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Dettaglio seduta n.25 del 27/11/80 - Legislatura n. III - Sedute dal 9 giugno 1980 al 11 maggio 1985

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Argomento:


PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE MARCHIARO


Argomento:

Dibattito sul programma della Giunta regionale per il quinquennio 1980-1985 (seguito)


PRESIDENTE

La seduta è aperta.
Riprende il dibattito sul programma della Giunta regionale per il quinquennio 1980-1985.
La parola al Consigliere Salvetti.



SALVETTI Giorgio

Signor Presidente, signori Consiglieri, credo che le dichiarazioni rese a nome della Giunta dal Presidente Enrietti abbiano focalizzato appieno quella che è l'iniziativa politico-programmatica della Regione per gli anni '80-'85. E' stato un pronunciamento, a nostro avviso, serio, senza retorica, fatto soprattutto di un supporto che è espressione di convincimenti, idee-guida, di rafforzamenti e, soprattutto, di intendimenti concreti.
Non vorrei polemizzare con il collega Genovese, perché è stato portatore di un intervento che, pur non condividendo nelle idee, ha certamente raggiunto un impegno, una seria riflessione ed una considerevole meditazione. Ma, certo, non posso sottacere (e credo che il Capogruppo del mio partito nell'intervento terminale focalizzerà soprattutto quello che è l'aspetto più particolare e più generale della posizione del nostro partito) che egli ha male interpretato alcune sottolineature fatte egregiamente dal compagno Presidente Enrietti quando parlava di centralità di autonomia socialista, soprattutto intesa alla penetrazione, nella condizione attuale della società italiana e della società europea nel suo complesso. Ed è strano che sia proprio la D.C. a rilevare una supposta incoerenza nella scelta del P.S.I., di stare cioè al governo con la D.C. ed i partiti laici e di avere, al tempo stesso, la sua presenza determinante in coalizioni di sinistra con il P.C.I. ed altre forze politiche democratiche.
Innanzitutto occorre precisare che il P.S.I. nell'atto di assumere responsabilità di governo per assicurare la governabilità del Paese, aveva ufficialmente ribadito il suo orientamento volto a stabilire, in rapporto alla specificità di situazioni, quale schieramento avrebbe mantenuto nelle Giunte di sinistra. Una visione realistica della situazione italiana richiede, come purtroppo conferma anche la recente ondata di scandali l'adozione di scelte non sempre riconducibili a schemi precostituiti. In numerose Province, Comuni, Regioni, le Giunte di sinistra hanno dato buona prova, affrontando con coerenza e correttezza annosi problemi che si erano venuti accumulando durante precedenti legislature. Sono state accantonate vecchie polemiche di carattere clientelare, si sono evitati contrasti come quelli, che tutti ricordiamo, che il famigerato "superpartito" aveva provocato in questa città e in questa regione, a tutto danno della collettività piemontese. Non sono così lontani gli anni in cui si susseguivano le crisi al Comune di Torino, in cui la Regione era in balia degli scontri intercorrentizi. Se questa fase è stata superata una parte del merito va anche ascritta alle decisioni assunte dal P.S.I. di sottrarsi ad ipoteche paralizzanti che lo avevano visto spesso nella funzione di semplice supporto o di "portatore d'acqua". La coerenza richiederebbe innanzitutto da parte di chi la predica rispetto rigoroso di accordi programmatici, perché non intervengano fattori imprevedibili di crisi. Non mi sembra che proprio dalla D.C. siano state date valide dimostrazioni al riguardo: i casi sono così numerosi e noti che non vale la pena di soffermarsi. Nessun partito può dirsi totalmente immune da fenomeni spesse volte degenerativi, tuttavia occorre rilevare che le Giunte di sinistra sono riuscite quasi sempre a conciliare una buona efficienza, soprattutto se confrontata ormai storicamente, possiamo dire, con le esperienze precedenti, con la correttezza amministrativa; d'altronde, coalizioni di sinistra a livello di Enti locali o Regioni non hanno mai pregiudicato in alcun modo la sicurezza e le alleanze di fondo del Paese e sono, per contro, un fattore reale di quel pluralismo - amico e collega Genovese spesso esaltato a parole ma poco praticato nei fatti. Sono questi, in sintesi, i motivi per cui riteniamo inaccettabili le critiche che vengono rivolte, e la chiara posizione che il Presidente Enrietti, citando anche l'apporto del P.S.I. aveva detto, quando aveva affermato la necessità di dare vita ad una sinistra fortemente ancorata ai problemi di fondo della società non solo italiana, non schiva di portare avanti i problemi nello scontro politico, ma non schiava di schemi storicizzati per quanto in loro è di storicamente magari superato. Ci si accusa spesse volte, d'altra parte, di revisionismo, in quanto si contrappone spesso alle formule mere che hanno l'attualizzazione che il tempo determina, la concretezza, invece dello scontro politico attuale.
Sono dati politici e la strategia di cambiamento - diceva il compagno Enrietti - ha la possibilità di una riuscita solo se l'influenza del P.S.I.
pone come punto di riferimento un'ampia convergenza democratica, come è accaduto qui in Piemonte: è la condizione per uscire dalla tenaglia della crisi con il coinvolgimento anche delle forze che lo schieramento del movimento operaio pone come elemento fondamentale.
Ebbene, il dibattito sul programma presentato dalla Giunta per il quinquennio '81-'85 vedrà certamente nell'intervento del Capogruppo compagno Viglione, una sintesi complessiva. Io non porrò in luce che alcuni elementi che pone l'occasione per esaltare, certo non in modo acritico o per respingere strumentalmente i contenuti, bensì per tentare un bilancio di quanto è già stato realizzato durante precedenti legislature e per indicare gli obiettivi che si ritengono prioritari allo scopo di avviare il Piemonte verso uno sviluppo programmato tale da favorirne la progressiva integrazione con le aree forti europee. Ovviamente, esistono problemi di vasta portata che, come tali, travalicano i confini, non solo, ma anche le competenze specifiche della Regione che si pone comunque come interlocutore. Si pensi, per fare un solo esempio, ad una recessione che oggi travaglia l'economia internazionale, con ben poche eccezioni, e che colpisce sia i settori portanti (siderurgia, chimica di base, ecc.) sia i comparti manifatturieri diretti alla produzione di beni di consumo primari.
La crisi della siderurgia comporterà l'anno prossimo una riduzione del 15 del prodotto nei Paesi europei occidentali, quella dell'automobile ha già causato decine e decine di migliaia di licenziamenti negli U.S.A. ed in altri Paesi, e non ha risparmiato certo il Piemonte, come attestano le vicende del gruppo Fiat.
Nel contempo appaiono difficilmente controllabili le tensioni inflattive, di solito imputabili all'incremento del costo dei principali fattori. In alcuni casi, come quello della Gran Bretagna, i provvedimenti governativi, che hanno ridotto di qualche punto il tasso annuale dell'inflazione, sono stati pagati con un aumento cospicuo della disoccupazione che supera ormai due milioni di unità, il 70% delle quali in età inferiore ai 29 anni; nella CEE siamo ritornati oltre il tetto dei sette milioni di senza lavoro, precisamente 7.400.000 a settembre dell'80.
Questa tendenza non sembra poter essere notata in tempi brevi o rimontata.
La sovraccumulazione di capitali improduttivi, che non trovano un collocamento adeguato in nuovi investimenti, costituisce un problema mondiale, perché da un lato appesantisce la stessa gestione delle istituzioni finanziarie, dall'altro rende sempre più precaria la situazione del Terzo Mondo, privo di risorse petrolifere, che non è assolutamente in grado di procurarsi le risorse necessarie.
In un quadro così negativo la situazione del Piemonte non appare certo delle più favorevoli ed è questo che sottolinea certamente la relazione della Giunta che il Presidente ha esposto. Dopo un biennio in cui l'andamento dell'economia subalpina sembrava segnare una qualche ripresa poiché durante il secondo semestre dell'80 - che sta ormai per chiudersi si sono manifestati preoccupanti sintomi di cedimento, non solo a carico di grandi gruppi, come la Fiat, l'Indesit, la Montedison, le stesse industrie a tecnologia più avanzata (l'Olivetti), ma anche per settori finora in buona salute, è diventata più urgente l'esigenza di un'efficace politica di sostegno e di riconversione industriale. Se, infatti, dovesse accentuarsi ancora la contrazione delle commesse e delle vendite, soprattutto sui mercati esterni, il 1981 si aprirebbe con prospettive ancor più pericolose per l'occupazione, poiché non esistono condizioni favorevoli per avere processi adeguati di mobilità esterna nell'ambito della regione. Infatti la condizione precaria di bioccupato o quella di chi opera nel settore sommerso, che in Piemonte è però meno ramificato e presente rispetto ad altre realtà locali, non potranno costituire un'alternativa al posto in un'impresa, poiché anch'esse subiranno l'impatto negativo della recessione.
Le pur brevi considerazioni che ho svolto rapidissimamente sono sufficienti per mettere in luce, a mio avviso, gli aspetti strutturali delle difficoltà connesse all'espansione della base industriale piemontese la presenza dell'industria piemontese risulta indebolita nei settori più moderni che utilizzano le più recenti scoperte tecnologiche, i grandi gruppi hanno perso terreno rispetto ai principali competitori esterni, il reddito pro-capite è diminuito rispetto ai livelli raggiunti nelle regioni più ricche della CEE e dell'Europa scandinava: si tratta di sintomi preoccupanti di cui occorre prendere atto se intendiamo tempestivamente predisporre, nell'ambito delle nostre competenze, sia pur modeste, le politiche idonee ad invertire una tendenza che ci allontanerebbe progressivamente dall'obiettivo di integrazione dell'Europa. Siamo ben consci dell'impossibilità di risolvere le questioni connesse con una moderna politica industriale nell'ambito delle competenze regionali tuttavia gli indispensabili processi di riconversione e di ristrutturazione anche finanziaria debbono essere avviati secondo linee e scelte compatibili con gli obiettivi del piano regionale. Non esistono controindicazioni al riguardo: anzi, la tempestiva e completa attuazione di tali obiettivi dovrebbe consentire la formazione di un quadro esterno di compatibilità più propizio alla crescita della base produttiva; negli anni '50 e '60 si sono venute accumulando pesanti diseconomie esterne di agglomerazione e congestione, in dipendenza dei fenomeni anche immigratori verso l'area metropolitana torinese, delle carenze di servizi sociali, della mancanza di piani concernenti una razionale localizzazione delle fabbriche, dei quartieri residenziali, delle principali infrastrutture. Si sono così accentuate le caratteristiche monoculturali e monocentriche della regione da qui un'espansione disordinata, a macchia d'olio, intorno ai poli industriali, alle aree meglio dotate di infrastrutture e più prossime agli sbocchi commerciali.
Fin dall'inizio degli anni '70 i programmi regionali consideravano l'orientamento per eliminare gradualmente tali inconvenienti, mirando al riequilibrio del territorio ed all'espansione dei servizi sociali. Su questa via sono stati compiuti passi importanti, con la predisposizione delle aree attrezzate e l'individuazione di quelle per la rilocalizzazione industriale, con la costituzione della finanziaria regionale, degli enti di sviluppo, di enti strumentali, ma si tratta di misure ancora parziali ed insufficienti di fronte alla necessità di completare la rete di infrastrutture interne e di collegamento con le aree contermini, ed a quella di sostenere lo sviluppo di settori come l'agricoltura e l'artigianato.
E' di vitale importanza, per una regione di frontiere come è il Piemonte, dotarsi, anche a beneficio di altre regioni, degli allacciamenti viari, ferroviari, idroviari, idonei a canalizzare un flusso crescente di merci verso Paesi europei ed extraeuropei. Da ciò l'esigenza degli interessi, ovviamente, dell'equilibrio di tutto il Paese e del sud, da ci l'esigenza dei contatti continui e di programmi comuni con le Amministrazioni delle regioni limitrofe, quali la Liguria e la Lombardia con cui abbiamo in comune problemi di approvvigionamento energetico, di viabilità, di integrazione nei settori industriale, terziario e così via.
Si consideri, ad esempio, la questione dell'approvvigionamento energetico del Piemonte, come dice la relazione, e quella dei suoi sbocchi marittimi attraverso i porti liguri. Il fabbisogno energetico continuerà ad espandersi nel decennio in corso ed occorrerà, pertanto, potenziare e diversificare le fonti, ricorrendo anche, come fase intermedia, al carbone oltreché ad altre forme di energia. In queste prospettive occorrerà studiare attentamente il problema dei siti, come ha detto la relazione, per i nuovi impianti e ricorrere agli scali liguri presso i quali esistono, tra l'altro, alcune centrali termoelettriche che riforniscono il Piemonte per l'operazione di scarico del carbone. Inoltre, i traffici di merci varie verso l'area mediterranea o verso mercati più lontani richiederanno collegamenti più rapidi e funzionali con i porti liguri, che dovranno disporre di banchine ed attrezzature tali da non perdere ancora terreno rispetto a quello di Marsiglia-Fas, già oggi in condizioni - da solo - di movimentare una quantità di merci superiore ai quattro scali liguri (100 milioni di tonnellate circa all'anno, rispetto a circa 70 milioni di tonnellate). Il Piemonte è, quindi, direttamente interessato all'attuazione del sistema integrato dei porti liguri.
Non possiamo tralasciare di fare un cenno a delle situazioni che ovviamente, si pongono oggi come essenziali: la crisi del gruppo Fiat, che si inserisce in quella più generale dei costruttori di autovetture europei e nordamericani, ha portato ad una fase molto acuta, ad una tensione e a delle vicende che tutti conosciamo. Situazioni diverse ed anche di ricatto pare, per ribadire, mentre da un lato si rivendica la teoria della libera impresa, una leadership nel settore privato italiano, attraverso un'operazione volta a recuperare potere e produttività in fabbrica mediante il licenziamento di 15 mila operai. Il tentativo di indebolire e ridimensionare la presenza organizzata dei lavoratori non è però passato nella forma in cui la stessa dirigenza della Fiat pensava e la Regione è stata interlocutrice, è stata presente - come diceva giustamente il Presidente -, nonostante situazioni che hanno portato anche a dissociazioni. I quadri intermedi hanno certamente problemi di riconoscimento di ruoli e professionalità, così come deve essere consentito a tutti i lavoratori della Fiat di esprimere liberamente le loro convinzioni sul futuro dell'azienda, in assemblee, in partecipazione a momenti di decisione. Sono quindi da respingere tutte le forme di intimidazione e violenza, poiché esse non consentono una reale crescita civile e democratica. Tuttavia, se i lavoratori e le loro organizzazioni hanno qualche volta avuto difficoltà, sottovalutando, magari, esigenze produttive di grandi aziende presenti nella competizione internazionale, il management della Fiat è il principale responsabile dei ritardi con cui si sono affrontati ed impostati i piani necessari di ristrutturazione e di razionalizzazione dei nuovi autoveicoli. Il nuovo modello di sviluppo, che avrebbe dovuto fondarsi sull'espansione in tempi brevi dei consumi sociali ha stentato ad affermarsi e non ha paralizzato affatto la domanda di autoveicoli per uso privato. Non si è verificata la situazione immediata del mercato europeo, mentre le prospettive di penetrazione nel Terzo Mondo e nei mercati dell'est sono rimaste allo stesso livello. I giapponesi se ne sono resi conto e sono riusciti a conquistare quote crescenti di mercato sia in Europa occidentale che negli U.S.A.
Ora si parla di investimenti Fiat per un ammontare di 5 mila miliardi nel periodo dall'81 all'85: essi dovrebbero servire sia all'importazione di nuovi modelli, sia al rilancio dell'impresa in Italia ed all'estero. Noi crediamo che la soluzione del problema Fiat stia nell'elaborazione di un valido piano di settore, tale da conciliare lo sviluppo della motorizzazione privata con quella del settore pubblico e da favorire l'impostazione di programmi sovranazionali, a livello europeo.
Nel pieno rispetto dell'autonomia gestionale, si deve tuttavia rilevare che, quando si chiede un contributo di migliaia di miliardi allo Stato, le forze politiche, sindacali, sociali, hanno il diritto-dovere di richiedere all'azienda il rispetto di alcune condizioni essenziali, come la coerenza di una politica con gli obiettivi fondamentali della programmazione nazionale, tra cui si pone, in primo piano, quello della piena occupazione.
La difesa del posto di lavoro, per cui si sono battute e si battono le organizzazioni sindacali, non è quindi una prevaricazione rispetto ai diritti manageriali, né esula da una moderna cultura industriale in cui hanno posto la produttività e l'economicità della gestione, ma anche, a buon diritto, la piena occupazione. Il Piemonte è quindi direttamente interessato ad una serie di problemi, di natura anche strategica, come giustamente afferma la relazione. Non possiamo quindi trascurare di fare un cenno, nell'attuale fase, alla situazione in cui versa il settore primario.
L'agricoltura piemontese, colpita quest'anno dal pessimo andamento del raccolto dei cereali e viticolo e dalla difficoltà nel settore zootecnico sconta lo stato di emarginazione in cui è stata relegata nel periodo del boom industriale; è caratterizzata tuttora da un eccesso di addetti (200 mila circa, pari al 12% della popolazione attiva), da un'eccessiva polverizzazione dell'unità poderale (5 ettari circa), da un'estensione crescente delle aree definite marginali (130 mila ettari, prevalentemente localizzate nelle fasce collinari e montane), da un forte deficit del bilancio agro-alimentare connesso alla sua ridotta produttività.
Accanto ad un numero relativamente limitato di aziende agricole meccanizzate ed efficienti, vi è uno stuolo di piccole aziende ai margini della sopravvivenza, in cui prestano lavoro contadini con l'età media prossima ai sessant'anni e, talora, più anziani. Ad uno stato di cose così deteriorato, che sconta pure le conseguenze dell'abbandono e del dissesto idrogeologico, non si pone certo rimedio nell'arco di pochi anni. Destano quindi stupore le critiche generiche ed immotivate che hanno di recente investito la politica agricola regionale che, invece, in questi anni ha cercato di porre in essere motivi di inversione di tendenza; che hanno investito l'ESAP che, al contrario, nella sua breve esistenza ha iniziato un'opera di stimolo e di sensibilizzazione al consumo di prodotti regionali tipici, da cui non potranno che venire risultati positivi. Ma, già accennato al fatto che in Piemonte non è molto esteso il cosiddetto "settore sommerso" dell'economia, rispetto ad altre regioni, è invece molto diffuso e vitale l'artigianato, con 122 mila imprese, pari al 10,5% del totale nazionale e 350 mila addetti, pari al 19,5% della forza lavoro utilizzata nella regione. Allo stesso modo di quanto avviene nell'ambito industriale, predominano le imprese manifatturiere (oltre il 50%) seguite da quelle specializzate nella costruzione ed installazione di impianti (25 circa) e da quelle operanti nel campo dei servizi. I Comprensori che presentano la più forte densità artigiana sono quelli di Alessandria, Alba Bra, Biella, Borgosesia, Casale, Cuneo, Saluzzo e Verbania, nei quali si riscontra una maggiore incidenza dell'imprenditorialità minore. Gli imprenditori artigiani hanno manifestato un particolare interesse per un triplice ordine di problemi: quelli attinenti al mercato ed alla promozione commerciale, quelli concernenti la localizzazione degli impianti l'organizzazione del lavoro ed il credito. La Regione intensificherà sicuramente il suo impegno a vantaggio del settore artigiano, con agevolazioni di varia natura atte a favorire la sua espansione tanto preziosa per le aree periferiche del Piemonte.
Molti sono i punti che dovremo toccare, oltre a quelli già esaminati ma non ritengo opportuno dilungarmi sugli stessi, in quanto credo che il compagno Astengo nel suo intervento e, in conclusione, il compagno Viglione, potranno spaziare e penetrare un approccio più pertinente (mi riferisco ai trasporti, al turismo, alla protezione dell'ambiente naturale al potenziamento dei servizi sanitari e sociali).
Credo sia piuttosto opportuno svolgere alcune considerazioni specifiche sul tema dell'occupazione. A fine luglio 1980 i disoccupati in Italia erano circa 1.750.000 (7,8% della popolazione attiva); in Piemonte circa 100 mila, a fronte di circa 1.870.000 occupati. Nelle province piemontesi si nota un'evidente discordanza tra offerta e domanda di lavoro: molti giovani laureati e diplomati non trovano uno sbocco corrispondente ai loro titoli di studio, mentre c'è un surplus nella domanda di operai specializzati o di manovali generici. Un relativo maggior benessere fa talora rifiutare ai giovani lavori che reputano dequalificanti, ma gli sbocchi nelle attività superiori soffrono della stessa scarsa espansione del terziario e del ristagno industriale. Il boom demografico degli anni '60, culminato nel 1964 con un milione di nati nell'intero Paese, è meno massiccio nel caso del Piemonte, ma anche qui avremo problemi per assicurare un'occupazione alle nuove leve. La capacità futura di assorbimento dell'agricoltura e dell'industria sarà nulla o molto contenuta; quella del terziario ridotta dalla necessità di contenere l'indebitamento degli enti pubblici e dallo scarso dinamismo dei settori nuovi a tecnologia avanzata. La mancanza di un'agenzia regionale del lavoro rende più difficile correlare domanda e offerta, ma essa di per sé sarebbe probabilmente insufficiente in assenza di un coordinamento fra le diverse agenzie regionali e di un servizio nazionale del lavoro; ciò consentirebbe di predisporre strumenti più adeguati per la riqualificazione professionale di chi non ha più o non ha ancora un posto di lavoro. Trattandosi di un problema che ha ormai dimensioni europee, sarà opportuno cercare di coinvolgere, per quanto possibile, nella sua soluzione le autorità comunitarie in quanto è caduta da tempo l'illusione che le forze spontanee del mercato siano in grado di risolvere il problema dell'occupazione su scala continentale. Sono questi gli elementi di trasformazione che non sono certo ancora elementi di socialismo, ma pongono le premesse per cui soltanto alcune impostazioni possono essere quelle che traggono le soluzioni nell'interesse del singolo e della collettività.
Un certo rilievo assume, a questo riguardo, la politica del credito, ed anche la relazione lo accenna: l'autonomia del sistema creditizio e delle grandi banche regionali non è in discussione sul piano operativo, anche se in questo Paese bisognerebbe, forse, fissare quali sono le funzioni, i compiti, gli aspetti delle banche. Troppi sono gli aspetti negativi che si sono venuti accumulando in questi anni, con riferimento all'intromissione politica rispetto alle attività creditizie. I casi Sir, Liquichimica Caltagirone e relativi finanziamenti purtroppo hanno fatto testo. Le banche, ed in particolare le Casse di Risparmio, per i loro antichi e profondi legami con le realtà locali, sono spesso state utilizzate come un comodo canale per favoritismi ed operazioni clientelari poco coerenti con le esigenze della programmazione regionale. Anche questo stato di cose deve cambiare (e il Presidente, giustamente, lo richiamava nella sua relazione) pur senza il ricorso ad operazioni chirurgiche radicali ed immediate, come la netta separazione dei circuiti di finanziamento del settore pubblico e di quello privato, che limiterebbe alquanto la professionalità immediata e la capacità di resa di molti istituti. La Regione, dal lato della domanda può condizionare ed indirizzare l'attività creditizia nello sviluppo dei settori imprenditoriali agricolo, artigianale, commerciale, turistico industriale, mediante l'incentivazione alla realizzazione di opere pubbliche, promuovendo l'accesso al credito, finalizzando l'attività delle finanziarie regionali e di altre agenzie del piano, favorendo la costituzione di strutture aggregative per la domanda del credito. Dal lato dell'offerta il sistema creditizio dovrebbe essere indirizzato al perseguimento degli obiettivi del piano, in una ricerca di coordinazione tra programma e attivazione dei flussi finanziari. Le istanze per l'innesto di un processo di regionalizzazione di strutture e funzioni creditizie organicamente legate all'esercizio delle competenze regionali, hanno trovato accoglimento parziale nella disciplina definitiva del D.P.R.
616/77. Esse erano rivolte alla concessione di finanziamenti a tassi agevolati, all'assegnazione agli istituti di credito dei fondi per mutui a tasso agevolato, alla disciplina dei rapporti con gli istituti stessi, alla partecipazione regionale per la designazione degli amministratori degli istituti di credito speciali o delle sezioni speciali degli istituti di credito. L'attribuzione alle Regioni di simili competenze non intacca però, in alcun modo quelle governative e possono semmai trovare momenti di confronto e di sintesi. Crediamo che si debba procedere in questa via, in quanto la leva creditizia è indispensabile al raggiungimento degli obiettivi del piano. La collaborazione con le banche è inoltre preziosa per il bagaglio di conoscenze ed esperienze da esse accumulato, con riferimento a tutti gli aspetti dell'economia regionale. Nel complesso è quindi opportuno ribadire l'esigenza di rilanciare la politica di programmazione.
Essa appare, soprattutto nelle fasi critiche, l'unico strumento e nei momenti difficili la riflessione al riguardo dovrebbe essere anche un fattore di intervento di un entroterra culturale ed operativo che qualifichi anche l'azione degli amministratori locali; se ben usato, per procedere verso un più stabile e dinamico assetto dell'economia regionale.
La scala di priorità che la Giunta presenta nel suo documento, che non vuole essere un rigido ed immodificabile catalogo di interventi, mi sembra da approvarsi incondizionatamente.
L'azione che la Giunta porterà avanti in questi anni tradurrà dalle parole il significato reale per consentire l'iniziativa e l'azione. Il Piemonte e Torino hanno bisogno di un governo come questo, a nostro avviso che non vuole formare degli steccati, semmai vuol coinvolgere, essere aperto alla discussione ed al confronto, anche allo scontro politico, ma capace di procedere ulteriormente sulla via della partecipazione democratica e dello sviluppo sociale. Qui il terrorismo ha compiuto alcune delle sue imprese più efferate, qui ha tentato di colpire le istituzioni regionali con azioni dimostrative che tutti ricordiamo, cercando di scalzarne credibilità e prestigio: esso ha trovato e trova un terreno di cultura favorevole nell'area dell'emarginazione ed in quella della giovent di estrazione borghese, che si è ispirata a concezioni pseudorivoluzionarie; abbiamo spesso meditato tutti insieme sulle eventuali colpe dei padri, che coinvolgono un po' tutti; sulle carenze delle istituzioni, a partire dalla scuola, nel trasmettere valori positivi e nel preparare i giovani alle dure prove della vita. Una democrazia regge e si consolida se riesce a sostenersi di effettivi valori sociali, se non rifiuta le trasformazioni profonde che nuotano nell'ambito, maturano, si formano, dei legami interpersonali, interrelazioni, sociali ed umani della società civile.
Credo che dovremo sforzarci di essere pari a questo compito, allo scopo di far progredire sotto ogni aspetto questo Piemonte, intorno al quale in questi anni si gioca non soltanto un ruolo a livello di un'entità regionale, ma più in generale della funzione trainante ed equilibratrice nell'interesse dello sviluppo di tutto il Paese.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Picco.



