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Dettaglio seduta n.160 del 15/10/82 - Legislatura n. III - Sedute dal 9 giugno 1980 al 11 maggio 1985

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Argomento:


PRESIDENZA DEL PRESIDENTE BENZI


Argomento: Problemi del lavoro e della occupazione

Situazione economico-occupazionale in Piemonte (seguito)


PRESIDENTE

La seduta è aperta.
Proseguiamo il dibattito sulla situazione economico-occupazionale in Piemonte, di cui al punto quarto all'ordine del giorno.
La parola al Consigliere Vetrino.



VETRINO Bianca

Signor Presidente, colleghi, il dibattito di oggi sull'occupazione e sull'economia del Piemonte cade in un momento particolare ed assai delicato della vita del nostro Paese, della vita nazionale come della vita locale.
La consapevolezza della profonda crisi che il Paese attraversa aggravata dalla riesplosione della violenza antisemita e terroristica è di tutti, ma si stenta tuttavia a passare dalla fase delle analisi alla fase dell'individuazione dei rimedi e alle conseguenti decisioni operative di Governo.
La relazione svolta dal Ministro del Tesoro e del Bilancio nei giorni scorsi alla Camera presenta una situazione che se destinata ad aggravarsi può condurre al limite della bancarotta. Alla fine del 1982 il deficit statale toccherà i 70.000 miliardi e l'anno venturo in mancanza di interventi strutturali e senza una rigorosa politica di controllo della spesa pubblica, dell'inflazione e dei consumi che metta bando agli sprechi ai privilegi ed agli assistenzialismi supererà i 100.000 miliardi.
Il processo destinato a ricondurre il disavanzo pubblico ad un livello europeo sarà lungo e faticoso, costellato di sacrifici, non so se saranno lacrime e sangue, ma certamente i sacrifici ci saranno e se gli obiettivi e le condizioni poste dalla legge finanziaria non saranno rispettati, leggo testualmente dalla relazione alla Camera, si scaricheranno sul futuro e in particolare sulle generazioni di giovani che escono dalla scuola, oneri pesantissimi che potranno comportare in un momento non lontano un abbassamento effettivo del nostro tenore di vita.
Credo che nel momento in cui si affronta il problema della disoccupazione, non soltanto in termini di constatazione ma spero di proposte per soluzioni sull'immediato e credo per valutare anche le ripercussioni sul futuro, questo rischio che la generazione che si affaccia al mondo del lavoro debba essere considerato anche dalla nostra assemblea.
Anche perché la situazione è già gravissima in questo momento.
Al 31/8/1982 nella nostra Regione i giovani disoccupati (intendendosi per giovani la fascia dai 18 ai 29 anni) erano 67.542. Tale cifra è rispetto alla stessa data dell'anno precedente, aumentata di oltre il 10%.
Di questi 67.542 giovani disoccupati il 64,51% sono donne, il 34,39 sono uomini.
Rispetto all'81 sono le donne ad aumentare ancora percentualmente.
Tenuto conto che gli iscritti al collocamento nel mese di maggio 1982 erano 137.141, ne risulta che il 50% dei disoccupati sono appartenenti alle leve giovanili.
Se si rileva inoltre che la pur estremamente preoccupante cifra del numero dei cassaintegrati comunicata dalla Giunta in recenti documenti in 57.213 è inferiore a quella dei giovani in cerca di occupazione o di prima occupazione, noi riteniamo che il problema dei giovani diventi centrali ed abbisogna, a nostro avviso, di azioni originali e più incisive da parte della Giunta regionale.
Questi dati che ho comunicato mi sono stati cortesemente forniti dall'Assessorato al lavoro, e si riferiscono ad una ventina di giorni fa ma altri dati più specificativi e più dinamici da me richiesti non è stato possibile ottenere in quanto l'ultima ricerca di indagine organica sulla materia risale al 1977 e quindi non più utile a valutazione di analisi e di prospettiva.
Credo, quindi, che sia intanto urgente disporre di maggiori dati rispetto alla disoccupazione giovanile, alla sua estrazione, alla sua composizione e successivamente affrontare con coraggio il problema in quanto le proposte che ha formulato la Giunta nella sua relazione sono tentativi di affrontare il problema, da esaminare certamente, ma non hanno secondo noi, quella caratteristica di un progetto-giovani che noi sollecitiamo alla Giunta. Mi pare che anche il Consigliere Picco, ieri insistesse su questa necessità. Il Comune di Torino è in questi giorni intervenuto con un esperimento che dovrà essere avviato.
Il problema però è regionale e, ripeto, necessita di una grande presa di responsabilità da parte di chi tiene il governo della Regione.
Anche perché il concentrarsi della disoccupazione nelle forze giovani ed il suo parziale caratterizzarsi come disoccupazione intellettuale, fa sorgere dei seri dubbi sul fatto che questo fenomeno della disoccupazione possa essere rapidamente e facilmente riassorbito.
E' pur vero che ci troviamo di fronte ad un fenomeno strutturale non solo nel nostro sistema economico ma altresì del mercato europeo e mondiale. Però una politica tesa alla salvaguardia dei valori democratici che si sono venuti affermando in questa parte del mondo, non può non lavorare, non proporre per il superamento del fenomeno perché se così non facesse la crisi che ne deriverebbe coinvolgerebbe in modo drammatico il sistema produttivo e quello istituzionale dei nostri e dei nuovi Paesi.
Secondo taluni l'odierna crisi altro non è che il prodotto del sistema stesso di produzione capitalistica. Al capitalismo occidentale sono state diagnosticate ed augurate molte morti: finora però la sua forza vitale e la sua capacità di rinnovamento ed evoluzione, caratteristiche queste tutte sconosciute al mondo sovietico, per esempio, gli hanno permesso di superare molte crisi.
Il problema è se ancora oggi questa crisi mondiale potrà essere superata e a questo riguardo ci sembra di poter cogliere da parte di taluno, anche da parte di chi ha creduto nel sistema, il vacillamento di una speranza, l'abbandono di una fiducia.
Le nuove condizioni economiche infatti, che si sono venute determinando nel corso degli anni '70, hanno provocato una consistente modificazione ed attenuazione di quell'ottimismo di fondo che aveva contraddistinto in passato l'atteggiamento delle popolazioni europee. In Italia è evidente che si scontano dei grossi errori: uno dei più grossi è certamente quello di aver creduto che il processo di accumulazione dei beni potesse non avere fine. Si è così innestata una spirale che è stata chiamata delle aspettative crescenti.
In questi anni tutti abbiamo pensato di potere avere sempre di più ed ognuno ha fornito il suo appoggio a chi gli ha fornito sempre di più. Un certo allontanamento della gente dalla politica deriva proprio dal venir meno della sicurezza e della speranza e su quest'onda acquistano consensi queste forze politiche che si caratterizzano contro questa o quella politica economica piuttosto che quelle forze politiche che si battono per questo o quel programma. Una specie di condanna delle istituzioni di Governo quale che sia il suo operato, proprio per le condizioni nuove e difficili in cui si trova a navigare.
Borando ieri accennava a questo tema parlando del "Governo ladro" sempre e comunque.
Questo noi diciamo, dal nostro ruolo di oppositori a questo governo regionale, consapevoli delle difficoltà della gestione, del contingente del fuoco che brucia la casa. Se poi da parte della maggioranza si sia esagerato o strumentalizzato sulla situazione, non credo sia questa la materia del contendere di oggi e comunque la lascio al collega Bastianini.
La situazione è grave e la consapevolezza della sua gravità e non soltanto dei 67.542 giovani, dei 57.213 cassaintegrati e disoccupati in genere ma anche da coloro che controllano la situazione sotto il profilo industriale e sono proprio gli industriali piemontesi ad affermare attraverso i loro massimi esponenti - cito una frase che ha detto ieri Alasia ma che avevo notato anch'io nella relazione trimestrale della Federpiemonte - che il clima di opinioni nuovamente improntato a forte pessimismo con l'alleggerimento delle aspettative registrate nella prima dell'82, i saldi ottimisti e pessimisti sono peggiorati per tutte le variabili ed in particolare sull'andamento del comparto export.
Lo scopo dell'odierna seduta tuttavia è certamente quello di fare il punto su una situazione economica occupazionale in senso lato, ma è o dovrebbe essere soprattutto quello di valutare ed evidenziare come il Consiglio e la Giunta si presentano in questo non roseo panorama.
Per fare questo occorre verificare se la Regione si sia data lo strumento di lavoro per poter contribuire al superamento della crisi. Il piano di sviluppo c'è? Certo, esiste sulla scrivania dei Gruppi una nutrita documentazione denominata "Secondo piano di sviluppo" ma nessuno ne sollecita l'esame e, anzi, da parte della Giunta non si formalizza il suo invio alla Presidenza del Consiglio affinché possa essere dato inizio alle procedure previste dalla legge per il suo esame e la sua approvazione.
C'è quasi l'impressione che la cosa importante fosse quella di presentare un documento. Oggi, nella situazione di difficoltà nella quale ci troviamo, con difficoltà che scarseggiano e scarseggeranno sempre di più, con le ipoteche sulle sue risorse che la Regione, negli anni passati si è imposta per scelte non discendenti da un disegno programmatori, oggi è forse arduo e forse coraggioso discutere di un piano di sviluppo.
Dunque, il problema non è forse tanto quello di rivendicare un ruolo nuovo delle Regioni nel Governo dell'economia né tanto quello di riaprire il dibattito sull'acquisizione alle Regioni di ulteriori competenze, ad esempio nel settore del credito e dell'industria, anche perché mentre la difficile realtà economica e sociale del momento spinge ed obbliga la Regione Piemonte e le Regioni in generale ad affrontare i problemi dell'occupazione e quindi degli investimenti e delle grandi scelte del programma nazionale con una presenza consapevole ed attiva del quadro economico, delle esigenze, delle risorse anche al di fuori e al di là delle realtà locali, il sistema normativo e finanziario che regola e vincola il quadro delle competenze regionali nell'ambito specifico settoriale definito e, tutto sommato, le forzature, i ritagli, i rosicchiamenti che le Regioni hanno fatto in questi anni nell'ambito della competenza nazionale le ha obbligate a continui confronti e sovrapposizioni con gli enti sovra e sotto ordinati con un'esigenza di coordinamento che di fatto scarsamente è stato possibile soddisfare.
Cosa fare? Continuare nella politica delle intenzioni, redigendo magari quel protocollo sindacati - Regioni che è "pregevole come atto di manifestazione politica"; questo apprezzamento non è mio, ma di Fausto Bertinotti ed anche di Benvenuto in un'intervista sulla "Gazzetta del Popolo" di qualche giorno fa. Oppure si deve continuare nella politica della lagnanza e della doglianza per tutto quello che Roma non fa? Non sarebbe invece meglio cominciare a verificare se nell'ambito delle proprie competenze non si possa migliorare qualche aspetto? Da tempo chiediamo alla Giunta di rivedere con serenità alcuni aspetti della gestione degli interventi della Regione negli ultimi anni e verificare da un lato se gli indirizzi di Governo fin qui assunti abbiano trovato concreta attuazione nell'attività amministrativa e per altro verso se e in quale misura è necessario rivedere o modificare quegli indirizzi alla luce della situazione odierna. Il recupero di una situazione degradata non può avvenire infatti all'insegna dell'improvvisazione né tanto meno proponendo misure od interventi approssimativi e comunque irrealizzabili con i propri mezzi. Abbiamo, per esempio, parlato dell'Agenzia del Lavoro.
A parte la contraddizione fatta rilevare ieri da Montefalchesi, chi ha il coraggio di dire che non sia una bella idea, ma ha fatto bene il Presidente della Giunta a dire e a evidenziare tutte le difficoltà che si frappongono alla sua realizzazione. Fare un progetto sapendo che non sarà realizzabile superando chissà quali contrattempi, comporta soltanto la creazione nella società di aspettative che andranno immancabilmente deluse, ingenerando altra sfiducia nelle istituzioni, mentre i problemi anche minimi non trovando soluzione possono contribuire ad aggravare la crisi.
C'è una tentazione costante che è quella di scaricare le responsabilità di mancate attuazioni su altri e comunque a cercare delle corresponsabilità.
Per esempio, si dice che la mobilità non funziona. Alasia ieri, con un intervento improntato sempre al consueto rigore e alla consueta tensione morale ha cercato di spiegarci perché la mobilità non funziona. Io credo di appartenere ad un partito che non ha mai detto che la mobilità avrebbe risolto tutti i problemi dell'occupazione e nemmeno che con il terziario si risolveranno tutti i problemi dell'economia piemontese.
Certo, il PRI si è convinto prima del PCI alla mobilità. Ma si ricordano gli amministratori regionali quanto tempo hanno impiegato a convincersi alla mobilità? Si ricordano quando negli anni '76/'77, quando già la crisi era in atto, i repubblicani chiedevano alla Giunta regionale di avviare il processo di mobilità almeno all'interno della pubblica amministrazione? Ricordo le difficoltà che abbiamo avuto meno di due anni fa a fare un ordine del giorno andando a ricercare le virgole e non le virgole per cercare di arrivare ad un documento comune senza arrivarci.
Credo che se oggi la mobilità non funziona, non funziona perché le cose si mettono in atto in tempi sbagliati e io ricordo che negli anni '76 chiedevamo alla Giunta di dare con un atto politico l'impressione di voler affrontare questo problema ammettendo, per esempio, che un infermiere potesse essere spostato da un reparto ad un altro all'interno dello stesso ospedale per migliorare la funzionalità del servizio.
Ci sono altri aspetti di stretto interesse regionale sui quali si può e si deve intervenire subito. L'Assessore Testa ci parla, nelle sue relazioni, del suo programma già iniziato di mettere ordine nella spesa regionale. Ma quando si dice ordine nella spesa, per noi significa che la spesa regionale deve finalmente qualificarsi ed orientarsi a sostegno della struttura produttiva della Regione, una spesa capace di agevolare la trasformazione strutturale del Piemonte, di supplire ai voti derivanti dal ridimensionamento, di preparare il cambiamento verso il terziario.
Ci sono settori che rientrano nella competenza diretta della Regione per i quali si sono, negli anni passati, assunti dei provvedimenti legislativi ed amministrativi senza approfondire con sufficiente indagine le ragioni di certi fenomeni e senza poter dunque indirizzare gli interventi ad obiettivi precisi: nell'agricoltura, e mi ricollego all'intervento che ho fatto qualche giorno fa, nel turismo, nel commercio e nell'artigianato, non si è mai proceduto ad interventi di base su criteri economici. Quello che noi chiediamo è una politica della spesa derivante da una politica di bilancio orientata ad una progressiva trasformazione del bilancio della Regione da bilancio di mantenimento o di assistenza in bilancio che concorra allo sviluppo.
In questo senso ha ragione il Capogruppo del PSI quando dice che il bilancio pubblico è una cosa che interessa anche le Regioni e che, tra l'altro, questo aspetto sia altrettanto importante quanto il costo del lavoro: ne siamo perfettamente convinti anche noi, ma sul disavanzo intanto perché occorrerebbe che la Regione pensasse ai propri disavanzi che sono quelli che negli anni scorsi hanno impedito di finanziare gli investimenti e quando noi, ad ogni scadenza finanziaria, invitavamo la Giunta a ripulire il bilancio e questo discorso lo facciamo dal 1978 perché è dal 1978 che ci portiamo dietro una situazione di bilancio non chiara, lo dicevamo perch pensavamo al piano di sviluppo che tenuto pronto, per essere credibile occorreva che avesse un consistente supporto finanziario.
Per addentrarmi ancora una volta nella spesa voglio aggiungere che non dobbiamo dimenticare che i 2/3 della nostra spesa sono presi dalla spesa sanitaria e che è compito della Regione rendere attiva e credibile la riforma sanitaria, fissando dei criteri politici e strutturali che consentano contemporaneamente una maggiore razionalizzazione della spesa ed un effettivo miglioramento del servizio non lasciando in balia di loro stesse le USL.
Così, crediamo spetti solo alla Regione produrre un definitivo piano di coordinamento territoriale perché il ruolo della Regione nel settore produttivo non è quello di pompiere anche se ieri Sanlorenzo si chiedeva dove devono andare i disoccupati. E' certo che devono venire alla Regione però il suo ruolo non è tanto quello di pompiere o di imprenditore in prima persona ma è quello nel momento in cui non si tratta più di discutere se e come la nostra industria possa continuare ad espandersi, se e come trasformarsi sul piano qualitativo e quantitativo per garantire almeno la stabilità della base produttiva, ebbene il ruolo della Regione è quello di incentivare, di agevolare, di supportare un processo di questo genere.
