Sei qui: Home > Leggi e banche dati > Resoconti consiliari > Archivio



Dettaglio seduta n.170 del 09/12/82 - Legislatura n. III - Sedute dal 9 giugno 1980 al 11 maggio 1985

Scarica PDF completo

Argomento:


PRESIDENZA DEL PRESIDENTE BENZI



PRESIDENTE

La seduta è aperta.
Convoco i colleghi Capigruppo per una riunione immediata.
La seduta è sospesa.



(La seduta, sospesa alle ore 10 riprende alle ore 10,15)



PRESIDENTE

La seduta riprende.
Nella riunione dei Capigruppo appena conclusa abbiamo esaminato la possibilità che l'Assessore alla sanità, collega Bajardi, riceva una delegazione di allievi infermieri professionali per esaminare alcuni punti ancora in discussione riguardanti la procedura del regolamento-tipo di cui alla legge regionale n. 7 del 10/3/1982.
L'Assessore è a disposizione della delegazione.
Ora cominciamo i lavori normali del Consiglio esaminando il punto terzo all'ordine del giorno in quanto il punto secondo verrà discusso domani.


Argomento:

Comunicazioni del Presidente del Consiglio regionale


PRESIDENTE


Argomento:

Comunicazioni del Presidente del Consiglio regionale

Argomento:

a) Congedi


PRESIDENTE

In merito al punto terzo all'ordine del giorno: "Comunicazioni del Presidente del Consiglio regionale", comunico che hanno chiesto congedo i Consiglieri Alasia, Devecchi, Fassio Ottaviano, Penasso, Sanlorenzo e Simonelli.


Argomento:

b) Deliberazioni adottate dalla Giunta regionale


PRESIDENTE

Le deliberazioni adottate dalla Giunta regionale nella seduta del 30 novembre 1982 - in attuazione dell'art. 7, primo comma, della legge regionale 6/11/1978, n. 65 - sono depositate e a disposizione presso il Servizio Aula.
Le comunicazioni sono così terminate.


Argomento: Delega di funzioni regionali agli enti locali

Dibattito sulla riforma delle autonomie (ordine del giorno PLI e mozione PCI)


PRESIDENTE

Passiamo al punto quarto all'ordine del giorno che prevede il dibattito sulla riforma delle autonomie (ordine del giorno PLI e mozione PCI).
Poiché il Consigliere Bontempi rinuncia ad illustrare la mozione del proprio Gruppo, do la parola all'Assessore Ferrero che relaziona in merito.