PICCO Giovanni

Il dibattito ci deve indurre all'essenzialità sia nella trattazione dei temi che nell'esposizione delle tesi. E' comunque impossibile nel prendere la parola non inquadrare questi argomenti in una serie di considerazioni più generali, rispetto al modo in cui fino ad ora si è svolto il dibattito e al contenuto che ci è stato offerto nel programma.
Rispetto alla gravità dei problemi che abbiamo di fronte e al momento contingente che stiamo vivendo, credo di dover rilevare come vi siano alcune posizioni giustificative del ruolo delle forze politiche e delle contingenti aggregazioni di alleanze di governo, soprattutto nelle realtà territoriali esterne, che sono del tutto fuori posto rispetto ai problemi che dobbiamo affrontare e alla situazione economica e sociale. Una particolare stonatura va rilevata nell'introduzione al dibattito fatta dal Presidente della Giunta regionale quando ha voluto rivendicare come momento di riferimento essenziale al programma e all'impostazione per gli anni '80 il discorso della centralità socialista come elemento di novità rispetto alle impostazioni programmatiche e ai comportamenti che si erano verificati negli anni passati. Credo si debba rilevare come tutto questo deve essere verificato nei contenuti e nelle proposte che vengono enunciate e che prima delle enfatizzazioni dei ruoli politici dei proponenti, si debba fare un riscontro attento della realtà, sia per quanto attiene alle sue interpretazioni critiche, sia per quanto riguarda le proposte modificative che si intendono apportare. Rileviamo come invece questo documento sia solo un'illustrazione dei presunti meriti che avrebbe acquisito la maggioranza di sinistra nella passata legislatura. Anziché verificare criticamente così come si sono andate evolvendo le situazioni, e proporre modificazioni ai programmi, ogni capitolo non sfugge alla tentazione di rivendicare che comunque c'è stata una partenza con il piede giusto rispetto alla quale si tratta solo di apportare degli aggiustamenti. Questo lo rifiutiamo e riteniamo che la realtà piemontese degli anni '80, partendo dalle discussioni e dai dibattiti che abbiamo svolto all'epoca del piano di sviluppo, vada riconsiderata criticamente con tutte le variazioni e le modificazioni che sono intervenute.
Lo stesso ruolo del Piemonte nelle sue relazioni europee non solo per quanto attiene alle relazioni fisiche, ma anche ai riferimenti sulle politiche che la Comunità Economica Europea ha innescato in questi anni debba costituire oggetto di un recupero che non sia meramente concettuale solo di enunciazione di propositi, ma sia un recupero che tenga veramente conto del fatto che su questi temi si è perso del gran tempo e in cinque anni non si sono compiuti sostanziali passi avanti rispetto all'elaborazione delle proposte che erano state a suo tempo fatte. Se si parte da questo dato, credo che si debba avere l'umiltà di riconoscere quanta strada debba essere ancora percorsa collocandoci con un atteggiamento diverso anche in riferimento alle proposte programmatiche e nel coinvolgimento di una realtà di pluralismo politico e sociale che deve caratterizzare i rapporti istituzionali.
Premesso questo, l'analisi critica dello sviluppo ci deve portare a superare una volta per tutte quei comportamenti contraddittori caratterizzati da enunciazioni, da cose dette e non dette. Queste contraddizioni si possono rilevare nei temi che vanno dall'assetto del territorio ai problemi di investimento, alle relazioni esterne al Piemonte ma si rilevano anche sui temi del piano di sviluppo sul quale tutti continuano a dire di volere essere concordi nel portare avanti determinate linee, in ordine ai discorsi sopratutto relativi al decongestionamento dell'area torinese e alla sua riqualificazione in un ruolo regionale che non sia mortificatorio delle condizioni di crescita e di equilibrio delle altre aree esterne. Credo che in queste contraddizioni ci siano da scontare aspetti di pregiudizi di tipo ideologico, di collocazione rispetto all'alleanza del passato, di sganciamento da una certa soggezione a voler riconoscere una linea di proiezione dello sviluppo che non è da valutarsi solo nella nostra dimensione regionale, ma deve essere intesa nella visione delle altre Regioni e altre realtà europee che hanno su questi temi una disinvoltura e un coraggio che mancano nelle proposte che stiamo esaminando.
Gli esempi potrebbero essere numerosi. Soffermerò la mia attenzione su alcuni. Mi preme sottolineare come in questi anni, al di là dell'enunciazione critica, non si siano compiuti sostanziali passi avanti ad esempio, per quanto concerne il miglioramento della qualità di vita e dei servizi, non si siano realizzate condizioni di tipo diverso, per esempio, per quanto attiene ad alcuni collegamenti essenziali sia intercomprensoriali sia in riferimento al capoluogo torinese; come non si siano create relazioni nuove per accedere a nuovi mercati di lavoro, a nuovi posti di occupazione; come non si sia compiuto nessun passo avanti per quanto riguarda la nodale questione delle sedi universitarie; in ultimo, argomento non indifferente, come non si siano create articolate opzioni per l'istruzione professionale con una ricerca specifica di compiti e di ruoli che possono svolgere le singole realtà territoriali piemontesi rispetto all'istruzione professionale e alla qualificazione professionale dei giovani.
Il taglio del programma, vista la decantata continuità che si vuole sottolineare, doveva basarsi almeno su un'analisi critica sulle difficoltà che si sono incontrate per far crescere lo spessore della qualità di vita nei riferimenti degli insediamenti, dei servizi, dei trasporti, delle comunicazioni, delle opzioni di scelta di occasioni nuove per i giovani per avviarsi verso un futuro di qualificazione e di destino sulla propria scelta professionale, che non sia ancorata all'alea dell'occasionalità e di ciò che può succedere in condizioni di eventi imprevedibili. Alcune definizioni, direi quasi di paravento, che sono state date alla politica dell'incentivazione delle attività produttive, debbono, finalmente, trovare un momento di verità, ad esempio, per quanto riguarda i due settori che richiamava con particolare convinzione il Consigliere Biazzi: sulla politica di rilocalizzazione e politica del credito. Qualche riconsiderazione va fatta sul modo in cui si sono mossi gli strumenti in cui la Regione ha attivato,o sugli strumenti in cui la Regione ha presunto di poter impostare una strategia di incentivazione di occasioni nuove, di attività produttive e quindi di posti nuovi di lavoro.
Questi non sono gli argomenti sui quali mi sono proposto di soffermarmi, certamente però la politica territoriale degli insediamenti enunciata e la politica del credito per quanto attiene agli strumenti che la Regione ha innescato sono due momenti critici sui quali si deve incentrare una riconsiderazione se effettivamente questi strumenti sono validi e funzionanti. Altri interventi affronteranno più completamente questo argomento.



PAGANELLI Ettore

Picco Giovanni, ti invito a sospendere il tuo intervento. Il Gruppo D.C. abbandona l'aula se non viene prestata attenzione ai Consiglieri che intervengono.



(Interruzioni in aula)