E' chiaro a tutti, infatti, che i tentativi di uno sviluppo dell'area piemontese rimarrebbero soffocati senza un corrispondente incremento quantitativo e qualitativo dei servizi, e i servizi sono compiti della Regione.
Qualcuno ci può dire: "i repubblicani solo critiche fanno, ma essi che cosa propongono?" Abbiamo detto prima che un piano di sviluppo nella situazione attuale è anche difficile. Un piano miracolistico non ce l'ha il partito democristiano che pure è il partito di maggioranza relativa in questa Regione e che dovrebbe essere il Governo ombra, non ce l'ha la Giunta ed è ancora più provocatorio dire che ce l'hanno i repubblicani che nel Consiglio regionale sono rappresentati da due Consiglieri su sessanta.
Abbiamo delle idee e delle proposte che in occasione del nostro Convegno sul piano di sviluppo, nel dicembre 1981, avevamo chiamato "i tre obiettivi e le sei priorità per il Piemonte". I tre obiettivi si sintetizzavano in azione per il con tenimento della flessione dell'apparato produttivo, per favorire l'infrastrutturazione dell'area metropolitana e per garantire un riequilibrio territoriale attraverso assi nord-sud ed est-ovest, obiettivi raggiungibili con il concorso di tutte le forze economiche e sociali del Piemonte in cui la Regione avrebbe dovuto qualificarsi per interventi nei settori dell'energia, della viabilità, dei trasporti, delle aree industriali ed artigianali attrezzate, della formazione professionale.
Questi obiettivi e queste misure condurrebbero inevitabilmente tutte ad un miglioramento della situazione occupazionale, ma per fare questo è necessario che la Regione si assuma le proprie responsabilità responsabilità che anche recentemente la Regione ha dimostrato di non voler assumere nel momento in cui di fronte alle opportunità di finanziamento di una legge innovativa sui riparti delle risorse, la Regione anzich scegliere ha preferito lasciar scegliere dimostrando quindi una capacità di scelta e a questo proposito ha ancora ragione il Capogruppo del PSI quando dice che si è per l'occasione con il finanziamento della 526, finanziamento che doveva essere rivolto allo sviluppo dell'economia per l'occupazione a non presentare i progetti sulle aree industriali attrezzate: quella del Cusio-Ossola e dell'area di Mondovì. Io non conosco il fatto di Gravellona a cui accennava ieri Montefalchesi, ma vorrei dire al Capogruppo del PSI e al Vicepresidente della Giunta che peraltro nella sua relazione ha dedicato 21 pagine a questo aspetto, che non solo non si sono presentati questi progetti al Governo, ma le aree attrezzate non si sono finanziate nemmeno nel momento in cui si sono approvate e noi mettevamo il punto su queste incongruenze in quel momento, ma vorrei anche dire all'Assessore Sanlorenzo che bene farà a sollecitare martedì la Giunta su questo aspetto, ma devo augurare alla Giunta un miracolo perché i soldi per le aree attrezzate nel bilancio pluriennale base dell'andamento finanziario nel quale la Giunta gestisce e l'opposizione controlla, i soldi non ci sono e vicino alla voce "aree attrezzate" c'è un P.M., che significa "per memoria" speriamo a partire dal 1984.
Ci sarebbe poi il discorso dei 500 miliardi, ma siccome l'Assessore Testa ha detto alla stampa che praticamente è pronto il bilancio, visto che non vuol presentare il resoconto avremo modo di parlare di queste cose nel giro di pochissimi giorni.
Se è vero che le Regioni, come ha dichiarato il Presidente della Giunta in un'intervista alla "Gazzetta" complessivamente a fronte di una risaputa disponibilità della legge di 870 miliardi hanno inviato progetti per 12.000 o 14.000 miliardi, il che può consolarci per il fatto che il difetto della carenza di programmazione non è solo quello della Giunta regionale del Piemonte. Questa legge, e vorrei dirlo al Presidente della Giunta il quale essendo Presidente della Conferenza dei Presidenti in questo periodo pu essere utile nei discorsi che si faranno a questo livello, è stata la cartina di tornasole per evidenziare che il processo di programmazione nelle Regioni non è affatto avanzato, che la loro azione non è complessivamente mutata di qualità né tanto meno che le loro articolazioni strutturali siano divenute funzionali alla programmazione. Forse gli unici in Piemonte che hanno fatto un po' di programmazione sono stati i Comprensori e questo torna a loro merito.
Certo, gli strumenti se li sono dati le Regioni: ci sono leggi e procedure: in altri termini il processo di programmazione nelle Regioni è avanzato più sotto il profilo dell'elaborazione tecnica che delle decisioni politiche che sono però le sole capaci di definire un nuovo modello di comportamento di tutte le strutture decisionali operative. Eppure la Regione è organo di programmazione e qui sta il problema: di che programmazione si parla, si discute, si costruiscono modelli, si elaborano procedure, ma non si attua. E' un problema politico, non tecnico. E va detto che le Regioni nella realtà sono in grado di dare risposte congrue ad una domanda di intervento organizzato. Per esempio, i nostri programmi regionali per la casa, sulla base dei finanziamenti sono stati un fatto importante.
A questo riguardo noi già altre volte abbiamo dato un contributo per la soluzione di questo problema. Ma la risposta, oltre che congrua agli obiettivi diretti, sia anche coerente con gli obiettivi generali di sviluppo, pure se studiati, valutati, definiti nel più corretto dei modi è per la maggior parte dei casi un accidente.
Mi sono diffusa forse anche troppo su questi aspetti perché questo della programmazione difficile o non voluta regionale è poi anche un alibi per le sfere romane per rigurgiti o centralismo che noi rifiutiamo evidentemente.
Per il Piemonte, anzi, per la Regione Piemonte, si pongono alcuni obiettivi di fondo: il primo è quello di avere consapevolezza del nostro ruolo istituzionale tenendo conto dei vincoli di competenza, ma soprattutto finanziari entro il quale si può agire e dunque il controllo del territorio attraverso la definizione delle grandi infrastrutture di relazione, la politica dell'ambiente, la razionalizzazione delle strutture insediative con esse lo sviluppo e l'accessibilità dei servizi sociali, dell'edilizia abitativa, nonché certamente la promozione dello sviluppo economico sia con politiche dirette nei settori di propria competenza istituzionale l'agricoltura, il turismo, l'artigianato, sia indirettamente nel settore industriale con l'assistenza alle piccole e medie imprese attraverso la finanziaria regionale, nonché attivando convenienze esterne, politica delle aree attrezzate, formazione professionale, trasporti.
Si è molto parlato, in questi giorni, anche del rinnovamento tecnologico e della ricerca: il Presidente Enrietti ha detto che la Regione partecipa a questo rinnovamento, per esempio, con il progetto Ignitor. A parte che dalla documentazione finora fornita al Consiglio non risultano esplicitamente gli obiettivi del programma, se non una generica indicazione di un contributo alla conoscenza dei fenomeni del contenimento del plasma è noto che noi siamo, rispetto a questo argomento, prudenti, riteniamo che non si debba mettere in discussione la validità scientifica degli esperimenti previsti in quanto la serietà e la competenza specifica dei ricercatori è indubbia. In ogni caso non è questo l'aspetto da considerare in sede politica, interessa conoscere quale può essere il contributo dei risultati della ricerca alla realizzazione di impianto che eroghi energia da fusione nucleare in tempi economicamente considerabili da parte di una struttura pubblica come la Regione Piemonte che tra l'altro non ha tra le sue competenze la ricerca, perché è bene che venga detto subito che l'eventuale successiva utilizzazione di un risultato scientifico positivo richiederebbe interventi finanziari e tecnologici assolutamente incompatibili con la scala regionale e, probabilmente, nazionale.
A proposito dei benefici che ne conseguirebbero occorre precisare che tale beneficio è presumibilmente limitato all'acquisizione di commesse definite in quanto i relativi prodotti tecnologici estremamente specifici non genereranno una caduta tecnologica utile ai settori industriali attualmente in crisi in Piemonte: trasporti, tessile, elettronica e gomma.
Spero poi che si smetta di presentare il progetto come un contributo sia pure a lungo termine, alla risoluzione energetica: occorre dire che per tutta la durata del progetto il contributo è pesantemente negativo in quanto il funzionamento dell'impianto richiede l'assorbimento di un'enorme quantità di energia nel momento in cui si profilano problemi di carenza energetica. Uno dei motivi per i quali questo esperimento non è stato fatto in America è proprio per il fatto che c'era il problema dell'energia e avrebbero dovuto costruire impianti per generare energia che avrebbero ritardato di tre anni il progetto. Su questo argomento ritorneremo in seguito anche perché questo è all'esame della Commissione competente.
Vorrei invece ritornare al problema della disoccupazione giovanile che è l'argomento .che ho voluto mettere al centro anche perché riteniamo che la Regione dovrebbe impegnarsi con un progetto. Questa generazione disoccupata, che una recente indagine della Fondazione Agnelli su demografia e mercato del lavoro in Italia e in Piemonte chiama la generazione "eccedente" e che è costituita da quel milione e settecentomila nascite in più registrate negli anni '50 e '60 e che rimarrà "densa" e quindi presumibilmente con difficoltà occupazionali per tutto l'arco della sua curva lavorativa. E' quella alla quale maggiore attenzione occorre riservare da parte della società e quindi dei pubblici poteri.
La formazione professionale è un campo nel quale la Regione deve produrre migliori strumenti: mentre a livello nazionale occorrerà affrontare il problema del part-time. Questi della formazione professionale e del part-time sono campi nei quali i Paesi europei possono ricercare il massimo di collaborazione proprio in virtù delle possibilità di economie più integrate e, quindi, di più integrati mercati del lavoro.
Ma non ci si deve illudere. Bisognerà anche intervenire a livello nazionale e a livello dello Stato proprio per questo decremento della disoccupazione a provvedimenti volti a restituire elasticità e certezza ai meccanismi di gestione del mercato del lavoro, non mi diffondo sulla riforma del collocamento e della cassa integrazione, ma non ci si deve illudere che anche questo tipo di misure siano in grado di risolvere il problema in assoluto. Credo e spero che lo risolveremo qui in Piemonte in quanto le previsioni di forza lavoro fra l'80 ed il '91 in Piemonte presumibilmente oscillerà tra valori molto bassi, da 0,7 all'1,8. Quello che preoccupa di più è una nuova accentuata diversità spaziale in quanto nell'Italia centrale, nord-orientale, l'incremento sarà dal 2 al 3%, ma nell'Italia meridionale raggiungerà il 10%.
Il problema della disoccupazione giovanile è una parte sia pure grande del più ampio problema della disoccupazione e non è più possibile cedere alle tentazioni di puro assistenzialismo. Personalmente ho moltissimi dubbi sull'opportunità del salario garantito per i disoccupati, peraltro questa è una norma che in molti Paesi esiste; una società deve compiere molti sforzi per garantire a tutti un lavoro, non per garantire a tutti una quota di denaro che può finanche creare un disincentivo alla ricerca di un'occupazione. Già sono sotto gli occhi di tutti gli effetti degenerativi di una prolungata sosta remunerata all'esterno del mondo del lavoro, i fenomeni del doppio lavoro e il lavoro nero che saranno pure in diminuzione, ne sono perfettamente convinta perché le condizioni sono sostanzialmente diverse rispetto ai dati della ricerca della quale parlava ieri Alasia riferendosi essi al 1979, ma tuttavia sono dei fenomeni ancora permanenti nella nostra società e a questo proposito ricordo una richiesta che avevo già fatto alla Giunta di fare un'indagine per il Piemonte partendo da questo documento che io non ho ancora ma che spero la Commissione si procuri presto affinché possiamo valutarla e verificarla anche nella nostra realtà.
La sovvenzione di non lavoro è un processo tumorale che se non viene spezzato in tempo favorisce la crescita all'interno della società di corpi che poi provocano il collasso.
Con questo non intendo dire che chi è disoccupato deve accettare con rassegnazione la sua condizione, al contrario, proprio perché la rassegnazione non prenda il posto della speranza bisogna che la società punti la sua carta sullo sviluppo, non sulla pietà.
Per concludere, mi sono riferita prima ad una ricerca della Fondazione Agnelli che non era e non è incoraggiante per le sue previsioni ma che tuttavia, lascia anch'essa qualche speranza per qualche miglioramento.
"Negli anni '90 le tensioni sul mercato del lavoro dovrebbero ridursi lo sviluppo del terziario e la stazionarietà dell'industria soprattutto a causa dell'aumento della produttività dovrebbero determinare un sensibile calo della domanda di lavoro che almeno da un punto di vista qualitativo potrebbe essere coerente con il calo dell'offerta.
Anche il problema dell'attività femminile potrebbe essere ridimensionato negli anni '90 grazie al calo demografico e alla richiesta di maggior qualificazione.
La qualità della forza lavoro offerta dovrà subire notevoli modifiche intorno al 1990 e soprattutto al 2000 per accompagnare lo sviluppo del terziario e lo sviluppo tecnologico dell'industria. Non è presumibile che la disoccupazione intellettuale possa essere riassorbita al 90% anche se la situazione dovrebbe migliorare almeno che non realizzino situazioni di rapida e prolungata espansione.
Nel decennio successivo viceversa, questi problemi potrebbero avere segno opposto o almeno essere avviati a soluzione, non tanto per l'espansione della domanda di mano d'opera qualificata quanto per la riduzione drastica della popolazione in età giovanile, più idonea ad essere adeguatamente qualificata.
E' evidente che la maggiore qualificazione richiesta corrisponderà anche alla richiesta di un maggiore ventaglio di qualificazioni; un possibile ritardo nell'evoluzione di un sistema di qualificazione soprattutto di riqualificazione adeguato alla domanda potrebbe determinare strozzature molto gravi".
Queste ultime parole per chi come la Regione ha la responsabilità diretta della formazione professionale dovrebbero essere meditate e determinare quel programma di formazione e riqualificazione in grado di non farci sentire un po' in colpa di fronte ai giovani cui una vorticosa società dei consumi ha promesso molto e che oggi non sa assicurare e garantire loro uno dei diritti fondamentali dell'uomo, quello del lavoro.
Vorrei chiudere questo mio intervento con una chiusa politica tenendo conto anche delle varie linee politiche emerse ieri nel dibattito.
E' stato detto da tutti che il momento è eccezionalmente grave. Questo significa che tutti in Regione, nella Provincia, in Comune, a livello locale e regionale, devono assumersi la propria responsabilità.
Il tema che abbiamo toccato attiene a molte responsabilità del Governo centrale, ma abbiamo anche visto che la Regione può fare la sua parte. Il deterioramento costante del quadro politico nazionale non sfugge ad alcuno ma non sfugge altresì ad alcuno un logoramento di rapporti anche all'interno delle Giunte locali del Piemonte. Questa è una cosa che non deve essere taciuta perché non si può dibattere di problemi economici istituzionali, richiamare tutti alla collaborazione ed alla ricerca del consenso più vasto e contemporaneamente ribaltare sull'istituzione la disgregazione e il deterioramento dei rapporti politici e personali. Ci alle istituzioni nuove.
E' giunto il momento di ricondurre il dibattito sui temi di fondo della nostra società e credo che il confronto di ieri e spero quello di oggi sia un contributo importante ad una fase che noi vorremmo nuova.
Questo non significa che non dobbiamo avere diversi punti di vista come di fatto ogni forza politica ha rispetto ad un'altra o alle altre, quello che importa è che dopo esserci confrontati sui temi concreti chi ha responsabilità delle decisioni abbia la capacità da un lato di raccogliere i suggerimenti e le proposte che sono venute e verranno da tutti dall'altro che ove le divergenze all'interno della coalizione di Governo facessero rilevare in modo non componibile una diversa impostazione politica si sappiano trarre le necessarie conseguenze.



PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE MARCHIARO



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Mignone.



MIGNONE Andrea

Signor Presidente, colleghi, il dibattito avviato ieri dalla relazione dell'Assessore Sanlorenzo ha ricondotto il Consiglio alla realtà preoccupante di una situazione sociale ed economica piemontese che non consente incertezze. Ci ha richiamato alla coscienza che alcune cose si possono fare; alcune iniziative si possono intraprendere; ci ha ricondotto alla responsabilità di comportamenti coerenti e costruttivi da parte di tutti.
E' questo un dibattito difficile per la varietà dei problemi che sottende e per i margini di incertezza oggettivi che presenta, in ordine a possibili terapie di intervento. E' un impegno a cui la Regione non può, n deve, sottrarsi; né, peraltro, crediamo si sia fino ad oggi sottratta.
Esso ha un duplice volto: da una parte è un dibattito sull'andamento dell'economia piemontese e sulle sue prospettive; dall'altra, è un dibattito che ha assunto inevitabilmente connotazioni politiche, poich politiche sono le implicazioni connesse alle risposte che si prefigurano e che si danno alle domande, ai bisogni, ai problemi messi in luce.
Il grappolo dei problemi da affrontare è così ricostruibile. Il primo punto riguarda la situazione attuale e le possibili ipotesi di tendenza. Il secondo problema riguarda il possibile ruolo della Regione; il terzo, i riflessi politici del presente dibattito.
Per quanto riguarda la situazione attuale, siamo certamente in presenza di realtà con luci ed ombre. Condividiamo le considerazioni al riguardo fatte nella relazione dell'Assessore e contenute nei documenti che di volta in volta sono stati consegnati alle Commissioni e ai Gruppi. E' una situazione che forse ha più ombre che luci, ma ha delle realtà contraddittorie. In questo caso il Piemonte può essere emblematico. A fianco della perdurante crisi dei grandi gruppi, si registrano insospettate vitalità di piccole e medie imprese e - paradossalmente - alla progressiva uscita dai mercati di tradizionali settori produttivi piemontesi,crescono nuovi filoni di produzione di beni e servizi con andamenti positivi. Non è il caso qui di richiamare cifre e dati già abbondantemente citati. Del resto abbondiamo forse più di osservazioni e radiografie che non di categorie interpretative, di apparati metodologici che consentano di capire la dinamica in atto; forse abbondiamo più di materiale di lavoro che non di proposte e terapie.
Unitamente al settore industriale, nella nostra Regione largamente prevalente, complessivamente in fase contrattiva fuorché a livello delle piccole e medie dimensioni e per settori nuovi o dirette all'esportazione vi sono anche il settore artigiano e persino quello agricolo (in questo dibattito un po' in ombra, ma che non va affatto trascurato per gli aspetti occupazionali e produttivi) che sembrano stare non molto meglio.
Le stime generali e le previsioni, pur caute, segnalano invece una probabile inversione di tendenza, legata anche a fattori internazionali, a partire dal prossimo anno.
Auguriamoci che sia davvero cosi, ma cerchiamo tutti, per la parte che ci aspetta, di agevolare e sostenere questo eventuale mutamento in positivo.
Assodato che ricette preconfezionate non esistono e non sono proponibili, emerge che occorre valutare la situazione con molto realismo e con molto empirismo lasciando da parte dispute scolastiche e riferimenti a modelli.
Oggi, ogni modello, sia interpretativo che operativo, è in crisi e la disputa non è più tanto tra monetaristi puri o keynesiani spinti. Le vicende internazionali lo hanno confermato. I modelli di Reagan e di Mitterrand, per non parlare di quelli del socialismo reale, sono in crisi e al capezzale del Welfare State si sono affaccendati tutti con prognosi infauste, e questo ormai appare come un elemento acquisito al dibattito culturale e politico. In realtà l'economia internazionale, ma anche quella domestica, è diventata estremamente complicata per tutti, compresi gli esperti, gli gnomi svizzeri, i ministri e gli assessori. Vi è forse una causa profonda del fallimento delle politiche tradizionali siano esse keynesiane dirigiste oppure friedmaniane liberiste. Esse hanno in comune la preoccupazione del ritmo di crescita.
A nostro avviso, il problema è invece quello della natura e della struttura della crescita.
La crisi che attraversiamo e nella quale siamo entrati quasi senza accorgercene come forse i Romani sono entrati nel Medio Evo, sta in certi mutamenti economici strutturali che hanno cause sociali. Schematicamente si può dire che i principali mutamenti strutturali riguardano il rapporto tra la domanda globale e i costi da un lato e la domanda globale ed occupazione dall'altro.
Questi mutamenti sono dovuti al fatto che la società non è più un mercato. E' diventata oligopolio sociale di gruppi organizzati, che tendono ad irrigidire i loro servizi e ad aumentare le loro pretese. Qui è la crisi dello Stato di benessere, ma anche del mercato, il quale non può funzionare se invece di un governo ce ne sono tanti.
Una via di uscita può essere quella di smobilitare con la ragione e con il consenso - sottolineiamo con la ragione e con il consenso - questi "governi parziali", o anche "governi privati" come certi filoni di neocorporativismo suggeriscono.
La crescita può riprendere solo se tutti i gruppi sociali rendono compatibili le loro istanze. Ma, nuove politiche di sviluppo, basate sul consenso sociale, sembrano di là dall'orizzonte.
Da un lato, quindi, crisi di modelli conosciuti; e può anche essere un bene, finendola così di danzare attorno al totem di un modello astratto circondato da aride distese di formule ideologiche. E' stato difficile per la nostra società digerire questa sabbiosa dieta di neoformalismo.
Dall'altro, bisogna cogliere l'amaro succo di quello che spesso è stato un mero assistenzialismo totale non pagante nel lungo periodo e non foriero di sviluppo. Bisogna forse anche riconoscere di dover convivere con il probabile esito di governi deboli, vivere con la disoccupazione e con l'inflazione, finché dura pigiando, di volta in volta, ora sul freno, ora sull'acceleratore.
Ovviamente è una prospettiva che siamo riluttanti ad accettare e per la cui modifica siamo, come partito, impegnati.
Sugli aspetti generali ancora due brevi considerazioni.
La prima è che occorre cogliere più puntualmente la crescita dei nuovi processi, da un lato di terziarizzazione e dall'altro di deindustrializzazione. Per quanto riguarda il primo aspetto bisogna chiarire da dove parte la terziarizzazione, anche per individuare politiche di sostegno da parte della Regione.
Non può essere un processo di terziarizzazione collegato alla teoria degli stadi di sviluppo economico né in relazione alla differente dinamica della produttività tra servizi ed industria e nemmeno considerando i servizi come un serbatoio di manodopera strutturalmente in eccesso.
Diciamo invece che questo processo deve essere inteso come una crescente integrazione dei servizi con il sistema produttivo, e a questo tipo di terziarizzazione occorre puntare, specie per quanto riguarda i servizi rivolti all'industria.
Per quanto attiene il secondo aspetto, occorre approfondire l'analisi verso un sistema produttivo che, se considerato per branche e per blocchi mostra notevoli modificazioni. Quindi, anche qui, correggendo l'analisi tradizionale che invece tende a prefigurarlo come un sistema cristallizzato. Questi elementi sono importanti perché, a seconda della prospettiva da cui si parte, si vanno ad individuare diverse risposte da dare. Bisogna saper cogliere queste modificazioni e, peraltro, ci pare di dover riconoscere che su questo versante le proposte avanzate nella relazione dell'Assessore Sanlorenzo in tema di innovazione tecnologica e di predisposizione di servizi per l'industria è abbastanza esaustiva. Mi pare si riconosca che sia a questo terziario che occorre guardare e non a quello, magari più facile, dell'allargamento del pubblico impiego.
Una seconda valutazione di ordine generale riguarda il ruolo - se ancora ce n'è uno - della programmazione regionale. Bisogna chiarire se esiste ancora la programmazione regionale all'interno di quella nazionale e se vogliamo ancora proseguire lungo questa strada, posto che materiali tavole rotonde, bozze e convegni non sono ancora la programmazione regionale.
Quindi un invito perché si proceda celermente su questa strada, posto che, a nostro avviso, essa ha ancora un significato, non più forse come la si intendeva anni fa, ma che certamente, seppure articolata per progetti alternativi, ha ancora un ruolo ed una funzione da svolgere: essa diventa anche il quadro di riferimento per ciascuna delle politiche settoriali che si pongono in essere. La programmazione regionale andrà legata a quella nazionale.
Forse la Conferenza dei Presidenti delle Regioni finisce un po' per scardinare il sistema di rapporti tra le varie istituzioni, perché tende a creare un super organismo di mediazione e di contrattazione che da un lato finisce per svuotare le Regioni e, dall'altro, finisce per svuotare anche il Parlamento delle loro funzioni, riducendosi ad un sistema che finisce per diventare una ricerca di consenso preventivo, delle decisioni neutre oppure della soppressione anticipata di quelle decisioni che, se portate avanti, potrebbero essere potenzialmente pericolose. Questo elemento di riflessione può porre in luce alcuni nodi che abbiamo di fronte sul piano dei rapporti istituzionali.
Le risposte non possono che essere complesse, dato il crescente grado di interdipendenza delle economie. Una prima esigenza da garantire è quella del coordinamento delle politiche che, comunque, hanno riflessi sullo sviluppo e sull'occupazione.
Su questo terreno già si è mossa la Regione, ma forse più e meglio pu fare, specie selezionando i campi di intervento per evitare un onnicomprensivismo né sostenibile, né credibile.
Per quanto attiene alle relative competenze e responsabilità, lo Stato può e deve fare di più, può e deve dare risposte precise a domande precise in ordine agli impatti di certe decisioni politiche, in ordine ai tempi di attuazione di queste politiche. Un dibattito sull'occupazione e sulla dinamica produttiva regionale deve tener conto delle politiche che si vanno predisponendo a livello nazionale.
Siamo d'accordo sulle indicazioni date dal Governo in ordine ai problemi dell'economia e della finanza. Siamo anche noi perché si faccia una politica di riduzione del disavanzo pubblico, obiettivo prioritario, ma non con provvedimenti che mirino ad aumentare il prelievo anziché a ridurre la spesa della pubblica amministrazione, dato che nessuno vuole partecipare alla divisione delle perdite.
Pensiamo che può essere anche sbagliato aggredire il disavanzo senza tener conto di una circostanza fondamentale che caratterizza tutti i Paesi che operano con meccanismi e comportamenti di "Stato di benessere". La relazione tra entrate ed uscite statali da un lato e andamento della realtà produttiva dall'altro, perdendo di vista le implicazioni di altri due obiettivi: la lotta all'inflazione e il riequilibrio dei conti con l'estero. In una fase recessiva il disavanzo pubblico tende ad ampliarsi per operare congiunto di riduzione delle entrate ed aumenti nelle uscite.
Le prime si contraggono al ridursi del flusso di formazione del reddito del volume di attività produttiva; di converso le richieste di intervento nel settore a sostegno (cassa integrazione, situazioni produttive degradate) in fase recessiva sono innumerevoli.
Di qui la conclusione che a parità di sistemi di interventi pubblici la riduzione del disavanzo richiede o è facilitata dalla ripresa dell'economia. Noi diciamo che occorre manovrare su questo secondo versante delle politiche economiche, senza andare a ripescare modelli del passato perché nessuno ha voglia di dire, come diceva Nanna Arendt che il futuro è alle nostre spalle.
Uno dei nodi centrali è quello del costo del denaro e quindi del tentativo di ridurre la forbice tra i tassi passivi e i tassi attivi tenendo conto che in questo sistema vanno considerate banche ed imprese, ma anche lo Stato.
Bisogna chiedere al Governo la riforma del collocamento, di cui da troppi anni si parla ma che ancora non è arrivata in porto. Riteniamo che all'interno di questa riforma possano trovare soluzione alcuni nodi che riguardano, per esempio, la mobilità ed un sistema di formazione professionale che sia davvero agganciato al sistema produttivo. Lo stesso potrebbe valere per quanto riguarda i piani di settore ed una strategia di politica economica oculata e coerente su tutto il territorio nazionale.
Quindi non: Bagnoli sì, Torino no, meccanismo che scatena processi di competizione che sono del tutto fuori luogo e da frenare al loro sorgere.
Per quanto riguarda il versante della Regione riteniamo che la relazione presentata dalla Giunta al Consiglio sia sufficientemente condivisibile. Ci pare anche più equilibrata rispetto a precedenti interventi, sui quali, è noto, non vi era il nostro pieno assenso. Ci pare più equilibrata nei suoi aspetti, facendo uscire la Regione da una sorta di pendolarismo tra tendenza al velleitarismo da un lato e al "crolliamo"dall'altro. Ci pare che questo pendolo si sia fermato e che sia un'equidistanza, quindi sia un minor velleitarismo che una maggiore sottolineatura degli aspetti positivi, per esempio, nella situazione economica e produttiva della Regione.
Forse in precedenza si è ecceduto un po', per esempio, quando si fece il "caso Piemonte" che finì per essere male interpretato. Tutti ricorderanno la vicenda dei proconsoli che poi se la sono squagliata. Vi era la tendenza ad introdurre forme di neoassistenzialismo.
Vanno anche eliminati alni residui di assistenzialismo che sono presenti in parte della legislazione regionale in alcuni settori, quello artigiano e per taluni aspetti anche nel settore agricolo, anche se vi è in itinere una modifica della legislazione che potrebbe portare dei correttivi al riguardo.
Per quanto riguarda il particolare discorso delle aree attrezzate anche se condividiamo questa politica, riteniamo che non si debba mitizzare questo intervento regionale e che non si debba fare di tutta l'erba un fascio. La politica delle aree attrezzate deve essere mirata a favorire lo sviluppo là dove vi sono delle presenze vive e vitali che vogliono impegnarsi.
Sarebbe interessante fare una verifica sullo stato di attuazione di questa legge, in ordine sia agli adempimenti finanziari ma anche a quello che queste iniziative hanno saputo creare e far decollare nelle varie zone.
Il secondo elemento che va ribadito è il discorso del rigore della qualificazione della spesa di tutti gli enti, a cominciare dai Comuni ma anche dalla Regione. I discorsi al riguardo dell'Assessore Testa sono molto precisi.
Il discorso delle grandi infrastrutture, che forse si avvia alla realizzazione per il grande impegno che vi è stato a livello nazionale, è un discorso che può segnare una svolta, un segnale positivo. Bisogna collegare il sistema delle infrastrutture al discorso dei porti liguri.
Anche in questo caso bisogna fare qualche passo ulteriore di raccordo con la Regione Liguria, bisogna incominciare a predisporre quegli strumenti e quelle iniziative che consentano di fare, ad esempio, del basso Piemonte un'area di integrazione fra Piemonte e Liguria, anche correggendo certe dichiarazioni iniziali per quanto riguarda il progetto MITO che, così, come venne fuori, non ha trovato il nostro consenso.
Occorre anche porre molta attenzione alla politica della formazione professionale. E' un argomento largamente discusso all'interno del Consiglio regionale, ma che poi finisce quasi sempre per essere dimenticato. Riteniamo che, specialmente nelle fasi di transizione, sia fondamentale una rigorosa politica di formazione professionale mirata ad individuare le nuove line di sviluppo.
Riprendo il discorso della programmazione perché è un tema focale.
Senza piano di sviluppo, seppure per progetti, si finisce nell'episodico e nel non dare un segno di un'attività politico - amministrativa. Bisogna accelerare tutte le procedure per giungere rapidamente al piano di sviluppo.
Bisogna anche tener conto dell'impatto sociale di tutta questa evoluzione in atto. Bisogna rendersi conto che vi è stato un rimescolamento dei ceti all'interno della società e quindi bisogna valutare le nuove articolazioni che si sono affacciate nella struttura sociale.
L'ultimo aspetto attiene ai riflessi politici di questo dibattito.
Sono legati al fatto che ogni decisione di politica economica finisce per toccare problemi politici e di strategia. Può essere anche accoglibile la logica, sostenuta in particolare dal collega Viglione, di un confronto tra Gruppi consiliari e Giunta in un gioco dialettico, seppure rispettoso di ruoli e posizioni.
Tuttavia, a nostro parere, vi è una soglia oltre la quale questa dialettica produce confusioni di ruoli, sovrapposizioni e reciproci spiazzamenti.
Non sono un cultore del diritto pubblico comparato, però voglio dire che forse attorno a queste comparazioni occorre andare con molta cautela.
Per esempio, bisogna riflettere sul fatto che gli Stati Uniti sono una Repubblica presidenziale (a meno che non si voglia fare le Regioni presidenziali) e la considerazione è che in fondo il Presidente è espressione del popolo e non di un Parlamento, quindi vi è un legame diverso tra Presidente - esecutivo, esecutivo e legislativo. Vi è comunque una soglia oltre la quale è poi difficile evitare la confusione perché ci da un lato compromette la funzionalità del Consiglio e dall'altro dà l'idea di una maggioranza per certi aspetti litigiosa, mettendo in ombra le attività positivamente intraprese dalla Giunta.
E' questa una strada che non vogliamo percorrere e che non vogliamo condividere. Il Capogruppo socialista ha fatto anche un intervento critico in ordine agli undici progetti e ai 500 miliardi che non sarebbero spesi.
Mi sembra una pesante accusa alla Giunta; vorrei avere al riguardo alcuni chiarimenti e precisazioni che mi confortino invece che il nostro impegno nel proseguire nei programmi e negli obiettivi che ci siamo dati non sia un impegno soltanto di copertura. Diversamente si affaccerebbe anche l'ingovernabilità della governabilità. Questo sarebbe il colmo e finirebbe per vanificare quelle indicazioni che sono state alla base della formazione di questa maggioranza.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Bastianini.



BASTIANINI Attilio

E' giunto in aula un dibattito acceso, con fantasia di immagini e qualche ironia reciproca, da un lungo carteggio a mezzo stampa tra il Vicepresidente Sanlorenzo e il Capogruppo del PLI.
Le prime avvisaglie sono venute il 27 aprile; abbiamo continuato il 20 settembre; la risposta è del 23 settembre; poi il 2 ottobre; per finire il 14 ottobre.
Ma abbiamo fatto bene a fare questo perché questa polemica ha scaldato l'ambiente per un dibattito, che noi liberali giudichiamo particolarmente importante e chiaro perché pone le forze politiche a fronte con alcune delle principali scadenze del nostro impegno e perché a soli sette giorni da una pagina nera di questo Consiglio, accaduta in aula ma soprattutto fuori aula, consente di riportare questo Consiglio ad una sua dignità, non nella mediazione degli aggettivi e di scuse formali, ma nel confronto su un tema centrale alla vita della Regione.
E quanto questa assemblea sia capace, quanto impegnata su questi temi di rispondere bene, lo testimonia il tono alto che ha preso il dibattito con gli interventi di ieri e di oggi.
Per mettermi su questa linea, al di là delle convenienze di parte voglio fare due affermazioni di premessa molto chiare. La prima, che noi condividiamo nella quasi totalità le valutazioni (non sul governo regionale e sulla sua efficienza) del Presidente Enrietti, le sue considerazioni sulla materia oggetto della discussione di oggi, cioè i caratteri delle presenti difficoltà sul rapporto tra azione governativa ed azione regionale, sul giudizio positivo espresso dal Presidente Enrietti sull'azione del Governo in questa materia. Giudizio positivo che non pu essere inficiato da ritardi, difficoltà e inadempienze nell'attuazione pratica di alcune linee direttrici dell'azione di governo.
La seconda affermazione è che non condividiamo - prego di valutare la differenza del verbo usato, che non è casuale - ma che apprezziamo lo sforzo fatto dal Vicepresidente Sanlorenzo per una valutazione più complessa di una situazione complessa. Ci ha fatto piacere sentire il Consigliere Mignone rilevare, da parte della maggioranza, che nel taglio della relazione Sanlorenzo sono contenuti accenti diversi rispetto a quanto ad oggi era dato di interpretare attraverso le comunicazioni che giungono all'opinione pubblica per i canali della stampa.
E' cioè una posizione capace di dare meno l'impressione di una Regione contro tutti. Finora era emersa una linea di una Regione contro tutti assediata dalla perversità del sistema imprenditoriale, premuta dalle inadempienze e dalla scarsa lungimiranza dell'azione governativa, mentre oggi c'è un'articolazione maggiore di questo giudizio: una Regione che partecipa insieme alle componenti sociali e ad un Governo impegnato e responsabile a ricercare soluzioni difficili a problemi difficili, in un momento difficile.
Mi permetta Sanlorenzo una delle poche malignità che mi è scappata dalla penna. Questo suo porsi in modo diverso nel dibattito in aula rispetto alle valutazioni che altri esponenti della maggioranza hanno dato anche rispetto al tono della sua ultima intervista, mi fa ricordare un problema di "guardaroba".
Anni fa si usavano, più le donne che gli uomini, specie d'inverno cappotti e giacche a due colori. La mia mamma li chiamava "double face" con questo strano inglese tradotto in francese. Assicuro, Sanlorenzo, che la scelta dei colori è assolutamente casuale: rossi da un lato, quando si vuole essere vivaci e verdi dall'altro, quanto si vuole andare in tinta.
Lascio a Sanlorenzo trarre le conclusioni di questo excursus sulla moda degli anni '50, con un'ultima considerazione consolatoria: in politica, come nei vestiti, tutto torna di moda. Sono tornati di moda persino i liberali.
Questo riconoscimento, questo apprezzamento della relazione del Vicepresidente non possono far sottacere gli elementi di fondo di divisione che permangono sulle valutazioni della linea politica che la Giunta regionale tiene in questa materia e che sono state confermate, anche in quest'aula, negli interventi delle due parti politiche e in recenti iniziative del PCI, di cui abbiamo appreso sul giornale.
E' legittimo che questo sia.
Vedi, Sanlorenzo, non è patetico né strumentale rilevare delle divergenze di posizioni tra le due componenti della coalizione di governo in materia di tanta importanza.
Questa differente valutazione riguarda il giudizio complessivo sui problemi posti dalla crisi, che è mondiale e nazionale prima che regionale dalle indicazioni di fondo per uscire dalla crisi, dal giudizio sull'azione della Regione in questo settore specifico e in generale nello sviluppo delle iniziative di competenza regionale.
Sanlorenzo ha ricordato Ruffolo con una frase molto bella. Mi era sfuggita e lo ringrazio di questa segnalazione perché esprime in modo sintetico la situazione. La voglio ricordare:"Una politica di puro e semplice incremento della domanda, di tipo classico keynesiano, si scontra contro il muro dell'inflazione dilagante e, all'opposto, una politica di puro contenimento (monetaristica) si scontra con la crescita della disoccupazione, peraltro non elimina l'inflazione".
Vorrei aggiungere, per meglio motivare le conseguenze che intendo trarre da questo ragionamento, altri due elementi.
Il primo, che questa situazione, che caratterizza le crisi cicliche che le strutture capitalistiche incontrano nel loro progredire e nel loro sviluppo, in genere innescate da fatti traumatici che poi il sistema riassorbe, ma che nel momento in cui si manifestano producono uno sconquasso negli equilibri dei sistemi economici (in questo caso stiamo scontando le ultime code della crisi energetica, per molti versi oggi risolto quando soltanto pochi anni fa pareva irrisolvibile) si manifesta in due modi diversi. Le carenze delle capacità amministrative (ci lamentiamo della Regione Piemonte, ma siamo convinti che dovremmo più lamentarci di altre amministrazioni dello Stato) non consentono nemmeno di pensare ad una reale manovra keynesiana nel nostro Paese. Quindi, su questa strada, anche ove non ci fosse il problema di alimentare strutturalmente l'inflazione molta strada non potrebbe essere compiuta.
Seconda considerazione. Nel nostro sistema, nel corso degli anni, ben al di là delle risorse di cui il Paese poteva disporre e che ragionevolmente poteva pensare di disporre in futuro, abbiamo costruito un giusto sistema di ammortizzatori sociali. Però, ha svirilizzato il sistema.
Questo è un Paese dove ai lavoratori è impedito di essere disoccupati e agli imprenditori è impedito di fallire.
Devo dire con molta franchezza che un sistema capitalistico su questi presupposti non regge e che il sistema degli ammortizzatori sociali, così come li abbiamo costruiti, scarica due effetti perversi rispetto alla funzionalità del sistema: indebolisce la voglia di resistere da parte dell'impresa e dei lavoratori nelle situazioni di crisi. L'ha detto Sanlorenzo ieri che la cassa integrazione è uno strumento per la riconversione industriale, che però scarica i costi della situazione, in modo non chiaro, sul sistema nel suo complesso, perché assorbe risorse impedisce quelle accumulazioni finalizzate che sono necessarie a tutti i processi reali di trasformazione.
Non voglio che Sanlorenzo nella replica mi ridica le cosacce che mi ha scritto, cioè che io vivo nell'ideologia del sistema capitalistico. Non è così. Il sistema capitalistico lo apprezzo per tanti motivi, ma soprattutto perché ha la capacità al suo interno di inventarsi dei correttivi tali da garantire le condizioni funzionali di equilibrio tra le diverse esigenze di crescita e di sicurezza sociale che debbono essere garantite.
Chiarito questo aspetto, dobbiamo però insistere su una cosa, che io ho il coraggio di affermare, che i socialisti lo affermano, che ormai è patrimonio all'interno del Partito Socialista stesso, cioè una valutazione che non trovo nelle valutazioni di Sanlorenzo né più ancora nelle parole di Alasia.
Il giudizio positivo su questo sistema. E' un sistema che ha consentito una costruzione ed una distribuzione del benessere che non ha uguali, che nella crisi assicura ammortizzatori sociali.
Il motivo di fondo - e insisto con forza su questo tema di cui il Partito Comunista è parte, ma che deve avere il coraggio di riconoscere non solo nei fatti, ma anche nella teoria per concorrere meglio a trovare correttivi e modifiche di ordine generale e particolare - è che per i Paesi industriali che cosa c'è di alternativo a questo sistema che pure ha crisi cicliche e drammatiche? L'alternativa sono i modelli dell'est. Noi non ne conosciamo altre. Di terze vie, soprattutto in materia di sviluppo industriale, credo che non si diano. Modelli che alla fittizia piena occupazione accompagnano sempre, nei momenti di crisi come nei momenti di sviluppo, le code per comprare il pane e, quando va male, carri armati per le strade e fabbriche militarizzate.
Allora, io esalto questo sistema e ne vado orgoglioso. Noi abbiamo una sciocca tendenza a vergognarci dei risultati che abbiamo raggiunto. Questa mattina, prima di uscire di casa, ho invano cercato nella biblioteca un libro per un suggerimento di buona lettura che solitamente scambio con Sanlorenzo. Ce n'è un altro che è molto più scioccante del primo (di Deaglio). E' un libro che fa l'elogio delle contraddizioni del sistema della crisi del sistema capitalistico come unica occasione reale di vitalità e di cambiamento. Manderò in omaggio a Sanlorenzo questo libro.
Ritorno sul richiamo a questa riflessione sul cambiamento del capitalismo, che è presente nelle analisi di tante componenti della sinistra. Sono risuonate anche in quest'aula nelle parole di Viglione, di Mignone, nelle parole stesse del Partito Comunista il quale, indubbiamente oggi dà un giudizio diverso, ma che - mi sembra - non ha ancora afferrato la completezza e soprattutto il disegno strategico, cioè il fatto che questo cambiamento che è in atto deve portarci anche a sopportare con qualche virilità le difficoltà e le crisi che determinate componenti sociali possono incontrare in questa fase.
Chiarita questa differenza, che però non scopriamo oggi, dobbiamo lavorare per far funzionare meglio questo sistema: questo è il tema concreto sul quale ci dobbiamo esercitare.
Alasia Giovanni, che è preparato ed intelligente, ha dedicato la sua ultima parte dell'intervento proprio a riflettere sui modi per far funzionare meglio questo sistema. Afferma: siccome nel nostro Paese, come in tutti i Paesi industriali avanzati, oggi la vera integrazione pubblico privato non avviene né con la sostituzione del privato con il pubblico n con l'affiancamento del pubblico con il privato (il modello delle Partecipazioni Statali è originale nel nostro Paese, ma per certi versi ha dato dei risultati), ma avviene con il sostegno pubblico al privato nei processi di riorganizzazione, di ristrutturazione e riconversione, vi deve essere una forte coerenza ad un disegno programmatorio che parta dai piani di settore e vada ai piani di azienda con un rigoroso controllo pubblico degli aiuti, del loro reimpiego, dei risultati raggiunti, del collegamento degli effetti sociali immediatamente conseguibili. Non si può non chiedere ad un'azienda a cui si danno contributi di fare qualche sacrificio sul piano dell'occupazione. Questo è lo spirito dell'iniziativa comunista, lo abbiamo appreso dai giornali, cioè sollecitare attraverso petizioni il rientro, come da accordi, dei 300 primi all'interno della Fiat a fronte di un impegno e di un vantaggio che per la Fiat va ben oltre.
Il ragionamento di Alasia è sicuramente in buona fede, però è una trappola pericolosa.
Perché? Fa un'affermazione sulla quale non si può non essere d'accordo in via di principio, e soprattutto non si può non essere d'accordo in via particolare se si pensa alla carne di porco che in questo Paese si è fatto nel passato dei fondi, normalmente egemonizzati dai grandi Gruppi, dagli scandali dei potentati che intrecciano interessi economici a presenza politica.
Di nuovo qua le nostre strade si dividono. Vi è in questa impostazione un grande pericolo: ritenere che sia possibile ricondurre tutto ad una piramide programmatoria gerarchicamente organizzata, che è di fatto paralizzante.
Noi riteniamo che il mito dei piani di settore, al cui interno collocare i piani aziendali, rischi di essere una gabbia che ha dentro di sé due pericoli: un pericolo di illuminismo ed un pericolo di ideologismo.
Ed entrambi questi pericoli portano di fatto a contraddire il pluralismo di una società, quella a cui faceva cenno Viglione, che proprio dalla conflittualità, dagli errori, dalle contraddizioni, dagli sprechi trova le ragioni della sua tenuta, del suo cambiamento, del suo sviluppo.
Sul piano generale fermiamoci su un altro problema che investe la responsabilità delle forze politiche a fronte della crisi specifica del Piemonte.
Il Paese ha il "caso Piemonte", è una buona etichetta pubblicitaria forte, perché il prodotto che si vende è buono (dicono i pubblicitari che un buon marketing se non è su p portato da un prodotto adeguato non regge...



