Piemonte ha comunque dovuto provvedere da sola ad alleviare, quanto meno a contenere, in contraccolpo determinato dall' aggravarsi della crisi del settore vitivinicolo e del latte, in quanto nonostante gli impegni e le promesse di interventi straordinari fatte qui nel mese di febbraio dal Ministro Marcora, forse non per sua diretta responsabilità, ma per responsabilità governativa, nessuno di quei provvedimenti è ancora stato approvato. A quei problemi che hanno creato gravi ripercussioni sui bilanci delle aziende, singole o associate, ha dovuto provvedere e sta provvedendo in parte la Regione Piemonte. Lo stesso dicasi per i danni causati dalle avversità atmosferiche, che da quando è vigente la legge 364 venivano pagati non prima di due o tre anni. Come l'anno scorso, anche quest'anno nel corso dei primi 6 mesi successivi agli eventi calamitosi, la Regione inizierà ad anticipare il concorso statale.
Vengo al programma. Il programma della Giunta per quanto riguarda l'agricoltura non si limita alla pura riproposizione delle scelte e degli obiettivi previsti nel Piano di sviluppo 77/80 che, per il settore agricolo, era già stato adeguato agli obiettivi del Piano agricolo nazionale ed esteso al 1982 secondo il dettato della legge 894. Fu approvato dalle forze che componevano la maggioranza di allora, dal PSDI che compone la maggioranza di oggi, dal PRI con l'astensione del Gruppo della DC. Per adeguare questo- quadro al programma si individuano alcune scelte prioritarie che noi riteniamo decisive sia nel breve come nel medio periodo per affrontare testualmente, senza soluzione di continuità, sia i problemi di carattere congiunturale sia quelli di carattere strutturale esasperati oggi dalla mutata situazione del mercato. Non spettando alla Regione l'intervento per sbloccare l'inflazione né quello per determinare i prezzi all'origine dei prodotti agricoli, l'unica politica praticabile è quella di incidere per abbattere i costi di produzione e per modificare gli attuali rapporti fra la produzione agricola e i processi di conservazione trasformazione e commercializzazione. Queste sono le nostre proposte. Il collega Lombardi ci invita a compiere una pausa di riflessione. Io andrei molto cauto. Le istanze per interventi strutturali ammontano a 200 miliardi; e 50 miliardi per strutture di produzione e stalle sociali. Si tratterà semmai di andare con i piedi di piombo, di verificare con maggior rigore. Sarebbe, a mio avviso, scelta sbagliata non procedere nel rafforzamento e nell'ammodernamento delle strutture produttive.
Altro intervento utile per concorrere alla riduzione dei costi è quello di esaltare la ricerca, la sperimentazione, ampliare l'assistenza tecnica la socio-informazione individuando nuove tecniche per incidere nella lotta contro la ipofecondità, la selezione animale, la diversificazione del settore vitivinicolo con l'introduzione di nuovi vitigni o di nuove tecniche. Se il barbera non trova uno sbocco nel mercato non si può nel breve periodo pensare di cambiare il gusto dei consumatori, anche se c'è uno spazio pertinente all'educazione alimentare, alla promozione. Ma si pu cercare anche di modificare e di affinare il gusto. In questo senso sono state avviate indagini e ricerche. Esistono poi a monte del processo produttivo i problemi della tutela del bene terra, dell'ulteriore sviluppo e del riequilibrio dell'uso delle risorse idriche, l'uso plurimo captazione di nuove risorse specie nelle zone meno dotate, ma anche riordino. Non è vero che questo si possa fare solo se si avrà più acqua. Se l'acqua è scarsa, quella esistente va utilizzata in modo migliore. Si debbono portare a termine le ricerche per dare una soluzione al Moiola, al Val Borbera. Si devono riprendere gli studi del Tanaro. Con la realizzazione di questi progetti, già proposti nella scorsa legislatura, si realizzerà il riequilibrio fra zone ampiamente irrigue e dotate di strutture e zone più povere.
Sono d'accordo con il collega Borando sulla ricerca e utilizzazione di tutte le risorse idriche di montagna non soltanto a fini irrigui, ma a fini plurimi, in primo luogo quelli energetici, con la sola avvertenza di non creare il deserto in montagna.
Al collega Carazzoni che si preoccupa dei consorzi di bonifica integrale dirò che a tutti i consorzi di bonifica chiediamo massima efficienza, ampia partecipazione e democrazia oltre al pieno rispetto delle scelte programmatiche a livello comprensoriale e a livello zonale. Per le funzioni pubbliche che sono chiamati a svolgere occorrerà trovare un più stretto meccanismo di partecipazione negli organi direttivi da parte degli Enti locali che hanno la responsabilità complessiva e le competenze sul territorio.