PICCO Giovanni

Le difficoltà che sono state riscontrate nell'attivare queste occasioni imprenditoriali da un lato e di scelte opzionali per le forze di lavoro dall'altro, hanno avuto degli impatti territoriali non indifferenti che la sola scelta politica delle aree attrezzate non è riuscita a dirimere.
Proprio gli strumenti di articolazione del piano di sviluppo, i piani socio economici territoriali e il piano territoriale di coordinamento sono in fondo gli elementi sui quali si deve concentrare la nostra attenzione perché queste scelte territoriali sono connesse ad opzioni di tipo socio economico non irrilevanti; debbono quindi essere accondiscese con attenzione e delicata premura.
Vorrei che l'Assessore Rivalta, che si è occupato particolarmente di questo problema e che ha avuto la correttezza iniziale di fornirci molti documenti metodologici sui piani territoriali di coordinamento considerasse come la produzione di questi documenti di per sé abbia lasciato irrisolti molti aspetti metodologici che sostanzialmente non hanno consentito di avviare il processo di predisposizione dei piani. Il tempo che passa non può consentire un'ulteriore maturazione delle scelte: ad esempio, mancano delle analisi sufficientemente comparate od approfondite su aspetti della realtà fisica è delle variabili in gioco. Siamo di fronte ad una situazione che presenta condizioni di rigidità per alcune variabili che ipotizziamo come variabili caratterizzanti una determinata evoluzione ma che invece abbiamo verificato essere variabili che denotano una certa stagnazione. Soprattutto nei settori occupazionali e anche nel settore della dinamica demografica, dove non si sono avute quelle inversioni di tendenza che si erano ipotizzate nel piano di sviluppo, rispetto al quale ci poteva essere una più attenta considerazione nel fare determinate scelte e nell'affrontare determinate direttrici di evoluzione della pianificazione.
Le valutazioni sull'accentuata polarizzazione di Torino, e della sua area metropolitana, non debbono essere esaltate al di là delle considerazioni che si possono fare sulle politiche attuate, che noi non abbiamo condiviso, ma non devono essere esaltate come elementi di per s negativi perché, a nostro avviso, è necessario che la riscontrata capacità del polo di Torino debba essere colta nei suoi sensi di positività nella misura in cui riusciamo ad affrontare il decentramento di alcuni livelli superiori del terziario con il realismo che questo tipo di decentramento può ammettere e con la considerazione del fatto che gli assetti territoriali di alcune aree decentrate rispetto a Torino non sono in grado di accogliere determinate funzioni. Ciò non toglie che ci si debba muovere in questa direzione, ad esempio, per quanto riguarda il decentramento delle sedi universitarie ed il decentramento di determinati livelli di istruzione professionale connesse con l'istruzione universitaria e determinanti per creare condizioni nuove di rapporto anche rispetto alle attività economiche.
Richiamata l'esigenza che Alasia rivendicava di una pronunciata attenzione alla professionalità dei giovani, coinvolgendo in questo progetto le maggiori e le migliori risorse della Regione, utilizzando tutte le possibilità che ogni fonte di finanziamento ci offre, però per quanto attiene alle scelte che sottendono alle responsabilità comprensoriali e regionali sull'assetto del territorio, bisogna che vi siano elementi di definizione.
La mancanza dei piani territoriali di coordinamento crea una situazione di pesantezza rispetto alle scelte e alle decisioni, pesantezza che è riflessa nella mancanza di partecipazione da parte dei Comitati comprensoriali - diremo perché - e nell'impossibilità di far decollare la politica di pianificazione a livello comunale con quella dinamicità e con quel rigore che la legge 56 aveva ottimisticamente avanzato. Ora la mancanza dei piani territoriali blocca ed impedisce l'interpretazione anche reale della realtà piemontese, così come si verificherebbe se il riferimento a livello comprensoriale vi fosse, blocca le previsioni degli insediamenti degli strumenti urbanistici, arresta la definizione dei piani settoriali, anche sui trasporti, sulla viabilità, sulle infrastrutture, sui servizi, sulle residenze, sul recupero dei beni e delle risorse naturali che sono sempre di fatto condizionati alla mancanza di un quadro di riferimento.
A causa di queste carenze cresce il quadro delle incertezze e delle tentazioni da parte dell'esecutivo di innescare le politiche discrezionali settoriali: tutte le altre iniziative che debbono andare avanti, i parchi le aree attrezzate, le decisioni di tipo infrastrutturali, quali gli autoporti richiedendo dei tempi che non possono attendere questo momento di riferimento, procedono e costituiscono delle premesse che in alcuni casi possono essere rifiutate oppure non comprese nel quadro di politica comprensoriale. Questi elementi precedono e precostituiscono rigidità che finiscono per scoraggiare i processi di definizione dei quadri generali di certezza, rispetto ai quali anche la pianificazione comunale si deve muovere.
Qui entra in gioco la connessione che esiste tra la normativa delle leggi 56 e 50 con i piani territoriali. Nel programma si fa un accenno ad una serie di aggiustamenti eccezionali che si vorrebbero introdurre nelle leggi urbanistiche regionali. Pur guardandoli con interesse, questi aggiustamenti eccezionali ci paiono velati di sospetti e di facciata rispetto alle richieste che ha fatto la componente socialdemocratica.
Sostanzialmente non vi sono le condizioni reali per modificare qualcosa in questa legislazione.
Il bilancio operativo delle leggi 56 e 50 è deludente: non sono i dati riportati nel programma a convincerci del contrario; il numero dei piani approvati in base alla legislazione nazionale e il numero dei piani comunali e intercomunali, predisposti secondo la nuova legge, non sono tali da convincerci che ci sia stata un'attivazione di questo processo. C'è un'estrema preoccupazione di fronte ad un mutamento di intenzioni che rischiano di ricreare degli attesismi che non sappiamo se sostanzialmente incideranno realmente su questa operatività.
Siamo di fronte ad una normativa soggetta a livelli di verifica che differiscono la certezza e quindi la scelta di determinati tipi di investimenti. La normativa 56 dà spunto ed esca ad alcune realtà comunali come Torino per innescare dei processi di pianificazione che rinviano tutto a quadri di certezza che sono indefiniti nel tempo, scatole cinesi aprendo le quali non si trova mai la soluzione del problema.
Facciamo questa denuncia perché dobbiamo anche preoccuparci che la normativa abbia un quadro di certezza. Il rinvio ai livelli di verifica legati ai condizionamenti politici, per cui secondo il tipo di Giunta una cosa è possibile o non è possibile, è inaccettabile come principio. Mi auguro che nel piano definitivo venga smascherato questo tentativo di ricondurre il principio della pianificazione ad un comportamento gestionale legato alla discrezionalità politica.
E qui si introduce anche il discorso relativo ai programmi pluriennali di attuazione che, a nostro avviso, non devono essere meri strumenti di gestione discrezionale, non devono essere rigidi fardelli di procedure burocratiche fini a se stesse, ma debbono sciogliere i nodi sostanziali del raccordo tra pianificazione e programmazione.
Si sente in questo comportamento la mancanza di una serie di indirizzi che la politica regionale avrebbe dovuto esplicitare dopo le leggi 56, 50 e 457, cioè dopo una serie di atti legislativi che hanno creato grandi rivoluzioni nella realtà amministrativa del Paese. L'Assessore Astengo aveva promesso una circolare che però non è riuscita a vedere la luce.
Nel programma si parla con insistenza dell'esigenza che la Regione si preoccupi di integrare le deficienze degli uffici tecnici dei Comuni.
Diciamo che, prima di attivare degli strumenti di questo tipo, la Regione si dovrebbe preoccupare di far funzionare gli uffici comprensoriali destinati ad avere funzioni di controllo per pensare, semmai, di affidare le funzioni di controllo ai Comitati comprensoriali. Su questo credo si devono accentrare attenzione e impegno, anche perché le ricerche finalizzate sono state ancora enunciate come momento di enunciazione dei problemi senta un risvolto decisionale e di carattere operativo e reale per i Comuni. Si parla di griglie di verifica per quanto riguarda i piani nella loro fase di approvazione; questa griglia di verifica, a nostro avviso, non può ancora essere affidata a studi e ricerche, ma la griglia di verifica deve essere data dai quadri di certezza: il piano territoriale comprensoriale, rispetto al quale certe scelte sono compatibili, altre no.
Tutto questo deve essere raccordato ai programmi pluriennali di attuazione e alla spesa regionale, aspetti quanto mai importanti per dare credibilità agli strumenti di attuazione dei piani regolatori, sui quali abbiamo particolarmente insistito e sui quali si è manifestato un certo attivismo dei Comuni, anche se siamo ancora di fronte a 388 piani pluriennali di attuazione su 1.209 Comuni, dei quali solo 500 sono obbligati. Questi dati non consentono un ottimismo totale come il dato numerico potrebbe rilevare: vi sono troppi nodi ancora non sciolti soprattutto per quanto sarà la fase di raccordo finale dei piani pluriennali di attuazione già approvati rispetto alle variazioni che si debbono introdurre dopo un anno dalla loro approvazione e rispetto alla conclusione del triennio dei programmi pluriennali di attuazione. Su questo, nonostante si debbano riconoscere delle carenze della legislazione nazionale, la Regione dovrebbe muoversi dando degli indirizzi che percorrano determinati orientamenti, così come è stato fatto all'epoca in cui approvammo i programmi pluriennali di attuazione quando ancora non erano previsti nella legislazione nazionale.
I riferimenti ai piani socio-economici ed ai piani territoriali finiscono per essere gli elementi sostanziali della politica regionale di assetto del territorio, anche rispetto alla politica degli investimenti e alle scelte immediate che si devono compiere per concludere in modo credibile il riferimento al piano di sviluppo. Credo che gli strumenti che dovremmo attivare, anche come supporto tecnico, ricerca, ecc., debbano essere prioritariamente finalizzati in questa direzione se vogliamo che sia credibile il supporto e il riferimento complessivo agli strumenti che abbiamo finora attivato.
Su questo si inserisce il discorso iniziale: cioè, l'assetto del territorio è una componente dello sviluppo complessivo e della crescita della qualità di vita. Su questi modelli di comportamento delle popolazioni e delle comunità rispetto all'evoluzione della realtà socio-economica, vi sono forti spazi di conoscenza che ancora devono essere scoperti. Riteniamo che il ruolo che il Consiglio regionale può svolgere in questa direzione è un ruolo non indifferente.
Tutta la politica dell'accesso agli enti strumentali di informazione e di ricerca, come la politica delle consulenze negli anni passati, sono state dalla Regione utilizzate strumentalmente dalla gestione assessorile finalizzando le ricerche soprattutto al momento di predisposizione di norme, al momento della elaborazione legislativa. Tutto questo invece deve trovare nella conoscenza complessiva della comunità piemontese un momento di riferimento di tipo molto più pluralistico. Quindi il Consiglio ha un ruolo autonomo da rivendicare in questo senso; al limite, appoggiandosi a canali differenziati per quanto attiene all'interessamento e al coinvolgimento di uomini di cultura e di istituti di ricerca, in modo da realizzare un effettivo pluralismo nella ricerca, quindi nella possibilità di indagare determinate componenti della realtà piemontese Il ruolo del Consiglio e tutto ciò che dovrà ruotare sul rapporto nella fase di conoscenza, nella fase di predisposizione legislativa" è argomento di grande rilievo da trattare in altra sede. Qui va detto come il riconoscimento enunciato della centralità del Consiglio deve alla fine di questa discussione, tradursi nel riconoscimento di alcuni ruoli e di alcuni spazi, che la Giunta ammette di dover riconsiderare in un quadro di gestione più complessiva da parte delle forze politiche. Su questo ci sarà l'impegno da parte della nostra forza politica di richiamare tutta la rilevanza del problema e di suggerire gli strumenti di tipo legislativo che possono essere garanzia di questo nuovo tipo di rapporto.
Signori Consiglieri, chiedo scusa se mi sono dilungato più del necessario. Ritengo che le considerazioni che abbiamo fatto si collocano ancora una volta in termini di grande impegno e responsabilità, sia pure di fronte ad una relegazione, ad un ruolo di opposizione, che è ingiusto rispetto al rapporto che la nostra forza politica ha, rispetto alla realtà della Regione e delle altre forze politiche, dopo i risultati elettorali del giugno scorso. Questa ingiustizia non vuole essere una lagnanza della nostra condizione di minoranza, ma vuole rivendicare da parte nostra l'esigenza di un rapporto che privilegi la capacità di far crescere un determinato contenuto nei propositi e un determinato contenuto nel prodotto legislativo che le forze politiche sono impegnate, e la nostra in particolare da sempre, ad apportare alla società piemontese. Questa considerazione vuole essere un ridimensionamento dell'enfatizzazione che ho ricordato all'inizio del mio intervento e vuole essere un invito a considerare come nei rapporti tra le forze politiche nulla è mai perso, ma perché non si perdano definitivamente alcune occasioni di fondo per affrontare con responsabilità i problemi della Regione e del Paese, deve anche esserci da parte delle forze dell'esecutivo un atteggiamento n enfatizzante né arrogante, ma tale da utilizzare il ruolo di responsabilità con misura, con coscienza della grande rilevanza dei temi che stanno di fronte a noi negli anni '80 quindi con grande attenzione rispetto a tutte le costruzioni concettuali e a tutte le impostazioni che sono state date nel passato, che oggi si rivedono criticamente con un atteggiamento che non sempre è onesto rispetto ai contributi dati nel passato, rispetto all'assenso manifestato, rispetto alle stesse soluzioni che si devono dare per il futuro.



PRESIDENZA DEL PRESIDENTE BENZI



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Astengo.



ASTENGO Giovanni

Signori Consiglieri, premetto subito che questo programma è sostanzialmente diverso, molto più maturo, molto più meditato di quello presentato in precedenza e sul quale ebbi anche da parte mia a sollevare varie osservazioni. Quindi, penso che il tempo sia trascorso utilmente e che notevoli passi innanzi siano stati compiuti.
Il mio discorso non sarà un discorso elevato, ma molto concreto, su dei fatti che, uniti assieme, hanno un loro significato; sono osservazioni che riguardano interpretazioni che a mio avviso possono essere date ad alcuni passi di questo programma i quali, senza commenti, possono suscitare differenti interpretazioni. Seguirò l'ordine delle pagine ed esporrò questi fatti uno dopo l'altro.
Sono sostanzialmente d'accordo sul processo di delega ai Comuni delle varie funzioni ,che la stessa 382 aveva individuato e che rappresentano, in prospettiva nella messa a regime uno svolgimento molto più articolato delle attività amministrative delle Regioni, ma a questo proposito mi corre l'obbligo di fare un'osservazione preliminare. Sono d'accordo su questa delega, purché i Comuni siano in grado di esercitarla. Nella struttura della nostra Regione, che su 1.209 Comuni ne ha 600 al di sotto di 1.000 abitanti, è difficile che, se non viene modificata questa struttura, le deleghe possano essere esercitate in modo conveniente. Il problema della delega pone immediatamente il problema di pensare fin d'ora, attraverso varie forme e vari strumenti (Commissioni di studio, gruppi di esperti) a quel grosso processo in atto in tutta Europa che è il riordino amministrativo degli Enti locali; il nostro Paese, purtroppo, è in arretrato sotto questo profilo, ed altri Paesi che hanno compiuto questo riordino si trovano avvantaggiati proprio nel processo di pianificazione.
Dalla polverizzazione di piccoli Comuni si è passati a degli accorpamenti che, pur mantenendo nel loro interno ancora delle forme di decentramento tuttavia consentono l'efficienza. Per dare conforto numerico a questo argomento, dirò questo: nei 995 Comuni che sono al di sotto dei 3.000 abitanti - che rappresentano quindi la stragrande maggioranza della nostra Regione - 504 sono inseriti in Comunità montane: si può ipotizzare che la Comunità montana, a questo punto, assorba i poteri dei Consigli comunali ma bisogna che questo avvenga per legge: soltanto quelle che hanno la delega esplicita alla formazione dei piani e a tutti gli atti conseguenti possono operare in modo unitario, le altre non possono senza le deleghe.
Giustifico il riferimento al ruolo delle Comunità montane, purché questo sia riconosciuto attraverso una legge che dovrà avere un'estensione nazionale ed uno sviluppo anche in sede regionale. Ma ciò non basterebbe perché ben 291 Comuni al di sotto dei 1.000 abitanti sono fuori dalle Comunità montane, quindi una quota superiore alla metà di quelli compresi nelle Comunità montane sono di piccolissime dimensioni e non hanno, quindi possibilità di darsi delle strutture tecnico-amministrative. Questo è un tema da svolgere e, secondo me, se preso all'inizio di legislatura, pu portare forse a qualche risultato conclusivo durante questa legislatura perché è certamente un processo di maturazione, di crescita, di documentazione, ma anche di consapevolezza, perché senza la consapevolezza ed il consenso da parte delle comunità locali questa trasformazione profonda non sarebbe fattibile.
Nella seconda parte, laddove si parla dell'industria, e precisamente delle caratteristiche della crisi e delle condizioni per un nuovo sviluppo si fa cenno alla richiesta di straordinari snellimenti di procedure per gli insediamenti industriali. Con la legge 50 abbiamo introdotto, all'art. 53 una grossa modificazione che è stata anche contrattata in sede statale (credo sia il massimo che si può ottenere oggi nel quadro della legislazione statale): la possibilità, cioè, di formare dei piani di impianti produttivi di iniziativa regionale, che sono si concordati con gli Enti locali, ma, ripeto, di iniziativa regionale, sostituendosi il Consiglio regionale ai Consigli comunali. Questo è lo strumento di accelerazione, perché diversamente, tutti i lunghi periodi di formazione dei piani, dal conferimento di incarichi, alla scelta del professionista ai tempi tecnici, alla non disponibilità immediata del professionista ecc., sono tempi morti, sono questi i tempi che devono essere snelliti, non i tempi di approvazione, che sono già ridotti al minimo. Ma c'è un problema, quello delle aree: è il problema chiave non solo per gli impianti industriali, ma per tutti gli impianti di interesse pubblico.
Passo all'altro argomento, e precisamente a quello, dei piani di settore. Giustamente è detto, nella terza parte, che è necessario verificare la congruenza dei piani di settore con le linee contenute nei piani globali. Sono pienamente d'accordo, questa è un'esigenza, che avevamo rilevato in sede di formazione della legge, di impostazione politica generale della Giunta precedente. Ma non è solo un problema di congruenza di strumenti, bensì di congruenza delle normative, perché da un censimento fatto (che farà parte della documentazione di quel famoso rapporto che sta concludendosi, di cui poi accennerò) si rileva che esiste nella legislazione regionale un numero di ben venti tipi di piani con rilevanza settoriale e ben sette programmi che hanno rilevanza operativa. Un problema fondamentale mi pare sia quello di coordinare questi piani e questi programmi. Un esame di questa legislazione credo sia necessario, perch alcune sovrapposizioni, doppi impieghi, potrebbero essere eliminati attraverso il coordinamento normativa. I piani di settore dovranno invece essere riportati a quella unità di indirizzo che ha fondamento nell'art. 4 della legge 56. In questo senso, quindi, anche l'azione di formazione dei piani territoriali nell'accelerazione della fase che è ormai in atto penso che sia indispensabile ed estremamente utile, e ritengo che le sollecitazioni fatte in questo senso dal Consigliere Picco siano da tenere in attenta considerazione; ma, precisamente, in quella formazione già occorre individuare tutte le opportunità per riportare a questa unità la strumentazione di carattere settoriale. Non si può dire: facciamo prima il piano generale e poi discenderanno tutti i piani; l'impostazione logica non è solo di carattere deduttivo, dal generale al particolare, ma è ciclica cioè dal particolare al generale e dal generale al particolare. Allora questo primo approccio serve come bozza, non possiamo immaginare che questa bozza sia perfetta; occorrerà perciò lavorare molto, è giusta la sollecitazione che sia l'Assessorato preposto, sia la Commissione di studio possono contribuire, sia nello specifico, sia sotto il profilo metodologico, fornendo apporti, affinché questo processo diventi chiaro e sia elemento di certezza.
Per quanto riguarda la parte pianificazione e gestione urbanistica colgo con soddisfazione che la proposta qui individuata sia rivolta alla continuazione dello sforzo compiuto nella passata legislatura, e quindi, su questo, non vi è dubbio che il mio consenso è pieno.
C'è ancora qualche osservazione - mi consenta l'Assessore Simonelli che mi permetto fare circa l'ipotesi del decentramento dell'attività di approvazione da parte del C.U.R., individuando anche una soglia dimensionale di Comuni al di sotto della quale possa essere ammissibile il decentramento. Data la complessità del problema, cercherò di esporre alcuni punti di questa complessità. La prima osservazione deriva dal fatto che i piccoli Comuni non possono essere separati dai Consigli comunali ed essere considerati Comuni di serie B rispetto al Comune di serie A. Sarebbe contraddittorio, tra l'altro, nel mio argomentare, con quell'ipotesi iniziale del riordino amministrativo che porta i Comuni ad una dimensione minima di efficienza. L'obiettivo è quello del riordino globale e, allora dentro questo ci potranno essere poi forme di decentramento ai fini di approvazione. La seconda osservazione è che non esiste un parallelismo piccolo Comune piccolo problema: esistono grossi problemi in piccoli Comuni, e questo comporta una particolare attenzione che non può tradursi sotto forma di decentramento che poi è demandato a degli organi di minore capacità professionale. Esistono Comuni piccoli vicino ai Comuni grandi: il Comune di Pino (che non è un grande modello di gestione urbanistica) non riuscirei a vederlo staccato dal contesto dell'area, perché sarebbe un errore. La dimostrazione sta nel fatto che quel piano approvato dal Ministero dei Lavori Pubblici in tempi lontani, in modo distaccato dal contesto dell'area torinese, ha determinato quei guasti. Inoltre, c'è un rischio di disomogeneità di giudizio: questa fu un'osservazione che il Consigliere Picco fece sul finire dell'altra legislatura, per delle Commissioni che riguardavano delle concessioni su edifici vincolati a beni ambientali o ai piani indicati come tali e, quindi, su problemi puntuali molto precisi; trovammo poi la formula che consentiva di avere le Commissioni decentrate, ma insieme, poi, un raggruppamento unitario in sede regionale, in modo da trovare metodologie coerenti. A me pare che questi argomenti debbano essere tenuti presenti, perché si riproporrebbero immediatamente quando si passasse ad un'ipotesi di decentramento dei C.U.R.
Invece, in prospettiva, io vedo delle possibilità. La prima è questa: in una prima fase potrebbero essere effettivamente decentrate le approvazioni dei piani esecutivi, perché se i piani esecutivi sono coerenti ad un piano generale, l'aspetto esecutivo è un fatto tecnico importante, certo, ma non coinvolge delle scelte di carattere generale, mentre potrebbe essere grave tale decentramento rispetto ai piani generali. Non voglio contrastare un'ipotesi di crescita culturale e politica della Regione, tale che consenta un effettivo decentramento, perché mi pare che a quello dobbiamo mirare in futuro: io lo vedrei, allora, quando sia stata consumata la fase della "prima generazione dei piani", secondo la 56, e quando ci siano i piani territoriali. Il piano territoriale, frutto di questo rapporto fatti locali - idee generali e viceversa, e l'adeguamento della pianificazione agli obiettivi metodologici ed alle scelte specifiche individuate dalla 56 dovrebbero consentire una piattaforma, nell'ambito della quale penso che questa operazione di decentramento delle funzioni istruttorie e decisionali potrebbe effettivamente avvenire. Quindi, cerchiamo di avvicinarci attraverso una marcia che richiede parecchie tappe.
Sulle procedure e metodi sono certamente d'accordo con ciò che è stato detto nel programma, e d'altra parte è stata già avviata, per quelli che sono i nuclei operativi, l'istruttoria decentrata per l'individuazione di tempi tecnici molto precisi, per la meccanizzazione dei dati; ma, quello che a me pare valga la pena di mettere in luce è invece un sostegno di carattere culturale per le operazioni progettuali. La progettazione urbanistica è stata fino ad oggi estremamente trascurata, molto spesso come un fatto secondario, aggiuntivo, un'attività quasi integrativa di quella principale, l'architettura. Uno dei problemi che dovranno essere affrontati è quello di favorire una metodologia scientificamente aggiornata e corretta, che possa essere diffusa, che possa far conoscere la classe professionale. In questo senso penso che delle iniziative potrebbero essere individuate con dei corsi di riqualificazione e di aggiornamento, con dei modelli operativi, in modo da eliminare tutti i tempi morti e, soprattutto la dispersione in attività inutili. Per fare i piani occorre la carta dell'uso del suolo, che non viene fatta quasi mai, mentre vengono fatti tanti studi analitici. Un'individuazione di metodologia penso sia opportuna per preparare in un tempo successivo, quello dell'istituto regionale per i piani. Non penso che la classe professionale in questo campo - che ha fatto in certi casi un'operazione lodevole di surroga all'inesistenza di uffici tecnici - possa continuare in questa attività, perché da un lato c'è la non prestazione sufficiente ed in termini corretti, dall'altra parte c'è uno sfruttamento da parte degli Enti locali di studi professionali, ecc.
Ritengo che la risoluzione stia nell'individuare un'istituzione pubblica allora, anche in questo caso uno studio metodologico diventa fondamentale.
Sarebbe quindi anche estremamente utile la verifica, ma essa non pu immaginarsi come qualcosa di diverso dai piani territoriali. I piani territoriali, se sono seri, costituiscono elemento di riferimento ed anche di verifica, e la verifica serve a doppia direzione: sia riguardo agli strumenti urbanistici, sia ai piani territoriali e, in questo senso modelli di riferimento, informazioni, ecc, diventano tutti estremamente utili.
Per quanto riguarda i programmi di attuazione, sembra che siano dei programmi operativi e, pertanto, nell'ambito degli strumenti generali, che indicano le cose da fare ma che sono atemporali, introducono il fattore tempo entro cui l'opera va attuata.
Per quello che riguarda la ricerca finalizzata alla gestione vorrei soffermarmi. Intanto, alcuni criteri sono già stati formulati e penso costituiscano materiale che l'Assessore Simonelli possiede e che potrebbe essere utilizzato anche in tempi rapidi con modelli operativi; per esempio i piani pluriennali di attuazione: la stessa legenda, la stessa simbologia suggerita per far si che tutti gli elementi che individuano il confronto tra i fabbisogni e le scelte possano emergere con chiarezza. I criteri per la redazione dei regolamenti edilizi costituiscono uno dei temi da affrontare al più presto. In questo senso avevamo già avviato un discorso in Consiglio regionale, alla fine della passata legislatura, dicendo che tutte le forze politiche potevano essere interessate, perché il regolamento edilizio è il frutto di tanta esperienza: non implica le scelte politiche di fondo, ma implica una professionalità molto precisa in cui la somma delle esperienze può essere anche estremamente importante. Mi permetterei di verificare poi in sede di Commissione se c'è questa disponibilità e vedere se è possibile raggiungere dei risultati in tempi brevi.
Sono pienamente d'accordo sul centro documentazione e cartografia anzi, a questo proposito, ringrazio pubblicamente il Presidente Enrietti per avermi dato fiducia a sviluppare ancora una certa attività, in modo da far si che quel periodo di stallo in cui si è trovato il laboratorio venga superato, e si possa mettere in moto al più presto questo grosso centro di elaborazione. Il centro di elaborazione dovrebbe servire non solo ai temi qui indicati, che sono essenziali, ma direi che esistono dei temi che riguardano tutta la cartografia tematica che diventano di attualità purtroppo, anche in questi momenti in cui l'Italia si sveglia di fronte ai disastri. Credo che possiamo sviluppare carte non solo dei dissesti, ma che consentano di prevenire sui tempi, con appositi interventi normativi, aree suscettibili di dissesto. Questo lo dovremmo poter impostare non solo per il Piemonte, ma penso che la Regione potrebbe anche offrire una collaborazione scientifica in questo senso, abbinando il servizio geologico dell'Assessorato alla pianificazione territoriale con tutti gli elementi informativi e cartografici, in modo da poter arrivare a fornire elementi scientificamente corretti utili a tutti gli interventi.
Accenno a questo fatto, per esempio: per quanto riguarda acquedotti e fognature è stato fatto il rilievo e la scala 1:25.000 di tutte le reti e di tutti gli impianti; la memorizzazione consente di sovrapporre a questi impianti esistenti tutte le altre informazioni ed avviare dei ragionamenti di correlazione tra le infrastrutture sotterranee ed il resto.
Queste sono le osservazioni che volevo fare. C'è ancora qualcosa in generale: c'è un fatto che potrebbe essere considerato "de minimis", per cui non si dovrebbe nemmeno disputare. Siccome io mi sento ancora responsabile, nella fase finale, nell'ultima seduta, quando, passata la legge 50, feci presente al Presidente dell'assemblea che c'era pronto un disegno di legge che doveva passare subito dopo, che era quello del coordinamento degli articoli della 50 con la 56, che non erano citati nella 50 e, quindi, non potevano farne parte. Il disegno di legge era dunque pronto, ma si disse: ". ...no, è problema di coordinamento". Io ripropongo allora questo fatto: senza introdurre alcuna modifica alla 56, mi sembra che la corrispondenza dei commi e degli articoli sia indispensabile.
Vorrei accennare ad un altro argomento. La sentenza 5 della Corte Costituzionale ha riproposto il tema dell'indennità di esproprio, si è passati sopra con la legge di acconto e di rinvio, ma il problema non è risolto. Non penso che l'assemblea regionale possa dare la risposta per tutto il Piemonte, ma può fare una proposta operativa. Non si è mai voluto affrontare, nel nostro Paese, il problema della formazione di demani di aree pubbliche che servono a tutti gli scopi, non solo a quello dell'edilizia residenziale. Messi alle strette adesso, con la sentenza 5 penso che occorra superare il problema, perché è chiaro che se si acquista all'ingrosso c'è sempre qualche sconto. Occorre avere un volano di disponibilità di denaro per poter studiare questi argomenti e vedere se anche in sede regionale riusciamo ad inserire una soluzione che potrebbe essere anche soluzione pilota per quelle in sede nazionale. Esistono problemi di carattere generale, ma io lo pongo come tema che è necessario studiare ed anche in questo senso, quindi, mi sembra che un apporto da parte di tutte le forze politiche possa essere utile. In definitiva - anche per rispondere ad alcuni rilievi del Consigliere Picco quando parla del bilancio della 56 definendolo deludente - penso che un giudizio sereno sarà dato sulla base del rapporto che ormai è alla stampa, dopo un lunghissimo periodo di fatica redazionale non indifferente. Quindi, io chiedo quasi una "sospensiva di giudizio" su questo argomento, fino al 14 gennaio, data che abbiamo ventilato nell'ambito della Presidenza in cui potremmo esaminare a fondo la materia, dopo di che ci si potrà confrontare e discutere. Sono completamente d'accordo con Picco sulla necessità che la normativa dia questo quadro di certezza. Esiste un volume sulla legislazione urbanistica che contiene tutti i riferimenti alla legislazione statale ed alle altre leggi regionali e, a questo punto, quella promessa che era della circolare si è concretata in qualcosa di molto più solido e, penso, soddisfacente ai fini di utilizzare questa come una delle tante tappe per poi procedere e migliorare l'assetto definitivo della legislazione, in relazione ai problemi che emergono nella Regione.
In sostanza, quindi, c'è amplissima materia in questo programma per operare. Le osservazioni che ho fatto servono unicamente per fornire il chiarimento e l'interpretazione corretta, per aprire quelle discussioni che proprio sui problemi devono essere aperte, ma con l'intenzione di procedere nel senso di una razionalizzazione del processo di sviluppo, di una tutela del suolo, di una più cosciente consapevolezza di quello che significa il territorio e l'ambiente e, soprattutto, verso la definizione puntuale delle prescrizioni di piano, attraverso la specificazione della destinazione d'uso del tipo d'intervento, che dovrebbero dare chiarezza ed eliminare quelle ombre di dubbio che ancora esistono in alcuni progetti preliminari dove restano necessariamente ancora delle aree di possibile interpretazione.
La strada è aperta, questa terza legislatura potrà percorrerla ottenendo dei risultati, applicando l'unica formula che io ho imparato nei miei non pochi anni di attività: studiare e lavorare ragionando.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Majorino.