FERRERO Giovanni, Assessore agli Enti locali e decentramento

Signor Presidente, signori Consiglieri, i due riferimenti attorno ai quali può imperniarsi il dibattito che ha inizio questa mattina, sono costituiti certamente dal disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri, che reca "Ordinamento delle autonomie locali" e, dall'altro lato dalle peculiari esperienze che, nel nostro Piemonte, in anticipazione ed in posizione originale e costruttiva, si identificano in una storia legislativa e di realizzazioni sul tema delle autonomie locali.
Questi due riferimenti sono sicuramente noti ai Consiglieri; e quindi il primo intervento di questo dibattito che svolgerò a nome della Giunta non potrà che contenere degli spunti, degli stimoli e delle riflessioni sul lavoro fin qui svolto, oltre a qualche prospettiva per il futuro risultando la materia stessa già ampiamente conosciuta e dibattuta nelle diverse sedi politiche ed istituzionali.
Il disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri offre spunti per qualche riflessione e considerazione. In sintesi, grande assente all'interno di questo disegno di legge, è certamente la Regione: la Regione intesa quale Ente; la Regione intesa nelle sue capacità di fornire normative alle altre minori autonomie e di costituire essa stessa elemento di trasformazione o di stimolo all'evoluzione della struttura governativa.
In particolare, della struttura imperniata attorno alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e alla compagine governativa, al Consiglio dei Ministri nella sua interezza.
Questa assenza ritengo debba essere doverosamente rilevata in questa sede, in Consiglio regionale, e debba essere evidenziata, non tanto nel senso della rivendicazione settoriale, di una delle istituzioni dello Stato nei confronti di altre parti di esso, ma, mi sembra, con riferimento alle possibili conseguenze della sua eventuale operatività. In particolare trovo abbastanza sintomatica la parte del disegno che disciplina i poteri del Prefetto e la sua capacità di rappresentare, in ogni singolo ambito provinciale, l'Amministrazione centrale dello Stato. Tale prospettiva, in primo luogo, indebolisce e in qualche modo vanifica l'istituzione del Commissario di Governo, cioè di un'autorità governativa unica nell'ambito regionale; inoltre frammenta, in ambito sub-regionale, l'interlocutore statale che dovrebbe avere lo stesso livello e lo stesso ambito territoriale della Regione, soggetto legislativo; infine colpisce anche quelle funzioni regionali già adombrate, e non solo adombrate, nel D.P.R.
616, di coordinamento e di raccordo tra gli Enti locali e con gli Enti locali, che, all'istituzione Regione, devono necessariamente essere riconosciute come elemento portante di una concezione moderna ed originale della programmazione, di una programmazione, in sostanza, partecipata e non gerarchicamente distribuita e ripartita fra i diversi livelli istituzionali.
Non a caso, infatti, in Piemonte ed in altre Regioni, varie iniziative in questo senso sono in atto. In questa sede regionale, in discussione tra l'esecutivo e l'ANCI, è stato addirittura adombrato un passo ulteriore rispetto agli attuali rapporti con il Commissario di Governo; è stata cioè, avanzata la possibilità di una conferenza regionale, in cui gli Enti locali vengano raccordati all'interno delle prerogative di coordinamento che potrebbero essere attribuite alla Presidenza della Giunta regionale come organo, ai sensi del nostro Statuto, che vuole il Presidente largamente rappresentativo, nei rapporti esterni, della Regione come istituzione.
Questa questione dei Prefetti, quindi, non mi pare tecnica e marginale ha conseguenze importanti. Mi sembra che la discussione non possa avvenire soltanto in termini di valutazione della situazione attuale rispetto a quella introdotta o suggerita dal disegno di legge del Consiglio dei Ministri, ma debba anche prevedere eventuali aperture ulteriori, per rafforzare quel ruolo non amministrativo, non direttamente gestionale, ma sostanzialmente programmatorio e partecipativo proprio della Regione.
Un altro punto (e lo cito perché è emblematico e merita una riflessione): all'art. 84 del disegno ministeriale si individua un ruolo della Regione a sostegno, con erogazione anche di contributi finanziari delle forme di associazione - per altro molto positive - che sono previste nel corpo del disegno medesimo. Credo che, sulla scorta dell'esperienza che noi abbiamo compiuto in Piemonte e che forse altre Regioni non hanno ancora completamente maturato, si debbano avanzare qualche dubbio e qualche perplessità sul fatto che l'erogazione di incentivazioni o di contributi finanziari, costituisca elemento di amalgama dell'associazionismo intercomunale e della costituzione di un sistema organico delle autonomie locali. Mi sembra che sia piuttosto nelle finalità comuni, nel coordinamento delle funzioni proprie, nel perseguimento di rapporti e di obiettivi coerentemente rivolti ad un sempre più stretto rapporto con la società che debbano essere ritrovati - e per altro il disegno correttamente li ritrova - i fondamenti di un associazionismo intercomunale, capace di coinvolgere anche le Amministrazioni provinciali e di costituire un saldo terreno organizzato.
L'apertura di un canale di incentivazione finanziaria è, per altro anche contraddittoria con l'attuale, sia pure transitoria, normativa sulla finanza degli Enti locali e potrebbe determinare, come effetto amministrativo - qui accenno soltanto al tema - un reale sgravio da parte dello Stato (essendo il tetto, al quale sono vincolati i Comuni difficilmente superabile, la questione è controversa con l'immissione dei contributi esterni) e, quindi, potrebbe risultare una diversa voce di entrata degli Enti locali, attraverso la Regione, invece che tramite i sistemi nazionali.
Se di incentivazione si deve parlare, ritengo che un articolato di quel genere potrebbe essere valutato positivamente ove si discutesse sia delle grandi leggi statali, dei fondi della Comunità Economica Europea o di altre partite relative, per esempio, alla finanza privata. Credo appunto che l'incentivazione economica dei servizi abbia già dimostrato (penso, ad esempio, alla gestione del Fondo Sociale Europeo per i servizi assistenziali e ad altre realtà che ciascuno di noi avrà in mente) equivoci e difficoltà non irrilevanti. D'altra parte, la Giunta non può che essere coerente con l'impianto della sua politica generale che, ormai da anni, vede nel rapporto con i soggetti privati e con il Governo, sui temi delle grandi infrastrutture e di grandi disegni di sviluppo, un elemento portante che non può consistere nell'erogazione che, necessariamente, data l'attuale situazione di crisi economica, è assai discutibile nei suoi stessi effetti sul mercato, Quindi, nel riprendere le osservazioni all'art.
84, non faccio altro che sollevare, di fronte al Consiglio, una problematica generale, che tocca, al di là del disegno di legge, il problema di un corretto comportamento del governo, di una Amministrazione nell'attuale situazione, di fronte cioè alla divaricazione tra l'entità dei contributi e la portata delle grandi strategie.
Non voglio soffermarmi ora (perché lo tratterò poi, sia pure rapidamente) sul problema dei controlli; problema anch'esso assai complesso e che meriterebbe una discussione attenta. Mi pare invece che debba essere valutato come ambigua possibilità di esercitare, in termini di aziende, con metodi propri dell'economia e non con quelli propri di pubblica amministrazione, complessi di funzioni pubbliche. Ritengo ambiguo un tale metodo il cui unico aspetto positivo consiste nell'uniformare nella gestione molti servizi e molte attività riconoscendo una situazione di fatto che vede, nel trasferimento dell'esecutività delle scelte ai privati ed a strutture esterne alla pubblica amministrazione, una prassi consolidata, non solo nel settore dell'edilizia, ma in molti altri settori gestionali della pubblica amministrazione. Dico ambiguo, in quanto non mi risulta del tutto chiaro quali siano le possibilità reali, all'interno di quel disegno (bisognerebbe introdurre una discussione molto complessa su cosa potranno essere i campi reali dell'autonomia statutaria e della revisione istituzionale dei Comuni), quali possano essere gli strumenti effettivi di controllo su questi settori aziendali esterni alla pubblica amministrazione da parte degli eletti, da parte della volontà politica, da parte, quindi, dell'interesse collettivo espresso con il voto.
Interessanti, certamente, le intese e le associazioni; perché le possibilità che vengono aperte da quel disegno sono in parte anticipabili già oggi, con una volontà politica dei soggetti; ed inoltre l'avvenuta presentazione di quel testo offre sicuramente molto più slancio e molto più stimolo alla Regione, alle Province ed ai Comuni, per utilizzare compiutamente anche questa fase transitoria per ottenere certi risultati.
Mentre nel testo governativo vengono previsti sbocchi istituzionali alle intese ed alle associazioni, nella fase transitoria attuale, l'aspetto organizzativo è l'unico che può essere utilizzato (non ancora l'aspetto istituzionale, perché manca il successo giuridico della legge nazionale) mi sembra che tale aspetto giustifichi un grande interesse ed un giudizio che non può essere aprioristicamente negativo, in nome di una mera rivendicazione di poteri da parte della Regione.
Ho cercato di affrontare, molto in sintesi, alcuni aspetti di questo primo riferimento (penso che altri Consiglieri potranno svilupparlo con molta più libertà), solo per ribadire alcuni punti che mi sembrano essenziali: la necessità che le Regioni non si muovano come soggetti contrattuali antagonisti dello Stato, non siano quindi di fronte a questo disegno di legge, soggetti di rivendicazione di competenze, ma siano invece, sulla base della loro esperienza, in grado di dimostrare che l'istituto regionale è davvero una delle più grandi o meglio la più grande delle riforme istituzionali, assunto che consente riflessioni non soltanto a livello dei Comuni, ma a livello dello stesso Stato centrale.
Sono dell'opinione che questo sia il punto fondamentale da ribadire: la Regione è, essa stessa, una grande riforma istituzionale; ed è grande riforma istituzionale perché mette in discussione lo Stato centrale, mette in discussione i temi fondamentali dell'economia e del rapporto tra Stato e società. Credo che su questo punto, una riflessione debba essere svolta da tutti quei partiti che quando affrontano in sede nazionale i temi della riforma istituzionale (al cui interno pure esistono le connotazioni particolari con cui le diverse forze politiche entrano in quella discussione), pensando soprattutto e giustamente alle questioni della Presidenza del Consiglio dei Ministri e della riforma del Senato dimenticano che la struttura regionale influisce direttamente sulla strutturazione dei rapporti tra Governo centrale e grandi aziende di Stato.
Grandi aziende di Stato che, a me sembra (sottolineo "a me sembra") vengano particolarmente in evidenza in occasione di questi censimenti che noi stiamo conducendo prima sulla popolazione, poi sull'agricoltura; temi di grande importanza che non toccano direttamente risorse finanziarie e poteri, ma toccano l'identità e la struttura dello Stato.
Ora, a me pare che ci sia, da parte dell'ISTAT, una disponibilità formale assai grande, della quale bisogna dare atto, come elemento positivo di novità; ma che vi sia poi, sostanzialmente, una tendenza a considerare l'articolazione legislativa dello Stato, cioè le Regioni, come puro elemento territoriale ed organizzativo, ed a sottovalutare la portata politica ed istituzionale, che è propria della Regione. In sostanza l'ISTAT, che è uno degli enti strumentali classici dello Stato, fornisce l'occasione per l'esistenza di un nodo che le Regioni stesse mettono in rilievo nei rapporti tra Stato centrale e grandi Enti di Stato. I rapporti della Regione con l'ANAS, i rapporti della Regione con le Ferrovie dello Stato, sono questioni che, non a caso, ricorrono sovente nei nostri dibattiti e non possono essere semplicemente ricondotti ai rapporti con la compagine ministeriale, ma vanno a toccare funzionamento e comportamenti propri delle grandi aziende dello Stato.
Ora, così come la presenza e l'attività delle Regioni mettono in discussione il modo di operare dell'Amministrazione centrale dello Stato della compagine governativa e delle grandi aziende di Stato, così noi dobbiamo riconoscere con altrettanta chiarezza che la riforma delle minori autonomie mette in discussione, direttamente e immediatamente, il modo di operare della Regione come istituto e, per quanto direttamente ci riguarda della Regione Piemonte.
In riferimento alla seconda parte del mio intervento in cui svolger qualche considerazione sulle peculiari esperienze e sulla storia istituzionale piemontese, mi pare opportuno partire da un'ottica non rituale e che già la Giunta ha affermato con alcuni documenti relativi alle deleghe consegnati tempo fa alla I Commissione.
Mi sembra che il complesso degli atti predisposti nei confronti delle minori autonomie debba essere funzionale alla valorizzazione del ruolo della Regione, intesa come centralità della legislazione e della programmazione regionale, non già nei termini della gestione amministrativa diretta della Regione stessa. Non mi pare, in sostanza, che si possano abbandonare questi elementi di riferimento per valutare, in lungo periodo gli effetti delle decisioni che noi assumiamo.
La prima questione che balza agli occhi, quando si affrontano da questa visuale tali problematiche, è quella che attiene agli ambiti territoriali.
Non a caso, alla fine della prima legislatura ed all'inizio della seconda attraverso la discussione sui Comitati comprensoriali prima, e sulle Unità Sanitarie Locali poi, si è affrontato, come primo cardinale elemento quello della definizione di quali fossero e quali dovessero essere gli ambiti territoriali sui quali le diverse attività e le diverse funzioni dovevano insistere. Il ragionamento parte dallo Statuto regionale: parte dallo Statuto là dove si parla di aree ecologiche, dove si parla di decentramenti amministrativi; non parte dalla costituzione di Enti, ma dalla costituzione degli ambiti nei quali debbono essere esercitate le funzioni, per valutare se queste funzioni possano o meno essere riferite ad un unico Ente o ad Enti diversi. Questo concetto, in sostanza, della dimensione e dell'ambito territoriale, è stato sempre elemento motore e stimolo di quelle che si sono poi rivelate come innovazioni anche istituzionali. E' stato così per le Comunità montane, è stato così in tutti i casi in cui abbiamo affrontato una fase davvero costituente e fondante nel rapporto con le autonomie locali. Questa realtà contiene un elemento di valore, a mio parere, irrinunciabile. La priorità di uno Stato concepito come ordinamento, rispetto alla priorità di uno Stato concepito come pura entificazione o come pura distribuzione di apparati, contiene in se stessa problemi (permettetemi di affrontarli soltanto in modo geometrico) che hanno poi immediatamente una grande rilevanza politica ed economica: la questione, ad esempio, dell'area metropolitana.