MONTEFALCHESI Corrado

Come quelli della Venchi Unica.



BASTIANINI Attilio

Ti rispondo subito. Sono dicci anni che non mangiamo più un cioccolatino Talmone ed abbiamo ancora degli occupati Talmone in cassa integrazione! Io ritengo che questa sia una delle distorsioni del sistema.
Mi hai offerto lo spazio per una bella battuta, che non ho inventato ma avevo scritto.
C'è questa situazione di difficoltà del Pie monte, ma il Paese incontra ben altre difficoltà: la chimica di base, l'acciaio, la cantieristica.
Crisi di fatto irreversibili, ma non perché ci sia una particolare incapacità dei dirigenti di queste aziende ad affrontarle e a risolverle ma perché è caduta la domanda mondiale di queste materie. L'industria del mondo non cammina più sulle gambe della chimica di base, della cantieristica, dell'acciaio. Sono modificate le condizioni generali e particolari del capitalismo.
Proviamo insieme a fare un'ipotesi di forte provocazione paradossale proprio per capire le difficoltà a cui le forze politiche e le parti sociali sono chiamate nell'affrontare in un momento di crisi il passaggio da una situazione ad un'altra. La ristrutturazione di Bagnoli costerà - si dice - almeno 900 miliardi per rimettere in modo una produzione su basi forse competitive, in un settore dove il sovradimensiona mento della produzione mondiale non dà alcuna speranza.
Supponiamo che, in una logica coerente, fosse possibile buttare 900 miliardi in un paio d'anni nel sostegno della piccola e media impresa piemontese, per ammodernamenti tecnologici, per promozioni, per ricapitalizzazioni che consentano alle aziende di uscire dalla spirale degli oneri finanziari. Credo che non solo l'economia del Piemonte, ma l'economia nazionale avrebbe maggiori vantaggi dall'uso di queste risorse in quella direzione piuttosto che non nel recupero di impianti in settori che il tasso dell'economia mondiale destina irreversibilmente al tramonto.
Ma, quando ci troviamo di fronte a comportamenti delle parti sindacali e di alcune forze politiche, che non solo non afferrano la sostanziale inutilità di questo investimento di riconversione, ma negano anche l'esigenza di fermare uno stabilimento per renderlo tecnologicamente capace di affrontare i temi della concorrenza nel settore, credo che poche speranze vi siano per un reale cambiamento di indirizzo, per una politica industriale che segni il passo diverso di una società che tiene le distanze con i Paesi concorrenti sulla materia delle attività produttive.
Vedete, ho voluto prendere un esempio paradossale perché si spende bene, ma ritorno a fatti più locali.
Certo, Sanlorenzo, quando facevo cenno agli interventi assistenziali non facevo cenno alla politica regionale né alle condizioni dell'apparato produttivo piemontese che, anzi, ho detto essere totalmente, persino eccessivamente, squilibrato verso versanti senza protezione di nessun genere, ma mi riferivo ad una coerenza di carattere generale, cioè, nel chiedere al Governo politiche diverse di sostegno all'industria, dobbiamo anche avere il coraggio di dire che non sono tutte compatibili tra di loro e che occorre selezionare obiettivi, strategie, campi di intervento per riuscire a conseguire reali risultati.
Ecco l'invito a verificare quale fosse realmente la posizione di alcune forze politiche e delle forze sociali su questo tema. C'è l'esigenza di un confronto che faccia chiarezza per cui non si sappia che una parte politica non può chiedere a Torino una cosa, a Napoli un'altra, a Taranto una terza a Marghera una quarta, in Sardegna una quinta.
Bisogna mettere mano ad una politica complessivamente diversa.
I dati della crisi ce li siamo scambiati per interposta stampa più volte. Ognuno ha tirato l'acqua al suo mulino. Ma noi ribadiamo la nostra valutazione. Cioè che non tutta l'economia è industria, che non tutta l'industria è in crisi, che anche nei settori in cui la crisi è più forte non tutte le aziende vanno male.
Questo taglio c'è in una parte della relazione di Sanlorenzo, ma non c'è nelle sue dichiarazioni esterne, come anche non c'è quella valutazione più complessa dei rapporti con il Governo, se è vero che Sanlorenzo scrive (e qui non si tratta di cercare differenziazioni tra comunisti e socialisti nel leggere questa frase): "No, la crisi c'è, è grave, è nuova e l'ostacolo per uscirne non è il governo regionale piemontese, ma la politica che finora ha prodotto inflazione e disoccupazione e che è portata avanti non dalla Giunta di sinistra, ma dal Governo nazionale".
E vado a pescarla questa frase in cui Sanlorenzo fa la differenziazione ed è in un altro inciso dell'intervista in cui dice: "E qui parlo da comunista e non da Presidente della Giunta". E sottolineerò in rosso l'inciso in cui fa questa differenziazione.
Con la stessa franchezza, ma anche con la stessa attenzione al suo lavoro, dico che gli errori, che sono di aritmetica e non di matematica trattandosi di semplici somme e sottrazioni, non li ho fatti io, ma li ha fatti Sanlorenzo perché i dati ISTAT dimostrano come dal 1981 al 1982 la disoccupazione nella nostra Regione si sia modificata per 14 mila unità e non per 32 mila e che se poi guardiamo all'interno dei dati ci accorgiamo che questo dato è principalmente legato alla caduta occupazionale agricola che non è legata a fatti contingenti di crisi, ma ad un andamento generale sul settore.



SANLORENZO Dino, Vicepresidente della Giunta regionale

E' il terziario.



BASTIANINI Attilio

E' il terziario su cui c'é molto da riflettere. Il terziario rileva come l'occupazione industriale, che è il settore di cui tutti si parla male, su cui più nessuno scommette, che è così in crisi da farne quasi un dramma sociale, è cresciuto di 19.000 unità.
Nessuno di noi sottovaluta la gravità della situazione, ma che proprio nel contrasto tra il recupero di occupati complessivi nell'industria e la permanente situazione di crisi in alcuni settori, dà la misura della contingenza, della possibilità di superamento attraverso una politica finalizzata in attesa di una più generale ripresa del sistema economico.
Abbiamo richiesto l'elenco nominativo delle imprese in cassa integrazione (i famosi 60.000).
Farei una piccola battuta, e non vorrei suscitare incidenti. C'è una tendenza "a dare i numeri". Qui si va avanti per progetti: 84, 11, 109 aziende, 60.000, 30.000 posti di lavoro...
Io dico con molta pacatezza che questi dati li voglio controllare. Ci viene un forte dubbio, confermato da una frase, cioè che sono tolte le aziende che nei sei mesi precedenti hanno rinunciato alla cassa integrazione. Non vorrei che questo fosse un gioco di progressivo accumulo.
Probabilmente è dovuto al fatto che tecnicamente è difficile fare diversamente, ma, ancora una volta, il dato nella sua brutalità dà di una situazione grave un'impressione drammatizzante e non invece un'impressione oggettivamente più serena.
Concludo con un paio di considerazioni.
Si dice che sono salvati 30 mila posti di lavoro.
Non è vero! Non è la Regione che ha salvato i 30 mila posti di lavoro.
E' il sistema nel suo complesso, sistema di cui la Regione è parte e non solo perché copre sedie e tavoli, ma perché consente di mettere in piedi le condizioni di salvataggio, che sono insite nel fatto che le aziende sono ancora sane.
Su questa strada si mette in moto un meccanismo perverso, un meccanismo quasi teatrale. Fa comodo ai sindacati far credere che senza i cortesi le aziende non si salvano, fa comodo alle aziende drammatizzare la loro situazione per spuntare tutto quello che si può spuntare sul piano del credito, specie se agevolato, fa comodo agli Assessori dare al proprio ruolo una funzione miracolistica che giustifichi meglio il nome che portano.
Comunque, Sanlorenzo si rassicuri perché su questo vi è il pieno appoggio dei liberali. Noi non lo critichiamo perché convoca le aziende, al massimo critichiamo il tono dei comunicati stampa.
Quella scrivania che mi ha più volte offerto, prima me l'ha offerta in coabitazione, poi me l'ha offerta per una settimana. Ma io mi auguro presto che me la offra per un tempo più lungo.
Anche un liberale sarebbe ugualmente impegnato ad affrontare e risolvere questi problemi aziendali. Ma un liberale non si dimenticherebbe mai di ricordare due cose: salvare i posti di lavoro esistenti è importante, ma ripristinare le condizioni di funzionamento del sistema economico è più importante; quindi, un liberale desidererebbe che la Regione esprima, o esprimesse, una forte posizione per convincere le parti sociali, per aiutare il Governo a creare le condizioni su tre versanti: la riduzione del deficit pubblico che alimenta in modo diretto ed indiretto il problema delle banche, una reale mobilità sui posti di lavoro, su un più libero mercato del lavoro, in ordine alle norme sul collocamento e su tante altre questioni che ci siamo detti altre volte.
Queste cose nelle parole della Giunta non suonano mai.
Rimane da fare cenno all'azione regionale nel settore e su temi generali.
Come avevo iniziato in modo distensivo, mi preparo a chiudere con qualche atto di attenzione. In primo luogo ritengo che nel settore specifico la Giunta e il Vicepresidente operino meglio di quanto appaia che il lavoro di fondo nei casi particolari sia apprezzabile.
Non lo neghiamo, indipendentemente dalle valutazioni politiche complessive, ma riteniamo che sia criticabile, non per fatti estetici, ma per le conseguenze che può provocare, la proiezione esterna di questo lavoro, indebolita dalla tendenza alla sopravvalutazione del ruolo della Regione e del responsabile, indebolita da qualche velleitarismo che ci porta a creare condizioni di illusione nei casi in cui non vi è possibilità reale di azione da un protagonismo di fatto inutile rispetto alla complessità dei problemi.
Non è questo il dibattito per riaprire il confronto tra maggioranza ed opposizione sui temi complessivi dell'azione regionale, per esempio, la politica della spesa. Non è né giusto né opportuno utilizzare strumentalmente i ritardi della spesa. Ne ha parlato il Capogruppo socialista ed io voglio fare un'altra riflessione.
Si parla molto degli 84 progetti. Noi proponiamo, proprio per collegare meglio l'azione della Regione nel settore dell'economia piemontese ai problemi specifici dell'occupazione, che si faccia presto un dibattito punto per punto, progetto per progetto, per verificare che cosa di questi progetti è stato fatto e che cosa è rimasto.
Grazie.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Revelli.