MAJORINO Gaetano

Signor Presidente, signori Consiglieri, nel suo discorso introduttivo di presentazione del programma, il Presidente della Giunta ha avuto occasione di fare alcune auliche citazioni letterarie: mi permetter anch'io di seguirlo su questa strada e - visto che lunedì prossimo, in chiusura della discussione sul programma, si procederà all'assestamento della Giunta mediante l'adempimento di una obbligazione, avente contenuto politico, che ad avviso della nostra forza politica, già durante la campagna elettorale, il P.C.I. e il P.S.I. in solido si erano assunta verso il P.S.D.I. - ritengo di potere affermare che le storie - intesa la parola "storia" in senso tecnico - delle prime vicende della seconda e della terza legislatura regionale si assomiglino e si inquadrino perfettamente (ed ecco qui la mia modesta citazione letteraria) nei principio enunciato da Gianbattista Vico in punto di ineluttabilità dei corsi e ricorsi storici.
Mi spiego meglio. La seconda legislatura ha avuto come caratteristica importante e come impronta iniziale, quella della formazione di una Giunta di sinistra (Partito Comunista e Partito Socialista) dotata di un appoggio anomalo, e qui va ricordato solo per inciso, che la Giunta di sinistra, la quale governò la Regione Piemonte durante il quinquennio 1975-1980 ha potuto assestarsi ed operare in seguito all'appoggio determinante di quel famoso 31° voto facente capo ad un Consigliere regionale il, quale trasmigrando con armi e bagagli dal Gruppo politico nell'ambito del quale era stato eletto, ha reso possibile una siffatta operazione.
E' quindi lecito, a mio avviso, ed esatto affermare, con riferimento alla seconda legislatura, che il fatto genetico e produttore della Giunta di sinistra, sorta nel 1975, si concretò in un vero e proprio tradimento inteso in senso politico, dell'elettorato o, più precisamente, di quella fetta di elettorato che, il 20 giugno 1975, aveva dato la sua fiducia a quel Gruppo politico di cui faceva parte il trans-fuga.
A questo punto, mi si potrebbe obiettare: che cosa c'entrano simili riferimenti, che cosa c'entrano le vicende della legislatura 1975, che cosa c'entrano i richiami ai corsi e ai ricorsi storici? Siamo nel 1980, mi si potrebbe obiettare e la Giunta della terza legislatura non ha bisogno e non ha avuto bisogno di appoggi anomali, perché si caratterizza per la convergenza e per l'unione delle forze di sinistra, di tutte le forze di sinistra presenti nella Regione Piemonte.
Ma - colleghi Consiglieri - a mio avviso, solo in apparenza una siffatta obiezione è valida.
La realtà è ben diversa: è infatti esatto quanto ho detto poc'anzi circa la storia che si ripete, circa la storia che si è ripetuta, circa la somiglianza tra le fasi iniziali della seconda e della terza legislatura.
Infatti, e questo penso sia un dato incontestabile, anche il fatto genetico e produttore della Giunta di sinistra sorta nel luglio 1980, e che si assesterà il 1° dicembre prossimo, si identifica, e i riscontri obiettivi sono molti, in una situazione di sostanziale tradimento in senso politico della fiducia e delle aspettative dei 130.000 elettori piemontesi che votarono per le insegne del Partito Socialdemocratico.
Siffatta affermazione non può temere smentita in quanto l'imperativo categorico o se si vuole usare una espressione più morbida, lo slogan propagandato fra il gennaio e il giugno 1980, dai leaders della socialdemocrazia in Piemonte era il seguente: "impedite, cittadini del Piemonte, che si rinnovi il Parlamento regionale così come è composto oggi.
Dobbiamo cambiare. Siamo sicuri che il 'no' alla Giunta di sinistra sarà netto. Si vuole cambiare e si cambierà".
Invano, noi esponenti del Movimento Sociale Italiano Destra Nazionale fummo "vox clonantis in deserto" e ci permettemmo durante la campagna elettorale di mettere in guardia il potenziale elettorato socialdemocratico piemontese, rammentando ad esso che circolava insistente la voce secondo la quale il P.C.I., il P.S.I. e P.S.D.I. avevano già raggiunto a tavolino un accordo per la futura Giunta regionale del Piemonte: ci venne risposto che eravamo dei visionari, che la vox pubblica che noi indicavamo come prova è la prostituta delle prove e ci venne risposto che tutto ciò che andavamo dicendo era inattendibile.
Ora, i fatti ci hanno, nella realtà, dato ragione e il corollario che ne deriva consiste nell'obiettiva, vera e reale constatazione (questa è una constatazione che noi facciamo senza andare oltre) che per la seconda volta la Regione Piemonte ha un governo diverso da quelle che erano state le indicazioni della maggioranza delle popolazioni piemontesi.
Il Presidente Enrietti ha ieri auspicato che "moralità e politica si sposino di nuovo fra di loro"; anche noi lo auspichiamo e non da oggi anche se vi sono purtroppo fondati dubbi che tutto ciò abbia a verificarsi in quanto le statistiche escludono che, almeno in Italia, due coniugi che abbiano divorziato, tornino di nuovo a sposarsi fra di loro. Qui non si tratta di coniugi e speriamo che il matrimonio abbia a verificarsi. Ho richiamato questa sua considerazione, ai fini di fare notare che il comportamento che abbiamo ora illustrato, tenuto dai socialdemocratici, nei confronti dell'elettorato piemontese, costituisce uno dei casi da manuale dell'avvenuto divorzio fra moralità politica e politica.
Non solo per questo, ma anche per questo, il nostro "no" alla Giunta che abbiamo espresso nel luglio 1980, verrà rinnovato in occasione del voto sull'assestamento e sul rimpasto della Giunta, del dicembre prossimo venturo.
Per quanto riguarda il programma della Giunta, che indubbiamente merita profonda attenzione, e sul quale interverrà lunedì con una disamina critica il Presidente del Gruppo, Consigliere Carazzoni, opereremo caso per caso portando e sforzandoci di portare su ogni progetto di legge e più in generale su ogni iniziativa e su ogni provvedimento della Giunta, il nostro contributo alternativo di forza di opposizione. Grazie.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Lombardi.