Non c'é dubbio che la proposta avanzata e caldeggiata da più parti, al di là del disegno presentato dal Consiglio dei Ministri, di un ambito che racchiuda l'area metropolitana, determina una grande innovazione "geometrica": per la prima volta, direbbe uno che si occupa di geometria avremo degli ambiti territoriali non semplicemente connessi; oppure, per dirla in termini più banali, avremo degli ambiti territoriali senza soluzione di continuità.
L'esistenza di aree di questo tipo ed il rilievo che si intende attribuire alla Provincia metropolitana che diventa essa stessa, un polo un elemento fondamentale di rapporto con il Governo, di trattativa sulle grandi questioni non soltanto riguardanti i cittadini di quell'area, ma il complesso dei cittadini di una Regione, in qualche modo addirittura di un Paese, fa sì che la questione delle aree metropolitane, non a caso, risulti già da un primo esame - come dire? - cartografico, anche molto superficiale, renda evidente il senso, in Piemonte, di una scelta siffatta.
Non tocca a me affrontare gli altri aspetti della questione: quelli economico-sociali e quelli di rapporto con il Governo. Qui mi pare che molto lavoro debba ancora essere fatto e molta riflessione e affinamento debbano essere prodotti, almeno a mio giudizio.
Ora, se la questione comincia ad essere sempre ed immediatamente di interesse territoriale, credo si debba fare rapidamente un excursus sintetico e, quindi, orientato verso alcuni sbocchi, dell'attività che abbiamo insieme compiuto negli ultimi anni. Quando la Regione ha istituito i Comitati comprensoriali, a cavallo quindi tra la prima e la seconda legislatura, non era ancora presente nel dibattito il tema che poi, con il D.P.R. 616, è diventato tema strutturante della questione delle autonomie locali. Basti pensare agli interventi di Potoshning e di moltissimi altri sul tema delle deleghe. La discussione, allora, avveniva sostanzialmente sul tema delle aree ecologiche, sulla loro concretizzazione, sugli indirizzi di sviluppo, sul governo di uno sviluppo e sul suo decentramento.
I problemi che attengono l'attribuzione di competenze sono venuti ben dopo l'istituzione dei Comitati comprensoriali e, giova ricordare, non erano neppure presenti nel dibattito teorico di quegli anni. Si è quindi realizzata, secondo me non a caso, una dimensione solo di programmazione ma, contemporaneamente, un non Ente, una struttura che non è né un organo né un Ente autonomo, ma che è cerniera e momento di rapporto fra le autonomie locali e la Regione; che é, nel contempo, assemblea degli Enti locali e forma di esistere e di operare degli organi della Regione finalizzata a fornire un contributo in termini essenzialmente partecipativi alle gestioni regionali. Questo, mi pare importante, doveva dare contributi in termini partecipativi alla gestione della Regione, in un periodo in cui gli incrementi della finanza regionale rendevano i fondi regionali la più cospicua risorsa libera per effettuare operazioni di riequilibrio, secondo necessità presenti all'interno della pubblica amministrazione.
Parallelamente, ed è del '76, infatti, la legge sulla zonizzazione, si sono istituiti degli Enti - i Consorzi, ai sensi del Testo Unico del '34 sulla legge comunale e provinciale - unico strumento giuridico per associazioni di uso generale. Delle Comunità montane parlerò in seguito, ma mi sembra che qui la riflessione sia più semplice e la positività stia nei fatti: quindi non affronto questa questione. I Consorzi che sono stati concepiti secondo me non a caso, con una qualche diffidenza nei confronti delle associazioni di cui al D.P.R. 616, hanno potenzialmente l'aspirazione ad essere soggetti generali: possono esserlo se c'è una volontà autonoma dei Comuni che lo diventino. Le associazioni, ai sensi della legge di riforma sanitaria, erano limitate alle materie dei servizi e, in particolare, dei servizi sanitari e dei servizi assistenziali, con gli esiti complessi e difficili che poi abbiamo potuto verificare in seguito; si tratta quindi di Consorzi settoriali, con aperture generali. Ora, a me sembra che l'esperienza di oggi non possa che farci confermare alcune scelte; ma credo che dobbiamo anche dire che se ne mettono pesantemente in discussione delle altre.
Tenterò di distinguere gli elementi di conferma da quelli messi in discussione, con molta più schematicità di quanto una posizione equilibrata della Regione o della stessa Giunta non dovrebbe prevedere; ma mi pare che essendo il primo intervento nel dibattito, si debba anche rompere un poco il ghiaccio su alcune questioni che, credo, siano già state anche oggetto di discussione in altre sedi. Sui Comprensori, credo sia sicuramente valido l'aspetto partecipativo e dei rapporti dei Comuni tra loro e dei Comuni con la Regione; ma che si debba dire che è scarsamente recepibile quanto nei Comprensori si è strutturato, in termini di Ente; cioè: lo stesso peso dei Comitati comprensoriali, dovuto alle loro connotazioni partecipative, ha determinato una strutturazione e, quindi, una tendenza continua all'entificazione, elemento di difficoltà per quegli organismi.
Facciamo qualche esempio: assemblee pletoriche ed ingestibili; problemi continui di numero legale; pesi crescenti di esecutivi dove l'esecutivo dovrebbe essere un elemento assolutamente marginale del Comitato comprensoriale; frammentazione della discussione, che avrebbe dovuto essere fondata su un'ipotesi generale di pianificazione, attraverso lo strumento delle Commissioni, in ambiti e sviluppi particolari. Aggiungo anche una qualche conflittualità con la Regione di cui pure sono parte, non sempre fondata sui grandi temi della proposta socio-economica e territoriale e neppure su quelli della ripartizione dei fondi, della correttezza e del riequilibrio, ma, a volte, essenzialmente imperniata sulla richiesta di esistere in quanto Enti, promuovendo iniziative, manifestazioni, attività quasi i Comprensori fossero un nuovo momento autonomo ed istituzionale.
In questa luce debbono essere valutate, come sta facendo la I Commissione, le proposte di modifica degli Statuti; nei loro elementi sovente necessitati e necessitanti per il funzionamento del Comprensorio stesso, ma anche nella loro dubbia efficacia per un effettivo rilancio di quell'elemento partecipativo, che è pure elemento fondamentale, che dovrebbe caratterizzare i Comitati comprensoriali. Ritengo ci sia un altro elemento di crisi che non può essere attribuito ai Comitati comprensoriali e che dobbiamo denunciare apertamente: il tipo di presenza delle Amministrazioni provinciali all'interno dei Comitati comprensoriali e sicuramente insufficiente e inadeguato; in sostanza non si è riusciti a coinvolgere, da parte dei Comitati comprensoriali, in modo efficace, le Amministrazioni provinciali, così che gli stessi atti autonomi delle Province, che insistevano sul territorio di quel Comitato, venissero coordinati con gli atti dei Comuni e con gli atti della Regione.
Sui Consorzi (questo è un tema a me caro; non sono riuscito a sfuggire dal citarlo e prego i Consiglieri di metterlo immediatamente tra parentesi e dimenticarsene): con la legge 833 e con la sua interpretazione, si sono definitivamente obliterate e dimenticate le poche aperture generali presenti all'interno della legge regionale 39 sui Consorzi. E si è cominciato a costruire un meccanismo, che ormai passa anche all'interno della stessa Regione, di verticalità e di settorialità di questo organismo con risultati assai preoccupanti per lo stesso livello di assistenza perché questa situazione determina un progressivo malumore e un prendere le distanze da parte dei Sindaci e delle rappresentanze delle comunità locali da uno dei valori fondamentali che, con la legge 833, si voleva portare più vicino a quella comunità: il bene inalienabile e indivisibile della salute nei suoi aspetti di prevenzione, cura e riabilitazione. Problema serio problema che tende a riproporsi anche in altre materie, sia pure in maniera più surrettizia e meno esplicita, di quanto la legge 833 non abbia indotto.
Vi sono state da parte dei Consorzi, là dove sono stati costituiti un'identificazione crescente ed una sovrapposizione ai Comuni, soprattutto perché i Consorzi erano e sono stati Enti settoriali e, quindi, assai poco capaci di coinvolgere un Ente sostanzialmente generale, come il Comune nelle persone più rappresentative del Sindaco, delle Giunte, dei Capigruppo, dei Consigli, ad un impegno diretto che, essendo appunto molto settoriale, configurava più un'azienda di quanto non configurasse uno strumento elettivo e politico di governo, nell'area di una materia complessa.
Vi è stata, non vi ritorno su, una difficile gestione dei Consorzi e quindi, una qualche tendenza alla presidenzialità. Si tratta di considerazioni equivalenti, anche se assai diverse, a quelle che svolgevo prima per i Comitati comprensoriali.
Vi è da ritenere che nelle Unità Sanitarie Locali queste cose si siano verificate e costituiscano un problema politico aggravato, a mio avviso permettetemi di dirlo, da un crescente strapotere di corporazioni e di apparati che rendono la reale possibilità di governo della materia largamente condizionata da un meccanismo che generalmente viene definito contro-riformatore; ma che, secondo me, non presenta soltanto aspetti di contenuto o di merito sui quali le opinioni possono essere largamente discusse, ma che presenta proprio quegli elementi di difficoltà. In fondo è la stessa discussione che abbiamo già fatto in Consiglio regionale sul piano socio-sanitario; discussione molto positiva ma che contiene, al suo interno, elementi e limiti sui quali si può operare e che non sono certamente quelli che, nella seconda legislatura regionale, un po' tutte le forze politiche a livello di Amministrazioni locali, pensavano dovessero essere elementi di innovazione.
Piuttosto, la questione dei Consorzi ci pone davanti ad un dilemma che non è facile risolvere e che formulerei nei termini seguenti: o ai Consorzi si danno apparati aggiuntivi rispetto a quelli preesistenti negli Enti istituzionali, a quelli presenti nella Regione, nelle Province e nei Comuni; oppure si rischia di pervenire ad una paralisi funzionale e ad un aggravio del peso sull'Amministrazione centrale della Regione. A me pare che anche la gestione dei trasporti, in molte aree territoriali, abbia questi connotati di fatto, non di principio, anzi, credo, con riferimento ai Consorzi, che debba essere ribadito quell'impegno interessante ed unitario che, nella passata legislatura, aveva indotto a vedere, in quella legge, la 39, un modello di strutturazione sia di Consorzi sia del meccanismo di delega, anche nel caso della formazione professionale, in cui gli stessi soggetti istituzionali si sono dissolti per un movimento legislativo, ma prima ancora, per un movimento di fatto della volontà dei Comuni e delle società.
Ora, poiché sappiamo che questi riferimenti e questa storia non possono che muoverci a formulare delle indicazioni in una direzione, che è quella della costituzione del nuovo Ente intermedio, e quindi quella della costituzione delle nuove Province, così come viene previsto dal testo ministeriale, credo che noi dobbiamo tentare anche qualche riflessione su quello che debba essere innanzitutto l'atteggiamento politico nei confronti delle Amministrazioni provinciali stesse. Prima di tutto, riterrei debba essere preservata in modo assoluto la valenza programmatoria, che costituisce, per le Province così come sono oggi, un'assoluta novità assoluta novità perché la questione del ruolo della nuova Provincia si pone in una condizione in cui è cambiata profondamente (con l'istituzione delle Regioni e con le nuove attribuzioni di competenza ai Comuni) la stessa possibilità di operare di un Ente intermedio con funzioni di programmazione. E quindi sarà per noi opportuno cogliere questo elemento fondamentale e subordinare, alla presenza continua di questo valore, oserei dire di questo valore culturale, qualunque altro atto, anche amministrativo, di coinvolgimento delle Amministrazioni provinciali. Poich sono convinto che si debba ancora l'attribuzione delle deleghe gestionali a strutture consistenti ed esistenti, non vedo nulla di male nell'attribuzione di deleghe alle Amministrazioni provinciali, sapendo per (e tornerò su questo argomento) che la stessa attribuzione delle deleghe comporta immediatamente, in anticipazione della riforma, un qualche rimodellarsi delle Amministrazioni provinciali. Non è quindi una mera attribuzione di ruoli o di funzioni aggiuntive ad un'entità che già esiste è un processo transitorio che dobbiamo guidare, con il ragionamento più unitario possibile, che però coinvolgerà pesantemente la Regione stessa nel suo modo di operare e le stesse Amministrazioni provinciali. In particolare, ritengo non possa essere assolutamente perso il rapporto con tutti i Comuni, un rapporto che deve avvenire con pari dignità, senza creare dei marchingegni istituzionali troppo grandi e macchinosi. Perché è poi nel rapporto con i Comuni che si strutturerà e si evidenzierà la valenza programmatoria delle nuove Province.
E, dunque, se questi sono i tre elementi fondamentali nati dall'esperienza e dalla storia di questi anni, proviamo a formulare qualche molto timida proposta aggiuntiva rispetto ad un documento già portato alla discussione della I Commissione. In quel documento si avanzava un'ipotesi forse allora un poco "eretica" ma che, dopo la presentazione della legge da parte del Consiglio dei Ministri, appare più ortodossa: che in realtà gli Enti in Italia sono largamente quello che la volontà politica e la situazione di fatto hanno plasmato e quindi le distinzioni tra Enti sulla base del Testo Unico del '34 non appaiono interessanti per operare praticamente in una fase transitoria.
Vorrei aggiungere un altro elemento, proprio prendendo spunto dalla considerazione iniziale: importanza delle aree e degli ambiti territoriali.
Occorre conservare e valorizzare le dimensioni territoriali che abbiamo acquisito come dimensioni ottimali: non mi pare che questo sia, per la Regione, un punto di ripensamento possibile, trattandosi di uno dei valori fondamentali in cui la comunità regionale, in diverse forme, si riconosce.
E a questo punto, il discorso delle aree economiche, degli aspetti socio economici effettivi, in una situazione di crisi, mi sembra non possa essere minimamente dimenticato. Tenterei piuttosto di incardinare, nel nostro sistema istituzionale, i contenuti delle riforme realizzate dalla Regione nella precedente legislatura adeguando, alla sostanza comprensoriale l'istituto del circondario; circondario che, mi pare, debba essere valutato non già come sottoprefettura, nella sua accezione originaria costituzionale e statutaria, ma che possa ritrovare un qualche interesse essendo, in certo qual modo, confrontabile con le aree comprensoriali, aree sulle quali insiste il controllo che è il punto fondamentale di qualunque riforma istituzionale e, contemporaneamente, sottomultiplo degli ambiti provinciali e quindi strumento che, non essendo Ente ma puro ambito territoriale di gestione, può costituire una scintilla per accendere all'interno delle stesse Amministrazioni provinciali (quelle che non lo hanno già fatto, perché Torino, Cuneo, ad esempio, già si stanno muovendo un poco; in questa logica, usando gli ambiti comprensoriali come riferimento) un processo che sia di reale riconoscimento della storia lunga e travagliata, della programmazione in Piemonte.