REVELLI Francesco

Devo dire, intervenendo a nome del mio Gruppo, che ho apprezzato moltissimo il dibattito che si è svolto sino ad ora e che, appartenendo ad un partito che non presume di avere tutte le verità in tasca, non solo il mio partito ritiene di doversi confrontare con quanto ha detto la Giunta ma apprezza il contenuto delle due relazioni qui presente pienamente concorde con i progetti esecutivi che quelle relazioni offrono. Devo anche sottolineare che il dibattito e il dialogo su temi che non sono sempre così sfuggenti e generali hanno un grande interesse non solo per cambiare il clima, ma anche perché sono cultura e confronto che oggi, chi non ha tutte le verità in tasca, sente il dovere di perseguire e di incrementare.
Non credo che si possa chiedere a noi comunisti (perché essenzialmente a noi in quanto componente PCI della maggioranza più che all'Assessore Sanlorenzo sono state rivolte le critiche di questi giorni) un'autocritica rispetto all'analisi della crisi.
E' fuori segno - come giustamente ha ricordato ieri il compagno Alasia l'averci accusato di "catastrofismo", di non saper cogliere "i dinamismi interni ai sistemi capitalistici".
Preferirei parlare di sistemi capitalistici, anche perché sono un lettore attento, non da oggi, di Deaglio.
Non ci pare di essere né di essere stati catastrofisti segnalando - e lo facciamo da anni - l'esistenza di una crisi strutturale, dovuta ad un intrecciarsi molto complesso di fattori internazionali ed interni. Se questa realtà si fa strada, oggi, per la forza stessa delle cose è proprio perché essa ha una base materiale concreta, non è frutto di supposizioni n di propaganda.
Sotto questo profilo voglio sottolineare due fatti di interesse per la vita politica del nostro Paese.
Il primo concerne la constatazione che da versanti opposti si conviene in modo sempre più generalizzato sulla realtà della crisi, su alcuni dati oggettivi.
Il secondo, significativo, è che sulla base di alcuni fondamenti comuni di analisi - che sono patrimonio di un vasto arco di forze della sinistra occidentale, dei Paesi dell'Europa si riprenda il dialogo tra le forze che hanno caratterizzato lo schieramento riformatore nel nostro Paese; tra le forze della sinistra ed in primo luogo tra PCI e PSI.
E' altrettanto certo che nuovi impegni e tensioni riformatori provengono anche da quelle culture, dell'area laica, e da movimenti cattolici che animano tanta parte della vita sociale organizzata del Paese e della nostra Regione e che hanno influenza per idee, presenza, cultura appunto, sulla vita politica.
Il nostro atteggiamento, di comunisti, è dunque quello di essere attenti, aperti al confronto, a quella ricerca comune di cui parlava Sanlorenzo nella sua introduzione, alla discussione proposta da queste forze intorno ai temi della crisi e sulle politiche necessarie a breve e nel medio periodo per uscirne.
Sono in gioco, con questo confronto, i "valori", le premesse necessarie per ogni rilancio possibile dello sviluppo economico.
Non ci stupisce - consideriamo anzi più che legittima - a questo proposito la polemica sui Paesi dell'est. E' fuori bersaglio se la si assume in modo propagandistico, sul terreno ideologico con un manicheismo che non aiuta a capire la parte importante che hanno anche questi Paesi nella crisi economica internazionale.
D'altro canto questa realtà dell'est non la si può liquidare con pochi giudizi per il fatto stesso che esiste, che quei Paesi sono, ripeto, una componente importante del processo di crisi internazionale in atto, dei drammi e delle tragedie che caratterizzano questa crisi. Ma di questo avremo occasione di parlare ancora...
Ciò che voglio sottolineare rapidamente è un altro fatto. Si richiamano quei Paesi e li si connettono ad un'accusa di catastrofismo perché si intenda che la polemica nei nostri confronti è sottilmente ideologica. E' la polemica sulle colpe che deriverebbero per i nostri atteggiamenti di comunisti dalle colpe che deriverebbero dai nostri - e non solo nostri antichi maestri. In soldoni significa questo: voi comunisti siete tanto bravi quando si tratta, soprattutto in Italia, di ridistribuire, di dare una mano alla giustizia sociale, ai momenti sociali, fedeli alla democrazia, ma avete ancora Marx tra i piedi, idee vecchie e superate, ecc.
E rispondo con le parole di Tortorella.
Noi rispondiamo con chiarezza - come facciamo da anni - che non è da quegli antichi maestri che si può chiedere l'interpretazione di un presente che non hanno vissuto. Non possiamo dunque caricare sulle loro spalle pigrizie o errori della sinistra ed anche nostri.
Se questo è vero - quasi ovvio - nessuno è però dispensato dal ricordare e dal fare i conti con il contributo che i comunisti italiani hanno dato alla storia, alla cultura ed alla democrazia di questo nostro Paese.
Ribadire questa realtà concreta del PCI in Italia ed in Europa non significa in alcun modo rifiutare un continuo ripensamento critico.
Ripensamento che abbiamo fatto più di ogni altra forza politica italiana rispetto alla realtà in cui viviamo - sino a divenire qualche volta inutilmente ripetitivo - ma utile per continuare con decisione nel rinnovamento e nell'avanzamento delle conoscenze della realtà nella quale viviamo ed operiamo.
E si sintetizza in una frase di questo genere: i dogmi perdono, la democrazia vince. Si è spesso parlato - e credo in modo approfondito - in recenti dibattiti dello stretto rapporto tra crisi economica internazionale e crisi italiana. Non è il caso di riprendere qui quei temi se non per dire che non è sufficiente però richiamarsi alla crisi internazionale come ad un fatto "oggettivo" ed "asettico" con il quale non si può nulla e che dispensa non solo dal capire ma anche dall'intervenire.
Se così fosse non avvertiremmo il "dinamismo interno al sistema capitalistico" - come lo definirebbe Bastianini - che ci dà pure qualche indicazione. Prevarrebbe una lettura della crisi "come inceppo del meccanismo economico capitalistico con la conseguenza di adottare parametri ed indicatori non adeguati".
Voglio solo ricordare che - a torto o a ragione - nel Paese più forte e sviluppato del mondo, gli U.S.A., su questo terreno si sta riflettendo in modo interessante sui grandi processi di ristrutturazione economica e politica che caratterizzano l'attuale crisi internazionale. Si riflette sulla crisi "politica" della relazione tra gli Stati, tra le aree di influenza dei blocchi, tra le aree dello sviluppo capitalistico e tra queste e i Paesi del Terzo Mondo e si individua nella crisi di questi rapporti una delle cause profonde della crisi più generale.
Quando venne eletto Reagan alla Presidenza degli U.S.A. si capì che oltre a cambiare Presidente la maggioranza degli elettori americani - e le loro decisioni hanno avuto un riflesso immenso sul resto dell'Occidente avevano dato la loro interpretazione della crisi, dell'accelerazione dell'inflazione che aveva caratterizzato la vita economica degli U.S.A. e del mondo occidentale negli anni '70.
Sul piano teorico, interpretativo lasciamo agli economisti ed agli studiosi dire se hanno contato di più i grandi shock petroliferi, i provvedimenti assunti da Nixon sul dollaro, la scarsità di beni a livello mondiale e il boom speculativo degli anni tra il '73 ed il '75, ecc.
Ciò che interessa capire è il fatto che Reagan, iniziando una nuova politica, sancì ciò che nell'opinione pubblica americana si era radicato: e cioè che le colpe di tutti i guai fossero dovuti alle politiche seguite negli ultimi 40-30 anni. Giusto o sbagliato che sia alla rivoluzione keynesiana vengono rimproverati i fenomeni di stagflazione che hanno caratterizzato gli anni '70, gli alti tassi di disoccupazione, di inflazione e dell'interesse, il rallentamento della crescita produttiva e della formazione del capitale (Tobin).
Quale rimedio se il keynesismo, l'ortodossia intoccabile dagli anni '60 non funziona più? Occorre rimpiazzarla con un'altra teoria politica ed economica. Quale? Niente di meglio che andare a ripescare quelle teorie che il keynesismo 40 anni prima ha scalzato perché ritenute responsabili della grande crisi degli anni '30.
Questa operazione non è stata un'operazione pura e semplice sul piano interno degli U.S.A., e limitata se mai così può essere al terreno economico. "Proprio come la teoria keynesiana ispirò la 'rivoluzione' degli anni dopo la grande crisi, così il 'monetarismo' il 'neo-liberismo' ripescato è alla base di un'operazione che si configura come operazione politica, economica, sociale e che segna il mondo, come una controrivoluzione. Dietro questa impostazione non c'è solo una teoria economica, ci sono una visione del mondo, della politica, dei rapporti est ovest, nord-sud. Ed anche le questioni strettamente economiche si espandono come 'ideologia', modo di intendere i rapporti sociali, lettura dei conflitti all'interno della democrazia, delle regole del gioco nel momento stesso in cui è in corso da tempo nell'occidente una profonda ristrutturazione industriale, delle aree di influenza commerciali, ecc.
Questa linea si è trasformata in una vera e propria offensiva "ideologica" che attraversa gli stati, le classi. Una corrente di opinione "invade come un'alta marea i mezzi popolari di informazione, la retorica politica, i parlamenti, ecc." (Tobin).
Alla fine del 1981, pur in presenza dei guai nuovi e seri provocati dalle politiche di Reagan e dalla signora Thatcher nei rispettivi Paesi con i contraccolpi che queste politiche hanno già avuto nella relazione tra gli stati, tra il nord ed il sud, ecc. Il Financial Times scriveva commentando un'indagine sull'economia europea e in particolare del MEC che "l'Europa attraversa una fase difficile di assestamento ai nuovi dati economici, i due principali problemi delle economie europee sono il livello dei salari e la loro indicizzazione ed il fatto che le autorità dei diversi Stati hanno lasciato progredire le spese sociali al di là del limite".
Nessuno nega questi problemi - ci tornerò tra un momento - ma è chiaro da questa impostazione a cosa mira l'attuale politica "neo-liberista'" questa ventata "rinnovatrice": mira a risolvere in un conflitto di classe acuto le diverse dislocazioni delle forze, del potere sociale e politico maturato con lo stato sociale nei vari Paesi europei ed anche nel nostro.
Infatti la "crisi" che stiamo attraversando significa anche crisi dei rapporti tra politica ed economia, crisi dello stato sociale così come si è determinato nei vari Paesi dell'occidente in questi 30 anni ed a suo modo anche in Italia.
Questo modello di stato, di rapporti tra economia e società, tipico delle socialdemocrazie occidentali, anche là dove si è realizzato nella forma più pura, era entrato in crisi.
Molti esponenti socialdemocratici parlano di "superamento dello stato sociale, di andare oltre lo stato sociale".
Molti pensano che la Reaganomics sia l'occasione per tornare indietro per rimettere le cose al loro posto per sconfiggere lo stato sociale in crisi.
Nel caso italiano ci sono peculiarità nostre. L'alta inflazione italiana non è solo conseguenza dell'inflazione mondiale.
Ma ciò che va subito detto è che l'inflazione non può essere descritta ed interpretata con singoli parametri. L'inflazione - nel nostro Paese come ovunque - è l'indicatore economico della crisi, di una crisi più complessiva politica e sociale.
La nostra inflazione va messa in relazione con i meccanismi storici che nel nostro Paese determinano i ritmi di accumulazione, con i modi concreti attraverso i quali la distribuzione del reddito è determinata dai rapporti di produzione, dai rapporti tra società e Stato.
Se l'inflazione è dunque l'indicatore economico della crisi dei rapporti tra economia e politica, la crisi morale, o meglio la questione morale, riassume la gravità della crisi politica; come fattore strutturale denuncia il limite del metodo con cui si aggrega il consenso e la cultura del potere dominante e quindi la separazione crescente tra Stato e società.
C'é chi oggi vorrebbe dimostrarci che l'economia è una macchina, che occorre cambiare qualche pezzo e che non si capisce perché certe forze lo impediscono o rendono tutto difficile.
L'economia è una macchina ma bisogna sapere che i pezzi sono "la gente".
Siamo d'accordo anche noi. Guardate che progresso abbiamo fatto! L'economia è una macchina, ma bisogna che i pezzi siano la gente. E mi dovete dire quali pezzi cambiamo. Bastianini l'ha detto chiaramente. Io non posso essere d'accordo.
Una politica di tenuta e di ripresa dello sviluppo passa attraverso la soluzione del problema inflazione a patto che non lo si consideri un problema a sé stante: contro il quale è possibile combattere senza tener conto della "gente" o tenendo conto solo di qualcuno.
La "virilità" - caro Bastianini - deve esserci, a patto che non sia sempre con gli attributi degli altri. Questo è anche il senso politico di certe rivincite.
Che cos'è quella dichiarazione di Pininfarina quando dice: "Il problema ormai è quello di tornare ad essere classe dirigente"? Siamo noi i dirigenti. Non c'è il problema dell'impresa, ma c'é il mercato come morale.
Negli Stati Uniti ed altrove la gente va contro Reagan perché il mercato non è più la sede di ogni scambio, anche morale, anche della qualità dei valori. Non è detto che le classi riproducono una nomenclatura dei partiti e viceversa.
Così teorizza Marchini - lo sentivo ieri mattina in altra occasione - e può anche avere ragione, ma non è vero. Dice: "Il Partito Comunista è il partito degli operai, gli operai non ci sono più, il PCI non c'è più. Se fa qualcosa per esserci ancora, diamogli una botta e lo togliamo di mezzo".
No. La tenuta, magari non la crescita, dimostra che c'é una questione comunista e non è né una questione dell'EST, né una questione di Carlo Marx, né di Lenin, ma è una questione di questi dannati problemi che abbiamo di fronte.
Cosa è avvenuto in questi anni: illusione di risolvere i problemi con una politica restrittiva delle retribuzioni e delle prestazioni sociali (condizione per liberare le istituzioni statali dai vincoli della politica sociale) per liberare il profitto dai vincoli del prelievo pubblico e da quelli della programmazione.
E' una linea questa che ha sostenitori, pur in forme e con accenti diversi in altre componenti importanti della vita politica e sociale italiana (forze politiche - D.C. e relazioni con gran parte della Confindustria).
La Reaganomics si intreccia con l'assistenzialismo ed il clientelismo propri della D.C. E' una miscela esplosiva spaventosa che aggrava il deficit pubblico.
Questa miscela è un ulteriore elemento pericoloso del processo inflazione-recessione in cui stiamo precipitando e che evidenzia la crisi politica morale.
Questa vorrebbe essere la risposta al Consigliere Borando. Perché ci sono i BOT? Lo Stato ha bisogno di liquidità per fare tutte quelle cose che in qualche misura sono imposte con il controllo sociale e con il bilanciamento della ridistribuzione del potere e delle varie categorie, ma anche per farne altri. Poi ci deve essere un margine per stare al governo e per avere i voti; ci deve pur essere un margine per vincere le elezioni a Bari ed altrove; e questo spiega anche una certa cultura del potere facilmente adottata dal Partito Socialista. Posso anche concordare che ce n'è una parte per noi in Emilia, ma questo da sempre.
Rimini ci divide dal Partito Socialista, ma non perché il Partito Socialista abbia detto delle cose non dignitose, non interessanti. Il PSI si è posto il problema di affrontare la crisi dello Stato sociale e, stando alle valutazioni delle questioni internazionali, è partito da un dato realista: "Non ce la facciamo, non contiamo niente, neanche in Europa dove stiamo a discutere di qualche barile in meno o in più di latte o di qualche quintale in più o in meno di burro, e dove stiamo perdendo la terza rivoluzione industriale. Il nostro Paese deve quindi moderare l'ipotesi moderata di uscita dalla crisi".
E' in fondo la teorizzazione della società dei meritevoli e dei bisognosi: "leghiamoci alla parte più dinamica della società e diciamo comunque che vi è una parte di bisognosi che non sono esclusi come protagonisti della vita sociale, ma sono esclusi dall'essere protagonisti dello sviluppo. Non sono esclusi dai benefici di erogazione assistenziale necessari in questa fase".
Quindi due ruoli, quello per le imprese private di lasciar fare, pur nell'ambito delle leggi, e quello per le imprese di Stato: non più le Partecipazioni Statali, ma un cambio di ceto politico-economico che sul piano istituzionale porta ad un rafforzamento dello Stato centrale direttamente come imprenditore (dove può).
Questo è il tentativo che sta facendo De Michelis.
Su questo noi abbiamo delle grandi riserve.
I tempi passano. Non sono le riprese o le ripresine che aggiustano le questioni. Ci sono invece questioni di fondo da affrontare. Hanno ragione di dire certi economisti: i liberali e i comunisti sono degli appassionati della società italiana. E in qualche misura anche la D.C.
Nella seconda metà degli anni '70 l'industria italiana ha prodotto un notevole sforzo di adattamento, soprattutto da parte delle imprese di minori dimensioni, alle profonde modifiche intervenute in ordine all'evoluzione ed alla struttura della domanda, alla disponibilità e ai costi relativi dei fattori produttivi, alle caratteristiche ed al funzionamento dei mercati finanziari.
Sussistono tuttavia gravi incertezze sulla durata del miglioramento e sulla sua capacità di fronteggiare le nuove sfide dell'evoluzione economica internazionale, tenuto conto soprattutto: dell'evoluzione dell'interscambio con l'estero; dell'evoluzione della ricerca applicata; dell'andamento dei conti economici e finanziari delle imprese e dell'accumulazione di capitale.
L'interscambio con l'estero di manufatti indica che l'attivo dell'Italia è aumentato da 5 miliardi di dollari nel 1973 a 19 miliardi nel 1981.
Tale miglioramento, che non è stato sufficiente a compensare il peggioramento del disavanzo petrolifero (salito tra il 1973 ed il 1981 da 1,6 a 20,4 miliardi di dollari) e che si è accompagnato ad un consistente passivo della bilancia delle partite correnti (chiusa nel 1981 con un disavanzo di 8,1 miliardi di dollari a fronte di un disavanzo di 2,5 miliardi nel 1973), è stato conseguito soprattutto con l'aumento della quota di mercato delle esportazioni, salita tra il 1973 ed il 1981 dal 6,1 al 7,1%.
L'accresciuta penetrazione sui mercati internazionali è tuttavia avvenuta soprattutto grazie ai risultati conseguiti in diversi dei settori cosiddetti maturi, caratterizzati da un elevato numero di imprese di piccole e medie dimensioni che hanno saputo adattarsi ai mutamenti qualitativi e geografici della domanda, facendo registrare significativi saldi attivi, in particolare, nei settori tessili, abbigliamento arredamento, pelli e cuoio ed "altri prodotti manifatturieri".
L'incidenza sul totale delle esportazioni dei settori a bassa tecnologia sale, tra il 1970 ed il 1980, dal 38,5 al 44%, a fronte di una contrattazione dal 50 al 44,5%della quota dei prodotti a tecnologia intermedia. Nel medesimo periodo, la quota dei prodotti ad elevato contenuto tecnologico (essenzialmente: calcolatori, aerei, chimica organica, farmaceutica, materia plastiche, strumenti scientifici e di controllo, reattori nucleari, valvole e circuiti elettronici, apparecchi per telecomunicazioni, strumenti foto-cinematografici e fibre sintetiche) rimane immutata sul modesto livello del 1970: 11,5% (dati Banca d'Italia).
Ciò denota un andamento controcorrente della specializzazione produttiva del Paese che deve far capire alla sinistra, ai compagni socialisti in primo luogo e ai compagni comunisti, ma anche a voi, che tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare e che soprattutto non si pu disegnare un'Italia che non c'è, anche se lo vorremmo.
Magari ci fosse l'Italia della tecnologia avanzata, magari ci fosse la tecnologia diversa delle imprese. Il fatto è che ci sono delle quote dell'industria strategica nel Mezzogiorno e bisogna incominciare a vedere quali quote abbiamo all'interno del mercato europeo. Bagnoli mi sta bene ma voglio sapere se sta alle regole del gioco, se "superior stabat lupus inferior agnus".
Non si chiude il mercato in questo modo negli Stati Uniti, non si chiudono le importazioni e le contingentazioni in questo modo.
Se lo scambio è politico e conviene, perché la D.C. resta al potere in Italia, allora chiudiamo la siderurgia. Questo è incontestabile sia nella relazione di Davignon sia in quella degli americani.
Questo andamento è confermato dall'evoluzione delle spese per ricerca e sviluppo.
L'incidenza di tali spese sul prodotto interno lordo, in leggera crescita fino agli inizi degli anni '70, si è successivamente attestata sui modesti livelli raggiunti all'inizio del decennio, pari allo 0,9% e pertanto largamente inferiore alla quota di reddito impiegata in ricerca e sviluppo dagli altri Paesi più industrializzati (1979: U.S.A. = 2,41 Germania R.F. = 2,27%; Giappone = 2,04%; Francia = 1,79% con impegni programmatici di incremento).
Benché tali indicatori debbano essere assunti con cautela nel misurare il reale sforzo innovativo delle imprese, è significativo che il nostro Paese è rimasto indietro rispetto al più generale processo di ripresa dei tassi di crescita reali delle spese di ricerca e sviluppo, verificatosi a partire dal 1977 negli altri Paesi più industrializzati (dati OCSE).
Conferma significativa dell'evoluzione del nostro sistema produttivo risulta inoltre: dall'andamento degli investimenti produttivi negativamente condizionati nel loro ammontare complessivo dalle modeste prospettive di sviluppo e prevalentemente orientati a razionalizzazioni dell'apparato produttivo; dall'andamento a forbice, in ordine ai risultati di gestione, rilevata tra "imprese flessibili" (per lo più di piccole e medie dimensioni e diffuse largamente nei settori cosiddetti maturi) ed imprese "rigide" (per lo più pubbliche e di grandi dimensioni, operanti nei settori a maggiore intensità di capitale) che hanno evidenziato, pur dopo la fase recessiva seguita alla crisi petrolifera, significative perdite di gestione sul fatturato, dovute sia a livello inadeguato del margine operativo lordo, sia all'incidenza degli oneri finanziari (valutazioni Banca d'Italia).
I rischi insiti nell'evoluzione del nostro sistema produttivo considerato sotto il profilo della sua capacità innovativa, sono inoltre evidenziati, per unanime riconoscimento, dal grado di capitalizzazione modesto del sistema delle imprese. A fine 1980 i mezzi propri costituivano mediamente il 15,5% del passivo (13% delle imprese pubbliche e 18% nelle private) soprattutto in conseguenza della flessione dell'autofinanziamento che, pari al 59% della formazione lorda di capitale nel periodo 1963-1968 è sceso al 51°i nel quinquennio successivo e al 47% nel periodo 1974-1979 (rilevazioni Banca d'Italia).
Più volte sin dall'inizio del centro-sinistra i compagni socialisti hanno fatto un'osservazione: che cos'è la Borsa italiana, che cos'è la fiducia che si può avere nello Stato.
Ne deriva un fatto chiaro, che compare nelle proposte della Giunta: essere per l'innovazione e cercare un minimo spazio nazionale per la ripresa.
Il costo del lavoro non è solo problema di salari, ma è un problema che si affronta con fiducia e chiarezza se c'è fiducia e chiarezza da parte dello schieramento politico che regge questo Governo.
Se ci poniamo il problema dell'accumulazione partendo dalla necessità di ridurre il reddito dei lavoratori facciamo gravi passi indietro.
Riduciamo una questione politica al "privato". Come e per quale via una spesa pubblica, che è pari per valore alla metà del PIL. può e deve intervenire sul processo di accumulazione per ristrutturare, riqualificare e potenziare la base produttiva? Quali ceti sociali, quali parti territoriali nel nostro Paese e all'interno della nostra Regione pagano? In che modo vanno ricompensati i ceti che hanno pagato? Non dimentichiamo che nei pregi del monetarismo ce n'è uno fondamentale che è quello di non occuparsi di queste questioni, che è quello di non porsi mai il problema di combattere l'inflazione con il metodo classico dell'aumento della pressione fiscale, della diminuzione quantitativa della spesa pubblica e della sua rifinalizzazione secondo rigore e giustizia.
Su questo Mignone non è d'accordo. Ci saranno le elezioni e chi vuole perdere voti? Il Partito Socialista? La D.C.? Perché si deve andare a dire a quelli della Fiat che guadagnano 650 mila lire che devono pagare? Se si vuole recuperare una presenza autorevole dell'Italia in una possibile e necessaria politica europea, se vogliamo affrontare i problemi della crisi dello stato sociale, individuiamo intanto i margini nazionali per limitati che siano, per la ripresa e il rilancio dello sviluppo.
Questo problema pone subito due questioni che riprendeva questa mattina Andriani sull'articolo di fondo dell'"Unità": "Occorre adottare una politica di bilancio che governi l'economia che produca investimenti che ammodernino l'apparato produttivo e che diminuisca le strozzature più gravi e strutturali del processo di accumulazione, secondo rigore e giustizia.
Non accettiamo nessuna lezione di rigore e di giustizia dopo l'esperienza dell'Unità nazionale: proposta l'austerità, canea infame contro il Partito Comunista. Ed era la linea giusta per lo sviluppo".
Non accettiamo accuse di democrazia associativa quando oggi si propone questo, in gran parte anche con Rimini, da parte di coloro che ieri hanno fatto di tutto per far saltare quello che sembrava il patto nazionale della democrazia consociativa.
Ci vuole solidarietà di governo nel conflitto sociale e il risvolto di questa politica significa possibilità di intervenire nel mercato del lavoro. Fosse anche utopia, questa Giunta deve continuare a sostenere le sue proposte perché il Governo ed il Parlamento ci meditino.
E' una strada coraggiosa che si intraprende. Non accettiamo la mobilità selvaggia degli Stati Uniti. Ci scontriamo, ci opponiamo. L'agenzia del lavoro, questo sì, questo è nelle grandi democrazie occidentali della sinistra democratica a cui arriviamo, buoni ultimi, ma ben ferrati.
E vuol anche dire, per quanto riguarda la Regione, utilizzare tutte le risorse locali, creare le occasioni: è la storia degli undici progetti.
Una linea del genere ha un governo capace di realizzarla? Se si vuole porre mano all'intrigo corporativo e ad una politica di risanamento non basta certo né il mercato né il vecchio stato sociale.
Non proponiamo né uno schieramento politico né l'appuntamento che una forza politica grande, ma minoritaria come la nostra, rinvia al futuro. Ci sono governi possibili da fare adesso con un grande consenso su alcuni punti fondamentali.
Il Partito Comunista piemontese ne è così convinto che nel congresso regionale ha parlato di un patto per lo sviluppo per fare in modo che il bilancio regionale venga ripulito, diventi un bilancio legato alla possibile programmazione.
Vogliamo trovare la forza di togliere a tanti Assessori quello che hanno? Se fossimo su questa linea a qualche compagno socialista bisognerebbe togliere qualche cosa. Si tratta poi di vedere che cosa bisogna fare dei fondi finalizzati che arrivano da Roma. Per esempio, il compagno Ferraris può avere miliardi per la meccanizzazione e per quegli interventi di sostegno che interessano i Coltivatori Diretti, nemmeno un solo miliardo per la programmazione agricola.
Lo facciamo un patto di questo genere e lo facciamo con le forze esterne? L'accordo sul documento sindacale è importante. Elimina qualche giacobinismo, qualche massimalismo, per esempio, nel movimento operaio.
Questa maggioranza deve discutere, facendo arrivare la discussione all'esterno, nell'autonomia dei Gruppi. E' cultura, è confronto diverso intrecciato. Poi bisognerà fare le cose possibili.
Questa maggioranza regge se ognuno non è soltanto preoccupato dei suoi 15, 20 o 50 mila voti.