LOMBARDI Emilio

Signor Presidente e colleghi, le tre pagine, sulle complessive 104, del programma 1980-1985, che trattano del settore agricoltura non contengono, a nostro avviso, alcuna novità degna di considerazione, ricalcano in forma schematica relazioni del passato e ripropongono i contenuti del piano di sviluppo, approvato nella passata legislatura.
Questo, nonostante che la situazione, notevolmente modificata, richieda programmi ed interventi di taglio nuovo e che tengano conto dei mutamenti intervenuti.
Ad un periodo di relativa crescita degli anni '75-'78, derivante da un sensibile miglioramento delle situazioni di mercato, specie in alcuni settori chiave come latte e vino, ha fatto seguito nell'ultimo semestre '79 e nei mesi ormai trascorsi del 1980, una grave crisi nel settore dei prezzi di quasi tutte le produzioni agricole piemontesi.
Così come abbiamo sempre ritenuto ed affermato che non era merito della politica agricola regionale quella situazione favorevole, così oggi non addebitiamo alla Giunta la responsabilità di questa grave crisi.
Chi invece ha sostenuto, come hanno fatto, specie nella campagna elettorale, autorevoli rappresentanti della maggioranza, che l'incremento del patrimonio zootecnico della nostra Regione, l'aumento delle produzioni in molti settori, quasi che la Giunta determinasse anche le favorevoli condizioni climatiche, era il risultato della nuova politica agricola regionale, dovrebbe oggi per coerenza ed onestà spiegare il perché, proprio nel momento in cui la nuova politica agricola dovrebbe essere più incisiva è in atto una drastica riduzione del patrimonio zootecnico e vi è un grave stato di disagio in quasi tutti i comparsi produttivi della nostra Regione.
E non credo sia da prendere in considerazione la tesi per cui quando le cose vanno bene è merito della Giunta, quando vanno male, la responsabilità è del Governo e della Comunità Economica Europea.
In realtà la nostra agricoltura sta pagando in forma ancora più grave degli altri settori, la forte differenza di tasso d'inflazione esistente tra il nostro Paese ed il tasso medio di inflazione degli altri Paesi europei.
Differenza che significa caricare sull'agricoltura gli aumenti vertiginosi dei prezzi dei prodotti necessari alla fase produttiva senza poterli scaricare sull'offerta nel momento della sua collocazione sul mercato.
La sfiducia, per non parlare di rabbia, dei produttori agricoli è ulteriormente alimentata dalla convinzione che in questo processo fortemente inflattivo, la componente agricola sia estranea e che essa abbia le carte in regola per chiedere maggior rigore ed efficienza nella gestione della spesa pubblica e nella conduzione di importanti settori produttivi specie para-pubblici del nostro Paese.
Certo, se l'impegno lavorativo in quantità e qualità, profuso dai produttori agricoli e da altre importanti componenti produttive, fosse generalizzato, la nostra economia potrebbe velocemente lasciarsi la crisi alle spalle.
In questo quadro si deve pertanto collocare la politica agricola regionale che se non ha competenze e quindi meriti o demeriti nel settore dei prezzi, anche se molto può fare in fase propositiva e nel migliorare i rapporti tra prezzo alla produzione e prezzo al consumo, ha grosse, per non dire esclusive, competenze per quanto riguarda le strutture.
E' noto che la Democrazia Cristiana non ha condiviso il tipo di politica agricola portata avanti nel campo delle strutture nella passata legislatura.
Le motivazioni complete di questa opposizione sono agli atti del Consiglio: credo però che valga la pena di richiamarle, seppure sinteticamente. Al termine della prima legislatura, venivano approvate la 45, per gli interventi nel settore della cooperazione e la 51, per gli interventi sulle aziende singole.
Il P.C.I. votò contro sulla legge 51 e si astenne sulla 45. Per precisione, è necessario ricordare che la 51 fu rinviata dal Commissario di Governo e riproposta tale e quale dall'Assessore con la motivazione che in attesa di un provvedimento che tenesse conto delle critiche e delle proposte espresse dal P.C.I. in sede di prima approvazione, non si poteva lasciare il settore agricolo senza finanziamenti.
Sembrava insomma che la 45 e la 51 dovessero operare come provvedimenti tampone e la nuova maggioranza avesse pronta nel cassetto una proposta organica da approvare in tempi brevi. In realtà, abbiamo dovuto attendere sino all'autunno 1978 prima che venisse approvata la legge 63 con la constatazione che nel cassetto c'era poco e che essa ricalcava in larga parte la 45 e la 51. E' vero che nel frattempo vi fu il recepimento delle direttive CEE attraverso la legge n. 15, ma si trattava di un adempimento obbligato e comunque non sostitutivo della legislazione regionale.
Perché la D.C. ha votato contro la legge 63, se essa ricalca in larga misura le leggi della prima legislatura? Semplicemente e sinteticamente perché le innovazioni hanno a nostro avviso reso più complesse (vedi l'obbligatorietà del piano di sviluppo aziendale) le procedure per giungere all'erogazione dei finanziamenti ed alla scarsità degli stessi.
Non possiamo non sottolineare la progressiva riduzione in percentuale dei fondi destinati all'agricoltura, riduzione tanto più grave se consideriamo lo sforzo di finanziamento per il settore agricolo effettuato a livello nazionale attraverso la 457 e il Quadrifoglio. Le modifiche apportate con la legge 33 alla fine della passata legislatura, hanno in parte recepito le nostre proposte anche se permangono aspetti negativi che richiedono ulteriori modifiche, soprattutto in quanto riteniamo indispensabile un provvedimento che preveda un intervento programmato e pluriennale. Ma la nostra opposizione, anche se trova larghe motivazioni nella legislazione, si è concentrata soprattutto sulla gestione della politica agricola regionale.
E per non rimanere nel generico, riteniamo opportuno scendere sul concreto, concentrando l'attenzione su alcuni problemi di particolare importanza.
Programmazione. Il Presidente della Giunta nei pochi accenni contenuti nella sua relazione sui problemi agricoli ha espresso la volontà della Giunta di giungere velocemente all'approvazione dei piani agricoli zonali.
Siamo in questo campo in forte ritardo e se ricordiamo che l'attuale Assessore alla fine della prima legislatura accusava la maggioranza di allora di non essere in grado di procedere alla programmazione agricola zonale, dobbiamo veramente sottolineare questa inadempienza che trova la sua origine prima, in una legge, che benché modificata per ben due volte nel corso della sua operatività, è ancora talmente lacunosa da non lasciare intravvedere possibili sbocchi positivi e risolutori. Proponiamo una riflessione per fare il punto sui risultati conseguiti e per verificare se non sia necessaria un'ulteriore modifica alla legislazione per renderla più snella ed operativa. La mancanza dei piani agricoli zonali ha determinato come logica conseguenza interventi scoordinati ed insufficienti nel settore delle infrastrutture. La viabilità nelle zone rurali è praticamente bloccata e gli stessi interventi CEE nelle zone montane segnano il passo.
Non si possono in merito non evidenziare le difficoltà frapposte a qualsiasi iniziativa in zona montana, derivanti dall'applicazione della legge n. 57 sull'assestamento forestale, difficoltà sia per il settore dei lavori pubblici, sia per l'uso produttivo dei boschi e per la forestazione.
Il nostro Gruppo ha presentato un'organica proposta di modifica sollecitiamo la Giunta a volersi esprimere e ad arrivare velocemente alla sua discussione. Qualcosa è stato realizzato nel settore dell'elettrificazione, ma troppe sono ancora le pratiche in attesa di definizione.
Colleghi, abbiamo ancora nel nostro Piemonte migliaia di abitazioni che non sono dotate di energia elettrica o che usufruiscono di un servizio talmente carente da non potere usare dei più elementari elettrodomestici per non parlare di esigenze produttive fondamentali.
Esiste un piano programmato di interventi tecnici e finanziari per dare soluzione a questo gravissimo problema? Ne conosciamo le reali dimensioni ed esigenze? Certo è che se vogliamo mantenere o reinserire i giovani nel settore agricolo e se non vogliamo affidarci a ritorni bucolici,tanto entusiasti quanto poco adatti ad affrontare i grossi problemi economici del settore, è indispensabile dare priorità al settore delle infrastrutture senza le quali si rischia di costruire nel deserto.
Irrigazione. Non credo sia necessario ricordare l'importanza fondamentale che ha l'irrigazione per un'agricoltura moderna, efficiente e competitiva e richiamare la realtà irrigua piemontese. Certo è, che di fronte ad una realtà sufficientemente sviluppata del nord del Piemonte, si contrappone una situazione assai carente del Piemonte sud. L'intera provincia di Cuneo, Asti, Alessandria e il sud della provincia di Torino hanno grossi problemi di rifornimento idrico a scopo irriguo e di distribuzione, senza dimenticare i gravi ed impellenti problemi di gestione sorti con il passaggio dei canali demaniali là ove essi esistono.
Il progetto Maiola cercava di colmare in larga misura queste carenze che rischiano di scoppiare qualora si verificasse, dopo gli ultimi anni di sufficiente piovosità un'annata siccitosa.
Non voglio qui ricordare quanto è successo in merito a questo ambizioso progetto. Chiedo soltanto che la mutata situazione, veda la Commissione ad hoc voluta dalla regione maggiormente attiva, che non vi siano periodi morti che durano interi semestri e che si addivenga in tempi ragionevoli a delle soluzioni alternative. Parlare di riordino delle utenze quando non si è in grado di garantire maggiori quantità di acqua, significa voler mettere il carro davanti ai buoi e significa soprattutto distogliere l'attenzione l'impegno dal problema fondamentale.
La mancata realizzazione di serbatoi, che oltreché garantire l'acqua necessaria nei periodi estivi, servono a regolare il flusso delle acque nei periodi di piena, significa interventi scoordinati, spese scarsamente produttive, costi di impianto e di gestione delle centrifughe che vanno a danno delle aziende agricole, ma scaricano i loro effetti negativi su tutta la comunità.
Un anno particolarmente siccitoso, farebbe pagare per la mancata produzione un costo non lontano da quello necessario per la realizzazione delle opere necessarie a garantire una razionale irrigazione.
Così come per le infrastrutture, chiediamo alla Giunta di dirci se per l'irrigazione esiste un programma tecnico finanziario che al di là delle affermazioni di principio, affronti i nodi strutturali del settore secondo criteri e, scadenze che tengano conto dei punti di maggiore crisi.
Cooperazione. Sul piano legislativo le norme vigenti ricalcano quanto già prevedeva la 45. Sul piano della gestione, considerata la complessità del problema, abbiamo presentato un'interrogazione specifica.
Chiediamo soltanto un periodo di riflessione per verificare se in un così grave momento di crisi dei prezzi, non sia opportuno concentrare i mezzi finanziari sulla cooperazione di conservazione, trasformazione e commercializzazione, anche per approfondire i risultati realizzati nel campo della produzione.
Aziende singole. Il collega Revelli ha effettuato un'analisi condivisibile sulla realtà produttiva della nostra Regione, una realtà che vede la presenza di circa 200.000 piccole e medie aziende con gradi di efficienza notevolmente diversi non solo con riferimento all'estensione ma soprattutto all'ubicazione. Profondamente diversa è la nostra agricoltura a seconda che si sviluppi in zone di pianura, di collina o di montagna. E' necessario verificare se la legge 63 e le successive modifiche affrontano in modo appropriato queste differenze e invitiamo l'Assessore a fornirci i dati di investimento per le zone di pianura, per le zone di collina e per le zone di montagna, perché abbiamo la sensazione che poco sia andato alle zone che più avevano bisogno di questo intervento. E' necessario sfatare alcuni luoghi comuni e programmare per le zone montane attività agricole che abbiano un avvenire, tenendo conto che nelle zone montane, e più disagiate, l'attività agricola non può essere ricondotta a valutazioni di puro carattere economico. Avendo già avuto la possibilità di soffermarci sui problemi della viticoltura, e richiamando quindi quelle valutazioni desidero rubare qualche secondo per esprimere alcune sintetiche considerazioni su alcuni aspetti del settore zootecnico.
Razza bovina piemontese: sta attraversando un grave momento di pericolo. I problemi posti dal risanamento, soprattutto per le difficoltà di reperire i capi per la rimonta, l'ipofecondità ed altre concause, fanno si che molte stalle chiudano o sostituiscano la piemontese con altre razze.
Di fronte a questa realtà è necessario selezionare gli interventi nel settore zootecnico privilegiando la piemontese e realizzando piano di lotta all'ipofecondità previsto e realizzato dal Ministero e che nella nostra Regione non è ancora neppure decollato anche perché i finanziamenti previsti sono stati dirottati per coprire errori di bilancio, evidenziati nell'intervento sull'assestamento di bilancio dal collega Chiabrando.
La Giunta, così puntualmente e direi giustamente precisa nel ricordare le inadempienze del Governo, dovrebbe, a nostro avviso, farsi carico delle proprie carenze e realizzare quello che di positivo a livello centrale è stato proposto.
Per gli allevamenti di grosse dimensioni esiste poi il grosso problema dell'inquinamento. La legge 33, attraverso il finanziamento di impianti per la produzione di biogas, offre grosse possibilità non solo di risolverlo ma di dare un notevole contributo alla produzione di energia alternativa. Ma anche in questo campo le normative, per potere ottenere il finanziamento le regolamentazioni per gli impianti previsti, tardano a venire fuori e non vorremmo che gli interessi agricoli venissero posposti ad interessi di altri settori.
Credo di poter affermare che i problemi posti siano tutti concreti e che gli interrogativi e le critiche siano legittimati dai fatti. Certo esiste l'esigenza di modificare la politica agricola comunitaria anche in considerazione della prossima entrata nel Mercato Comune di altri Paesi mediterranei, che il nostro partito sostiene, mentre ci sono realtà politiche all'interno della Comunità, non ultimo il Partito Comunista francese che fa una grossa opposizione a questa entrata. Il nostro partito si è sempre battuto per cambiamenti radicali non tanto per privilegiare la politica delle strutture o quella dei prezzi, in quanto le riteniamo strettamente connesse ed interdipendenti, ma per migliorare la difesa e gli interventi per alcune produzioni tipiche mediterranee: vino, ortofrutta ecc.
E' pertanto scorretto dare da intendere che le carenze e le distorsioni di questa politica siano riconducibili al nostro partito. Molto più rispondente alla realtà è sostenere che quella politica e i suoi meccanismi sono stati voluti ma esso non era certamente un democristiano e sono difesi da molti Governi in cui sono presenti proprio quei partiti ai quali questa maggioranza così spesso si dichiara idealmente vicina.
Esiste altresì l'esigenza che venga varato il piano agricolo alimentare e che il Parlamento destini maggiori risorse al settore agricolo, ma noi crediamo - senza voler fare polemiche, collega Revelli, con l'Assessore Ferraris - che la Regione possa fare di più e di meglio per dare maggiore consistenza ad un settore, che se rappresenta solo il 10-12% delle forze produttive della nostra Regione, essendo settore primario, determina a monte ed a valle un indotto di almeno pari consistenza.
Dall'opposizione il nostro Gruppo sui fatti concreti, sulle esigenze reali è impegnato ad offrire un grosso contributo, perché anche l'agricoltura aiuti la nostra Regione ed il nostro Paese ad uscire dal lungo periodo di crisi.



PRESIDENTE

Propongo di sospendere momentaneamente il dibattito sul programma della Giunta per passare alle nomine e alla relazione del Vicepresidente Sanlorenzo sugli aiuti ai terremotati.


Argomento: Nomine

Nomina di 11 rappresentanti nel Consiglio di amministrazione dell'Istituto Finanziario Regionale Piemontese


PRESIDENTE

Per prima, effettuiamo la nomina di 11 rappresentanti nel Consiglio di amministrazione dell'Istituto Finanziario Regionale Piemontese. I rappresentanti da votare sono: Gastone Cottino, Sergio Chiamparino, Emilio Trovati, Mario Panero, Matteo Vignetta, Vincenzo Ramella, Umberto Franconi Adriano Bianchi, Ezio Alberton, Vittore Catena e Aurelia Castagnone Vaccarino.
Si passi alla votazione.



(Si procede alla votazione a scrutinio segreto)



PRESIDENTE

Comunico il risultato della votazione: presenti e votanti n. 50 hanno riportato voti: COTTINO GASTONE n.28 CHIAMPARINO SERGIO n. 27 TROVATI EMILIO n. 27 PANERO MARIO n. 27 VIGLIETTA MATTEO n. 27 RAMELLA VINCENZO n. 27 FRANCONI UMBERTO n. 27 BIANCHI ADRIANO n. 21 ALBERTON EZIO n. 21 CATELLA VITTORE n. 21 CASTAGNONE VACCARINO AURELIA n. 21 scheda bianca n. 1 I signori Gastone Cottino, Sergio Chiamparino, Emilio Trovati, Mario Panero, Matteo Viglietta, Vincenzo Ramella, Umberto Franconi, Adriano Bianchi, Ezio Alberton, Vittore Catena e Aurelia Castagnone Vaccarino sono eletti nel Consiglio di amministrazione dell'Istituto Finanziario Regionale Piemontese.
La presente deliberazione, inoltre, è dichiarata immediatamente eseguibile ai sensi dell'art. 49 della legge 10 febbraio 1953, n. 62 e sarà pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione a norma dell'art. 65 dello Statuto.
Per quanto riguarda l'Istituto Finanziario Regionale Piemontese dobbiamo ancora procedere alla nomina di tre Sindaci effettivi e di uno supplente. I nominativi sono: Lionello Jona Celesia, Pier Luigi Fornaciari Celeste Martina quali Sindaci effettivi e Nello Ramella quale Sindaco supplente.
Si passi alla votazione.



(Si procede alla votazione a scrutinio segreto)



PRESIDENTE

Comunico il risultato della votazione: presenti e votanti n. 50 hanno riportato voti: Sindaci effettivi



JONA CELESIA LIONELLO n. 37



FORNACIARI PIER LUIGI n. 28

MARTINA CELESE n. 26 Sindaco supplente RAMELLA NELLO n. 29 schede bianche n. 2 scheda nulla n. 1 I signori Lionello Jona Celesia, Pier Luigi Fornaciari e Celeste Martina sono eletti Sindaci effettivi ed il signor Nello Ramella Sindaco supplente dell'Istituto Finanziario Regionale Piemontese.
Anche la presente deliberazione è dichiarata immediatamente eseguibile ai sensi dell'art. 49 della legge 10 febbraio 1973, n. 62 e sarà pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione a norma dell'art. 65 dello Statuto.
Le nomine sono così esaurite.


Argomento:

Comunicazioni del Presidente


PRESIDENTE

Presentazione progetto di legge Debbo soltanto comunicare che è stato presentato dalla Giunta regionale in data 25 novembre 1980 il progetto di legge n. 33: "Interventi straordinari a favore dei cittadini con redditi insufficienti per sostenere prioritariamente il rincaro del riscaldamento per l'inverno 1980/1981".


Argomento: Problemi generali - Problemi istituzionali - Rapporti con lo Stato:argomenti non sopra specificati - Interventi per calamita' naturali - Assistenza e sicurezza sociale: argomenti non sopra specificati

Iniziative assunte dal Comitato di solidarietà della Regione Piemonte nei confronti delle zone terremotate


PRESIDENTE

Ha ora la parola il Vicepresidente della Giunta, Sanlorenzo, sulle iniziative assunte dal Comitato di solidarietà della Regione Piemonte nei confronti delle zone terremotate.



SANLORENZO Dino, Vicepresidente della Giunta regionale

Signori Consiglieri, non sono in grado di fare una relazione esauriente, che invece sarà fatta dopo aver sentito il parere e gli apporti del Comitato che si è costituito unitariamente tra tutte le forze politiche, sociali del Piemonte e delle autonomie locali e sulla base di una valutazione che anche il Comitato esecutivo (di questo Comitato più generale) dovrà compiere sia sull'esito del nostro primo viaggio nelle zone, sia sull'esito delle prime iniziative che abbiamo assunto.
Mi limiterò quindi a dare delle informazioni ed eviterò di entrare in qualsiasi modo nei giudizi di responsabilità per le cose che non sono andate, sia perché ci sarà tempo per farlo, sia perché mi pare che la Giunta regionale, in un momento come questo, debba esprimere quello che pensa con i fatti e, quindi, è su quello che fa o che riesce a fare che ci sarà il giudizio di congruità, di coerenza con la gravità del disastro che si è abbattuto sul nostro Paese. Ritengo, comunque, che già la decisione di costituire un Comitato esprima la consapevolezza nazionale dello sforzo unitario, morale, culturale, politico e pratico che solo può pensare di fronteggiare la dimensione dei problemi di cui abbiamo visto le conseguenze ed intuito che cosa potrà essere nel prossimo futuro.
La delegazione - composta dal Consigliere Sartoris, dalla dr.ssa Spagnuolo, Assessore al Comune di Torino, dal Consigliere Artusi del Comune di Torino, dal Consigliere Rossi e dal sottoscritto - si è incontrata con il Comitato analogo al nostro che si è costituito presso la Prefettura di Salerno. In quella sede abbiamo espresso le nostre possibilità ed i nostri intendimenti, sulla base delle loro esigenze ed abbiamo rapidissimamente raggiunto un'intesa. Dopodiché, abbiamo seguito la colonna che nel frattempo era arrivata, la prima colonna di soccorso che era partita da Torino poche ore dopo che il Comitato si era insediato, la quale era :dotata:; 7.000 coperte, di posti-tenda per 1.500 persone, brandine e sacchi a pelo. Questa prima colonna è stata dirottata sul centro di smistamento di Persano, dove ha sede il 60% Battaglione dei Bersaglieri, al comando del Ten. Col. Orsi, e, in quella sede, abbiamo verificato gli intendimenti di coordinamento che avevamo discusso con il Comitato provinciale di Salerno, apportando gli aggiustamenti che la realtà rendeva indispensabili.
Questa prima colonna dovrebbe essere stata in grado di montare le tende fra ieri e stasera - ad Eboli, a Campania, a Ricigliano, a Buccino, a Palamonte.
Il problema che è apparso subito rilevante era non solo quello di portare laggiù cose utili, ma, per esempio, di montare le tende e questo dimostra subito che il problema di coordinamento non consiste solo nella gestione o distribuzione delle energie e delle risorse, ma è anche coordinamento interno.
In seguito, sempre in contatto con il Ten. Col. Orsi, ci siamo recati a visitare alcuni di questi centri colpiti, che facevano parte dei Comuni che in ogni caso sarebbero stati affidati alla nostra assistenza in quanto facenti parte della Provincia di Salerno, in questo periodo gemellata con la nostra Regione. Abbiamo visitato il Comune di Valva e quello di Cogliano. Sono due Comuni, uno di 2.000 abitanti, l'altro di 4.500, dove non ci sono stati molti morti, fino al momento, per lo meno; Comuni tuttavia, a 500-600 metri, di quel tipo che veniva indicato come i meno aiutati e meno assistiti: come quasi sempre succede in questi casi, i Comuni grandi sono quelli che attirano rapidamente, tutte le risorse, a volte in maniera non del tutto coordinata. Quindi, il problema del soccorso, dopo i primissimi giorni, consiste nel salvare ancora vite umane nonostante i tre giorni e mezzo di terremoto (per esempio, hanno partecipato a questa operazione un gruppo di giovani venuti dalla comunità di Valsangone). In questi Comuni, sebbene i morti siano pochi, i vivi sono in condizioni tali per cui se non si interviene a risolvere il problema della sopravvivenza, dopo quattro giorni di terremoto e quattro notti passate all'addiaccio molti potrebbero morire per esempio per broncopolmonite! Poiché non sono un riparo le case distrutte, né quelle lesionate, né quelle integre, perché la psicologia della paura è quella che, fa abitare fuori dalle case anche coloro che la casa ce l'hanno.
Si ripercorre la stessa esperienza del Friuli, con la differenza, per che nelle prime 48 ore c'era stato l'intervento nel Friuli dei militari con le cucine da campo e con le tendopoli, che ha permesso ai disastrati di mangiare e dormire.
Questa visita ci ha consentito di indirizzare l'orientamento che avevamo già preso: di trasformare, cioè, tutte le somme e gli stanziamenti che avevamo in una seconda colonna, partita oggi, che ha appunto la caratteristica di una colonna coerente con le esigenze dell'immediata emergenza: 113 roulottes, 50 camion, 30 pullman, che rappresentano ciò che consente di dormire al riparo. Il problema che si pone per questa colonna è serio, perché arriverà domani a mezzogiorno, ma bisognerà che a quell'ora riparta, in modo intelligente e secondo le esigenze effettive verificati dai Sindaci, dal Comitato di coordinamento provinciale e verificate in ordine alle possibilità di portare le roulottes sui posti in cui servono ed i camion ed i pullman attraverso le strade, interrotte e non interrotte che consentono di arrivare in loco, in modo da evitare fenomeni che si sono già verificati, cioè l'assalto al materiale, che rappresenta la cosa più ambita.
Ecco dunque il problema che abbiamo fino a domani sera: realizzare questo coordinamento in modo tale che non ci sia soluzione di continuità fra quando la colonna arriva e quando sia stata ripartita fra i Comuni che ci sono stati assegnati e secondo la valutazione obiettiva dei Sindaci e del Comando militare. I Comuni saranno quelli che ho indicato prima, più altri. Abbiamo dato disposizioni ai nostri funzionari rimasti sul posto di avere la sufficiente flessibilità per adeguare gli spostamenti del materiale che arriva alle esigenze di domani che, speriamo, siano un po' minori di quelle di ieri, perché nel frattempo, come ha detto Zamberletti due ore fa per televisione, esistono anche altre iniziative che si sono messe in movimento e dovrebbero in qualche modo migliorare la situazione ed anche abbastanza radicalmente, almeno questa è la speranza. Qualcosa abbiamo colto di questa speranza, proprio- in due Comuni che ho citato: è vero che non c'erano le tende, la gente viveva nel campo sportivo, ad ogni modo, anche senza tende e posti di riparo, la vita continuava perch cominciavano ad arrivare delle cose utili, materassi, viveri, forse cose che non erano quelle che esattamente in quel momento servivano, ma, in sostanza, si ricostruivano le condizioni della solidarietà e della fiducia che, in queste situazioni, conta quanto le cose materiali, perché se non c'è la fiducia e si ha la sensazione di essere abbandonati da tutti, allora il fenomeno è ancora più grave.
In questo senso credo si debba continuare, puntando su quella formula di coordinamento sperimentata nel Friuli che ritorna ad essere quella corretta - e che Zamberletti ha confermato per televisione -: il Sindaco il rappresentante dell'Autorità militare, il rappresentante dei Vigili del fuoco ed il rappresentante della Regione; queste quattro persone devono assumere tutte le responsabilità di gestione e siano il punto di riferimento sia per l'immediata emergenza, sia per il periodo intermedio che per quello futuro.
Le Regioni sono convocate a Napoli, sabato, perché possano assumersi parte del territorio e fare in maniera che all'intervento dell'immediata emergenza faccia seguito tutto il resto, secondo un piano più coordinato di quanto non sia quello che riusciamo in questo momento a realizzare. Domani ci sarà una riunione a Milano delle Regioni del nord, che già affrontino un problema di grande portata politica, della conseguenza - che può tradursi nelle prossime ore - di una ondata migratoria: il Comune di Torino ha fatto benissimo ad installare presso Porta Nuova un centro di accoglimento per i terremotati. Il problema, invece, che deve essere sicuramente risolto è quello di spostare la maggioranza della gente dai posti dove in questo momento c'è la drammatica emergenza, verso i litorali dell'Adriatico e del Tirreno e sistemare gente che non sta neanche nelle tende, in un periodo come quello che si sta affacciando, di novembre e dicembre. Ripetiamo in questo senso anche qui l'esperienza del Friuli, che aveva tutta la costa di Lignano Sabbiadoro con tutta la catena di alberghi disponibili, sebbene qui le cose siano più complicate dal fatto che anche Sorrento e le altre zone sono state colpite e la capacità ricettiva complessiva è minore.
Qualche parola soltanto, per accogliere questa spinta umana significativa e generosa che viene da cittadini, lavoratori, giovani, che vogliono andare ad aiutare i loro fratelli del sud. Bisogna apprezzare questa spinta perché in qualche modo interpreta un'esigenza; tuttavia bisogna realizzare un rigoroso coordinamento fra questa, generosità e le cose che bisogna fare. Ho incontrato un pullman, lungo la strada, di cinquanta cittadini che andavano a cercare notizie o a trovare loro amici: sono persone che se vanno nei luoghi terremotati, devono poi mangiare dormire, ecc. Se vanno e vengono bene; se vanno per fare, allora bisogna avere una roulotte, la macchina che la traini, l'autista che guidi, poterla consegnare, metterci possibilmente una stufa dentro. Se si vuole dare un aiuto bisogna che sia l'aiuto che il Sindaco chiede, che il Comando militare od i Vigili del fuoco riconoscano di non poter effettuare nelle 48 ore. Una cosa, in sostanza, che corrisponda perfettamente all'offerta, con dei margini che tengano conto del divario fra ciò che occorre e ciò che viene dato. Tutto questo allo scopo di non aggravare i problemi invece di contribuire a risolverli.
Mi pare che la nostra comunità regionale nel suo complesso stia rispondendo in modo eccezionale, d'altra parte corrispondente alla dimensione del problema. Questa risposta credo che debba continuare anche su un piano di maggiore elaborazione, che sarà fattibile convocando il Consiglio regionale, quando lo riterremo opportuno e quando avremo gli elementi, per decidere questioni di più ampia portata, cioè quale tipo di politica economica sarà necessario attuare per evitare che i problemi si aggravino anche per noi e per tutta l'economia del Paese. Sono problemi che dovremo affrontare nelle prossime settimane, dovremo averne consapevolezza sapendo anche che le esigenze sono grosse, molto grosse e le risorse forse non corrispondono: tutto questo dovrà comportare dei sacrifici. Dobbiamo sapere che tutti i contributi hanno un senso, purché siano tradotti nella capacità di utilizzare i fondi dello Stato di cui siamo parte, nel modo più razionale, più concreto, per risolvere, nel medio periodo, questa tragedia che si è abbattuta sull'Italia.