Si tratta di un'operazione, questa che suggerisco, che dovrà essere meditata a lungo con cautela, ma che potrebbe effettuarsi in termini di organizzazione, ancorata ad un impianto istituzionale non rigido, con aperture alle questioni suggerite dalla legge: le intese, le associazioni tutte quelle forme poli-funzionali che, mi pare, debbano e possano essere già anticipate nella fase attuale. La questione, ovviamente, è di promuovere una revisione delle procedure di programmazione e di spesa, che vedono oggi dei terminali territoriali diversi e che dovrebbero cominciare ad accostarsi con gradualità ad una procedura di programmazione senza diventare sostitutivi dei fini e degli obiettivi che la programmazione si propone. Se si deve fare una riflessione sul passato, ne consegue che troppo abbiamo insistito sugli aspetti procedurali della programmazione e troppo poco sugli elementi partecipati e di comando, di enunciazione esplicita dei fini che la programmazione deve contenere.
Ora, in sintesi, che cosa diremo noi ai Comprensori e ai Consorzi? Credo che la cosa fondamentale che si debba dire è che si apre, in conseguenza di queste riflessioni (che mi sembrano poco più che una descrizione ragionata della realtà così come è sotto i nostri occhi), la gestione di una complessa transizione. Dobbiamo riconoscere, negli anni che vanno dal 1983 al 1985, senza nessun attributo limitativo all'affermazione una fase di transizione; senza illuderci che gli obiettivi che dobbiamo conseguire per la fine del 1985 contengano già in sé i modi e le forme di questa transizione. Forti di altre esperienze che ormai abbiamo maturato dobbiamo riconoscere che la transizione è in se stessa un problema politico, istituzionale e organizzativo di grande complessità. E, quindi anche la stessa approvazione della legge nazionale, con le varianti ed aggiunte che ciascuna forza politica, poi, nel gioco parlamentare deciderà di introdurre, non risolverà affatto il problema del trapasso dall'attuale realtà alla nuova fase che si configurerà.
Ritengo, quindi, che la Regione debba in qualche modo, in un discorso senza finte gentilezze, ma con coraggio, da entrambe le parti, dare l'imprinting" alla Provincia, cioè intervenire in qualche modo perch nell'atto costitutivo di questo Ente intermedio, ci sia qualcosa di più che non un trapasso di poteri, ma ci sia anche la trasmissione di quella impronta che, in certo modo, nella Regione, ormai si è connaturata perché è stata, nel bene e nel male, negli elementi di forza e di debolezza, un fatto costitutivo della sua esistenza; in modo che alla Provincia rinnovata vengano degli impulsi espliciti e coraggiosi, senza rinunciare in questo modo o con questa scelta, a nessun rapporto creato tra i Comuni e con i Comuni.
Quindi, senza mettere minimamente in discussione l'esistenza l'operatività ed il funzionamento, almeno fino all'85, delle intese e delle associazioni che il disegno ministeriale prevede.
Ma non voglio qui anticipare un tema che è al di fuori degli anni che ci stanno davanti, e nei quali occorre dare ai Comprensori e ai Consorzi esistenti un programma di lavoro a termine (e dico "a termine" esplicitamente per uscire dall'equivoco) e quindi programmi che permettano di lavorare per ottenere dei risultati.
A questo "programma-termine" devono collaborare anche le Province in un rapporto che sia formalizzato con la Regione, perché con i Comprensori, in quanto tali, non vi può essere formalizzazione: quindi deve essere un rapporto formalizzato direttamente con la Regione e che esplichi i suoi effetti nei confronti dei Comprensori e dei Consorzi.
La Regione, nell'ambito delle procedure già esistenti (e questo mi pare che sia necessario contraltare nel dare un programma a termine), deve portare a compimento la sintesi dei piani e dei programmi sub-regionali alla dimensione regionale; e deve anche procedere all'approvazione, ai lavori e agli studi necessari, perché, a livello sub-regionale, gli schemi gli abbozzi, le proposte, possano diventare a tutti gli effetti materiali sintetizzabili su una scala regionale.
Secondo me, nei tempi, nei modi e con le modalità previste dalla legislazione di delega, questo deve essere compiuto; perché solo così il passaggio al nuovo impianto organizzativo sarà gestito dalla Regione e nello stesso tempo, sarà idoneo a costituire una continuità senza rotture rispetto all'impianto attuale che è divenuto provvisorio non perché ne siano cadute le ispirazioni di fondo, ma perché si è modificata per effetto stesso di quanto abbiamo fatto, la realtà; è un'esigenza di continuità rispetto alle forme istituzionali future che la legge nazionale prevederà.
In particolare, credo che questo voglia dire, per la Regione Piemonte un qualche ricordinamento delle procedure; dicevo già prima che terminale diversi e differenziati dovrebbero essere tendenzialmente riassunti in questa operazione: dovrebbe essere affrontato con coraggio il problema organizzativo interno, soprattutto, secondo me, per quanto attiene non alla gestione del personale (che è problema già complesso, ma per il quale le responsabilità degli esecutivi sono largamente sovrabbondanti e sufficienti), ma anche per quello che riguarda la mobilità e riqualificazione del personale; perché nessuno di noi può nascondersi che questo tema ritorna tutte le volte che si vuole parlare di un riordino delle autonomie esterne. Questo tema porrà delle questioni che formalmente i sindacati apprezzano e approvano ma che, sostanzialmente, poi, dovrà essere calato in decisioni operative; e dovrà esservi introdotta, secondo me, una qualche decisione della Regione come Ente e non in modo settoriale da parte di alcuni Assessori particolarmente competenti (come nel caso di Testa) o tirannici (come nel caso del sottoscritto); dovranno essere rivisti numerosi meccanismi di controllo, non ignorando che per gli Enti locali il controllo più pesante è quello che oggi viene compiuto dai CORECO.
A questo punto si pone una questione che formulo come interrogativo. Ha senso che il controllo non debba partire da un esplicito esame dei risultati che si ottengono attraverso gli atti e che quindi vi debba essere una distinzione, come dato permanente, tra un controllo di legittimità (lungo, pesante, farraginoso) ed un altro controllo, settoriale ed amministrativo, dedicato e rivolto a singoli uffici? In particolare, mi pare che, per gli Enti delegati, si tratta di individuare la dimensione territoriale; e in questo caso ricordo la questione dei circondari, legata all'art. 129 della Costituzione ed all'art. 70 dello Statuto. Non va dimenticato che i circondari possono essere riformati e modificati con legge regionale nel modo in cui noi vogliamo; e quindi non si tratta di riferirsi necessariamente agli attuali circondari, ripetendo che nessuno vuole, ovviamente, sottoprefetture: senza disconoscere o ridurre l'attribuzione di deleghe alle Province, si tratta, invece, di organizzarle, e di organizzarle in raccordo con i Comuni.
Al riguardo esiste un problema che non si può ignorare: la questione legata alla proposta che emerge da molte aree (Biella, ma non solo Biella) della nostra Regione, di individuare subito nuovi ambiti territoriali a cui possa venire attribuita presto la dignità di Provincia.
Orbene, a me pare che su questa materia (dicevo Biella, ma non riguarda solo Biella) ci siano tre cose da considerare. Intanto la Regione o la Giunta hanno sempre mandato tutta la documentazione agli organismi competenti: ai Presidenti della Camera e del Senato, in modo che dei dibattiti sulle autonomie locali la volontà espressa dagli Enti locali possa immediatamente pesare ed incidere, per accelerare la riforma e per orientare il comportamento dei legislatori. C'è il fatto che la Camera ed il Senato non sono orientati a prevedere nuove Province in carenza di un'organica legge di riforma (almeno queste sono le dichiarazioni pubbliche e private che ho ascoltato); la nostra è quindi un'operazione politica, il riconoscimento di un'identità nell'ottica del nuovo Ente intermedio e non soltanto di un'identità nell'ambito abbastanza angusto dell'attuale concezione provinciale.
Infine, si deve dare pari dignità a tutte quelle altre proposte che emergono con rilievo dalla comunità regionale; pari dignità, almeno fino al momento in cui il Consiglio regionale non abbia diversamente deciso e valutato; ma, per parte dell'esecutivo, queste proposte hanno natura e significato analogo, simile e, quindi, non possono che essere trattate all'interno di una griglia uniforme. Pertanto se non si può pretendere che i 1.209 Comuni piemontesi abbiano tutte le competenze su ogni materia, è invece necessario affermare con forza che tutti i Comuni partecipino direttamente o indirettamente, a tutto quanto costituisce il complesso delle attività che avviene sul loro territorio. Chiaro, quindi, che l'istituto consortile può essere vantaggiosamente sostituito dalle associazioni o dalle intese previste dal d.d.l. governativo già attualmente, soprattutto in una veste polifunzionale; ed è ovvio che schemi, modelli e strutture essenziali di questi rapporti dovranno essere impostati dalla Regione, anticipando, nei contenuti, la stessa capacità statutaria che è previsto sia attribuita agli Enti locali. Nell'ambito di rapporti così articolati, la costruzione del sistema delle deleghe viene a perdere ogni connotato unilaterale, il che consentirà di acquisire, intorno a quella materia, anche risorse degli Enti locali.
Ritengo ancora che si debba ricordare, nel problema del riordino degli Enti locali, che esiste un capitolo sovente trascurato, che è quello dei cosiddetti Enti strumentali: Enti strumentali e partecipazioni azionarie della Regione Piemonte, che sono già oggi sede di rapporti, oltreché con i privati, anche con gli Enti locali. Le più recenti leggi in materia prevedono, esplicitamente, uno sviluppo di questo rapporto con conseguenze istituzionali e finanziarie, ad esempio per quanto concerne la SITO S.p.A.
si prevede la cessione, fino al 30%, delle azioni regionali agli Enti locali, riducendo quindi la partecipazione della Regione dal 49 al 19%.
Anche i rapporti della Regione Piemonte con i settori dell'economia che hanno frequenti implicazioni (tra l'altro, con la gestione del territorio, competenza primaria della Regione, e delle infrastrutture) possono essere sostanzialmente estesi ad altri Enti locali che sono oggi solidamente presenti nelle attività di alcuni importanti enti strumentali o enti connessi o con partecipazioni regionali. Torino, forse, come area, ha già realizzato autonomamente, in parte, alcune di queste presenze, ma vi è un problema generale su tutto il territorio regionale. Credo che gli Enti locali potranno partecipare direttamente a questi rapporti, che hanno più rilevanza di tipo politico di quanta non ne abbiano di economico finanziaria (basti pensare al ruolo fin qui svolto dalla Finpiemonte ed al significato politico, prima ancora che finanziario, delle società d'intervento che essa ha creato).
Ora, il risultato oggettivo di un'iniziativa in questa direzione comporterà da una parte qualche possibilità in più di dialogo con i settori privati e dell'economia; e, dall'altra, una possibilità per gli Enti pubblici di fornire servizi su una base economicamente accettabile ed attraverso una riforma della pubblica amministrazione di intervenire positivamente in termini economicamente validi anche su problemi di interesse di privati.
Il problema centrale che ho cercato di tratteggiare è quello concernente il passaggio dalla forma Comprensorio ad un'altra forma che coinvolga gli Enti e la Provincia ed il cui funzionamento complessivo sia determinato dalla programmazione - indirizzi di merito - della Regione.
In questa direzione, devo dire che la Giunta regionale si sta muovendo con la presentazione al Consiglio regionale dei disegni di legge di delega di settore: disegni di legge che nascono anche sulla base delle intese stipulate in occasione della cosiddetta "verifica"; disegni di legge tra loro diversi perché diverse sono le materie, anche se a me sembra che abbiano alcuni punti in comune. Un riferimento alla programmazione regionale e sub-regionale ad un'articolazione delle Province, ad un rapporto stretto con i Comuni e con le Comunità montane, il recepimento a livello regionale delle risultanze formali, quindi approvate, della programmazione sub-regionale, sia di quella generale che di quella di settore.
Ne costituiscono esempio gli schemi di piano socio-economico e territoriale di Comprensorio, che comprendono i piani delle Comunità montane e che includono, sempre a titolo di esempio, i temi della formazione professionale; i piani agricoli zonali che si devono ricomporre a livello comprensoriale (vedi la modifica della legge regionale n. 20), la questione dei trasporti e, con modalità un po' diverse, la politica della casa e tutto un articolarsi di procedure che va in questa direzione.
Se ci si deve allora preparare a due anni abbondanti di transizione, si dovrà anche preparare, a livello regionale, quella che dovrà essere la strumentazione necessaria. E a me pare molto positiva l'iniziativa avviata direttamente con il CSI da parte del Consiglio regionale, non tanto per gli aspetti contabili o di gestione o per la conoscenza delle singole procedure, ma perché non c'é dubbio che l'elemento fondamentale di questa strumentazione (la relazione Giannini mi pare che rimanga ancora, da questo punto di vista, un testo anche scientifico oltreché politico, che merita di essere valutato con attenzione) è quello di definire dei temi informativi delle strutture di banche-dati che siano poi in grado di reggere, di sopportare, la successione di soggetti diversi che dovranno usarle e che dovranno con esse strumentarsi; in modo che questa successione di soggetti e questa continuità della base informativa, siano gli elementi operativi più importanti della fase transitoria, dalla cui qualità ed efficacia deriverà la solidità delle forme definitive.
Credo si potrebbe concludere dicendo che, a seguito di questo dibattito, dopo gli approfondimenti in I Commissione e sulla base di quanto il Consiglio deciderà, si potrà sviluppare il semplice documento già presentato in Commissione a nome della Giunta. Si potrà, in pratica presentare all'inizio del 1983 un primo disegno organico anche se ovviamente, ancora carente di una parte della strumentazione operativa di natura più squisitamente politica: un disegno organico che possa tentare di raccogliere tutta la discussione condotta fino a questo punto e riproporla nei termini di una corretta gestione per i due anni di transizione.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Revelli.