PRESIDENZA DEL PRESIDENTE BENZI



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Brizio.



BRIZIO Gian Paolo

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, mi propongo di toccare sia i temi generali che sono stati affrontati negli ultimi interventi, sia quelli regionali che mi pare siano stati un po' abbandonati.
La crisi gravissima che stiamo vivendo è mondiale.
C'è aria di crack ma non è vero che le terapie siano molto diverse.
Riprenderò i temi di Revelli. Cadono i governi, ma la terapia di chi governa, indipendentemente dal colore politico, è di rigore, di ritorno per un certo periodo alla fase neo-liberista o monetarista come necessità che emerge dalla realtà, dal lungo uso del Keynesismo che, portato avanti dallo stato assistenziale, è arrivato a quella stagflazione che caratterizza la situazione presente.
Nel summit di Rimini sulla finanza mondiale tutti hanno convenuto che il sistema monetario non è in grado di finanziare uno sviluppo del commercio internazionale del 3-4%.
Nessuno, indipendentemente dal colore politico, segue in questa fase una politica di sviluppo che riporterebbe l'inflazione a livelli intollerabili e vanificherebbe lo sforzo teso a contenerla. Solo gli U.S.A.
e la Gran Bretagna con una riduzione un po' più marcata del costo del denaro cominciano a preconizzare la futura fase espansiva. Ma questi Paesi hanno avviato prima la politica del rigore. Oggi la Francia socialista con i Ministri comunisti, dopo avere per alcuni mesi cavalcato la linea Keynesiana, con il rischio di vedere crollare il bilancio statale e la competitività del sistema è passato rapidamente al blocco dei salari e, in questi giorni, ha incominciato ad incidere sugli ammortizzatori sociali con il taglio dell'indennità di disoccupazione.



REVELLI Francesco

Hanno stabilito comunque chi paga.