PRESIDENTE

La parola all'Assessore Moretti.



MORETTI Michele, Assessore regionale

Ho seguito personalmente i lavori del centro operativo e ritengo che il Consiglio regionale debba esprimere nei confronti della comunità piemontese tutto il suo ringraziamento. Un plauso va anche ai funzionari della Regione che giorno e notte svolgono la loro funzione.



PRESIDENTE

E' doveroso ringraziare il Vicepresidente, l'Assessore e tutti gli Amministratori provinciali e comunali per l'opera che hanno svolto in questi giorni. E' uno sforzo che continuerà e siamo sicuri che chi sarà delegato farà sempre il suo dovere.


Argomento: Giunta, organizzazione e funzioni

Dibattito sul programma della Giunta regionale per il quinquennio 1980-1985 (seguito)


PRESIDENTE

Riprende il dibattito sul programma della Giunta regionale.
Ha la parola il Consigliere Montefalchesi.



MONTEFALCHESI Corrado

Con il dibattito e la presentazione del programma arriva ad un approdo positivo la dinamica che si era aperta a luglio sulla questione dello schieramento per un consolidamento della maggioranza di sinistra e democratica, per la quale noi abbiamo lavorato fin dall'inizio, con l'obiettivo di garantire un dato di continuità con la passata legislatura e dall'altro con la convinzione che l'unità dello schieramento di sinistra è la condizione per rispondere ai nuovi e gravi problemi che la crisi ci impone. Così come è doveroso che a noi venga riconosciuto "come del resto ha fatto il Presidente della Giunta Enrietti" di avere dato un contributo decisivo per la costituzione di questa maggioranza a luglio e di avere successivamente lavorato per un suo consolidamento. Analogamente noi riconosciamo ad altre forze che danno vita a questa maggioranza, di avere "al contrario di altre situazioni" lavorato per dare vita a questa maggioranza.
Si realizza in questo modo il consolidamento della Giunta di sinistra come segnale per tutta la Regione e per altre realtà che hanno invece imboccato strade diverse.
La realizzazione di questa maggioranza ha portato ad un primo importante risultato cioè che forze di sinistra e democratiche, con una storia diversa, prospettive strategiche, siano riuscite in un confronto sui contenuti a dare vita ad un dibattito sia pure articolato ma sempre teso ad individuare i nodi strutturali riguardo ai problemi del Piemonte ed i metodi con i quali dare delle risposte.
In questo senso il documento presentato da P.C.I. - P.S.I. - P.S.D.I.
rappresenta un primo momento programmatico e di sintesi del quale tutti devono tenere conto e confrontarvisi.
Tuttavia questo non significa appiattimento del dibattito tra le forze di sinistra, che per essere produttivo e rispondere alle reali esigenze della collettività, deve essere vivo ed articolato.
Nel merito del documento che ha visto il contributo e confronto del nostro Gruppo, il nostro è un giudizio che riconosce nei contenuti programmatici presentati da P.C.I. - P.S.I. - P.S.D.I. una riaffermata volontà di conferire al ruolo di governo regionale non solo un aspetto centrale nell'ambito del sistema delle autonomia locali, ma di voler proseguire in termini di continuità su importanti questioni sulla problematica regionale che possono concorrere ad imprimere un impulso qualitativamente superiore, non solo allo sviluppo economico, quanto agli aspetti organizzativi della società.
Tuttavia, la difesa e la crescita dell'occupazione, il riequilibrio territoriale, la modifica degli effetti negativi indotti dalla crisi dell'attuale sistema industriale, una sua riqualificazione rispetto a questi obiettivi restano i punti discriminanti sui quali è possibile non solo definire una risposta alla crisi, ma anche dare al Piemonte una collocazione che favorisca processi di integrazione europea e di cooperazione tra i popoli e le nazioni dell'Europa con gli altri Paesi del Mediterraneo e del Terzo Mondo.
Rispondere a tali questioni è la condizione per riavvicinare il paese reale al paese legale, il popolo alle istituzioni, rispondendo alla necessità di una diffusa esigenza di democrazia e partecipazione, che non può limitarsi ad un mero processo di decentramento istituzionale.
Fermi restando gli ambiti all'interno dei quali la Regione può operare essa non può quindi limitarsi ad un'opera di pura esecuzione delle decisioni dello Stato, ma concorrere alla formazione di scelte e volontà politiche su problemi di più ampio respiro che sopra ricordavo.
A me sembra che il quadro rispetto al quale dare un giudizio sul programma sia come rispondere in termini non assistenziali o di pura razionalizzazione, a quella che noi giudichiamo la crisi del modello industriale, i cui effetti, a partire dalla Fiat, stiamo toccando con mano nella nostra Regione.
E' sul come si interviene sulle cause profonde di questa crisi e come si rimuovono, che noi registriamo dei dissensi, dissensi sulla prospettiva che tuttavia sono decisivi per individuare già oggi scelte e priorità. Fare un'analisi se pur breve e schematica della situazione di crisi che attraversa la nostra regione è essenziale per individuare obiettivi e priorità.
Da sempre la struttura produttiva piemontese è stata caratterizzata e condizionata dalla presenza e dalle scelte di una multinazionale quale la Fiat. La produzione prevalentemente fondata sull'auto è all'origine delle ripercussioni negative che tutti conosciamo, sia per lo sviluppo di altri settori produttivi strategici, per le caratteristiche della piccola e media impresa, per gli effetti distorti sociali e territoriali, sia per i livelli di consumo energetico altissimi.
Una strategia di piano, l'obiettivo del riequilibrio territoriale, la diversificazione economica e produttiva, debbono fare i conti con gli elementi di novità non congiunturali che la crisi della monoindustria Fiat presenta e che rimandano a nodi strategici decisivi di carattere produttivo, energetico, sociale.
Se riteniamo, come noi crediamo, la crisi della Fiat, come segnale che anticipa un generale declino del sistema industriale, fondato su altissimi consumi energetici che hanno modellato un sistema analogo per quanto riguarda i trasporti ed i consumi, il largo impiego di mano d'opera a bassi costi, un'organizzazione del lavoro che oggi, al culmine del suo sviluppo provoca sprechi; la parcellizzazione e dequalificazione in sostanza la divisione tra lavoro manuale e lavoro qualificato,viene largamente contestato dalle giovani generazioni.
A questi aspetti va aggiunto: il venire meno di condizioni monetarie e di mercato che quel modello avevano sostenuto e la crisi della funzione assistenziale dello Stato come fattore di stabilità sociale. Del resto a conferma di tale crisi basta ricordare la crisi della siderurgia, chimica primaria, cantieristica e in Piemonte di Indesit e Montefibre. Con tali nodi occorre confrontarsi, porre mano ad una svolta di politica economica non congiunturale da parte degli enti di governo ai vari livelli, per lo sviluppo di una sistematica programmazione che non sia pura esercitazione priva di efficacia, o la riproposizione della logica e dei contenuti della politica dei due tempi, o peggio il tentativo i cui costi sociali ed economici sarebbero altissimi, di ricreare le condizioni per la ripresa di quel tipo di sviluppo.
Del resto la ventilata e nuova centralità della produzione dell'auto attraverso la sostituzione del rapporto produzione auto, sviluppo della domanda con quello tra produzione auto e suo rinnovamento tecnologico con relativa incorporazione di tecnologia che provoca il riassetto di interi comparti produttivi a livello nazionale ed internazionale, una progressiva espulsione di mano d'opera come condizione per rispondere alle esigenze di concorrenzialità di mercato e di produttività; tutto ciò ripropone l'interrogativo a cui non è possibile sfuggire: quale modello di sviluppo e quale rapporto si vuole costruire tra le Regioni del nord ed il Meridione d'Italia e l'Italia con l'Europa ed i Paesi del Mediterraneo.
Siamo dunque ad un bivio, cioè in particolare per la nostra Regione si accetta di adeguarsi alla logica dei Paesi dell'Europa forte, prendendo a punto di riferimento la libertà ed il primato dell'impresa, a cui subordinare ed adeguare le esigenze della classe operaia e riproponendo un rapporto di subalternità dei Paesi del Mediterraneo. Disegno che ancora una volta rischia di riprodurre su scala di portata internazionale il meccanismo del dualismo produttivo, i cui effetti così drammaticamente abbiamo conosciuto per il Mezzogiorno d'Italia.
Riteniamo quindi siano da respingere sia per il Piemonte che per l'intero Paese scelte e collocazioni economiche e produttive che pur nell'immediato potrebbero dare una boccata di ossigeno alla nostra economia e comunque non risolverebbero certo il problema dell'occupazione ed in prospettiva ridurrebbero il nostro Paese ad appendice elastica delle aree forti dell'Europa, sede di decentramento di spezzoni di cicli produttivi con un processo di integrazione subalterna a tali aree, rendendo così insanabile la frattura con il sud e pregiudicando il rapporto con i Paesi del Mediterraneo.
Il superamento del dualismo produttivo nord-sud, un rapporto di cooperazione e di reciproco interscambio con i Paesi del Mediterraneo passano attraverso una proposta di trasformazione che anche a partire dal nord, assuma l'obiettivo di una rinnovata e riqualificata struttura produttiva, dell'estensione e della riqualificazione del lavoro dell'occupazione, dello sviluppo della ricerca, dell'autonomia tecnologica della risposta alla crisi delle risorse non rinnovabili, intesi come parametri su cui avviare una diversa qualità dello sviluppo, la rinascita del Mezzogiorno, il rapporto, l'interscambio con le aree mediterranee ed i Paesi produttori di materie prime. Competitività e concorrenzialità del Piemonte e dell'intero Paese alle aree forti dell'Europa per noi va allora intesa come alternativa all'orizzonte e ai confini delle caratteristiche dello sviluppo produttivo delineato dalle aree forti dell'Europa finalizzando la spesa pubblica e l'intervento dei vari organi di governo agli obiettivi su ricordati, nel rispetto delle risorse locali, delle loro potenzialità e delle esigenze di quelle popolazioni.
Sono questi i terreni a cui occorre finalizzare l'intervento della Regione, per indurre nel limite delle possibilità consentite, parziali ma concreti elementi di trasformazione strutturale dell'apparato produttivo e della qualità della vita.
Per questo alcuni punti programmatici contenuti nel programma quali: piano autobus e sistema dei trasporti, proposte di progetti sul territorio sull'ambiente, ed alcune attività economiche, debbono assumere le caratteristiche di interventi non tanto straordinari o di tamponamento quanto piuttosto all'interno di un quadro di programmazione applicabile e gestibile su tutti gli aspetti e di problemi di territorio regionale.
E' in questo quadro che le linee che vengono richiamate nel programma per quanto riguarda lo sviluppo del settore terziario e della piccola impresa, possono così diventare occasioni importanti di elaborazione sperimentazione ed affermazione di un'attività, di un lavoro socialmente utile e nuovi assetti della vita produttiva.
Per sostanziare questa nostra posizione voglio qui richiamare alcuni punti specifici del programma: rispetto all'agricoltura riteniamo che: a) il programma sull'agricoltura risente anch'esso delle insufficienze verificate a carattere generale non viene individuata, a livello regionale, la problematica dell'agricoltura come area di sviluppo prioritaria in un'economia regionale che rischia il collasso sono troppo flebili gli agganci alle tematiche poste dal nostro ruolo nel MEC e sull'intervento a livello statale/governativo non viene sviluppata, se non in minima parte, la problematica relativa al ruolo sociale dell'agricoltura e le interdipendenze esistenti a livello produzione - distribuzione - prezzi - consumo si fa affidamento ad un ruolo trainante dell'industria di trasformazione, di per sé invece orientata o allo sfruttamento di materie prime di altri Paesi MEC od in odore di MEC, o ad una politica di sottoremunerazione dei prodotti agricoli italiani.
In sostanza, le tre affermazioni programmatiche: 1) sviluppo dell'occupazione 2) innalzamento del reddito contadino 3) progresso in qualità e quantità della produzione non sono sostenute da programmi di piano che le rendano realizzabili in un quadro di economia stagnante o recessiva.
b) In particolare: è necessario porre al centro dello sviluppo agricolo del Piemonte la sua funzione di possibile settore trainante dell'economia, spingendo quindi per interventi in sede legislativa e MEC che riqualifichino il ruolo dell'agricoltura nel Paese e nel Piemonte è necessario individuare all'interno della Regione aree e poli di sviluppo, da sostenere con una politica che tenda a privilegiare soluzioni che forniscano garanzie per la realizzazione contemporanea dei tre obiettivi programmatici sopra citati è necessario privilegiare, "nelle forme di impresa", iniziative di riconversione della forza lavoro da altri settori produttivi, tramite corsi di riqualificazione professionali, l'estensione della legge sull'occupazione giovanile ad altre forme di cooperazione (trasformazione distribuzione, consumo) ecc.
è necessaria una politica del territorio che privilegi l'uso di terre incolte o non sufficientemente lavorate, anche in funzione della forestazione, dell'uso delle acque, dei problemi ecologici e dell'ambiente.
c) Ultima osservazione sul ruolo dell'industria, dell'intermediazione e dei mercati.
E' improponibile un rapporto con l'industria di trasformazione che prescinda da una conflittualità fra interessi dei produttori e redditività dell'azienda. E siccome in questo scontro è più forte l'industria, sia per condizioni oggettive che soggettive, è impensabile che questo tipo di rapporto possa essere lasciato alla libera iniziativa delle industrie stesse.
Stessa problematica nel settore intermediazione e mercati.
Influendo tali fattori direttamente sui prezzi al consumo, diventa prioritario investire tali rapporti di un contenuto politico-sociale modificando sostanzialmente i rapporti di forza esistenti, tramite un discorso associazionistico o cooperativistico che contempli tutti i momenti produttivi (produzione, conservazione, trasformazione, distribuzione) e ponendo alle industrie vincoli produttivi ben precisi.
Rispetto all'energia concordiamo con la necessità di una precisa analisi delle risorse energetiche locali esistenti e dei reali fabbisogni: Tale analisi deve, oltreché rilevare dei dati quantitativi, entrare nel merito dei fabbisogni, particolarmente per quanto riguarda le esigenze dei complessi industriali e del sistema dei trasporti, in modo da consentire l'individuazione di vincoli o di agevolazioni sulla base del rapporto tra investimenti, occupazione e consumi energetici. Si tratta cioè di porre anche in altri settori (così come si è fatto per la residenza con la legge 373 di cui occorre stimolare l'applicazione) il problema del risparmio energetico non in termini di sacrifici o di ricatti, ma sul terreno di un uso corretto e non di spreco di risorse energetiche ed umane. Per questo alle fonti diversificate di approvvigionamento e a quanto previsto nel programma (biogas, solare, uso plurimo delle acque) va aggiunta l'analisi di quanto può offrire la geotermia, l'utilizzo e l'estensione di tecnologie quali la coogenerazione, il teleriscaldamento, le pompe di calore di cui esistono già studi di prefattibilità nell'area torinese (Moncalieri e Settimo) ed esperienze consolidate in campo nazionale. Due a nostro avviso sono le condizioni per uno sviluppo vero di queste fonti di energia: l) la creazione di un ente che raccolga, coordini ed estenda con criteri programmatici gli studi e le esperienze finora compiute in questa direzione, fino a formulare un piano energetico regionale che valorizzi il ruolo e l'esperienza delle aziende municipalizzate, per estendere i loro compiti sul territorio realizzando la gestione integrata dei servizi quali rifiuti, calore, energia elettrica. Occorre allo stesso modo riformulare il ruolo dell'Enel con formulazione a livello regionale in rapporto alle esigenze locali.
2) L'altra condizione è un consistente finanziamento a progetti finalizzati ed a ricerche della Regione ed Enti pubblici in questa direzione che consenta l'avvio di un processo di diminuita dipendenza da altri Paesi, sia per quanto riguarda le materie prime che per le tecnologie.
Queste sono le condizioni per un'autonomia energetica ed un rapporto con l'industria quale maggiore utente legato ad uno sviluppo diverso che abbiamo delineato è che consenta di respingere la scelta nucleare.
Noi non riteniamo che siano mutate nella sostanza le condizioni oggettive in rapporto alle quali respingere la scelta energetica nucleare nel nostro Paese e qui in Piemonte; non solo per ragioni inerenti la sicurezza, l'integrità dell'ambiente e del territorio, così come del resto con chiarezza aveva affermato anche l'apposita Commissione regionale nella precedente legislatura. In realtà occorre dire con molta serenità che alla scelta energetica nucleare corrisponde in futuro uno sviluppo produttivo con tutte le conseguenze economiche, sociali e territoriali, che non è destinato a risolvere quello che abbiamo cercato di illustrare come crisi dello sviluppo industriale, ma ad ingigantire in maniera mostruosa distorsioni produttive ed economiche legate al futuro modello nucleare.
Forse il nucleare può essere a breve termine un "buon affare" per le multinazionali internazionali. Se non andiamo errati la nostra dipendenza in termini di energia nucleare è ancora più marcata e condizionata di quanto non sia oggi quella petrolifera, per non parlare della dipendenza tecnologica e scientifica, a causa della scelta di acquistare le centrali "chiavi in mano".
C'è dunque da fare una scelta non fondata sull'allarmismo, sulle paure o l'irrazionalità, così come qualcuno ancora cerca di fare per respingere il nucleare, quanto piuttosto di fondare un diverso modello di sviluppo e di consumi, che esalti quella nuova razionalità produttiva e di scelte di politica economica, in un quadro di reale e partecipata programmazione, che viene dal movimento operaio, dai giovani: la saldatura tra il momento della produzione e la capacità decisionale e il controllo sulle sue finalità.
Un obiettivo antitetico a quello che configura invece una possibile scelta nucleare, così come sembra avere scelto il Governo e che si produrrebbe a tappeto ai livelli regionali.
Qui stanno le ragioni di fondo del nostro netto dissenso dalle proposte contenute nel progetto presentato circa il "nodo nucleare" ed i termini con cui è affrontato. Al collasso energetico si può rispondere in due modi: o accentuando i presupposti dello stesso o por mano a scelte energetiche alternative al nucleare e a scelte produttive alternative a questo modello di sviluppo che divora e che divorerà in futuro livelli sempre maggiori di energia, la Regione ha una grande responsabilità. Una scelta di campo, se volete, ideologica, ma i cui risvolti concreti rapidamente sarebbero positivamente toccati da tutti.
Da una scelta che rivendicherebbe alle Regioni un ruolo forse non del tutto legittimo nell'ambito delle competenze istituzionali, ma giustificabile e comprensibile nel suo profondo senso politico, in un momento in cui da troppe parti e con troppe ambigue finalità si parla di sfascio dello Stato, di crisi della Repubblica e così via.
Una risposta davvero positiva a tali questioni può derivare anche dalla ripresa di una vera ed aperta battaglia politica rispetto alle scelte energetiche, del ruolo di decisionalità programmatoria che va rivendicato e conquistato in misura sempre maggiore per gli Enti locali, in particolare per le Regioni.
Con tale spirito, sulla questione delle scelte energetiche, intendiamo sviluppare in quest'aula e fuori di essa con quanti condividono la nostra scelta antinucleare, un confronto ed una battaglia di idee e di proposte che si sforzino di rispondere a questa vasta gamma di problemi.
In questo senso anche noi riproporremo la legge respinta dal Governo.
Un netto dissenso devo esprimere per quanto riguarda il programma e la politica socio-assistenziale. E' l'impostazione di fondo, di carattere caritativo, che non mi pare accettabile. Questo vale sia per la costituzione del fondo di solidarietà nei confronti di lavoratori colpiti dai licenziamenti, sia per i problemi che si riferiscono agli handicappati o ai tossicodipendenti. Non si ipotizza, infatti, nessun intervento né per rimuovere né per conoscere le cause all'origine di questi fenomeni.
Pensiamo agli handicappati, ad esempio, per i quali occorre certo un intervento nei confronti di quanti oggi soffrono di handicap gravi, ma anche una ricerca delle cause che li producono, che rendono le persone permanentemente invalide che consenta di affrontare il problema in termini sociali prima che assistenziali, puntando cioè a rimuovere le cause di handicap, siano esse individuali o prodotte dall'ambiente e soprattutto dalla fabbrica nell'ambito della prevenzione sanitaria. I servizi devono inoltre non essere riservati esclusivamente agli handicappati: si tratta infatti, più di modificare le attuali strutture che di costruirne di nuove e lo stesso deve valere per altri servizi (anziani, ecc.) che devono consentire la presenza di altre persone insieme ai soggetti nei confronti dei quali si predispongono degli interventi. Le case albergo e le comunità alloggio, allora, non devono essere riservate agli anziani, ma aperte a persone che hanno bisogno, per difficoltà nella loro esistenza e nei rapporti familiari e sociali, di uscire, magari per un breve periodo, da situazioni e relazioni che sentono come soffocanti o conflittuali in maniera per loro non sopportabile.
Anche rispetto ai tossicodipendenti l'approccio che si intravvede nel programma è parziale e in qualche misura distorto, fino a considerarli dei malati per i quali occorre "costituire una salvaguardia verso ricadute". Le esperienze che invece si sono costruite in questi anni in Regione ad opera dei CMAS sono sorrette da un'elaborazione diversa da questa, e si tratta di approfondirla e generalizzarla, consentendo esperienze anche specifiche e differenziate in relazione a diverse situazioni sociali e territoriali.
In conclusione di questo intervento voglio riaffermare l'esigenza di una trasformazione degli assetti produttivi, economici della nostra Regione e del nostro Paese, facendo della partecipazione dei cittadini il supporto essenziale. Questa esigenza a mio avviso va accentuata rispetto a quanto contenuto nel documento, come scelta irreversibile se vogliamo rispondere alla questione morale che mina i fondamenti stessi della nostra democrazia.
Questione morale che non va ricondotta a semplici problemi di individui i quali certamente devono andare in galera come auspicato dal Presidente della Repubblica Pertini, ma è un problema di modo di governare, di concezione ed uso del potere, di tipo di sviluppo che per scelte ben precise di chi ha governato l'Italia ha lasciato il Meridione nell'abbandono, serbatoio di manodopera e ne ha concepito il rapporto in termini assistenziali e clientelari attraverso i quali ricercare consensi elettorali. Se rispetto a questo la responsabilità della sinistra è quella di non essere riuscita a dare con abbastanza forza ed unità una battaglia per la trasformazione ed un ricambio di classe dirigente, le responsabilità della D.C. sono ben maggiori, infatti al di là della volontà dei singoli ha fatto di questo modo di governare una ragione di mantenimento del potere e spesso del modo di essere di questo partito.
Del resto ciò lo verifichiamo in questi giorni di fronte alla drammatica catastrofe che ha colpito il Meridione, la non applicazione della legge per le calamità, la disorganizzazione, l'incapacità di mobilitare immediatamente il nostro Paese, l'esercito in un'azione non di morte ma contro la morte, sono testimonianza di questo modo di governare.
Ebbene, anche questo drammatico problema ci rimanda ad una battaglia sul tipo di sviluppo e sul modo di gestire la cosa pubblica, cioè se a partire dalle cose che vengono fatte subito si instaura ancora un rapporto con il Meridione di assistenzialismo e sottosviluppo riproponendo esempi quali il Belice, oppure se attraverso una mobilitazione di tutte le energie e forze produttive del Meridione, cioè con una reale partecipazione popolare il segno della ricostruzione avviene sotto un controllo democratico ed un'ottica di sviluppo produttivo ed occupazionale.
Questa credo, sarà una grande battaglia che prima di tutto come forze di sinistra dovremo combattere e che più in generale segnerà profondamente la vita di tutta la nazione, e misurerà la capacità della sinistra a muoversi ed affrontare i problemi con un'ottica di governo e con egemonia.