REVELLI Francesco

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, ho seguito attentamente la relazione dell'Assessore Ferrero e debbo precisare, come aveva già annunciato Bontempi a seguito della riunione dei Capigruppo, che noi non intendevamo più illustrare la nostra mozione nei termini con cui avevamo prestabilito. Anche perché, già presentata a marzo, in una successiva verifica figurava un importante capitolo al quale mi riferirò in particolare.
In sostanza, desidero sottolineare come il tema più generale della riforma dell'istituzione sia tornato ad essere, in questi ultimi anni, un tema centrale del dibattito, non solo in Parlamento, ma anche fra i partiti politici.
Le ragioni di questa crescente centralità del nodo istituzionale sono molteplici, le conoscete bene ed è inutile richiamarle. Importante è invece sottolineare alcuni aspetti unificanti, privilegiati, sui quali si va sviluppando questo confronto e questo dibattito sugli obiettivi che le diverse forze politiche perseguono attraverso la proposta di modificazioni ed innovazioni nel funzionamento della macchina statale; e le molte ipotesi che sono state avanzate da diverse forze politiche, compresa la nostra (lo stesso De Mita, nel recente Congresso della Democrazia Cristiana ha dato un notevole contributo su un tema che gli è caro), le quali, via via hanno preso in considerazione i rapporti Governo - Parlamento, maggioranza opposizione, partiti - istituzioni, risposte politiche alle domande sociali. Tutte questioni importantissime e complesse, che certamente non si risolvono soltanto nell'applicazione auspicata, secondo il dettato oltre che secondo lo spirito della Costituzione. Ma invece il confronto che mi pare sia destinato ad approfondirsi, verte su quello che è stato l'elemento più pregnante e più offensivo, per l'aggressività (lo dico tra virgolette) dimostrata dal Partito Socialista con la questione della grande riforma.
E' questo un tema che ricorre in molti altri programmi delle forze politiche e nel quale, essenzialmente, mi pare di individuare un nodo che attraversa un po' tutte le forze politiche italiane: quello dell'efficienza dei processi decisionali, di restituire forza, oltre che trasparenza all'azione di Governo. Una finalità, d'altro canto, presente anche in coloro che si sono più applicati e soffermati, a partire dal rapporto Giannini, sul tema della riforma della pubblica amministrazione.
Quello che noi notiamo in questo processo (ed è qui l'unica osservazione generale che voglio fare), è il fatto che questa definizione dei processi decisionali ricade sempre nella questione degli assetti e degli equilibri tra i diversi soggetti capaci di decisione politica. E questa precisazione sul tema istituzionale, anche per l'eco che ha avuto sulla grande stampa, si è focalizzata essenzialmente attorno alla forma del processo stesso di decisione, alla riformulazione, se volete, delle condizioni in cui si decide: e questo dibattito non si è accompagnato, a nostro avviso (ecco la sollecitazione di parte, di parte comunista, che io qui voglio lasciare alla riflessione dei colleghi), pur così aggressivo nell'ultimo anno, ad una discussione della politica economica che, invece è incentrata sui grandi temi della lotta all'inflazione che confluiscono stante la linea che pare diventare maggioritaria nel nostro Paese, sui temi del contenimento della spesa pubblica, dei prezzi, delle tariffe, della modificazione della scala mobile; cioè di quegli elementi costitutivi della lotta all'inflazione che dovrebbe consentire al nostro Paese di riportarsi a livelli europei credibili, come premessa per la ripresa.
E qui c'è proprio il punto che per noi è centrale: il centro del dibattito sarebbe davvero tragico se, rispetto alla questione istituzionale e alla stessa legge presentata dal Governo, s'incentrasse intorno al conflitto distributivo e alla battaglia della distribuzione fra i diversi ceti e i gruppi della massa residuale delle risorse ancor oggi disponibili che investono la spesa pubblica, la quale, comunque, pur tagliata rappresenta oltre il 50% del prodotto interno lordo.
In questo modo verrebbero accantonate gravemente le questioni alle quali si richiamava Ferrero, riecheggiando il punto di vista della Giunta l'esperienza del Piemonte, sulle questioni attinenti gli apparati e gli strumenti di Governo riguardo l'economia: questo insieme di apparati e di strumenti diventerebbero oggetto, al più, di proposte di razionalizzazione o di semplificazione troppo frammentarie e settoriali.
Vi è quindi un forte elemento di novità che si sovrappone alla mozione che avevamo presentato, fermo restando quanto è stato recepito all'interno dei propositi di aggiornamento del programma della Giunta, che va condotto avanti. E l'elemento di novità consiste nell'intreccio nuovo che si verifica tra la situazione istituzionale e l'attuale politica economica di programmazione. Ritengo sarebbe controproducente non fare chiarezza intorno a questo elemento di novità per riscoprirvi quegli elementi di unità, di maturazione alla quale sono pervenute le grandi forze democratiche del Paese; una maturità che in questo Consiglio si è espressa per dieci anni con alterne vicende, attraverso dibattiti e discussioni, intorno ad alcuni punti fermi, di valore, in cui tutti abbiamo creduto, indipendentemente da come possano essere stati gestiti; anche attraverso le osservazioni giuste e doverose che deve fare l'opposizione rispetto alla conduzione amministrativa della maggioranza.
Mi pare, cioè, che oggi rischieremmo una svolta storica se la riforma delle autonomie locali e, quindi, delle Regioni e dello Stato, a monte, non andasse avanti avendo a cuore questo tema del Governo sull'economia. Senza prendere atto che, grazie anche alla diffusione dell'ideologia neo liberista, si andrebbe sempre di più separando l'economia dalla politica quasi che allo Stato debba oggi competere solo di mettere ordine alla spesa pubblica, che è essenzialmente sociale, mentre al sistema delle imprese competerebbe nuovamente di ritrovare una sua qualificazione nella produzione della ricchezza. Tutte cose corrette sul piano teorico, ma non altrettanto per quell'intreccio profondo che esiste nella realtà del nostro Paese come in molti altri Paesi occidentali e che non è possibile, a mio avviso, separare; non solo per non paralizzare certe classi sociali, ma anche perché, al limite, da questo stato di recessione sarebbe poi il sistema delle imprese a pagarne lo scotto.
Ho fatto questa considerazione per una ragione politica rilevante signor Presidente della Giunta, in quanto è in atto da tempo una campagna molto insidiosa contro i governi regionali e locali; e questa campagna è volta non a svilire solamente il significato e la novità delle conquiste istituzionali e delle sperimentazioni fatte in questi anni in tanti settori nazionali; è un attacco particolarmente rivolto all'Amministrazione di sinistra che rischia di riaprire una conflittualità grave; lo accennava Ferrero nella sua relazione tra Enti locali e Regioni e Stato: sarebbe una conflittualità inopportuna proprio per le conquiste di confronto realizzate in tutti questi anni.
Giusto l'altra sera, signor Presidente, un esponente del suo partito che presiede un grande istituto di credito nazionale e conosce bene la realtà drammatica dell'economia nazionale e di molti altri Paesi, mi diceva che all'estero ci sia stupore nell'osservare come in Piemonte venga gestita una crisi sociale ed economica così grave, con 40.000 persone lasciate dalla Fiat senza lavoro, con migliaia e migliaia di cassaintegrati centinaia di aziende in crisi, senza che scoppino quei grandi disordini che sono avvenuti a Detroit ed in altri centri americani o a quanto sta accadendo addirittura nella stessa Inghilterra! Quindi, c'è un merito anche di saper controllare la crisi, come anche di tentare di forzare questa governabilità, come ci viene sollecitato per certi versi anche dalle opposizioni o da una parte delle opposizioni qui presenti.
Il senso della nostra mozione, aveva appunto questo carattere; vi è una parte generale, nella quale denunciavamo i ritardi nel processo di riforma l'esclusione della Regione da questo processo di riforma, e le resistenze che ancora esistono a livello centralistico, burocratico e politico; e c'era una presa di posizione del Consiglio regionale, nella sua pienezza nel senso che questa legislatura parlamentare non può non affrontare questo nodo, insieme a quello della finanza locale, nell'ottica di correggere, di dare una sistemazione definitiva, in una parola, di portare a compimento questa riforma.
In tal senso il Consiglio regionale, direi proprio il Consiglio regionale più che la Giunta regionale o la stessa Presidenza del Consiglio della nostra assemblea, non può starsene inerte alla finestra. E forse sarebbe utile promuovere qui un incontro, una seduta apposita, per vagliare quel programma di quattro punti che abbiamo espresso, sulla base magari delle nostre proposte.
Queste erano le due proposte di ordine generale che noi formulavamo.
Nella nostra mozione vi era poi una parte di esame (anche critica e di autocritica, se volete) delle esperienze fatte in Piemonte. E su questi temi interverranno forse altri compagni del mio Gruppo, credo Valeri, i quali avranno modo di riprendere e di specificare che cosa intendiamo noi riguardo alle associazioni poli-funzionali e al modo di essere dei Comuni.
Io mi limiterò a soffermarmi su due problemi essenziali contenuti nel programma che ci siamo dati e che rappresentano la mozione con le stesse parole.
Intanto, la questione dell'Ente intermedio e dei Comprensori. I Comprensori sono stati un'esperienza importante; hanno mosso una politica di programmazione che non è stata solo un modo diverso di ridistribuire la spesa, ma in qualche misura hanno diffuso una mentalità della programmazione; hanno quindi pregi indubbi, ne abbiamo discusso più volte ma hanno anche fatto maturare l'esigenza che questo processo di programmazione non si fermi e quindi, implicitamente, anche dal basso rinviene un esame molto critico di tutto quanto è accaduto da quando abbiamo dato vita ai Comprensori. A cominciare da quella serie di leggi importantissime sull'unità nazionale, ma che sono state di compromesso tra le diverse visioni ideologiche della funzione dello Stato e della programmazione; e penso a quell'amministrazione integrata (come la chiamano oggi gli studiosi) tra Stato e Regioni, poi sempre più delle Regioni, che sono i terminali assessorili, frantumati dalla spesa statale ed anche per volontà del Governo. In secondo luogo, c'è bisogno di non lasciare scadere questo processo; c'é bisogno di concluderlo sulla parte più regionale della competenza, che è poi quella territoriale: della valorizzazione di risorse che tutti conosciamo, che vanno non solo dai fattori produttivi insediati sul territorio, ma alle grandi risorse naturali ed allo stesso territorio in quanto per questo si era proposto un programma a termine sino all'85 per portare a conclusione il processo di programmazione e di pianificazione previsto dalle leggi regionali, che permetta anche di modificare, in parte queste leggi ove necessario; di avviare una collaborazione tra Comprensori ed Amministrazioni provinciali, in relazione, a materie che si possono configurare già in Ente intermedio, e via discorrendo.
Questo è il nodo: gli Enti intermedi. Vogliamo metterci alla testa del sistema delle autonomie, recidere il cordone complesso della disputa proprio per dare un'impressione nuova alla Provincia? Questo comporterebbe forse sciogliere i Comprensori? A nostro avviso, no! Questo che comporta invece alla Regione, è mettersi alla testa del sistema delle autonomie e ridisegnare l'assetto autonomistico del Piemonte rispetto all'Ente intermedio; di avere il coraggio di fare delle proposte. Perché (e non discuto la legge presentata, come primo firmatario, dal Consigliere Petrini per la Provincia di Biella), se c'è un punto in cui tutto questo già funziona e attende davvero di avere una capacità operativa, è proprio quella realtà. E la stessa cosa si può dire per altre situazioni, da cui emergono queste stesse necessità: il problema del Verbano, di Casale, di una parte della provincia di Cuneo.
Ora, io non dico di non percorrere la strada proposta da Petrini; ma è certo che quella strada, se da un lato ha efficacia, dall'altro rappresenta una sfiducia palese nei confronti della possibilità di avviare il discorso della riforma dell'autonomia. Quella proposta di legge è stata presentata e seguirà il suo iter. Ma, indipendentemente da questo, io ritengo che la Regione deve essere in grado di avviare questa ampia consultazione, di determinare questi ambiti; e ciò non per eliminare i Comprensori, ma proprio perché in questo programma a termine, funzionino.
Il senso del circondario è tutto qui, perché il circondario è sede di decentramento regionale; non di delega; però è un ambito territoriale estremamente interessante anche per riprendersi le associazioni poli funzionali: quelle dei trasporti, ad esempio, e non voglio ripetere cose che ha già detto Ferrero.
Come fare queste cose? Io vorrei venissero fatte con chiarezza, senza paura di bruciarsi; insomma, bisogna uscire allo scoperto, una volta tanto e dire le cose come stanno. Questa è la proposta entro la fine dell'82 sarà per l'83 il compito di convocare quelli che abbiamo definito "Stati generali" delle autonomie piemontesi, per avviare questo tipo di proposta ed evitare anche che ci sia un'area metropolitana con tante Province intorno, un po' come le caramelle Charms con il buco in mezzo.
Su questo tema dell'area metropolitana c'è una riflessione più immediata da fare: all'area metropolitana di Torino, per essere tale, non mancano i fatti istituzionali, non manca la Provincia: mancano i soldi mancano le risorse finanziarie! E per avere le risorse finanziarie (no, non quelle dello Stato) per Torino e per tutte le altre Province, credo basterebbe un articolo molto semplice che interpreti la comunità urbana come esiste in tantissimi altri Paesi d'Europa: cioè un associazionismo obbligatorio che in certe regioni (lo vedete nella regione parigina esterna, in quella di Lione, di Marsiglia e di Tolosa), ha un proprio edificio che gestisce tutti i servizi generali e le possibilità di intervenire nell'economia, non soltanto con vincoli, leggi e procedure, ma con una capacità operativa.
Se le decisioni spettano a queste assemblee legislative, alla dimensione giusta del governo statale, regionale, provinciale e comunale, è altrettanto vero che queste decisioni determinano la spesa pubblica investimenti di opportunità, non direttamente redditizi ma portatori di profitto e di reddito al loro interno. Ma parallelamente vi è bisogno di una struttura operativa che reperisca delle risorse, che sia gestita con grandi capacità manageriali e che si inserisca nell'aspetto privato. Questa è la vicenda delle società miste, che non sono mica miste tra pubblici e privati, ma sono miste fra tutti questi Enti e tra questi Enti periferici con una maniera alla quale da noi non si è mai pensato. Queste società miste toccano il 60% delle risorse nazionali. Una percentuale di volta in volta fissata, anche nei periodi di magra, dalla legge finanziaria dello Stato, determina che quei depositi sono riservati a quelle società miste e per quel tipo di infrastruttura. Questo è l'elemento; e questo fatto ci riporta all'inizio: cioè un profondo mutamento nella concezione dello Stato; e il conflitto è acuto perché avviene sul terreno retributivo del potere ed anche su una concezione moderna attuale della possibilità di muoverci.
Per questo io richiamo fermamente la Giunta, al di là del contributo che intenderemo dare se verranno accettate queste due iniziative che ho riproposto nei confronti del Parlamento e della Commissione senatoriale, di badare a quei quattro punti che sono contenuti a pagina 5 ed all'inizio della pagina 6, che qui ha richiamato Ferrero, della verifica regionale.
Programma a termine dei Comprensori: collaborazione dei Comprensori con le Province nel senso al quale ci richiamava l'Assessore: affrontare i nodi dell'area metropolitana di Torino non con volontà distruttrice, ma neanche pensando che la Provincia metropolitana possa essere chissà quale panacea.
E' tutto da discutere! Interessante la proposta di Rognoni o del Ministero dell'Interno; ma non risolutiva neanche quella.
Noi dobbiamo, su questo terreno, dare un contributo e, in ultimo, farci carico di un riassetto generale del sistema delle autonomie, dando le indicazioni che riteniamo opportune, quelle che emergono anche da un processo di consultazione molto ampio, che portino anche alla consacrazione di un'assemblea generale degli Enti locali del Piemonte: per offrire questo riferimento al Parlamento, il quale dovrà decidere su queste stesse questioni.



PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE MARCHIARO



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Bastianini.



BASTIANINI Attilio

Colleghi Consiglieri, sono tre gli argomenti che il Gruppo liberale porta all'attenzione del Consiglio in questo dibattito sulle autonomie.
Il primo è una riflessione sulla crisi del sistema delle autonomie e sulle conseguenze che questa crisi ha rispetto alla funzionalità dello Stato nel suo insieme; il secondo sono alcune considerazioni sulle linee obiettive della riforma del sistema; il terzo, infine, sono indicazioni sull'evoluzione dell'esperienza piemontese per la riforma delle autonomie in fase transitoria, cioè nel passaggio tra lo stato attuale e quello che sarà disegnato dalla nuova riforma.
La crisi del sistema delle autonomie. Credo che questa crisi possa essere riassunta in una considerazione di cui tutti noi siamo convinti, più che per motivi ideologici, per considerazioni pratiche; vale a dire, per la somma delle nostre esperienze di amministratori di Enti locali, prima, di Consiglieri regionali, oggi o comunque, di responsabili della presenza delle forze politiche nelle organizzazioni regionali e locali. Questo sistema delle autonomie, che abbiamo ereditato al momento della formazione dell'Italia unitaria, non è più in grado di rispettare le esigenze della società nuova che si è venuta trasformando; non lo è più nei piccoli Comuni, dove, di fatto, il calo demografico, la più celere mobilità di trasporto sul territorio hanno svuotato quelle che erano le risposte che questi Enti sul territorio dovevano dare alla popolazione. Non lo è nelle aree di concentrazione di sviluppo urbano, dove la qualità delle responsabilità amministrative si è profondamente mutata. Né, a questo stato di cose, cioè a questa incapacità del sistema delle autonomie tradizionali si può rispondere con riforme confuse, così come è avvenuto fino ad oggi con atti di settore o di ambito che si sono sovrapposti nel tempo ricorrendo anche, a volte, a mode destinate presto a cadere.
Non si può dare risposta a questa esigenza di un nuovo sistema delle autonomie con l'istituzione delle Comunità montane, che pure hanno avuto hanno e, secondo noi, potranno avere una loro funzionalità, ma che sono episodi rispetto ad un disegno complessivo di trasformazione. Né si pu dare una risposta con lo sperimentalismo regionale: per esempio, con questa resa in concreto dell'idea dell'Ente intermedio, che è avvenuta in modo troppo difforme da Regione a Regione d'Italia. Non perché riteniamo che ci debbano essere delle risposte sempre univoche ai problemi della società nelle diverse parti di questo lungo Paese, ma perché è mancata quella lievitazione delle riflessioni culturali che avevano portato ad individuare l'esigenza di un Ente intermedio e, quindi, ad uno sperimentalismo che ha dato luogo più a delusioni che a successi; anche nel caso del Piemonte in cui, forse, ci si è posti all'avanguardia per centrare meglio l'obiettivo che doveva essere conseguito.
Non lo si può fare con una perimetrazione selvaggia, ritagliata casualmente, funzione per funzione, esigenza per esigenza; e qui, noi, con molta franchezza, poniamo anche sul tappeto il problema delle Unità Sanitarie Locali. Cioè, questo errore che si è commesso e da cui non si ha la forza di tornare indietro, di articolare territorialmente, in modo indiscriminato, il Governo di funzioni che sono anche funzioni gestionali in senso stretto, con tutte le conseguenze che ciò si è portato dietro: difficoltà di rapporto con gli Enti locali, intreccio di responsabilità in più campi.
Da un lato, questa esigenza di un nuovo sistema delle autonomie adatto ai problemi della società nuova, dall'altro l'impossibilità di darvi risposta adeguata, con una serie di confuse riforme, hanno portato a due fenomeni negativi, degenerativi, che i liberali rilevano e che sono, poi una parte fondamentale anche dell'inefficienza nell'azione dello Stato: perché spesso si spende male, perché non si può spendere bene e, quindi, si è costretti a buttare risorse dove capita.
Da un lato, le tentazioni ad un nuovo centralismo: cioè, la riappropriazione da parte del potere centrale, con la scusa dell'inefficienza del sistema delle autonomie, di una serie di competenze che provoca, poi, effetti negativi su cui è inutile, ora, ritornare. E dall'altro, il fallimento - un termine caro ai comunisti, ma che noi condividiamo - del passaggio dall'amministrazione al governo: la società contemporanea richiede non atti di amministrazione, ma atti di governo, che sono sempre più complessi, che devono essere costruiti anche con la continuità dell'impegno e con una completa articolazione a diversi livelli.
Ecco, quindi, la riforma del sistema delle autonomie come momento centrale del confronto politico; e qui io credo non vi siano idee consolidate e che idee consolidate non vi siano neppure all'interno delle forze politiche. Io mi sono preparato a questo dibattito circa un mese e mezzo fa, non perché sono diligente, ma semplicemente perché, dovendo fare una relazione, ad un importante convegno bolognese sull'aspetto specifico della riforma delle autonomie collegata al governo del territorio, ho ripercorso un po' la posizione delle diverse forze politiche su questo tema. E ci sono delle spaccature verticali, delle differenze, dei dubbi all'interno delle forze politiche che dicono come questo sia un tema difficile, che vada affrontato con grande pragmatismo e con volontà di riformare.
Ma quello che, forse, può essere individuato, è uno schema: uno schema che veda la Regione come centro di programmazione e di coordinamento e come strumento di azione per progetti strategici; che veda l'Ente intermedio come strumento base degli atti di programmazione e di pianificazione e che affidi, quindi, all'Ente intermedio i compiti centrali, ad esempio, nel campo della pianificazione territoriale; e che veda nel Comune, invece l'unità di riferimento per la gestione, l'assicurazione dei servizi alla popolazione. In più, incoraggiando l'abbandono delle rigidità di perimetrazione, l'esperienza comunale di aggregazione consortile per i trasporti, per lo smaltimento dei rifiuti, per certi problemi su cui adesso, sarebbe troppo lungo inventariare. Perimetrazioni di aggregazioni consortili possono anche essere queste; trattandosi di elementi di gestione, articolate, plurime, intrecciate; ma quello che rimane fermo coerente, non intaccato da situazioni di sovrapposizione, incompatibili con l'efficacia delle decisioni, è lo schema di fondo: Regioni, Ente intermedio e Comune. E' lo schema della riforma inglese della prima e seconda generazione; è lo schema della riforma francese.
E, se siamo d'accordo su questo schema, gli elementi sui quali dobbiamo riflettere si identificano nel problema degli organi rappresentativi dell'Ente intermedio. Posto che, per tanti motivi, l'Ente intermedio deve essere ricondotto all'unità provinciale riformata, è inutile distrarci su altre cose: tanto vale fare riferimento alla Provincia. Ma si pone una questione: se, nella Provincia riformata, gli organi di rappresentanza debbano essere di primo o di secondo grado. Io, ad esempio, essendo anche isolato nel mio partito, dirò, a titolo personale, che sono per gli organi di secondo grado Gli Enti intermedi traggono forza dalla capacità di coordinarsi e di collegarsi agli Enti locali, non di costituire un contropotere agli Enti locali, Perché non vi è separazione, ma integrazione di funzioni. E, comunque, se sono di primo grado, come si conferma nel disegno di legge governativo, ci dobbiamo domandare se debbano essere a base nominale o a base proporzionale.
Rimane poi, se vogliamo farne un'analisi logica, un altro punto su cui riflettere: che, anche successivamente ad una riforma del sistema delle autonomie e, quindi, dell'innovazione dell'Ente intermedio, rimarrà una specificità delle aree metropolitana, le quali hanno una connotazione diversa rispetto alla restante parte del territorio.
Questa specificità, la riforma del sistema delle autonomie, che i Paesi liberi dell'Europa hanno affrontato con dieci anni di anticipo - noi abbiamo dieci anni in ritardo su un tema la cui soluzione è centrale, come dicevo in apertura, per ridare efficienza alle istituzioni - l'ha riconosciuta. Ma attenzione: non riconosciuta come, forse, si potrebbe pensare. Revelli si domandava che cosa mancasse all'area metropolitana per potere fare questo salto di qualità. Manca tutto, caro Revelli: manca l'amputazione delle competenze attribuite agli organi responsabili della politica metropolitana, cioè i Comuni. Fin quando esiste un sistema legislativo che riconosce al Comune una centralità nelle decisioni cruciali per la funzione dell'Ente intermedio qual è la pianificazione, la programmazione in termini socio-economici e, soprattutto, la pianificazione territoriale, e non trasferisco queste competenze "in toto" - non so che cosa ci si possa aspettare di buono. Di fatto, i Comuni fanno di tutto per svuotarlo, questo Governo sovracomunale, in ogni loro atto, in ogni loro compito di programmazione. Un rimedio non può avvenire per auto-rinuncia può avvenire nell'ambito di un disegno riformatore che abbia la forza per potersi imporre. Non c'é nessuno che, nella sala pubblica in cui parliamo si amputi una mano solo per far piacere al vicino! O per una proposta governativa, che, pure, affronti con coraggio, incisivamente, il tema del Governo delle aree metropolitana, proponendo, addirittura, la demolizione del Comune tradizionale. Nella relazione che feci, proprio su questa materia, dissi che era una proposta forse fin troppo coraggiosa per essere presa sul serio: in pratica, voleva dire smantellare Torino, Milano Genova, Roma; smantellare tutti i grandi Comuni che venivano disarticolati: le municipalità disarticolate in blocchi da 200.000 abitanti circa. Ecco questa proposta, che pure ha il coraggio della provocazione, ci deve anche far riflettere se questa provocazione così alta, non sia fatta proprio perché, poi, nulla cambi.
Un'ultima considerazione: premesso che non credo che questa legislatura riesca a portare a compimento una riforma del sistema delle autonomie anche se arrivasse al suo termine naturale del 1984, mi domando come in Piemonte, per le responsabilità che ci competono, possiamo tentare di far fare qualche passo in avanti al disegno riformatore sul quale, di fatto concorda la totalità delle forze politiche presenti in quest'aula. E ritengo che noi dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che la spinta che nasceva dalla comprensione di un nuovo ruolo, sia da parte regionale che da parte degli Enti locali, la quale aveva dato fiato alle esperienze consortili, ai momenti migliori delle esperienze consortili negli anni '75/'80, si è esaurita. Oggi, viviamo una fase di risacca o di stanca e, da parte degli Enti locali, vi è una tendenza dell'appropriazione di compiti da parte della Regione, forse, un'incapacità di utilizzare appieno questo strumento mentre, con molta franchezza, da parte dei Comprensori, vi è la tentazione di potenziarsi in una logica di nuova amministrazione, non di governo.
Ecco, allora, che cosa oggi potrebbe forse farsi in fase transitoria riguardo a questa logica; ed è anche una proposta di legge regionale che abbiamo preparato come Gruppo e che è attualmente all'esame degli organi del nostro Partito. E' una proposta difficile e, non avendo ancora raggiunto i sufficienti consensi all'interno del Partito Liberale, non è ancora stata spesa: cioè, il passaggio di tutte le competenze che sono oggi dei Comprensori alle Province: un atto di riaffidamento dei compiti, che la Regione aveva affidato ai Comprensori, alle Province, e di articolazione in ambito provinciale, di questi compiti, per sottozone che riprendano l'esperienza comprensoriale: lo strumento potrebbe essere quello del circondario. Noi siamo convinti che se oggi vogliamo creare una saldatura tra questi due momenti, istituti che hanno potere e non funzioni, come le Province, o di istituti, come i Comprensori, che hanno funzioni ma non potere, non ci si possa affidare al volontariato di un coordinamento e di un'integrazione funzionale, ma questo nodo debba essere sciolto incisivamente, trasferendo i compiti dei Comprensori alle Province ed impegnando le Province in un'articolazione che, di fatto, riconosca le individualità sottoprovinciali oggi esistenti.
E' una proposta di legge su cui, come ho detto, stiamo lavorando: mi sembra, dalle parole della relazione dell'Assessore Ferrero - lunga per i lavori d'aula, ma breve per la somma di indicazioni e di problemi che sollevava: mi auguro di vederla presto restituita in modo che possa essere letta ed esaminata - che questa indicazione di un recupero, in fase transitoria, della funzione circondariale, come supporto al trasferimento alle Province dei compiti comprensoriali, possa essere una strada su cui tra le forze politiche, si possa lavorare.