BRIZIO Gian Paolo

Qui dobbiamo far pagare un po' tutti.
La Svezia socialdemocratica dopo le elezioni ha portato al 16% la svalutazione. Il calo della spesa reale è previsto nel 4% : con un aumento dell'inflazione dell'8% e dei salari solo del 4%.
Pagheranno anche i lavoratori. Perché si esclude espressamente "ogni compensazione salariale". Il terzo provvedimento del Governo svedese è una pesante raffica di nuove tasse.
La Germania è arrivata alla crisi politica con la caduta di Brandt. E' prevista per il 1983 una crescita economica del prodotto lordo dell'1 all'incirca la crescita prevista per il nostro Paese.
Le terapie sono le medesime in tutto il mondo occidentale.
E' vero che aleggia lo spettro della grande crisi del 1929, che v'è preoccupazione diffusa, che imperversa il fenomeno della stagflazione comunque su tre punti c'è larga convergenza: 1) il sistema produttivo mondiale è in crisi, ma non è in discussione il modello pluralistico dell'economia; elemento che dà certezza alla ripresa dello sviluppo economico, che garantisce la libertà individuale e che, anche in momenti di crisi come questo, assicura lo sviluppo del prodotto lordo e un tenore di vita della popolazione che non ha eguali in altri sistemi.
2) Lo stato assistenziale è posto in discussione. Non lo poniamo in discussione soltanto noi, ma lo pone in discussione tutto il mondo occidentale. Brandt, dopo la sua caduta, ha detto che va rivisto il modello dello stato assistenziale, perché ha creato dei problemi. Questo non vuol dire che l'intervento dello Stato negli ammortizzatori sociali, nel sostegno dell'occupazione, nell'evitare che gli operatori più poveri paghino tutto, non debba sussistere. Deve continuare ma va rivista l'eccessiva pesantezza di questi interventi che finiscono per togliere vitalità ad un'economia libera.
3) Non ci sono cure facili o indolori. Più gli interventi sono netti più la cura è breve. Noi, in certa misura, siamo paralizzati ed abbiamo difficoltà ad uscire dalla crisi. Io non vedrei una netta scelta politica nell'uso del neo-liberismo o del monetarismo: è una necessità contingente che ha forti risvolti politici.
La crisi italiana ha una sua peculiarità: la grave incidenza del rincaro delle materie prime in un Paese che non ne ha, aggravata dalla non tenuta della moneta, l'indicizzazione eccessiva dei fattori della produzione legata alla forte conflittualità che ha caratterizzato il nostro Paese e che ha inciso fortemente sul costo del lavoro, la rigidità del mercato del lavoro dovuta anche all'eccessivo garantismo che porta a situazioni (come quella della Venchi Unica) che ci addolorano sul piano umano, ma che sul piano operativo perché rappresentano anomalie gravissime il deficit pubblico e il conseguente indebitamento, che non ha eguali, il costo del denaro troppo elevato, conseguenza dei precedenti elementi e quindi il differenziale di inflazione superiore a quello degli altri Paesi.
La conseguenza di tutto ciò è la ridotta competitività del sistema che ci rende più deboli nella crisi mondiale.
Quale politica economica e quale politica industriale adottare in questa fase difficile? Altri Consiglieri, e Viglione in particolare, hanno rivendicato la politica economica indicata dal proprio partito, anche in forma autonoma di fronte alle posizioni del Governo. Possiamo farlo anche noi. Il nostro partito lo ha fatto più volte. La D.C., ha da tempo scelto una linea estremamente rigorosa ponendo al centro la lotta all'inflazione come premessa del risanamento del sistema italiano, lotta da perseguire innanzitutto con il contenimento del deficit pubblico.
Il disavanzo annuale tende alle stelle, il debito pubblico raggiunge ormai 320-350 mila miliardi contro i 420 mila miliardi di liquidità del sistema. Gli italiani, tolta la quota dei BOT hanno una liquidità di 420 miliardi di cui 186 mila miliardi di liquidità reale (depositi bancari).
Il deficit deve essere contenuto. Occorre agire sulle maggiori entrate attraverso la politica fiscale ed è giusto operare per una maggiore perequazione, ma occorre anche puntare alla riduzione della spesa pubblica che raggiunge il 50% del prodotto lordo. Il partito della D.C. è favorevole per una manovra consistente che consenta di reprimere una quota significativa ai risorse per gli investimenti. La D.C. non intende cavalcare la recessione, ma non vuole neanche reperire i mezzi per questi investimenti attraverso un nuovo ampliamento del deficit pubblico che vanificherebbe gli aspetti positivi degli investimenti: lo insegna l'esperienza francese dell'immediato dopo Mitterrand, lo insegnano le esperienze che abbiamo vissuto.
Dove reperiamo i fondi per gli investimenti? Dobbiamo reperirli attraverso i tagli della spesa, non possiamo ottenerli ampliando ulteriormente il deficit perché ciò significherebbe buttarli nel vuoto. In questo la teoria keynesiana ha un limite: in una fase di perdurante inflazione i risultati preconizzati non si concretizzano. Il secondo intervento di politica economica deve toccare il costo del denaro.
La D.C., ha chiesto da tempo in proposito un'azione di contenimento.
Qualche passo è stato fatto, ma una riduzione eccessiva e forzata finirebbe soltanto di avviare investimenti e spese finanziate con il deficit e non con risorse reali: non avrebbe quindi gli effetti sperati. La polemica di questi giorni tra L'API e la Confindustria non è priva di valore né di significato.
La pubblicizzazione del top-rate è già un passo avanti, ma non ho difficoltà a dire che la trasparenza del costo del denaro deve essere ricercata con maggiore impegno e potrà essere un elemento di chiarificazione.
Terzo punto. Responsabilizzazione dei centri di spesa: sia a livello di organizzazione statuale che per l'organizzazione periferica. Non possiamo andare avanti con una mano che prende ed una mano che paga e, pagando, non ha responsabilità in ordine a quello che prende.
Per i Comuni la via della perequazione dei trasferimenti è la via maestra. I grandi Comuni devono adattarsi a minori trasferimenti, ad avviare altre politiche per poter mantenere i servizi. L'aumento delle tariffe sarà assolutamente necessario soprattutto per quei servizi meno importanti. Pagheranno tutti.
Non si può pensare di andare avanti senza aumentare le tariffe di certi servizi.
Quarto punto. Urgente approvazione della legge finanziaria.
Quinto punto, il costo del lavoro. Oggi tutti sono convinti che va rivisto nella struttura e nella indicizzazione. La D.C. ha sfidato anche l'impopolarità per porre il problema dopo la disdetta dell'Intersind sulla scala mobile, problema sulla cui esistenza i sindacati stessi convengono.
La discussione è nel merito.
Noi non siamo sulla posizione della CGIL che vorrebbe accettare la riduzione della scala mobile solo per scaricarne gli effetti sul bilancio statale: il risultato non cambierebbe. Siamo invece sulla posizione dei sindacati più sensibili i quali pensano che da questa riduzione occorre ritagliare lo spazio per due iniziative: la ripresa della capacità contrattuale del sindacato, il reperimento di risorse per gli investimenti.
Oggi possiamo giudicare la validità della proposta della CISL dello 0,50 bloccata ed allontanata per ragioni politiche.
Chiudo la parte di politica nazionale per passare al rapporto con il Governo. Concordiamo con buona parte delle risposte delle Regioni al Governo. Alcune si identificano con la proposta politica del nostro partito. Il male del nostro Paese sta nell'eccessiva rigidità del sistema.
La legge 675 va rifinanziata e i piani di settore debbono rimanere aperti perché le imprese possano operare con libertà ed ottenere le risorse necessarie per gli investimenti. Siamo favorevoli ad una nuova operatività del D.P.R. 902, a nuove definizioni delle aree e a nuove procedure; siamo d'accordo su un confronto sulla legge 240 (farà emergere quali sono, a nostro avviso, le inadempienze della Regione); lo stesso vale per la legge sulla ricerca n. 46: in ordine alla quale le imprese piemontesi soprattutto quelle legate all'automobile, hanno già effettuato consistenti richieste. Riteniamo indispensabile una nuova operatività del Parlamento.
La legge 1602 procede con lentezza nonostante che il collocamento sia un problema centrale e che i meccanismi attuali siano troppo rigidi, l'avvio di agenzia del lavoro quindi deve andare avanti.
Si è parlato di capitalizzazione delle imprese. Sono ferme in Parlamento, condizionate sul piano politico dalla risoluzione dei contratti, la legge sui fondi di investimenti e la legge Visentini bis, che faciliterebbero un ritorno dei capitali alle imprese. Bisogna uscire dalla paralisi del Parlamento.
La prima riforma da fare è quella sul funzionamento della Camera dei Deputati.
Carli in un recente articolo su "Repubblica" ha fatto giustizia di tante mistificazioni: "La funzione dell'opposizione in democrazia è quella di opporsi con gli argomenti e non con mezzi che finiscono per bloccare l'attività legislativa". Sta bene il diritto di voto ma non il diritto di veto.
E veniamo alla crisi del Piemonte. La nostra è una regione industriale più di altre colpita dalla crisi, con attività largamente centrata sull'auto, sulla meccanica, sul tessile, sulla carta e sul chimico.
Gli ultimi dati sono impressionanti: 450 aziende in crisi, 140.000 disoccupati, 60.000 lavoratori in cassa integrazione, con un tasso di disoccupazione del 7-8%.
Soprattutto sono negative le previsioni della Federpiemonte. Se ci raffrontiamo con la Lombardia, la situazione non pare così drammatica: 200.000 disoccupati, 50.000 cassaintegrati, con un tasso di disoccupazione vicino al 6-7%.
Ci preoccupano le prospettive ed il clima del Piemonte. Bastianini dice che la crisi è più vasta dello stesso sistema industriale. C'è la sensazione di un pesante declino del Piemonte, di perdita di posizione in tema di reddito e in tema di prodotto lordo pro-capite, di una complessa fase di deindustrializzazione e di ristrutturazione.
Come abbiamo rilevato da tempo, il triangolo industriale si sposta verso est. Altre regioni crescono ad oriente, il Veneto e le Marche che sono più attente a cogliere il nuovo, più duttili nella politica sindacale meno condizionate dal PCI e meno massimalistica. Questi dati contano in una fase in cui occorre avere flessibilità. Sarebbe forse eccessiva l'equazione: Giunta rossa - declino del Piemonte: tuttavia sarebbe semplicistico considerare ininfluente sull'andamento della nostra Regione il peso delle scelte o delle non scelte del governo regionale.
Che cosa ha fatto la Regione per lo sviluppo, che cosa ha fatto la Regione per fermare il declino del Piemonte dal 1975 ad oggi? Siamo partiti con la Conferenza dell'occupazione, con la velleità di concretare a livello regionale una politica industriale propria, il fumoso "nuovo modello di sviluppo" che avrebbe dovuto garantire occupazione ed assicurare il riequilibrio della Regione. Siamo poi passati al piano di sviluppo '77-'80 fondato sul riequilibrio territoriale, che è stato scarsamente gestito.
Ancora oggi non ne conosciamo i risultati conclusivi perché manca un'analisi che dovrebbe costituire la base per il nuovo piano di sviluppo.
La legge sulle procedure della programmazione è macchinosa, pesante, non gestibile.
La Giunta stessa, sistematicamente, la disapplica nella sua attività di tutti i giorni. La legge urbanistica è giudicata la più vincolistica in Italia. E' da modificare per stessa ammissione del Consigliere Revelli. Le modifiche sono state inserite nel primo programma e nel secondo, ma non attuate malgrado il nostro Gruppo abbia presentato da tempo una specifica proposta di legge. La politica degli enti strumentali, dopo un promettente inizio, si è fatta inconsistente per carenza di indirizzi riconosciuta da tutti.
Le grandi infrastrutture sono state accantonate.
Si riscopre la necessità delle cosiddette "opere faraoniche". La burocratizzazione pesante dell'ente ha portato alle disfunzioni che tutti abbiamo davanti. Infine, la politica della spesa non è mai stata rigorosa ha bruciato risorse e ha condizionato il presente ed il futuro. Le Regioni hanno creduto in un mitico eterno periodo delle vacche grasse. Saremo d'accordo su tagli di bilancio a ritagliare spazi per gli investimenti e ad iniziative di questo genere non ci opporremo.
Come forza di opposizione non possiamo però essere coinvolti in un'operazione che una maggioranza che sia tale e che abbia il senso del rigore deve saper compiere da sola.
Le cose non sono cambiate con la nuova legislatura, anzi, manca tuttora il nuovo piano di sviluppo. Ci è stato presentato prima un inaccettabile anno di transizione, ci è stato presentato poi il diversivo degli 84 progetti. Non abbiamo mai sostenuto che gli 84 progetti fossero veramente agibili sul piano concreto ed immediatamente utilizzabili. Siamo stati critici fin dall'inizio, mentre altre forze politiche meno attente devono rivedere il loro giudizio.
Non è sufficiente, di fronte alle critiche dell'opposizione, confermare la loro validità: sono i fatti che non confermano la validità degli 84 progetti. Nell'ambito della maggioranza ci sono due posizioni sul piano ed è difficile una sintesi operativa, neanche gli undici progetti sembrano esserlo perché risentono, a nostro avviso, di queste due diverse posizioni alle quali farò cenno nelle conclusioni. Ho già parlato della mancata revisione della legge 56, che è stata inserita come elemento "targhettato" con data fissa nella verifica: ma anche quella scadenza è saltata puntualmente come sono saltate quasi tutte le altre.
E' stata creata, intorno agli 84 progetti, una vertenza con il Governo con Commissari e proconsoli. Noi non l'abbiamo mai giudicata un'esperienza positiva; Sanlorenzo in un incontro con i parlamentari e con noi ha detto di non averla mai chiesta. Qualcuno l'ha chiesta, probabilmente il Sindaco di Torino che non appartiene né al nostro partito né a questa opposizione.
E' stato comunque un elemento di confusione che non ha chiarito su quali tavoli si dovesse discutere. I programmi di sviluppo del Piemonte competono alla Regione, la politica industriale di grande respiro compete al Governo.
Il confronto va fatto, ma non deve essere settorizzato per Ministeri o per aree politiche. E' un'esperienza finita e ci sta bene perché noi non l'abbiamo mai condivisa. La gestione dell'Assessorato al lavoro da parte di Sanlorenzo ci ha portato anche lo stillicidio delle radiografie sulla crisi. Non vogliamo chiamarlo catastrofismo: certo però la costante presentazione di dati sempre peggiori dà l'idea della rassegnazione e dell'impotenza di una Regione che piano piano si prepara psicologicamente al peggio, ad una fase di arretramento e questo non lo consideriamo un dato positivo. D'altra parte ne abbiamo già discusso in maggio ed è forse più utile passare ai fatti nuovi che emergono dalla relazione dell'Assessore e dalla situazione, cioè mobilità e collocamento, verbale d'accordo tra Regioni e sindacato, vertenza Fiat ed altre.
Quanto alla mobilità devo riconoscere al Consigliere Alasia un grosso approfondimento ed un appassionato intervento anche se le nostre posizioni sono diverse.
L'esperimento della mobilità non decolla perché ci sono troppe rigidità nel sistema. E' vero che il problema è a monte perché manca la richiesta di lavoratori. La domanda che c'è trova altri canali perché i meccanismi sono troppo rigidi. La protesta degli operai al Cinema Adriano va letta fino in fondo anche come protesta contro il meccanismo della graduatoria a punteggio che non convince nessuno, che sembra la perfezione teorica ma che sul piano pratico non pare corretta.
Abbiamo sempre avuto delle riserve sui progetti socialmente utili perché riteniamo che non rispondano alle necessità. Abbiamo delle riserve sul progetto dell'Osservatorio del lavoro per il quale Sanlorenzo chiede una corsia preferenziale.
E' un disegno di legge da rimeditare come d'altra parte ha osservato anche il Presidente della I Commissione Valeri, dopo la consultazione con le organizzazioni imprenditoriali. E veniamo al verbale di accordo fra sindacati e Giunta. Siamo perplessi sui tempi e sui metodi. Se ne è parlato poco in questo dibattito, dove il documento è stato presentato dopo otto mesi di discussione. Ci è parsa una mossa fatta con una certa furbizia e per dirla alla Revelli - da "talpe o talpette" perché di questo problema in sede di IV Commissione non abbiamo saputo nulla.
Una comunicazione e un dibattito non sarebbero stati inutili per chiarire alcuni punti. Ci siamo confrontati con i sindacati e le perplessità che esporrò qui le abbiamo esposte anche in quella sede.
Fra i molti impegni quello di individuare i settori e le unità in grado di creare nuovi posti di lavoro. Ma come avviene questa individuazione? Quali sono le scelte politiche e pratiche per un indirizzo della spesa pubblica regionale anche a favore dell'industria? Che significa riqualificare la spesa pubblica impegnandosi a finanziare direttamente le iniziative che, pur non coprendo l'intero fabbisogno, siano in grado di esemplificare una precisa volontà politica e di realizzare sperimentazioni che permettano primi avanzamenti nelle direzioni auspicate? Ci pare che gli impegni siano estremamente generici e, se quantizzati estremamente pesanti.
C'è l'impegno a finanziare con variazioni di bilancio e risorse regionali la legge dei consorzi sull'artigianato. Questo l'abbiamo chiesto due volte, in sede di predisposizione del bilancio e in sede di assestamento. Ci era stato detto che non era possibile. Vediamo ora che diventa improvvisamente possibile e gradiremmo sapere con quali risorse ci si muove su questo terreno.
Viene inserita surrettiziamente la Finpiemonte nel settore dei salvataggi con due compiti: la redazione di studi e di piani di risanamento, compito a carattere professionale; e il prefinanziamento in un'azione concreta di salvataggio.
La Finpiemonte non può essere un ente di salvataggio. Riteniamo invece che possa essere un ente di promozione che opera a livello di consorzi per l'artigianato.
Si parla poi di un fondo di dotazione per le costituende cooperative sul quale concordiamo, salvo approfondire i mezzi con i quali verranno finanziati questi impegni. Lo stesso vale per i 100 miliardi delle cooperative dei cassaintegrati che sono stanziati nella legge 526 e in ordine ai quali il Ministro Marcora si è impegnato a presentare un disegno di legge per il loro utilizzo. Si dice però che i progetti della Regione per le cooperative non sono conformi.
Bisognerà rivedere i nostri progetti affinché i fondi statali siano utilizzabili per la quota che ci aspetta e che è prevista dalla legge 526.
La parte riguardante la formazione professionale è interessante. Anche qui c'è un preciso impegno per 1.500 posti di lavoro il cui costo dovrà essere quantizzato.
Questi impegni hanno un peso finanziario notevole e sarà bene discuterne in Consiglio regionale.
Vengo ora brevemente alle vertenze.
Abbiamo vissuto la vertenza Fiat. La crisi continua e l'azione di ristrutturazione della Fiat è in atto. Nel consolidato Fiat sono indicati come conseguibili 100.000 posti di lavoro in meno, di cui 50.000 riguardano la nostra Regione. Dobbiamo sperare che l'evoluzione dell'azienda sia positiva e richiamarla all'applicazione degli accordi. Se a distanza di anni sarà necessaria una verifica, questa dovrà essere motivata, concordata e non potrà presentarsi come un atto di forza unilaterale da parte dell'azienda.
Nell'incontro delle Regioni si è visto come è difficile trovare un punto unitario sui fatti concreti. Il piano di ristrutturazione Rivalta Mirafiori è stato un'occasione di discussione perduta sul piano politico.
Si auspicano maggiori competenze in materia di politica industriale, nel documento presentato al Governo da parte degli Assessori regionali al lavoro, si è parlato della 675 e dei pareri definitivi, ma nel momento in cui si è presentata l'occasione di esprimere il parere su un piano di ristrutturazione di così larga portata, la Giunta ha deciso senza investirne il Consiglio. Oggi abbiamo finalmente i documenti e li stiamo esaminando con la massima attenzione. Qualche cosa ci lascia però perplessi e ci auguriamo che non manchi occasione per discuterne.
L'on.le Goria, il nostro responsabile economico, diceva ieri che la Fiat è un problema piemontese, ma anche nazionale: la ripresa della Fiat è un punto fermo.
Per Teksid e siderurgia non possiamo dire cose diverse da quelle già dette: la ristrutturazione della siderurgia è avvenuta negli altri paesi e non da noi.
Nel nostro Paese c'è stato ancora ultimamente un aumento di occupazione, nel settore che oggi si paga. Dobbiamo convincerci che la ristrutturazione va compiuta e che per ristrutturare occorrono dei provvedimenti. Quelli assunti per Bagnoli si inquadrano nella strategia della Teksid di Torino.
Quanto alla Olivetti, ritengo che si debba ottenere il risultato fiscale senza cavalcare a tutti i costi l'ipotesi dei registratori di cassa.
I mercati non si possono inventare attraverso soltanto la domanda pubblica. Relativamente ai problemi Ceat non credo che ci sia l'indeterminatezza del Ministro dell'Industria. Ha cercato i partners per la Ceat ma non li ha trovati. Lo stabilimento di Anagni è un problema aperto. Sono stati effettuati 900 licenziamenti e v'è la richiesta di cassa integrazione, sono stati temi di dibattito nell'incontro fra le varie Regioni.
Non possiamo tuttavia pensare di salvare tutto: le aziende nascono e muoiono: è la regola di questa economia.
I sindacati hanno chiesto il ricorso alla "Prodi", ma noi riteniamo che quella non sia una via brillante. Se ci sono altre vie, devono essere perseguite.
L'uscita dalla crisi è legata certamente alla ripresa del mercato internazionale, alla possibilità di ritagliare dalla politica di rigore spazi concreti per sostenere gli investimenti, ad avviare un processo di effettiva reindustrializzazione, alla possibilità di ridurre il deficit pubblico e di incidere nettamente sui fattori della produzione, sul costo del denaro e sul tasso di inflazione per dare nuova competitività al nostro sistema. La Regione deve fare la sua parte in modo più incisivo e concreto.
Occorre rilanciare in termini coerenti la programmazione, dare un indirizzo agli enti strumentali, ritagliare con il necessario rigore nella spesa regionale spazi per qualificati interventi nei settori di competenza, anche in quei settori che hanno un loro contenuto di politica industriale: artigianato, piccola industria, agricoltura, commercio, formazione professionale, gestione del territorio.
Occorre dare respiro alla politica dei collegamenti infraregionali ed europei onde evitare i rischi di isolamento per il Piemonte che non si risolvono nel rapporto Torino-Milano (MITO), il momento è difficile.
Nessuno ha la ricetta facile o meglio la bacchetta magica. Noi non abbiamo certo la presunzione di essere depositari di ogni soluzione, ma abbiamo la chiara percezione dell'inadeguatezza dell'azione regionale. La maggioranza è stanca, logora, incerta e divisa. Dalla lunga, estenuante verifica si è usciti non con un nuovo slancio ma con nuove e maggiori contraddizioni che d'altro canto sono emerse anche in questo lungo dibattito. Giocano divergenze e lotte di potere, neanche troppo celate, nel deterioramento di rapporti fra socialisti e comunisti, ma sarebbe semplicistico e superficiale vedere in quelle la casa unica e determinante di un dissenso che invece si sta allargando.
La verità è che fra le posizioni comuniste, spesso ancora massimaliste e quelle socialiste deideologizzate e pragmatiche, una sintesi operativa ed efficace appare sempre più difficile se non impossibile.
Questa sensazione è oggi largamente diffusa e non sfugge neppure a quelle forze economiche e sociali che avevano, se non postulato, certo benevolmente accolto la nuova maggioranza. Anche la stessa funzione di ammortizzatore delle tensioni sociali, accreditata alla partecipazione comunista al governo regionale, semmai svolta (e i dati dell'occupazione farebbero intendere che sia stata svolta eccome! ) appare oggi quanto meno smorzata.
Tuttavia questa Giunta "rosa" che vive nel clima sussultorio (che Revelli conosce molto bene) ed improduttivo che ha caratterizzato la fase finale del centro-sinistra potrà protrarre ancora per molto e indefinitamente la sua esistenza. Noi stiamo su questi banchi di opposizione con tutta serenità, non abbiamo fretta, né siamo pervasi da quel nervosismo che alligna altrove. Siamo consapevoli del nostro ruolo di opposizione e del suo significato, ma, proprio perché siamo ben consapevoli di quel che rappresentiamo nella realtà sociale e nella nostra Regione, di quanto sia radicata la nostra presenza, come forza di maggioranza relativa sentiamo la responsabilità di manifestare anche sul tema dell'occupazione e della politica industriale la nostra opposizione completa e senza riserve ad una maggioranza che ha ben poco da dare per lo sviluppo del Piemonte.



PRESIDENTE

Gli interventi dei Consiglieri sulla situazione economico occupazionale in Piemonte finiscono qui.
Prima di dare la parola alla Giunta per la replica passiamo ad un altro punto all'ordine del giorno.


Argomento: Nomine

Nomine


PRESIDENTE

Proseguiamo con le seguenti "Nomine":


Argomento: Nomine

a) Istituto Cartografico Regionale: sostituzione di Francone Silvio dimissionario


PRESIDENTE

Si distribuiscano le schede e si proceda alla votazione.



(Si procede alla votazione a scrutinio segreto)



PRESIDENTE

Comunico l'esito della votazione: presenti n. 32 votanti n. 24 ha riportato voti: MOSCA Sebastiano n. 12 schede bianche n. 10 schede nulle n. 2 non hanno partecipato alla votazione n. 8 Proclamo eletto il signor Sebastiano Mosca.


Argomento: Nomine

b) Consiglio di amministrazione I.R.E.S.: sostituzione di Granzotto Benvenuto, dimissionario


PRESIDENTE

Si distribuiscano le schede e si proceda alla votazione.



(Si procede alla votazione a scrutinio segreto)



PRESIDENTE

Comunico l'esito della votazione: presenti n. 32 votanti n. 24 ha riportato voti: DE MATTIA Nicola n. 14 schede bianche n. 10 non hanno partecipato alla votazione n. 8 Proclamo eletto il signor Nicola De Mattia.


Argomento: Nomine

c) Consiglio di amministrazione della S.p.A. S.I.T.O.: sostituzione di Francone Silvio, dimissionario


PRESIDENTE

Si distribuiscano le schede e si proceda alla votazione.



(Si procede alla votazione a scrutinio segreto)



PRESIDENTE

Comunico l'esito della votazione: presenti n. 32 votanti n. 24 ha riportato voti: VIDETTA Antonio n. 15 Schede bianche n. 9 non hanno partecipato alla votazione n. 8 Proclamo eletto signor Antonio Videtta.


Argomento: Nomine

d) Sezione decentrata CO.RE.CO. di Casale Monferrato: sostituzione di Core Secondo, membro effettivo deceduto


PRESIDENTE

Si distribuiscano le schede e si proceda alla votazione.



(Si procede alla votazione a scrutinio segreto)



PRESIDENTE

Comunico l'esito della votazione: presenti n. 32 votanti n. 24 ha riportato voti: DAGNA Enrico n. 18 schede bianche n. 6 non hanno partecipato alla votazione n. 8 Proclamo eletto il signor Enrico Dagna.


Argomento: Nomine

e) Consiglio Direttivo del Parco naturale ed area attrezzata del Sacro Monte di Crea: sostituzione di Amilcare Barbero, membro dimissionario


PRESIDENTE

Si distribuiscano le schede e si proceda alla votazione.



(Si procede alla votazione a scrutinio segreto)



PRESIDENTE

Comunico l'esito della votazione: presenti n. 32 votanti n. 24 ha riportato voti: DAINESE Luigi n. 15 schede bianche n. 9 non hanno partecipato alla votazione n. 8 Proclamo eletto il signor Luigi Dainese.


Argomento: Nomine

f) Consiglio di amministrazione "Aeroporto di Cuneo-Levaldigi": sostituzione di Botto Walter, membro dimissionario


PRESIDENTE

Si distribuiscano le schede e si proceda alla votazione.



(Si procede alla votazione a scrutinio segreto)



PRESIDENTE

Comunico l'esito della votazione: presenti n. 32 votanti n. 24 ha riportato voti:



BOTTO Francesco Biagio n. 17

schede bianche n. 7 non hanno partecipato alla votazione n. 8 Proclamo eletto il signor Francesco Biagio Botto.


Argomento: Nomine

g) Consulta regionale per la tutela della fauna e a disciplina della caccia: sostituzione di Barbero Giovanni, rappresentante E.P.S


PRESIDENTE

Si distribuiscano le schede e si proceda alla votazione.



(Si procede alla votazione a scrutinio segreto)



PRESIDENTE

Comunico l'esito della votazione: presenti n. 32 votanti n. 24 ha riportato voti: BOLLANO Giuseppe n. 16 schede bianche n. 8 non hanno partecipato alla votazione n. 8 Proclamo eletto il signor Giuseppe Bollano.


Argomento: Nomine

h) Sezione decentrata CO.RE.CO. di Torino: sostituzione di Paolo Scaparone membro effettivo dimissionario


PRESIDENTE

Si distribuiscano le schede e si proceda alla votazione.



(Si procede alla votazione a scrutinio segreto)



PRESIDENTE

Comunico l'esito della votazione: presenti n. 32 votanti n. 24 ha riportato voti: FERRARA Angelo n. 18 schede bianche n. 6 non hanno partecipato alla votazione n. 8 Proclamo eletto il signor Angelo Ferrara.


Argomento: Nomine

i) Comitato regionale per le opere pubbliche: sostituzione di Barone Emilio, membro dimissionario


PRESIDENTE

Si distribuiscano le schede e si proceda alla votazione.
(Si procede alla votazione a scrutinio segreto)



PRESIDENTE

Comunico l'esito della votazione: presenti n. 32 votanti n. 24 ha riportato voti: REALE Alberto n. 17 schede bianche n. 7 non hanno partecipato alla votazione n. 8 Proclamo eletto il signor Alberto Reale.


Argomento: Nomine

l) Sezione decentrata CO.RE.CO, di Mondovì: sostituzione di Fulvio Basteris, membro supplente dimissionario


PRESIDENTE

Si distribuiscano le schede e si proceda alla votazione.



(Si procede alla votazione a scrutinio segreto)



PRESIDENTE

Comunico l'esito della votazione: presenti e votanti n. 38 hanno riportato voti:



ARGO ANFOSSI Lucio n. 25

CALSOLARO n. 1 schede bianche n. 10 schede nulle n. 2 Proclamo eletto il signor Lucio Argo Anfossi.