Argomento: Problemi generali - Problemi istituzionali - Rapporti con lo Stato:argomenti non sopra specificati - Interventi per calamita' naturali - Assistenza e sicurezza sociale: argomenti non sopra specificati

Esame progetto di legge n. 34: "Primo contributo del Piemonte all'iniziativa di solidarietà nazionale per i terremotati della Campania e Basilicata"


PRESIDENTE

Interrompiamo brevemente il dibattito sul programma della Giunta regionale per esaminare un progetto di legge, il n. 34, testè approvato e di cui viene richiesta l'iscrizione all'ordine del giorno. Riguarda il primo contributo del Piemonte all'iniziativa di solidarietà nazionale per i terremotati della Campania e Basilicata, il Consiglio è d'accordo, e poich nessuno chiede di parlare votiamo immediatamente il relativo articolato.
Articolo 1 - "La Regione Piemonte partecipa all'azione di solidarietà nazionale per i terremotati della Campania e Basilicata stanziando un primo fondo di L. 400 milioni.
La somma così stanziata verrà utilizzata dalla Giunta regionale su indicazioni fornite dal Comitato regionale di solidarietà per l'acquisto di attrezzature e beni, per il pagamento di prestazioni di lavoro e di impresa, per l'erogazione di contributi a privati o ad enti ed associazioni, nel quadro delle iniziative promosse sia a livello nazionale che a livello locale".
Si passi alla votazione.



(Si procede alla votazione per appello nominale)



PRESIDENTE

Comunico il risultato della votazione: presenti e votanti 34 hanno risposto SI 34 Consiglieri.
L'articolo 1 è approvato.
Articolo 2 - "Ai fini dell'attuazione della presente legge, è autorizzata, per l'anno finanziario 1980, la spesa di L. 400 milioni.
All'onere di cui al precedente comma si provvede mediante una riduzione di pari ammontare, in termini di competenza e di cassa, del cap. 12750 dello stato di previsione della spesa del bilancio per l'anno finanziario 1980 e mediante l'istituzione nello stato di previsione medesimo del cap.
2390 con la denominazione: 'Interventi straordinari a favore delle popolazioni della Basilicata e della Campania colpite da eventi calamitosi' e con lo stanziamento di L. 400 milioni in termini di competenza e di cassa.
Il Presidente della Giunta regionale è autorizzato ad apportare, con proprio decreto, le occorrenti variazioni di bilancio".
Si passi alla votazione.



(Si procede alla votazione per appello nominale)



PRESIDENTE

Comunico il risultato della votazione: presenti e votanti 4 hanno risposto SI 4 Consiglieri L'articolo 2 è approvato.
Articolo 3 - "La presente legge è dichiarata urgente ai sensi dell'art.
45 dello Statuto ed entra in vigore il giorno successivo a quello della pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della Regione Piemonte".
Si passi alla votazione.



(Si procede alla votazione per appello nominale)



PRESIDENTE

Comunico il risultato della votazione: presenti e votanti 34 hanno risposto SI 34 Consiglieri L'articolo 3 è approvato.
Passiamo ora alla votazione sull'intero testo della legge.



(Si procede alla votazione per appello nominale)



PRESIDENTE

Comunico il risultato della votazione: presenti e votanti 34 hanno risposto SI 34 Consiglieri L'intero testo della legge è approvato.


Argomento: Giunta, organizzazione e funzioni

Dibattito sul programma della Giunta regionale per il quinquennio 1980-1985 (seguito)


PRESIDENTE

Riprendiamo il dibattito sul programma della Giunta regionale.
La parola al Consigliere Devecchi.



DEVECCHI Armando

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, le indicazioni programmatiche contenute nel documento della Giunta regionale hanno già dato modo ai colleghi del mio Gruppo che sono intervenuti nella discussione,, di approfondire tematiche ed argomenti e di esprimere valutazioni e giudizi.
Altri lo faranno dopo di me.
Non ho, quindi, intenzione di aggiungere molto di nuovo. Desidero solo soffermarmi su brevi considerazioni intorno ad alcuni aspetti del programma che i miei colleghi non hanno ancora toccato, o quantomeno non specificatamente in questa occasione.
Lo farò innanzitutto per ricordare a me stesso e poi per ribadire le posizioni della D.C., posizioni dalle quali discende l'operare della nostra forza democratica e popolare, che sa di essere storicamente motivata da ben identificati valori di libertà, di umanità e di sensibilità sociale.
Mi limiterò, pertanto, ad alcune riflessioni sul turismo, sul tempo libero, sulle attività ad esso collegate, sui temi di carattere culturale e su quelli attinenti la formazione professionale.
Mi sembra infatti che questi temi si prestino più di altri - certamente come i temi della sanità e dell'assistenza sociale, dei quali in tempi recenti i colleghi Beltrami e Bergoglio Cordaro hanno già espresso il pensiero della D.C. e con le cui valutazioni concordo pienamente - ad alcune riflessioni personali - che intendo fare ad alta voce - sull'uomo e sul suo modo d'essere nella comunità regionale.
Se tali riflessioni saranno giudicate ovvie o inutili, me ne scuso in anticipo.
Entrando nel merito, preciserò subito che alcuni progetti indicati nel programma possono anche trovarci parzialmente concordi. Tuttavia - resi esperti dalle esperienze precedenti e da quelle che sono sotto i nostri occhi - dobbiamo anche su di essi francamente esprimere il nostro dissenso o la nostra opposizione.
Infatti, nel passato la loro realizzazione pratica ha rivelato, e spesso rivela ancor oggi non troppo sporadicamente, la sostanziale incapacità da parte della maggioranza di distinguere "il ruolo delle forze politiche da quello delle istituzioni".
Così, ogni volta che nelle pagine del programma si incontrano affermazioni di adesione ai valori del pluralismo, viene naturale di chiederci come è stato concepito nei fatti sino ad oggi dalle forze politiche che compongono la Giunta il tanto decantato ossequio per il pluralismo.
Domani, quando i socialdemocratici saranno entrati in Giunta, forse le cose cambieranno: me lo auguro sinceramente e mi auguro che la loro presenza - lo dico senza ironia! - abbia la forza sufficiente a far cambiare atteggiamento a qualche altro partito.
Poiché, verità vuole si dica che non basta accettare o tollerare un formale pluralismo all'interno delle istituzioni, quando nei fatti e nei comportamenti si è ostili verso il pluralismo fra le istituzioni, perch non sempre si accetta, ad esempio, la "concorrenza" in materia di istruzione, di assistenza e di formazione professionale.
Quando, infatti, riandiamo ai comportamenti ed alla stessa legislazione regionale concernenti i settori, cui ho accennato, troviamo puntualmente la riprova delle mie affermazioni.
Quando poi troviamo o ascoltiamo solenni dichiarazioni sulla volontà di potenziamento delle autonomie locali, pensiamo e riandiamo alla realtà della miriade dei nostri Comuni più piccoli, nei fatti, li vediamo privati di ogni responsabilità di decisione politica.
Sempre sfogliando il programma incontriamo a pagina 49 del capitolo dedicato al turismo un'affermazione che ci lascia "perplessi". E' la seguente: "obiettivo primario della politica del turismo è la tutela del cittadino affinché ecc.".
Sono affermazioni che forse sono andate al di là del pensiero degli estensori. Non voglio pensare che ne abbiano espresso l'animo, perché se così fosse sarebbe facile intravvedere una inespressa volontà totalizzante ed egemonica - propria di alcune forze politiche presenti in Giunta - anche verso un settore come quello del turismo che in apparenza non dovrebbe esserne toccato.
Sono affermazioni, a nostro avviso, che nella sostanza indicano il disegno centralistico di indirizzare, di influire, di incanalare in ben determinate direzioni anche le attività turistiche.
Per noi la Regione, in campo turistico, non dovrebbe discostarsi molto dai seguenti obiettivi: apprestare le infrastrutture fornire incentivi creditizi compiere attività promozionale e propagandistica.
A proposito di quest'ultima occorre sottolineare che non sempre siamo stati concordi con certe forme di propaganda del passato, che non abbiamo condiviso né condividiamo, sia nei modi che nelle forme.
Per noi democratici cristiani non va dimenticato che "il turismo ha per soggetto l'uomo e se ogni altra attività industriale ha per soggetto un determinato bisogno dell'uomo sia singolo sia della comunità, il turismo invece ha per soggetto l'uomo intero nell'esercizio della sua meno influenzabile prerogativa: il libero esercizio delle sue richieste, di riposo, di svago, di istruzione, di cura". L'operatore turistico deve cioè servire il fattore uomo in un momento in cui forse è più uomo (se così si può dire e mi si scusi l'apparente bisticcio di parole), perché è più libero e meno condizionato dalla società.
L'Assessore al turismo, la Giunta ci troveranno però pienamente concordi nelle iniziative anche le più ardite ed avanzate, ogni volta che esse iniziative non contrasteranno con i principi che sono irrinunciabili per la nostra parte politica.
I temi culturali poi non possono affatto prescindere dal riferimento all'uomo nella sua totalità, cioè nell'insieme integrale della sua "soggettività spirituale e materiale".
Quando leggiamo i programmi culturali, o li riascoltiamo dalla viva voce del Presidente Enrietti, possiamo magari ritenerli ambiziosi o di difficile attuazione, in linea di principio potremmo anche concordare con essi, specie quando si assume la Regione come promotrice di una encomiabile volontà di sprovincializzazione culturale, di valorizzazione e di potenziamento degli atenei, di decentramento universitario, ecc., ma poi fatalmente riandiamo alla realtà, al "come" e al "dove" e al "che cosa" è stato fatto o si sta facendo. E, ritroviamo i contributi a pioggia, che sommessamente a noi non paiono essere stati sempre dettati da obiettività.
Allora ritorniamo scettici verso questa maggioranza, verso questa Giunta perché sino ad ora è andata in direzioni diverse da quelle da noi indicate, direzioni diverse nelle normative e nei fatti per quanto riguarda soprattutto il diritto allo studio - la legge approvata recentemente tra non poche polemiche ne è la riprova -, l'assistenza scolastica e la formazione professionale.
Perché quando si tende ad attuare controlli che accentuano l'influenza politica di chi o del partito che è preposto alla guida del settore dell'istruzione professionale, si nega il pluralismo.
La D.C. non può assolutamente prescindere in campo culturale, più che altrove, dal concetto della centralità della persona.
"La cultura e le istituzioni debbono servire l'uomo, perché questi divenga più uomo e possa 'essere' di più non solo per poter 'avere' di più ma per saper essere uomo con sempre maggior pienezza anche grazie a tutto quello che ha o possiede".
In altri termini, riteniamo che se si vuole veramente creare cultura non si possa prescindere dal fatto che l'uomo va considerato come un valore particolare ed autonomo, in una parola come il soggetto portatore della trascendenza della persona.
Affermiamo tutto questo non tanto per il gusto delle dichiarazioni di principio, ma ripeto per ricordare a noi stessi prima, ai nostri avversari politici poi, che ci troveranno puntuali a dare il nostro contributo positivo ogni qualvolta i principi di cui sopra saranno rispettati, invece ci troveranno inesorabilmente dall'altra parte allorché vedremo nelle iniziative della Giunta in campo culturale, la dimenticanza che l'uomo deve essere considerato perché lo è come valore particolare ed autonomo.
Quando sarà accolto il concetto che "l'uomo va amato perché uomo rivendicando l'amore per l'uomo in ragione della dignità particolare che egli possiede": allora ci saremo.
Venendo più precisamente alla formazione professionale, argomento che ancora ieri è stato definito di importanza eccezionale, noi non possiamo non ribadire il nostro scetticismo sulla legge approvata dalla passata legislatura, per i motivi che facilmente si possono desumere da quanto ho detto prima.
Chiediamo però con serenità, con determinazione pari alle nostre convinzioni che, nell'applicazione della legge stessa e nei tempi previsti secondo le modalità indicate nel programma, sia veramente consentito a tutti di operare senza pregiudiziali di carattere ideologico politico.
Noi non ci stanchiamo di ribadire che la Regione dovrebbe innanzitutto programmare l'attività, utilizzando il patrimonio tecnico e tecnologico nelle varie realtà disponibili sia esso di natura pubblica o privata: si faccia largo uso di delega soprattutto all'Ente intermedio, cioè a quelle Province che hanno dimensioni, capacità e strutture idonee per recepirla.
Non posso dimenticare la mia provenienza di vecchio amministratore provinciale, ma anche di conoscitore di quella realtà.
Riteniamo invece si debba essere molto cauti nel concedere le deleghe a certi Comuni minori carenti delle caratteristiche indispensabili perch possano svolgere una proficua ed utile attività nell'interesse della formazione.
Ripeto, non per riprendere un discorso che già ieri ha avuto momenti di particolare attenzione, ma perché convinto dell'importanza dell'argomento riteniamo che oggi lavorare sul versante del settore formativo professionale vuol dire si contribuire ad uscire dalla congiuntura - perch tra l'altro si possono ridurre i costi del lavoro a mano a mano che si acquisisce una maggiore professionalità individuale - ma vuol dire soprattutto contribuire anche per il domani a dare maggiore dignità e personalità all'uomo, all'individuo, alla persona.
Vuol dire contribuire a formare individui che siano sempre più in grado di maturare opzioni personali motivate, nei quali cioè la scienza e la tecnica siano vissute come contributo necessario, ma non insostituibile al loro pieno sviluppo.
In ultima analisi riteniamo che ciò renda più difficile giungere a quell'indottrinamento, che è sempre un vero attentato alla libertà dell'uomo.
Nessuno - sono certo - vuole veramente perseguire un simile risultato.
Per scendere al concreto e per aderire all'invito del nostro Presidente di contenere nel più breve tempo possibile la durata degli interventi, mi limiterò ora ad alcuni cenni su quelli che secondo noi sono i motivi conduttori che dovrebbero ispirare l'azione della Regione nel campo dell'istruzione professionale.
Innanzitutto ci sembra urgente: l'approvazione degli ordinamenti didattici con relativa scelta degli obiettivi affrontare in modo organico i problemi dell'orientamento professionale cercando un riordino e un coordinamento tra le diverse competenze, non dimenticando che anche in questo campo le Province potrebbero offrire supporti e strutture tali da meritare le più ampie deleghe scegliere ed indicare là priorità degli interventi operare in modo che i programmi didattici adempiano al compito sempre più sentito, di formazione di base polivalente pensare tempestivamente all'aggiornamento del personale docente dare per acquisito il concetto che la formazione professionale è oggi, ma diventerà sempre maggiormente, la via attraverso cui i giovani anche diplomati dalle scuole superiori - saranno obbligati a passare per essere inseriti nel mondo del lavoro.
Ho detto all'inizio che avrei voluto fare alcune riflessioni ad alta voce. Forse possono essere sembrate soltanto riflessioni di indirizzo e di principi.
Ritengo però che non possa e non debba fare diversamente chi, come me è all'inizio di un'esperienza consiliare regionale e che quindi necessariamente compie il suo insostituibile apprendistato. Il che non vuoi dire rifuggire dalle grandi responsabilità.
E' anche questo - a mio avviso - un modo di affrontarle: con umiltà e gradualità, non disgiunte però da un serio e profondo impegno.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Gastaldi.