Ma vi è ancora un punto dell'esperienza piemontese su cui il Gruppo liberale ha preso, a tempo, una posizione non equivoca. E, in questo differenziandosi con chiarezza dalle posizioni della Giunta: ed è il problema di Biella. Noi siamo d'accordo che non tutte le esigenze, le indicazioni di nuove aggregazioni provinciali, nel senso della nuova Provincia, abbiano pari dignità; però, riteniamo che la specificità del nodo biellese, proprio per l'importanza che ha nei riguardi dell'economia piemontese, non possa attendere i tempi, sicuramente lunghi, delle mille mediazioni che saranno necessarie per giungere ad una definizione della riforma e che, comunque, occorrerà, da parte della comunità piemontese, un atto forte d'indicazione. Io posso valutare, realisticamente, che anche dove la Regione Piemonte prenda un orientamento chiaro sopra il problema di Biella, non per questo si arrivi, in tempi brevi, ad una soluzione del problema stesso; ma, ritengo che, indipendentemente dalle probabilità di successo di questa iniziativa, la specificità della situazione biellese chieda alla Regione Piemonte un atto forte. E per questo, richiamiamo il nostro ordine del giorno dell'autunno '81 e richiamiamo la proposta di legge, autonomamente presentata dal nostro Gruppo nel settembre '82 e poi quella a cui abbiamo dato la firma insieme ai colleghi socialdemocratici socialisti, repubblicani e democristiani - anche se li ho nominati ultimi in realtà il promotore è l'amico Petrini - per chiedere alla Regione, in questa materia, una manifestazione chiara di volontà. Concludo con un'affermazione: una ripresa di prospettiva per la stessa Regione, oggi secondo me, è condizionata dalla soluzione di una diversa articolazione delle autonomie. Non si può governare ad un certo livello se, poi, non si hanno gli strumenti, i mezzi, le articolazioni, per governare ai livelli successivi: si verrebbe risucchiati nell'amministrazione. Credo si debba approfittare della Presidenza, della conferenza dei Presidenti delle Regioni in persona del Presidente Enrietti, per impegnare in primo luogo le Regioni in questa materia. Ritengo che i richiami diretti al Parlamento o alla Commissione siano atti dovuti, ma, forse, l'occasione più forte per far sentire la volontà delle Regioni al fine di costruire un sistema delle autonomie più adatto allo Stato, come lo abbiamo nelle nostre menti, è proprio quello dell'azione regionale, attraverso la conferenza dei Presidenti, la quale dovrebbe manifestare, in via prioritaria e con chiarezza, la propria volontà in questo senso.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Montefalchesi.



MONTEFALCHESI Corrado

Questo dibattito avviene in un momento di particolare difficoltà per gli Enti locali, ci troviamo in una situazione in cui, di fronte al crescere dei bisogni, di domanda sociale, vi è la crescente difficoltà degli Enti locali a farvi fronte. Io credo che cimentarsi su una problematica così vasta e così complessa non sia facile anche perché vi è sempre il rischio di scadere nell'ingegneria istituzionale, cioè nell'esercizio di spostare avanti e indietro funzioni ed istituti, senza affrontare le reali cause del loro mancato funzionamento. Cercherò di evitare un tale rischio, anche perché mi sembra che la gravità dei problemi ci imponga di affrontare e rivedere a fondo il ruolo degli Enti locali in relazione al contributo che essi possono dare in rapporto alla qualità e alla quantità dello sviluppo cui dobbiamo dare risposta se vogliamo uscire dall'attuale crisi. Ritengo che questo sia un problema di fondamentale importanza e dobbiamo porcelo in particolare come sinistra, se vogliamo fare realmente, anche degli Enti locali, un terreno di lotta per la trasformazione e per il cambiamento.
Credo sia evidente un fatto: che nella crisi degli Enti locali si rifletta una crisi più generale dello stato sociale; ed è a tale livello di complessità di problemi che dobbiamo rispondere ed inquadrarvi anche la risposta alla crisi degli Enti locali. Ritengo che dobbiamo essere in grado di recuperare i ritardi del passato, che hanno portato alla fine del periodo delle illusioni per quanto riguarda le Regioni; le quali, un po' per colpa loro, un po' per certe indisponibilità e resistenze da parte del Governo, non sono state in grado di conquistarsi gli spazi necessari per assumere quello che è il loro vero ruolo, di legislazione e di programmazione, spogliandosi delle troppe attività gestionali. A me sembra che il cammino iniziato con la costituzione delle Regioni non è proceduto come un chiaro disegno riformatore; spesso mi sembra che abbia assunto l'andatura di un ubriaco, con spinte e controspinte divergenti e spesso contrapposte tra loro. In questo modo si è venuta a determinare una situazione in cui ciò che doveva essere provvisorio si è fatto permanente ciò che era superfluo (le Prefetture e le Province) è stato mantenuto; e il nuovo, cioè i Comprensori (in qualche Regione non vivono più), dove ci sono vivono una vita stentata.
E' l'incerto procedere del disegno riformatore avviato con la costituzione delle Regioni, sotto la spinta di lotte che esprimevano bisogni di partecipazione da parte della società civile, che ha favorito l'attacco di tendenze neocentralistiche dello Stato, che tenta di nuovo di avocare a sé poteri e competenze. Mentre si riscoprono ruoli e poteri che non hanno più senso di sussistere se non in funzione dell'ordine pubblico quali le Prefetture. Emblematica, da questo punto di vista, mi sembra la riscoperta, nel progetto Rognoni, del ruolo delle Prefetture quali destinatrici di troppi ampi poteri, che svilirebbero il ruolo e l'autonomia degli Enti locali e delle Regioni.
In verità, a me sembra che la riscoperta delle Prefetture risponda ad una logica ben precisa di fare di tali strutture la lunga mano del Governo attraverso la quale gestire una politica di scontro, sotto la spinta di una nuova destra nella quale la D.C. assume un ruolo centrale. Una politica di scontro con il movimento operaio; e con la rimessa in discussione del cosiddetto stato sociale, non solo in termini di riduzione quantitativa della spesa pubblica, ma come attacco indiscriminato alle spese sociali colpendo i ceti più deboli. Cioè l'esatto opposto di una linea di selezione della domanda sociale a cui rispondere, fatta attraverso un rapporto democratico con la società, esaltando il ruolo degli Enti locali e della partecipazione democratica. E' evidente che tale linea di scontro non pu che essere governata a livello centrale in modo tecnocratico ed autoritario, ed a livello periferico dagli organi decentrati del Governo (Prefetture), vanificando con una strategia controriformatrice il ruolo degli Enti locali e la partecipazione democratica.
Ora, se è vero, come mi sembra, che oggi l'Ente locale si trova alle corde, costretto a selezionare le necessità della gente senza avere gli strumenti per farlo, nella condizione di dover progettare, spesso senza avere delle idee, ecco che seppure essenziale, non basta più il riordino non è sufficiente una più precisa definizione degli ambiti funzionali.
Occorre, a mio avviso, un sistema delle autonomie in grado di fare i conti con la crisi economica e sociale; altrimenti il rischio è quello di una moltiplicazione di una struttura amministrativa che non riesce a trovare la ragione sociale della sua esistenza. Quindi, un Ente locale non più semplice erogatore di servizi, ma in grado di esprimere una progettualità di assumere il ruolo di imprenditore collettivo; in grado di stimolare la partecipazione di soggetti e farli operare affinché i loro bisogni diventino progetti destinati a far vivere, dentro la crisi, nuove forme di partecipazione e di convivenza. Quindi, a me sembra che il problema centrale da affrontare sia quello di una nuova qualità dello sviluppo e delle forme del potere necessario a sostenerlo.
Io credo che la sostanza fondamentale di una nuova idea di sviluppo consista nel superamento di un'idea che concepisce il progresso come moltiplicazione di beni-merce e calcola le convenienze considerando illimitate le risorse. Ci troviamo di fronte, oggi, ad una scarsità di risorse e alla domanda di una nuova qualità di vita e di lavoro; e per rispondere a questa realtà occorrono criteri nuovi per definire il progresso e per calcolare le convenienze. La stessa ingovernabilità, del resto, spesso trae origine proprio dal fatto che l'azione di Governo non riconosce questo nuovo sistema di convenienze, ma nello stesso tempo è condizionato dalla sua mancata assunzione. Ecco allora che in questa ottica, ad esempio, non si assume l'idea di un piano energetico organico e coerente alle risorse ambientali di un determinato territorio, anche se i bisogni di quel territorio, poi, si manifestano ugualmente in forma passiva, con il rifiuto della centrale nucleare. Proprio come sovente non si assume l'idea di come dare significato umano al tempo libero, ma poi si è costretti, dal meccanismo consumistico, a subire la frenetica rincorsa verso consumi sempre più alti ed irrazionali; così come non si assume, in tutto il suo significato strategico, l'idea della tutela dell'ambiente che dia un nuovo significato all'agricoltura, al turismo, all'edilizia, alla sanità; ma poi non si riesce a sanare questi settori, alternando soltanto provvedimenti velleitari a nuovi sprechi.
E' in questa realtà che va assunto il punto centrale del compito nuovo degli Enti locali di fronte alla crisi; fare emergere questo nuovo sistema di convenienza e, con esso, un nuovo sistema di valori. Ciò comporta una nuova qualità del potere locale; un potere capace di pianificare, poiché il metro di misura di questo nuovo sistema di convenienza non è il vantaggio immediato, e la sua determinazione non è affidata ai meccanismi spontanei del mercato; cioè un potere capace di organizzare forze, favorire attività in grado di esprimere una specifica imprenditorialità.
Ecco quindi che l'azione di riordino istituzionale deve essere finalizzata a questo nuovo ruolo che, a nostro avviso, gli Enti locali debbono assumere. Ciò comporta che le Regioni assumano realmente il ruolo costituzionale al quale sono preposte, svolgendo compiti prevalentemente di programmazione e di legiferazione; nel quale l'esercizio diretto delle funzioni diventi eccezione e non regola, come attualmente accade. Con limiti, quindi, ben precisi all'Amministrazione diretta, sostituendo all'Amministrazione diretta la capacità di fare un salto notevole di qualità nell'elaborazione e nella gestione della programmazione. Ci presuppone la delega di una notevole quantità di funzioni agli Enti locali.
Questo significa, a nostro avviso, una scelta non facoltativa della costituzione delle associazioni intercomunali polifunzionali, qual è contenuta nel progetto Rognoni; inaccettabile peraltro è la scelta contenuta in tale progetto, di limitarne la costituzione ai Comuni sotto i 3.000 abitanti e finalizzate alla loro fusione (fino a prevederne lo scioglimento se ciò non avviene entro 10 anni), scontrandosi così con fatti culturali, di costume, tradizioni che hanno determinato l'attuale struttura delle autonomie locali; ma fare di tali associazioni un obiettivo di fondo e delle strutture permanenti per la gestione di funzioni delegate, in particolare per quelle competenze in cui forte è la necessità di un immediato raccordo con la società; ma anche associazioni in grado di intervenire nei processi di pianificazione, gestione del territorio e dello sviluppo. Mentre, a nostro avviso, all'Ente intermedio debbono andare competenze e funzioni estese sul territorio, quali trasporti, energia formazione professionale ed anche grandi fatti culturali come momento di ricomposizione, di identità di aree sociali ed omogenee. Oltre naturalmente, a concorrere alla programmazione. Da questo punto di vista mi sembra che l'esperienza fatta qui in Piemonte con i Comprensori sia importante e da sostenere come momento di rafforzamento della cultura di un Ente intermedio anche strumento di partecipazione alla programmazione; di una cultura, in particolare, che debba essere estesa ed in grado di influenzare positivamente il complessivo riordino delle istituzioni e delle autonomie locali.
Un ultimo argomento che desidero ricordare è la riforma della finanza locale. Si tratta, a nostro avviso, di una questione decisiva, per dare certezza sulla disponibilità di risorse, condizione questa indispensabile per programmare iniziative pluriennali.
Ecco, se al grande dibattito sulla riforma delle autonomie locali non si collega una battaglia a fondo per un forte impegno sulla riforma della finanza locale, credo che qualsiasi ipotesi di programmazione la potremmo accantonare, ritrovandoci sempre più a fare dei grandi dibattiti, ma con l'impossibilità pratica di fare dei bilanci; non solo quelli pluriennali ma spesso anche quelli annuali.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Genovese.