Per quanto riguarda le terre incolte ci auguriamo che sia definita al più presto la legge dei patti agrari. Il Consigliere Gastaldi ritiene che le terre incolte sono appannaggio delle cooperative giovanili costituitesi con la legge 285. Le terre incolte invece sono di coloro che le chiedono delle cooperative di produzione, e, così come abbiamo affermato nella legge regionale, possono essere utilizzate nell'ampliamento delle dimensioni di aziende agricole.
A monte del processo produttivo ci sono i problemi della tutela del suolo, delle infrastrutture civili e sociali fondamentali, dalla viabilità all'elettrificazione rurale, al rifornimento idrico. Non è esatto dire che tutto è bloccato. Semmai 5 anni fa tutto era bloccato, ad eccezione della elettrificazione rurale; negli anni 77/78 si è sbloccato il finanziamento di tale opera, si sono investiti 50 miliardi, la maggior parte dei quali a carico della Regione. Può essere vero che la legge 57 ha creato alcuni problemi, che peraltro sono già risolti in via amministrativa per quanto riguarda l'elettrificazione, gli altri possono essere risolti nella revisione della legge, anch'essa strumento di salvaguardia del territorio.
A valle del processo produttivo permane l'estrema debolezza del rapporto fra agricoltura e industria alimentare e la stessa debolezza dei temi della commercializzazione e della valorizzazione della produzione agricola.
E' proprio per il superamento di questi nodi che il programma della Giunta si sofferma in modo articolato nel testo, come ha osservato il collega Gastaldi. I problemi della trasformazione e della commercializzazione delle produzioni agricole assumono un ruolo centrale e decisivo ai fini della difesa dei redditi dei produttori, aiutando i medesimi a concentrare la produzione. Si apre il tema del ruolo nuovo che potranno svolgere le associazioni dei produttori per le quali la nostra Regione, prima in Italia, si è data le opportune norme legislative. Da una parte si auspica lo sviluppo degli accordi interprofessionali che già si sono realizzati per il settore latte. La legge 306 ha consentito di stabilire un rapporto nuovo e diverso che ha pagato il produttore di latte.
E così anche in assenza di un quadro legislativo nazionale o regionale, si è riusciti a intervenire per il moscato, si tratta di allargare questi accordi a tutti gli altri settori, così come avviene su scala nazionale per la bietola e per il pomodoro. E' chiaro che gli accordi interprofessionali per la cessione della produzione all'industria di trasformazione saranno tanto più paganti quanto più la produzione sarà in grado di concentrare l'offerta e quanto più avranno base unitaria le associazioni dei produttori.
Si devono dare precisi punti di riferimento all'industria alimentare: il discorso dei piani di settore per i quali, come per il piano dell'automobile, non si è fatto ancora nulla. L'altra scelta politica della Regione è l'educazione alimentare la quale darà risultati maggiori quanto più si concentreranno gli sforzi e le risorse sia con la lotta alle frodi sia con la promozione delle produzioni agricole. I risultati di queste scelte saranno tanto più sicuri quanto più rapidamente si procederà all'elaborazione dei piani di carattere legislativo, ma il superamento di opposizioni di principio o preconcetti. Modifiche magari si potranno e si dovranno apportare ma nel contesto della legge di delega in agricoltura.
L'approvazione dei piani sia delle Comunità montane, sia dei piani zonali di sviluppo sono le prime competenze che dovremo delegare alle Province.
Sono d'accordo sulla necessità di efficienza e di sveltimento nella gestione. I primi risultati a questo proposito si stanno registrando. Il salto definitivo potrà essere fatto soltanto attraverso la delega, in questo modo sarà possibile sposare l'efficienza con una maggiore partecipazione.
Dimissioni dell'Assessore Alasia e relativa surrogazione



PRESIDENTE

Propongo di iscrivere all' ordine del giorno le dimissioni dell'Assessore Alasia e la relativa surrogazione.



(Il Consiglio approva all'unanimità dei 53 Consiglieri presenti)



PRESIDENTE

La seduta riprenderà alle ore 15.
La seduta è tolta.



(La seduta ha termine alle ore 12,45)



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