GASTALDI Enrico

Signor Presidente, signori Consiglieri, inizio, per il P.R.I., gli interventi sulla parte specifica del programma della Giunta regionale facendo qualche osservazione sulla parte che riguarda l'agricoltura e lasciando alla Capogruppo l'analisi dei programmi che riguardano gli altri settori.
Il giudizio sul programma per l'agricoltura per gli anni '80-'85 va basato sulla capacità che tali proposte hanno di correggere i difetti dell'agricoltura piemontese, difetti che si sono resi evidenti in modo macroscopico ed esasperato nell'anno '80. In sintesi, nell'anno '80 si è verificata, anche davanti ad un aumento della quantità del prodotto, una riduzione del reddito degli agricoltori perché di fronte all'aumento medio del costo per la produzione del 20%, si è avuta una stazionarietà dei prezzi alla vendita per certi prodotti e addirittura, per altri, una discesa relativamente ai prezzi del '79. I fattori che influenzano queste due variabili del reddito (costo-ricavo) sono molteplici e certamente non tutti correggibili da interventi regionali; però la Regione può intervenire attraverso un'azione più insistente sull'attuazione di leggi nazionali e di regolamenti CEE e con la rigida applicazione delle proprie leggi.
L'enunciazione teorica degli scopi da ottenere è sempre ottima e facile: a) miglioramento della produzione, del reddito, dell'occupazione b) miglioramento della vita sociale nelle campagne che, se non potrà essere uguale a quella urbana, dovrà essere almeno vicina c) integrazione dei rapporti tra agricoltura e gli altri settori regolazione di essi in modo che non vi sia conflittualità d) riduzione della passività della bilancia commerciale estera ecc.
E' però dall'esame dei mezzi proposti per ottenere quegli scopi che si potrà trarre giudizio sulla loro realizzabilità, più o meno totale, nella pratica.
E i mezzi sono quelli che devono tendere ad aumentare il reddito dell'agricoltura, senza il quale i discorsi teorici vengono vanificati e l'agricoltura continuerà a precipitare verso crisi sempre maggiori provocando disoccupazione, specie nelle zone più emarginate.
Secondo noi i difetti dell'agricoltura stanno nella produzione e nella vendita: a) nella produzione essi sono, oltre l'inflazione, l'insufficienza delle strutture sia intraziendali, che interaziendali; soprattutto la mancata programmazione, della quantità di prodotto e la conseguente incertezza della sua collocazione b) nella vendita - è qui che si verifica il maggior difetto dell'agricoltura, sia nelle aziende singole e private, sia in quelle associate e cooperativizzate. Nelle private l'offerta è polverizzata e trova invece una domanda concentrata ed organizzata. Nelle associate mancano solide basi cooperativistiche, precisi concetti manageriali e soprattutto esse si fermano a metà strada tra trasformazione e distribuzione per cui le strutture agricole associate diventano o locali di stoccaggio gratuito (per il vino, ad esempio) o semplici produttrici di materie prime, per chi le porrà in commercio, più o meno trasformate: intermediazione, industria, minutizzazione delle vendite che assorbe così la maggior parte del valore aggiunto a proprio vantaggio, togliendolo al contadino. Infatti, solo il 16% dei produttori è organizzato in associazioni per la vendita e solo il 13% del prodotto agricolo viene venduto attraverso di esse.
Si dice che la nostra epoca è l'epoca del commerciante il quale si appropria, per la sprovvedutezza degli altri, aiutato dall'inflazione, di una grave fetta del reddito nazionale, Il programma, pure sintetico proposto dalla Giunta, propone rimedi a questi difetti.
Nella produzione quantitativa e qualitativa esso si propone, infatti di continuare ad intervenire sulle strutture con il metodo iniziato con la legge 15 e seguito con le leggi 63 e 33, limitando la forma assistenziale alla montagna e alla collina; di favorire l'unione dei produttori in associazioni e cooperative soprattutto tra giovani (specie quelli ai quali si riferisce la legge 285). A questo proposito noi vorremmo fare un'osservazione; non giudichiamo che la coltivazione delle terre incolte debba essere un compito precipuo di tali cooperative (come sembra rilevabile dal testo); di favorire la ricerca scientifica e curarne l'applicazione con un rapporto continuo tra centri di ricerca, università ed organizzazioni professionali, che la divulgheranno attraverso i loro vari corsi di istruzione ed i CATA; di programmare la quantità di prodotto e per questo si trovano nel testo frequenti riferimenti. Esso si propone di accelerare i piani zonali, che devono identificare i terreni pedologicamente migliori da destinare all'agricoltura e da difendere da altre autorizzazioni, salvo i casi eccezionali sempre possibili, di particolare gravità; e che devono indicare ancora le culture più utili e produttive nella zona e programmarne la produzione nella quantità che è possibile collocare sul mercato in modo remunerativo.
Ma è soprattutto sui frequenti accenni, anche se variamente distribuiti nel testo, alla commercializzazione del prodotto agricolo e al modo con il quale si intende realizzarla che sta la novità del programma.
Pare che anche secondo la Giunta sia questo il capitolo più importante da risolvere per l'agricoltura. Essa identifica quali mezzi utili: a) cura e ricerca dei rapporti nuovi e più trasparenti tra produzione agricola e industria alimentare, con contrattazioni che dovranno avere come base una programmazione vicendevole che deve garantire la collocazione totale del prodotto agricolo, tenendo conto delle esigenze dell'industria e del produttore b) costituzione di punti di vendita, di panieri a prezzi ridotti, ma ancora sempre redditizi per il produttore c) promozione della vendita e valorizzazione dei prodotti con tutti i mezzi di propaganda possibili.
Si accenna anche nel programma alla vendita diretta associata che è secondo noi, importante e che potrebbe essere realizzata dando priorità a quelle associazioni e cooperative che prevedono il conferimento del prodotto per la trasformazione e la commercializzazione ad organizzazioni superiori (quali le cooperative di secondo e terzo grado, ad esempio i macelli cooperativi per la produzione di carne) o alle associazioni dei produttori per le altre produzioni come latte, frutta e verdura.
Si sa che il progetto per le associazioni dei produttori è già iniziato: vi sono già le relative leggi ed è ora allo studio la fase attuativa di esse nei suoi vari aspetti: estensione delle zone che deve servire, collocazione delle strutture, ecc.
E qui vorremmo fare un'osservazione: bisognerebbe, ci pare, discutere tale progetto contemporaneamente e coordinarlo al regolamento CEE 355 sulla commercializzazione e bisognerebbe far precedere a queste realizzazioni uno studio e un'analisi dell'esistente, con una mappa geografica, ad esempio dalla quale risultino le zone dove sono localizzate le varie produzioni e gli impianti di raccolta e di trasformazione.
Su questa mappa sarà più facile localizzare le strutture superiori predette per farle corrispondere ai necessari requisiti di funzionalità e di economicità di costruzione e gestione.
In conclusione, ci pare che il programma della Giunta sia da accettare perché essa si propone di intervenire in modo importante sui punti più deboli dell'agricoltura (programmazione della quantità del prodotto agricolo e sua commercializzazione) che l'esperienza della campagna agricola dell'80 ha reso evidenti in modo esasperato e grave.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Reburdo.



REBURDO Giuseppe

Intendevo partire da una considerazione che forse può apparire estranea al tipo di dibattito che stiamo qui svolgendo, facendo alcune considerazioni di carattere generale che riguardano il rapporto tra i cittadini e le istituzioni. Mi facilita questo compito il fatto che proprio in questi giorni è stata portata all'attenzione della comunità torinese e piemontese un'inchiesta fatta da un'organizzazione di giovani (GIOC) sui giudizi che i giovani danno rispetto alla loro realtà di vita e di lavoro.
Tra le prime conclusioni di questa indagine c'è un dato che credo debba interrogare tutti, istituzioni, forze politiche, sindacato, che riguarda il fatto che il 69-70% dei giovani intervistati ha detto che non si interessa per nulla della partecipazione sia a livello politico che sindacale. Il 20 si preoccupa poco della partecipazione politica e sindacale, mentre appena l'1,2% si fa carico di questi livelli di partecipazione e l'8-9 abbastanza.
Credo che questo, assieme ad altri, sia un elemento che ci porta a sviluppare in termini più attenti la nostra attenzione al rapporto istituzioni-cittadini e ci debba anche far valutare con preoccupazione il distacco che esiste tra queste istituzioni e la società civile. Ciò ha delle motivazioni articolate, sulle quali non sto a dilungarmi, e si aggiunge anche ad una difficoltà di realizzare a livello istituzionale, in termini concreti, tanto più attraverso un Ente locale come la Regione tutto il tema della partecipazione in quanto incidenza nelle decisioni politiche che vengono assunte nelle istituzioni stesse. Evidentemente ha anche delle motivazioni più collegate al fenomeno della crisi morale etica, di valori, che investe la società ed al crescente fenomeno di corporativismo e di individualismo, oltre che al fatto, portato drammaticamente all'attenzione in questi giorni, della questione morale e dell'inefficienza congenita di uno Stato male organizzato e male condotto.
Credo che quando si affronta il tema proposto dal programma che le forze di sinistra e democratiche hanno presentato come elemento di maggioranza, proprio sul distacco tra istituzioni e cittadini ci debba investire tutti, al di là delle divisioni politiche ed ideologiche che sono presenti. Il compito principale che noi abbiamo, allora, è quello di tentare una politica che affronti il tema delle istituzioni con l'obiettivo di diminuire questo distacco. Credo che in parte siamo avviati su questa strada, dove a livello istituzionale siamo in una fase delicata della riforma dello Stato, in cui accanto ad elementi di rinnovamento, di rifondazione, di decentramento politico - amministrativo dello Stato abbiamo delle gravi inadempienze che rendono difficoltosa questa realizzazione.
In particolare, per quanto riguarda le Regioni, se si fa eccezione per la carenza di poteri significativi nei settori della politica industriale e soprattutto della politica attiva del lavoro, i problemi di fondo che secondo me abbiamo davanti, attinenti alla distribuzione delle competenze ci portano alla necessità da un lato di superare l'attuale frantumazione delle leggi e leggine statali che soffocano le competenze regionali e dall'altro, ci spingono all'esigenza di dare attuazione all'art. 11 del decreto 616, consentendo il reale concorso delle Regioni alla programmazione nazionale. Questo, direi, accanto ai problemi della rifondazione dei Comuni ed alla questione dell'ente intermedio, elementi che ci sollecitano nel confronto politico. Abbiamo, d'altra parte, le esperienze dei quartieri, dei Comprensori, dei distretti scolastici, delle U.S.L., delle Comunità montane, le varie unità associative intercomunali la soppressione dei controlli prefettizi, il decreto 616 e la 833, che hanno nella sostanza creato le condizioni perché la riforma istituzionale si possa realizzare. Da qui nasce la spinta di andare avanti con maggiore sollecitudine e di porre fine ad una serie di interventi parziali puntando, nella sostanza, ad un riordino complessivo che dia spazio e respiro alle autonomie, in particolare quelle comunali. Quindi, questa non è un'opera di ingegneria istituzionale, ma un momento reale di battaglia politica, culturale, ampia, complessiva e, nello stesso tempo, stimolante terreno sul quale si devono misurare le forze politiche, le istituzioni e le forze sociali.
Il programma presentato dalla maggioranza dà un significativo spazio ed una certa centralità all'impegno per l'estensione dei servizi sociali pubblici, in una precisa continuità rispetto alla passata legislatura. Il concetto centrale che guida questa politica è il superamento, a cominciare dal basso, della vecchia logica settoriale che vivisezionava i bisogni e le esigenze delle persone, per invece considerare la realtà, le aspettative, i bisogni, in termini unitari e per raccordare unitaria- mente le risposte sul territorio, secondo il principio di "un territorio, un governo".
Ora, per ottenere questi risultati, è necessario che i servizi non elargiscano più solo prestazioni anonime e deresponsabilizzanti, ma si richiede il coinvolgimento dei cittadini stessi, dei gruppi, dei movimenti il quale muterebbe la qualità ed il significato del servizio, aprirebbe la strada ad una vera appropriazione sociale da parte degli utenti. E' proprio, quindi, sulla base dell'esperienza, dell'estensione di questi servizi sociali pubblici che l'intervento pubblico non può essere supplettivo rispetto a quello privato, ma deve tendere a realizzare i principi di solidarietà e di promozione sanciti dalla Costituzione. Qui si tocca un terreno di confronto: questo non significa ridurre l'intervento privato negli spazi residuali; anche l'intervento privato, che non sia speculativo ma espressione dell'autonoma iniziativa di formazioni sociali non può essere supplettivo a quello pubblico, ma la sua valorizzazione deve esserne il frutto. La strada da perseguire, secondo me, tende a collegare insieme l'azione dei poteri pubblici e quella dei privati, in primo luogo attraverso la partecipazione delle organizzazioni private nella fase ascendente alla programmazione dei servizi; in secondo luogo, attraverso la partecipazione dei privati all'attuazione e gestione delle iniziative programmate. La partecipazione alla programmazione non deve certo evidentemente servire a spartire zone di influenza distinte, ma ad organizzare servizi secondo obiettivi e metodi che vedono protagonisti sia gli operatori pubblici che quelli privati e che siano volti alla promozione ed al sostegno della persona umana ed anche delle famiglie. Si pu realizzare questo obiettivo proprio partendo dalle Regioni, dove più salda e ramificata è la presenza pubblica, lasciando lo spazio necessario alle iniziative dei privati, convinti che ciò non dovrebbe provocare inutili contrapposizioni di carattere ideologico. In queste situazioni sono presenti le premesse perché non ci si debba solo interrogare sull'alternativa "pubblico" o "privato" ma, ad esempio, anche sui mezzi per far si che gli interventi, da riparativi, si trasformino prevalentemente in preventivi, per incentivare al massimo le espressioni del volontariato, per far si che il diritto all'assistenza si trasformi in una nuova prospettiva di sviluppo in liberazione dal bisogno e dalla dipendenza.
Il dibattito, quindi, si pone su un terreno molto più avanzato di questa dialettica tra pubblico e privato. La stessa attuazione della contrastata 382 sta facendo prendere coscienza sempre più, secondo me, alle forze più disponibili e serie dello stesso mondo cattolico, che non è certo in discussione la presenza dei cristiani nel settore dei servizi sociali ma la pretesa di taluni (in verità sempre meno) di essi di continuare a mantenere su tale presenza sia clientele, sia centri di potere. In un momento in cui attraverso il decentramento e la riforma democratica dello Stato il pubblico si distende sul territorio e si apre alla partecipazione dei cittadini e delle loro organizzazioni, anche il privato non può non perdere i tradizionali caratteri di separatezza. Gestione sociale, quindi ed autogestione, sono ormai - pur attraverso carenze ancora gravi insufficienze e contraddizioni - realtà operative, esperienze che avanzano in regioni, ad esempio, come la nostra. Perché, allora, c'è da chiedersi non confrontarsi seriamente per avviare adeguate esperienze ed allargarle senza strumentalismi e su un disegno forse più avanzato, certamente più ricco, e più corrispondente alle esigenze della società civile; cioè, per essere più chiaro, non limitarsi al pluralismo nelle istituzioni, né tanto meno accontentarsi del pluralismo delle istituzioni, ma tentare di lavorare per istituzioni ancora più espressione del ricco pluralismo presente nella nostra società. Come ho detto, questo lo voglio porre come terreno di confronto e di dibattito: mi pare sia giunto il momento di superare certe affermazioni che vengono fatte da certi settori della D.C. per giocare su questo contrasto e su questo scontro. Parrebbe essere questa la strada che permette di realizzare la riforma dello Stato e la crescita della società civile, come due obiettivi che camminano congiuntamente, se si vuole assumere come obiettivo centrale il recupero della credibilità delle istituzioni, per darci convergenza essenziale nello sviluppo della democrazia nella libertà e nella giustizia. Questi obiettivi, che secondo me potrebbero essere un terreno in parte già sperimentato, sono: la piena e sollecita attuazione della Repubblica delle autonomie, la programmazione democratica, un'esperienza di gestione sociale e la riforma partecipata l'avvio di un confronto sul discorso del sociale autogestito e, infine, il problema dell'educazione alla politica. Mi voglio in particolare soffermare su questo, credo sia un problema importante, collegato al discorso iniziale di distacco profondo tra i cittadini e le istituzioni; l'educazione alla politica ritengo che debba essere affrontata anche in termini molto precisi e puntuali: se la governabilità è riferita al cittadino come soggetto, come protagonista, la capacità politica di governo non può nascere automaticamente e soltanto né dalle contraddizioni sociali, né dalle lotte.
E' frutto, secondo me, di un processo educativo e, se vogliamo, di autodeterminazione, in cui acquistano importanza anche le condizioni e le contraddizioni, la capacità di promuovere esperienze e di riflettere su di esse; di un'educazione che si vive Alla quotidianità, al di là dei ruoli rigidi e separati in cui ognuno è nello stesso tempo maestro e allievo.
Così la politica è chiamata a fare i conti con i problemi della soggettività e con la crisi delle motivazioni e dei valori. In realtà già oggi la politica si occupa della soggettività e delle motivazioni, ma spesso lo fa con le tecniche della manipolazione, dello scambio politico dei processi neocorporativi più o meno accentuati. Anche se bisogna pur dire che oggi questa politica comincia a non pagare e la politica, quindi cerca di rinnovarsi e di affrontare in termini concreti questi problemi.
Quindi, educare alla politica vuol dire far emergente dal vecchio modo di fare politica un tema strategico fino a ieri estremamente nascosto e cambiare anche questo radicalmente di segno.
Voglio terminare con una frase di Paolo Fréire: "Così il fine ultimo dell'educazione alla politica può diventare dare la parola, far si che la realtà non sia più dettata da pochi, ma scritta nella prassi di liberazione. Il diritto fondamentale dell'uomo è dire la sua parola è dire la parola dell'Uomo".



PRESIDENTE

Signori Consiglieri, finisce così questa tornata dei nostri lavori, che riprenderanno lunedì prossimo 1 dicembre.
La seduta è tolta.



(La seduta ha termine alle ore 19,30)



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