GENOVESE Piero Arturo

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, a nome del Gruppo D.C., con qualche preoccupazione, prendo la parola in questo non facile dibattito certamente reso più problematico ed arricchito dalla relazione dell'Assessore Ferrero, portatrice di spunti e di riflessioni su cui è difficile potersi esprimere immediatamente "a caldo", con il rischio di non cogliere correttamente il significato complessivo delle proposte; le quali in una fase transitoria, di avvicinamento alla "riforma dell'ordinamento delle autonomie", comportano in ogni caso ardui passaggi. Preoccupazione dunque, nell'addentrarci su questa strada così difficile e delicata, pure avendo come riferimento una proposta che, per molti aspetti, pare accolta da tutte le forze politiche. Una proposta che viene dal livello di massima responsabilità, il Governo, e che assume quindi una rilevanza politica che non può essere trascurata. Attenzione anche nel pensare di smantellare o modificare ciò che si è realizzato in questi anni nella nostra Regione, per sostituirlo con un "disegno" di prefigurazione della "riforma": teso a ricercare nelle intenzioni, chiarezza di ruoli ed efficienza di gestione per il complesso del sistema delle autonomie; ma che, ponendosi in un'ottica di ulteriore e nuova "sperimentazione", potrebbe avere effetti fortemente negativi e di deresponsabilizzazione del sistema complessivo delle autonomie locali della nostra Regione.
Ma preoccupazione esiste anche per motivi più generali: infatti, credo che tutti avvertiamo, al di là della particolarità delle impostazioni specifiche in materia, come il problema dell'ordinamento delle autonomie locali è il problema più delicato di riforma che ci troviamo ad affrontare nel nostro Paese. Ogni aspetto della costruzione del nuovo ordinamento ci riconduce, infatti, nella sostanza, al problema dello stato democratico della "repubblica delle autonomie" che è prefigurata nella nostra Costituzione: cioè al problema centrale (e qui concordo con Bastianini) del "governo" del nostro Paese, dell'unitarietà delle istituzioni, della loro autonomia e della loro pari dignità, ed ancora, pur non condividendo appieno il "taglio" dell'intervento del collega Montefalchesi, al problema della trascrizione, in termini giuridici ed istituzionali, dei rapporti nuovi che tra società civile e società politica, tra cittadini ed istituzioni pubbliche, tra sviluppo economico e sistema delle autonomie sono maturati in questi ultimi decenni di profonde trasformazioni.
Il rischio di questo dibattito, che come Gruppo sentiamo e facciamo presente, è quello di immaginare che si possa disegnare, in un confronto in assemblea, un modello compiuto e definito della riforma; magari inseguendo un disegno "regionalista" di riforma dell'ordinamento che non è presente nell'indicazione costituzionale e che sarebbe più attento alle esigenze e più piegato alle ragioni dell'integrazione e dell'organizzazione delle funzioni, che non alle "condizioni" dell'autonomia dei diversi livelli istituzionali.
Abbiamo ben presenti preoccupazioni e rischi e, quindi, cerchiamo di collocarci con umiltà in questo dibattito, pensando di portare il contributo di una nostra esperienza e della nostra identità, anche in relazione alle osservazioni già da altri espresse; non tanto per contrapporre soluzioni diverse, ma per cercare di riscoprire, partendo dalla nostra identità, il senso delle istituzioni che è necessario per affrontare unitariamente, all'interno delle istituzioni, un problema così delicato e così complesso. Infatti, nessuno può immaginare di chiedere o ottenere una riforma a propria misura, a misura delle proprie idee particolari, poiché ogni comprensibile e pur legittima impostazione deve ricercare e trovare una composizione in un più generale consenso che le varie parti politiche, sociali ed istituzionali, sono chiamate a dare al fondamentale assetto istituzionale in cui tutti debbono e dobbiamo poterci riconoscere.
Questo tema della riforma del potere locale è di grande interesse per le Regioni, come ha ricordato il prof. Pototschnig, al recente Seminario delle Regioni, "la riforma dei poteri locali è una vicenda dal cui esito dipende sempre più il successo o l'insuccesso della stessa esperienza regionale: essa ha dunque per le Regioni un'importanza ancora maggiore della vicenda che è culminata nella legge 382 e nei relativi decreti delegati. Questa volta è in gioco, infatti, non soltanto la ripartizione delle funzioni tra i livelli di governo nei singoli settori, bensì l'assetto complessivo dell'amministrazione locale ed il sistema stesso delle autonomie".
E' quindi da sottolineare con favore l'iniziativa del Ministro Rognoni per la presentazione da parte del Governo Spadolini bis del disegno di legge per la "riforma dell'ordinamento delle autonomie"; al di là del giudizio di merito che può essere dato, è importante e significativo che lo stesso Ministro Rognoni, parlando al convegno di Viareggio dell'ANCI, abbia precisato testualmente che "il disegno di legge del Governo aspira a porsi come centro del dibattito che attorno ad esso si potrà sviluppare, pur essendo dichiaratamente aperto ad un franco e sostanziale confronto con le altre iniziative, per accogliere tutti gli apporti migliorativi che da esse possano ricavarsi". E sul problema specifico delle aree metropolitane, si precisava, sempre da parte del Ministro, che "su tale problema il discorso resta del tutto aperto, non essendo il Governo rigidamente ancorato alla prescelta soluzione della provincia metropolitana".
Una siffatta presentazione della riforma ci sembra formalmente corretta, anche perché vi si esprime una sollecitazione al complesso delle forze politiche e delle istituzioni, a svolgere il proprio ruolo e a dare il proprio contributo per una costruzione che possa essere sentita e realizzata, poi, come costruzione comune.
Fatta questa premessa, a nome del nostro Gruppo, mi soffermer solamente su alcuni punti centrali della riforma; avendo come riferimento il progetto governativo, ma senza rivolgermi in modo specifico al dettaglio del testo normativo, quanto piuttosto all'architettura di fondo ed allo spessore politico ed istituzionale di alcuni problemi.
1) Il primo punto è per noi quello del rapporto tra Regione ed Enti locali sub-regionali, che è già stato ampiamente richiamato sia nell'intervento introduttivo dell'Assessore Ferrero, come negli interventi dei colleghi Revelli e Bastianini. La mancata riforma delle autonomie ha infatti inciso profondamente sul significato più profondo della riforma regionale; se nella progressiva trasformazione in senso gestionale del ruolo della Regione vi sono responsabilità delle classi politiche regionali non si può dimenticare la difficoltà tecnica e politica di procedere nella direzione della delega e del trasferimento di funzioni amministrative ad un sistema di autonomie locali debole e frammentato, quale è quello che abbiamo avuto ed abbiamo nella nostra realtà. Il trasferimento stesso di funzioni dallo Stato al sistema delle autonomie, non riformato ed in assenza, quindi, di soggetti istituzionali elettivi politicamente idonei ad assolvere a funzioni amministrative di area vasta, ha originato il fenomeno, che tutti denunciamo, della settorizzazione e della verticalizzazione amministrativa, con la formazione di forme collaborative di settore di secondo livello, che hanno progressivamente depotenziato e delegittimato il sistema delle autonomie, realizzando una situazione di separatezza crescente tra la titolarità e la gestione delle funzioni e quindi, tra esercizio della responsabilità politica e la gestione dei servizi. Mentre, come conseguenza, si è realizzata una parallela settorializzazione ed una dilatazione del ruolo gestionale delle Regioni e a mio modo di vedere, si vanno manifestando anche elementi di sovraordinazione della Regione rispetto al sistema delle autonomie locali.
Appare quindi indispensabile, per il pieno recupero e l'esplicarsi del ruolo istituzionale delle stesse Regioni - che è principalmente di programmazione e di legislazione - la realizzazione di un sistema robusto di autonomie sub-regionali, titolari di un complesso sufficientemente ampio ed organico di funzioni. La previsione di un unico livello intermedio di governo, a carattere elettivo proporzionale (e qui non concordo con il collega Bastianini), operante su area vasta e con compiti di programmazione e di gestione molto più incisivi di quanto non sia previsto nella proposta di legge governativa - cioè la Provincia riformata - e la previsione di forme di governo specifiche per le aree metropolitane a fianco del Comune ente esponenziale di rappresentanza degli interessi generali della popolazione, sembrano largamente corrispondere, così come sono disegnati nel testo di legge a cui si è approdati, alle indicazioni di riforma generalmente ormai accettate e su cui si registra la convergenza di una larga maggioranza delle forze politiche del nostro Paese ed appaiono in grado di contribuire al rilancio del ruolo delle Regioni. Ma il ruolo delle Regioni si gioca anche più propriamente all'interno della riforma dell'ordinamento delle autonomie; sotto questo profilo, nel testo della proposta di riforma, le Regioni, rispetto a testi precedenti, non sono ignorate come è stato osservato anche recentemente nel Seminario di Roma anche se per molti versi il loro ruolo appare in sostanza incerto e non ben definito. Lo diciamo non già facendo riferimento alle indicazioni di scuole giuridiche che vorrebbero riservare alle Regioni anche poteri di natura ordinamentale sulle autonomie, non previsti dalla Costituzione e che finirebbero per introdurre elementi di sovraordinazione delle Regioni sul sistema delle autonomie, bensì pensando a poteri che sono e devono rimanere delle Regioni e rispetto ai quali vi è sovente ambiguità ed incertezza nel disegno di legge governativo; quantomeno in ordine alla funzione di programmazione appare necessario chiarire normativamente in quale rapporto essa stia con l'autonomia degli Enti locali sub-regionali e con le funzioni di programmazione individuate per la nuova Provincia, ferma restando, ai sensi dell'art. 11 del D.P.R. 616, la competenza generale della Regione in materia.
Questa è quindi la prima osservazione critica che facciamo e la prima indicazione che diamo come Gruppo; cioè, che in materia di programmazione deve rimanere fermo, in modo chiaro e normativamente definito, il ruolo generale della Regione nel settore della programmazione ed in quello della pianificazione territoriale. Come riteniamo che un effettivo ruolo di programmazione debba comportare anche il riconoscimento alle Regioni all'interno della normativa in discussione, di incidenti e non marginali poteri di proposta, in ordine al riordino territoriale degli Enti locali e precisamente in tema di forme di associazione e di collaborazione tra gli Enti locali, in tema di riassetto generale delle circoscrizioni provinciali e di individuazione ed articolazione delle aree metropolitane. A noi pare che questi siano compiti che debbano essere assegnati alle Regioni nell'ambito della riforma in discussione, senza peraltro invadere (lo preciso perché abbiamo questa preoccupazione come Gruppo politico e come partito) un'area di competenza ordinamentale delle Regioni sulle autonomie che non è prevista dalla Costituzione e non appare consona allo sviluppo del sistema delle autonomie.
2) Il secondo punto, che come Gruppo vogliamo sottolineare, è quello riguardante la dimensione ed il ruolo del Comuni, delle loro associazioni e della Provincia - ente intermedio. Se l'obiettivo da perseguire è quello di realizzare un sistema normale di autonomie locali, basato su due livelli equiordinati ed elettivi, realmente in grado di esercitare le funzioni proprie e quelle delegabili, occorre approfondire sia la questione dell'associazionismo comunale, sia quella della Provincia, essendo i due problemi, in questa prospettiva, intimamente connessi.
Sulle associazioni non ho afferrato bene il giudizio, che mi è parso troppo schematicamente positivo, espresso nella relazione dell'Assessore Ferrero. Il modello contenuto nel disegno di legge prevede associazioni uniche, transitorie, limitate ai Comuni inferiori ai 3.000 abitanti e finalizzate alla fusione dei Comuni; e prevede, a fianco, forme di collaborazione, come le intese e le convenzioni, che non appaiono facilmente utilizzabili in relazione all'esercizio ed all'organizzazione di funzioni di area vasta. E mi pare, soprattutto per quanto riguarda le intese, che anche l'Assessore Ferrero, per la verità, abbia parlato di una certa ambiguità del testo normativo.
Ora, come bene osserva il prof. Pizzetti, in uno schema di riforma quale quello che viene delineato, un insieme organico e vasto di funzioni amministrative, proprie e delegate, implica l'esistenza di un Ente titolare che raggiunga accettabili dimensioni territoriali, organizzatorie e di base popolare, nonché, in prospettiva, anche di base impositiva se pensiamo ad una riforma della finanza locale, parallela e necessaria, che ridia potestà impositiva al sistema delle autonomie. Le ipotesi possibili, a nostro modo di vedere, rispetto alla normativa proposta, sono due: o si punta a favorire una "libera associazione", a fini generali, dei Comuni, non solo come strumento per avviare a soluzione la questione dei cosiddetti Comuni minimi o Comuni-polvere, ma anche e soprattutto come strumento per assicurare che alla fine del processo associativo (se questa è la finalizzazione; ma ci sono anche altre proposte che possono essere avanzate) la rete dei Comuni corrisponda a criteri di struttura, di ambito territoriale, di base popolare ed impositiva sufficienti ad esercitare la gran parte delle funzioni connesse ad un'amministrazione di servizi personali; oppure si è almeno tendenzialmente costretti ad ipotizzare Province a ristretta dimensione territoriale, che possano supplire alla debolezza delle autonomie locali di base, cioè del Comuni. Oppure al contrario; se si vuole mantenere ferma - e come Gruppo politico ad essa siamo favorevoli - la prospettiva della Provincia come Ente di effettiva area vasta, dotato essenzialmente di poteri programmatori ma anche di compiti di gestione, non solo limitati all'attuazione del piano ma anche all'organizzazione dei servizi reali di area vasta, non si può considerare "l'associazione" dei Comuni solo nella logica della soluzione del problema dei Comuni minimi e della loro fusione, ma la si deve piuttosto collocare nella prospettiva più corretta di assicurare anche un sufficiente spessore all'articolarsi delle autonomie comunali di base.
Siamo cioè di fronte ad una forte problematicità non risolta all'interno del disegno riformatore che è stato presentato. Alcuni problemi tuttora aperti appaiono particolarmente incidenti e nodali nella nostra situazione regionale; di una Regione che rischia di vedere dilatarsi all'interno della riforma, la "distanza" tra i livelli di autonomia: fra Comuni polverizzati o minimi (situazione che non si supera certamente attraverso un processo di associazione volontaria, unica o transitoria e limitata ai Comuni inferiori ai 3.000 abitanti) e Province che avrebbero quasi unicamente poteri di programmazione e non di gestione e di organizzazione dei servizi.
Questo significherebbe, particolarmente nella nostra Regione, una situazione di paralisi. D'altra parte non crediamo che siano da rifiutare le linee generali della riforma; ma ci sembra che vada recuperato all'interno di un disegno che condividiamo, quello del potenziamento del livello intermedio di governo, la Provincia rifondata, uno spessore politico - istituzionale e di esercizio concreto di funzioni gestionali di area vasta; poi, pensiamo che tra questo livello e i Comuni si debbano prevedere forme associative di articolazione dell'autonomia comunale più vaste e non solo finalizzate alla fusione dei Comuni, come è nella forma riduttiva dell'"Associazione dei Comuni" che il disegno di legge prevede; e che all'interno di queste forme di associazione debbano trovare soluzione il problema delle Comunità montane e delle U.S.L.
Ci rendiamo conto che, parallelamente, si pone il problema, già indicato e delicato, di evitare la formazione di processi di integrazione e di consociazione amministrativa che snaturerebbero il sistema delle autonomie locali; quindi se hanno una ragion d'essere le associazioni polivalenti non finalizzate alla fusione dei Comuni, queste devono essere previste attraverso meccanismi giuridici e politici tali da impedire che si realizzi una nuova spinta alla verticalizzazione ed alla settorializzazione amministrativa e che abbia a proseguire quel processo di separazione tra responsabilità politica e titolarità delle funzioni da una parte, ed esercizio delle funzioni e organizzazione dei servizi dall'altra, che si è manifestato in questi anni con il trasferimento di funzioni al sistema non riformato delle autonomie, particolarmente con il D.P.R. 616 e con la legge 833: in questo concordiamo con le cose che ha detto il collega Bastianini.
Quindi, se questa è la strada impervia sulla quale dobbiamo incamminarci, noi crediamo che la valutazione di questi problemi non possa esaurirsi in questa sede; che il disegno di legge governativo sia un riferimento importante e che contenga indicazioni certamente condivisibili ma che richiede anche per la specificità della nostra esperienza, un approfondimento adeguato ed una sede di confronto che alla fine proporr una sede di confronto che ci consenta di avviarci verso la realizzazione della riforma con iniziative coerenti, rispetto agli obiettivi generali e nel rispetto delle autonomie, che dovremo individuare e configurare, pur coscienti che non spetteranno a noi le decisioni finali in materia.
3) L'altro punto sul quale, a nome del nostro Gruppo, vorrei brevemente soffermarmi, è quello dell'area metropolitana. Questo è un altro dei punti nodali e delicati nella previsione di riforma dell'ordinamento delle autonomie; il problema non appare compiutamente risolto nella normativa proposta e lo stesso Ministro Rognoni, nella presentazione ufficiale al convegno dei Comuni di questa parte della normativa, si è espresso nel senso di presentare il progetto come aperto ad un confronto e non pregiudizialmente arroccato nella difesa della "provincia metropolitana".
Su questo tema mi soffermerò brevemente poiché è arduo entrare nei dettagli di carattere tecnico e normativo e perché a noi pare importante in questa sede, precisare che concordiamo sull'indicazione generale: cioè sull'esigenza di prevedere un'autorità di governo metropolitano nel nostro Paese.
Però, per realizzarla, occorrerà forse avere ancor più coraggio di quanto non accennava prima Bastianini. Qui le strade non paiono molte; o si configura "l'autorità di governo metropolitano" nell'ambito del sistema normale delle autonomie e, quindi, nell'ambito dei due livelli di autonomia previsti, ed allora è forse bene pensare ad una Provincia metropolitana non "disaggregata" artificialmente, comprendente nel proprio interno Comuni metropolitani e Comuni di carattere non metropolitano, a cui siano affidate funzioni diverse sulle diverse parti del territorio; oppure, a noi pare che si debba andare verso indicazioni più radicali e prevedere, come la Costituzione sembra consentire e con apposite leggi, poche, limitate e specifiche forme di autonomia speciale, per le aree metropolitane. Avendo comunque presente che è difficile concepire (particolarmente in Regioni come il Piemonte che ha più di altre Regioni tutti questi problemi, dai Comuni minimi all'area metropolitana) una riforma dell'ordinamento delle autonomie e la creazione di un'autorità di governo metropolitano che, in qualche misura, non "tocchi" anche il ruolo e i compiti della Regione.
4) E vorremmo infine sottolineare l'esigenza che, a fianco della riforma dell'ordinamento, prosegua e cammini parallelamente la riforma della finanza locale. La riforma della finanza locale, a nostro modo di vedere, deve realizzare un sistema integrato di finanza derivata e di finanza propria, con un "ventaglio" impositivo locale, che consenta, in prospettiva, alle autonomie locali di compiere scelte impositive rispetto al ruolo ed alle funzioni loro assegnate e che in qualche misura contenga elementi di coordinamento tra la finanza regionale, locale e provinciale almeno sul versante delle risorse da destinare agli investimenti. Ci poiché ci sembra che, all'interno di un processo di riforma questa esigenza di integrazione e di coordinamento delle risorse finanziarie ai tre livelli regionale, comunale e provinciale - si ponga con evidenza al fine di realizzare un'azione di governo incisiva, rispettosa sì delle autonomie, ma anche finalizzata all'attuazione di azioni e di progetti programmatici capaci di influire sui problemi della nostra realtà economica e sociale.
5) Quali le conclusioni? Provvisorie, ovviamente.
La prima conclusione è che pensiamo non si possa, attraverso questo dibattito e questo confronto, pervenire a delle conclusioni, l'unica conclusione realistica, integrando quanto già detto dal collega Revelli, ci sembra quella di individuare una sede regionale, tecnico-politica, di proposta e di elaborazione; una sede permanente di confronto e di elaborazione che, in breve tempo, ci dia la possibilità di ragionare meno astrattamente o teoricamente attorno all'impatto che questi problemi hanno nella nostra realtà amministrativa e sociale regionale e quindi ci consenta di andare alla prefigurazione di correttivi nell'intervento regionale e alla definizione di diversi rapporti tra la Regione ed il sistema delle autonomie locali in questa fase di avvicinamento alla riforma.
A questo scopo, a noi sembrano funzionali anche alcun e azioni specifiche e preliminari di conoscenza: in primo luogo appare necessario pervenire, concordando con le indicazioni generali esposte dall'Assessore Ferrero, alla definizione di un "rapporto" sul funzionamento, sui costi sull'efficienza dei Consorzi mono-funzionali che abbiamo realizzato in questi anni o sull'inefficienza totale e sulle motivazioni che non ne hanno consentito, in alcuni casi, neppure il decollo; in secondo luogo, prima ancora di decidere in via definitiva sul destino dei Comitati comprensoriali, noi crediamo che ugualmente occorra un esame approfondito di quanto questi Comitati hanno fatto, su cosa hanno rappresentato e potrebbero ancora rappresentare, in una fase di avvicinamento alla riforma con modalità operative e strutture forse diverse, finalizzate in direzione di scopi precisi, delimitati, circoscritti, ma reali.
Noi, come forza politica e come Gruppo consiliare, abbiamo creduto e crediamo al significato e alla validità dell'esperienza che nella nostra Regione è stata fatta; sappiamo, però, che per gli orientamenti generali di riforma che si sono manifestati, la strada dei Comprensori è segnata dal loro superamento, nel momento stesso in cui si realizzerà il nuovo ordinamento delle autonomie. Ma oggi pensiamo che anche su questo occorra riflettere e non procedere sulla strada di decisioni intempestive: riflettere sulle modalità con cui, in questa fase di transizione, possiamo affrontare i problemi fondamentali della programmazione e della pianificazione nella nostra Regione; riflettere su una maggiore e possibile collaborazione tra Comitati comprensoriali ed Amministrazioni provinciali più incidente e significativa, disciplinata da procedure chiare, per non procedere alla soppressione dei Comprensori senza che nulla di nuovo sia stato realizzato e senza illudersi di potere affidare alle vecchie Province, così come oggi sono per struttura, per funzioni, per tradizione compiti che in questi anni non hanno sistematicamente esercitato; per dicendo chiaramente che se i Comitati comprensoriali devono restare ciò che oggi sono, allora è meglio eliminare in modo deciso un equivoco: i Comitati comprensoriali hanno davvero tutti i difetti che l'Assessore Ferrero oggi ha chiaramente indicato e conoscono, anche per colpa della Regione, una demotivazione che sovente viene sostituita da una presunzione di rappresentanza esterna, generale e politica, che mai nessuno ha inteso affidare ai Comitati comprensoriali della nostra Regione.
In questo quadro di ripresa di iniziativa va poi affrontato, con la dovuta prudenza, il discorso delle deleghe. Parallelamente, un altro problema che dobbiamo porci è quello di sperimentare forme di coordinamento per avviare una diversa riflessione ed affrontare i problemi del governo dell'area metropolitana.
Un'ultima proposta avanziamo, in modo fermo, alla maggioranza e alla Giunta. Se le cose che si dicono e si ripetono hanno un significato politico, non può essere estraneo a questo discorso odierno il problema della riorganizzazione dei servizi e delle strutture regionali. Questo problema è centrale per la Regione, ma anche per gli Enti locali e deve poter essere affrontato in modo da assicurare i necessari momenti di collaborazione e di coordinamento tra le diverse strutture amministrative: un disegno riformatore ha bisogno di efficienza, di ca pacità professionali, di chiarezza perché le azioni programmatiche diventino reali e si riesca ad incidere positivamente sulla realtà della nostra Regione.



PRESIDENTE

Grazie. Possiamo concludere questa parte della seduta e ritrovarci oggi pomeriggio alle ore 15.
La seduta è tolta.



(La seduta ha termine alle ore 13.00)



< torna indietro