Argomento: Problemi del lavoro e della occupazione

Situazione economico-occupazionale in Piemonte (seguito)


PRESIDENTE

Riprendiamo il dibattito



TESTA Gianluigi, Assessore alle finanze

Il mio intervento, in un dibattito che ha spaziato dalla politica economica all'ideologia, mi pare un po' gretto trattando solamente problemi di bilancio. D'altra parte l'ora non consente ulteriori dissertazioni.
Devo confermare quanto purtroppo ho già avuto modo di dire in altre occasioni, ossia che il bilancio è rigido e che ci sono difficili giochi di prestigio per trovare da un momento all'altro somme rilevanti da investire per la comunità piemontese.
Se vi fosse qualche possibilità di recuperare tra le somme che sono iscritte a bilancio anche solo 100 miliardi, sarebbe compito non solo dell'Assessore al bilancio ma di tutta la Giunta cercare di recuperare queste risorse. In questi ultimi anni abbiamo fatto parecchie ripuliture di bilancio. E' stato anche votato un ordine del giorno a seguito del quale era stata fatta una ripulitura che aveva recuperato 80 miliardi circa.
L'Assessore al bilancio non è particolarmente amato dai colleghi in questo periodo (e forse non lo è mai per definizione), proprio per quest'azione costante di ripulitura, scrematura e limatura delle somme disponibili in bilancio. Può darsi che qualcosa sia sfuggito ai nostri ispettori. Si faranno ulteriori revisioni se questo è il significato di alcune osservazioni fatte in questa sede. Temo, purtroppo, che poco risulti da questa ulteriore revisione.
Venti giorni fa, con un documento che ho prodotto in Giunta e che è a disposizione dei Consiglieri, mi sono preoccupato di fare una revisione di tutte le disponibilità di bilancio. Questa revisione, fatta con gli impegni assunti fino al 31 agosto, dava una disponibilità di 35 miliardi da utilizzare sulla nota di variazione, secondo il criterio dell'Assessorato al bilancio e prima che lo stesso fosse verificato insieme con i colleghi.
Dopo la verifica insieme con i colleghi questa somma è scesa a circa 20 miliardi, che infatti sono stati stornati da alcuni capitoli del bilancio 1982 ed inseriti nella nota di variazione che la Giunta ha già approvato.
Il discorso del residuo passivo non può significare somme inoperanti perlomeno nell'attuale sistema legislativo, statale e regionale, perché in molti settori l'erogazione delle somme viene fatta a stato di avanzamento lavori, o addirittura a collaudo; quindi non sempre la presenza di un residuo passivo a bilancio sta a significare che non si operi in quel settore; molte volte vi è uno sfalsamento temporale (per esempio nelle leggi dell'agricoltura) tra l'attività che lo stanziamento di competenza mette in atto ed il momento dell'erogazione.
Devo anche dire, ahimè con grande tristezza, che se anche recuperassimo qualche cosa in competenza, nulla potremmo recuperare in cassa. Purtroppo l'economia piemontese funziona sulle somme erogate dalla cassa e non sulle buone volontà scritte nella competenza. Mi duole informare il Consiglio che la nostra cassa è a zero, che per la prima volta nella sua storia la Regione ha approvato una delibera di anticipazioni per far fronte a necessità urgenti...



PAGANELLI Ettore

Era già successo nel 1974.



TESTA Gianluigi, Assessore alle finanze

Chiedo scusa al Consigliere Paganelli perché la mia memoria storica non va così lontano.
Questa seconda anticipazione di cassa è destinata a peggiorare ulteriormente i nostri conti in quanto il Governo non eroga alle Regioni le somme necessarie e purtroppo non le eroga nemmeno ai Comuni (tant'è vero che è in atto un'azione dell'ANCI relativamente al pagamento della quarta trimestralità).
La nota di variazione che sarà presentata al Consiglio contiene tutto quanto poteva essere raschiato in questo barile purtroppo vuoto. Credo che le somme che sono state tolte vengono rimesse immediatamente in circolo e spese in una serie di capitoli che hanno immediata operatività, che oltre questo sia difficile andare, anche se ci proponiamo un'ulteriore e più approfondita revisione che non si limiti al contenuto dei capitoli regionali ma che vada a vedere anche al di fuori di questi capitoli, negli enti e nelle persone destinatarie di questi capitoli, l'esatta situazione dei lavori in corso.
Questa precisazione era doverosa per evitare che nascessero delle illusioni o imprecisioni circa il reale stato della finanza regionale, che peraltro avevo avuto modo già in altre occasioni e con tono egualmente funereo di informare.



PRESIDENTE

La parola all'Assessore Simonelli.



SIMONELLI Claudio, Assessore alla programmazione socio-economica

Il dibattito di ieri e di oggi ha affrontato una vastità tale di temi che nelle repliche sarebbe difficile dare conto delle osservazioni che sono state fatte e degli stimoli che da ogni parte sono venuti.
Cercherò di riprendere sinteticamente una parte delle argomentazioni che mi paiono interessanti, partendo anche da quelle che sembrano esercitazioni intorno ai massimi sistemi, ma che, in verità, non sono elementi superflui in un confronto che - mi pare giustamente - aspiri ad una dignità intellettuale che non sia quella del Consiglio comunale di Callianetto (con tutto il rispetto di questo nobile Comune). Penso che in questo nobile confronto si tenti anche di trovare le origini, le ragioni le motivazioni, le novità che ogni Gruppo politico porta con sé.
Mi pare che nelle discussioni sulle politiche economiche possibili e sulle concrete esperienze dei Paesi industriali si sia detto - e forse era superfluo dirlo - che il riferimento di tutti è comunque al sistema dell'economia mista dell'occidente, nella quale tutte le forze qui presenti si riconoscono e - se devo aggiungere una mia personale affermazione in questo senso - mi pare che il confronto si eserciti attorno a valori ideologie, istituti ed esperienze concrete che appartengono a quell'insieme di Paesi a regime di democrazia liberale e ad economia mista che sono, per ragioni storiche, politiche, geografiche, quelli con i quali ci confrontiamo ed abbiamo rapporti; mentre esperienze di altro tipo, dei Paesi del socialismo reale e dei Paesi del Terzo Mondo, appartengono a sfere che sono lontane dalla nostra esperienza oltreché dai riscontri culturali di cui ci alimentiamo.
L'Assessore Sanlorenzo ha introdotto nella sua relazione quel sintetico richiamo che Ruffolo faceva circa l'insufficienza delle due scuole di pensiero tradizionali che si sono confrontate in questi anni, quella keynesiana e quella di tipo neoliberale monetarista; l'analisi di Ruffolo era inserita in un contesto più generale. Ruffolo richiamava l'insufficienza dei filoni di pensiero che si richiamano a queste scuole cd anche alla difficoltà di applicare concretamente delle ricette che scaturiscono da filosofie o da teorie economiche.
Di qui conviene partire perché difficilmente possiamo ragionare di politica concreta avendo di fronte come parametro di riferimento delle teorie. Del resto basterebbe vedere le contraddizioni nelle quali si stanno avviluppando le politiche più esemplari del neoliberismo, che si sono sviluppate in questi anni, quella americana di Reagan e quella inglese della Thatcher, che trovano in questi giorni contestazioni e rifiuti di paternità proprio dai maestri del pensiero al quale esse si ispirano: è di ieri la cronaca di incontri che in Inghilterra hanno visto Milton Friedman a Von Hayek rifiutare la loro paternità alle politiche della signora Thatcher; sono di questi giorni le proteste dei reaganiani ortodossi contro la svolta che Reagan sta imprimendo alla politica degli Stati Uniti abbandonando alcuni canoni che erano stati quelli sui quali aveva vinto le elezioni e sui quali aveva impostato la sua politica (riduzione delle tasse federali per poter lasciare disfrenarsi l'investimento privato come garanzia di una ripresa dell'economia e riduzione delle spese sociali come riduzione del peso dello Stato) in una cavalcata neoliberista che sta rivelando i suoi limiti ed è tale da rendere insostenibile allo stesso Presidente, nell'avvicinarsi dell'appuntamento elettorale di metà legislatura, di mantenere i voti avuti. Le necessità pratiche fanno aggio sulle teorie economiche anche negli Stati Uniti.
Pur assumendo queste teorie economiche come punto di riferimento e non come ricetta da applicare come per fare l'anatra all'arancia, non c'è dubbio che abbiamo sentito qui degli accenni alle politiche keynesiane che hanno investito anche le loro grossolane applicazioni, ma che toccano anche i nodi che abbiamo da sciogliere nella politica concreta. Della politica keynesiana sono entrati in crisi due elementi fondamentali: il fatto che il sostegno della domanda aggregata, in quanto tale, è una politica che pu essere perseguita indifferentemente in contesti diversi e, in un periodo di forte inflazione come questo, anche se caratterizzato da contemporanea stagnazione, lo sviluppo della domanda aggregata non è sufficiente perch rischia di aumentare il tasso di inflazione senza far uscire dalla depressione.
L'altro elemento fondamentale della politica keynesiana che salta è il ruolo degli investimenti per aumentare l'occupazione. Infatti assistiamo in tutti i Paesi industriali avanzati a forti investimenti la riduzione e non l'aumento del numero degli occupati; anzi, le forti innovazioni che si producono nei sistemi industriali riducono il numero degli occupati e l'incidenza del costo del lavoro per unità di prodotto. Quindi l'investimento in quanto tale non è più garanzia di occupazione.
Questi dati mettono in discussione le applicazioni più grossolane, più automatiche, meno meditate delle ricette keynesiane; ma bisogna stare attenti a non andare "ultra petita", cioè a non colpire certi aspetti della politica keynesiana che appaiono delle conquiste irrinunciabili per i sistemi industriali moderni. Dietro l'attacco alle politiche keynesiane c'è in realtà il rifiuto della programmazione, dell'organizzazione dei sistemi economici - e il Consigliere Bastianini nel suo intervento ha avuto un po' di indulgenza - e c'è il rifiuto degli ammortizzatori sociali che sono conseguenze ineliminabili dell'applicazione della politica keynesiana a partire dalla grande depressione del 1929 fino ai giorni nostri.
In altri termini, c'è il rischio di abbandonare con l'acqua sporca anche il bambino lavato, quindi le conquiste che l'applicazione delle politiche keynesiane hanno consentito negli ultimi quarant'anni nei Paesi industriali dell'occidente sono difficilmente eliminabili e proprio l'esperienza negativa di quei Paesi nei quali l'ondata neoliberista ha conosciuto i maggiori successi consentono di metterlo in evidenza. Gli stessi uomini del Gabinetto conservatore inglese rifiutano la ricetta rigorosamente liberale che propone come rimedio per vincere l'inflazione di raddoppiare il numero dei disoccupati e di liquidare il sindacato.
Questo rientro rapido dall'inflazione non è pratica bile. Proprio l'impraticabilità delle ricette neoliberali dimostra che bisogna stare attenti a considerare superata una politica che, al di là delle sue impostazioni originarie, è oggi tuttavia un fondamento ineliminabile negli Stati industriali dell'occidente.
Vi è poi un altro elemento che interviene nella critica all'economia keynesiana, che significa la critica alle politiche praticate dalla sinistra in Europa e nel mondo, la critica che investe il new deal rooseveltiano, la coalizione che ha retto i governi democratici negli Stati Uniti, la politica dei laburisti in Inghilterra, la politica delle socialdemocrazie, la politica che oggi portano avanti le sinistre in Europa.
E' una ventata neoliberista che in qualche modo si riconnette ad un fenomeno che è stato indagato, anche nel nostro Paese, con enfasi particolare dal CENSIS, cioè la vitalità del piccolo, del decentrato, del sommerso: il "cespuglio" contrapposto al "bosco", il fastidio per la grande impresa e la grande enfatizzazione per le capacità della piccola impresa come risposta alla crisi.
Non a caso questa visione di piccolo e bello rifiuta contemporaneamente grande impresa e Stato, quando in realtà nei sistemi capitalistici più avanzati, che hanno rappresentato in questi anni le espressioni più interessanti di sviluppo e di evoluzione positiva (Giappone e Francia) proprio nell'integrazione tra Stato ed impresa si sono realizzati i progressi più significativi. La politica industriale del Giappone, che non può essere considerato uno Stato socialista, passa attraverso i miti, passa attraverso la strettissima integrazione tra politica industriale del governo e quella della grande impresa. In Francia, al di là delle formule politiche, è saldissimo il rapporto tra il commissariato al piano e la politica industriale dei grandi gruppi. La stessa politica industriale di Mitterrand, da questo punto di vista, come grande ambizione dello Stato di guidare il processo di innovazione, non si discosta da quella praticata da De Gaulle in poi.
Rifiutare il ruolo dello Stato in nome di un disfrenarsi delle energie dell'imprenditoria lasciata a se stessa, esasperare l'eliminazione dei lacci e lacciuoli, che può essere anche giusto, ma che portato alle conseguenze estreme del "laissez faire" e del "laissez passer" in chiave moderna significa rifiutare quello che di valido è stato rappresentato proprio dalle forze del capitalismo più avanzato.
Non c'è alcun dubbio che in tutti i sistemi industriali c'è ormai una compenetrazione crescente tra pubblico e privato; c'è il sistema delle leggi e dei provvedimenti che se da un lato produce i lacci e lacciuoli dall'altro garantisce il protezionismo e l'assistenzialismo quando è necessario, ammortizzatori sociali per evitare deflagrazioni sul piano dei conflitti di classe; c'è un corporativismo sociale diffuso che trova crescente protezione in tutti i Paesi. Quindi non abbiamo in realtà un'esperienza dalla quale si possa far emergere un capitalismo lasciato a se stesso. L'imprenditore rampante che fa a meno del pubblico, che non vuole denaro pubblico, che non vuole leggi che regolino la sua attività che non cerca protezione sulla politica fiscale e tariffaria, ma che si limita a realizzare profitti attraverso la somma dei profitti di tanti imprenditori, non corrisponde alla realtà in nessun angolo del mondo.
Allora, fino a che punto è giusto spingere la critica, la revisione e l'abbandono delle politiche keynesiane? Sul fronte della spesa pubblica certamente la politica keynesiana deve essere rivista. Qui tutti abbiamo le nostre colpe e le nostre responsabilità. Questo Welfare State all'italiana, che tutti oggi riteniamo impossibile continuare a praticare con un dilatarsi della spesa pubblica che si è rivelato essere molto di più del costo del lavoro, la vera palla al piede che il nostro sistema si trova ad avere oggi, è l'elemento che le Regioni, gli istituti del potere decentrato sostengono e patiscono sulla propria pelle e patiranno per sempre.
Il dilatarsi della spesa pubblica collegato al Welfare State all'italiana non può più essere mantenuto e dovrà essere rivisto.
Mi consenta il Consigliere Revelli di dire che le revisioni critiche alla politica del Welfare State che sono contenute nella pubblicistica e nel pensiero socialista degli ultimi anni, mi pare abbiano colto nel segno (Rimini compreso), laddove cioè il discorso dello Stato del benessere ci riconduce all'individuazione delle categorie che in questo Stato soffrono del malessere, dunque la necessità di offrire la protezione pubblica a chi veramente ha bisogno di essere protetto vincendo la tendenza inesorabile che ha preso le Amministrazioni pubbliche e le sinistre, negli anni passati, di considerare servizio sociale, gratuito o tendenzialmente gratuito, ogni tipo di erogazione di servizi, caricando quindi, nell'ambito del Welfare State alla spesa sociale interventi di cui hanno finito per beneficiare categorie che di questo aiuto, di questo intervento pubblico non avevano bisogno.
Dobbiamo incominciare a ragionare in modo che degli interventi del Welfare State e della spesa pubblica con finalità assistenziali beneficino i vecchi poveri della società, che sono una minoranza e non la grande maggioranza. La grande maggioranza non può essere assistita a spese del denaro pubblico: questo non è sostenibile, questo non è possibile, questo non può essere praticato.
L'autocritica dobbiamo farla tutti a incominciare dalle Amministrazioni dell'Emilia Romagna che hanno sì garantito negli anni '50 - '60 altissimi livelli di servizi pubblici, ma hanno anche segnato i più alti livelli di spesa pubblica pro-capite che si registrano oggi in Italia e quindi tendenzialmente i più grandi disavanzi, le più grandi lacerazioni nel sistema del Welfare State che tutti vogliamo oggi rattoppare.
In tale contesto, inserendo i temi della politica industriale che ci hanno appassionato in questi due giorni, dobbiamo fare i conti con due grandi temi: i temi dell'occupazione da un lato e i temi della qualità del sistema produttivo e della sua innovazione e riqualificazione dall'altro.
Sui livelli occupazionali le diagnosi hanno sostanzialmente concordato.
Nelle relazioni introduttive del dibattito, fatte dal Presidente della Giunta e dal Vicepresidente, sono emersi temi e dati che denunciano come il nostro sistema piemontese, ma in generale di tutto l'occidente, i processi attraverso i quali le società industriali si stanno riorganizzando in una crisi di mutamento profonda, non garantiscono adeguati livelli occupazionali. C'è un problema di caduta di occupazione che, oltre riguardare i settori tradizionalmente deboli del mercato del lavoro, i giovani, le donne, i lavoratori del sud, interessano ormai anche settori tradizionalmente forti. Il maschio bianco quarantenne occupato nell'industria, che era merce rara, oggi sta diventando disoccupato anche nelle realtà industriali del nostro Paese.
In questo contesto è difficile non accettare e non prevedere esplicitamente che, di fronte ad una crisi che ha queste dimensioni e ad una caduta occupazionale che si presenta con i carattere di irreversibilità, non si debbano fare interventi di natura assistenziale.
Non è contro l'assistenzialismo che va puntato il dito, ma contro l'assistenzialismo che pretende di essere altra cosa.
Qui è la differenza tra la posizione che i socialisti esprimono ed alcuni spunti che sono emersi dalle tesi di altri colleghi in questo Consiglio: il ritenere l'assistenzialismo di per sé un elemento negativo quasi ci potessimo dimenticare che disoccupazione significa per decine e centinaia di persone problemi da risolvere per i bisogni elementari della vita, il cibo, il vestiario, il riscaldamento, la famiglia, la casa; quasi che questi problemi fossero problemi da lasciare nelle statistiche dell'economista e non invece problemi di vita della gente di cui ci si deve far carico.
Il problema è di non confondere le esigenze di interventi, che sono anche di tipo assistenziale, con le esigenze di crescita e di sviluppo qualitativo del sistema industriale; il problema è di non confondere gli interventi di tipo assistenziale, pur necessari, con quelli di tipo innovativo che sono altrettanto necessari.
Da questa crisi che investe tutto il mondo industriale i sistemi forti usciranno più forti e noi corriamo il rischio di uscirne più deboli. Di qui deve partire l'accento forte sul discorso dell'innovazione e della riqualificazione del sistema produttivo. Questo discorso non deve riguardare esclusivamente i comparti ad alta tecnologia, ma gli elementi innovativi nelle produzioni tradizionali che sono e resteranno per lungo tempo i punti di forza del nostro sistema industriale.
Guai a dimenticare che c'è un elemento di innovazione di cui hanno bisogno i settori tradizionali, senza dei quali i settori tradizionali vanno in crisi. Non parliamo sol tanto dell'elettronica, della biochimica delle altissime tecnologie, ma parliamo dell'attività tessile, meccanica alimentare. E non si deve parlare soltanto di progetti di innovazione verticali, ma di progetti orizzontali, quindi risparmio energetico trasferimento di innovazioni e di diffusione dello sviluppo tecnologico con una forte componente che è di grande intervento a livello centrale da un lato e che dall'altro chiama in causa anche i livelli periferici, in particolare le Regioni.
Il nostro Paese è in ritardo, innanzitutto perché dedica alle spese per ricerche e sviluppo una quota che sul PIL è di meno della metà di quella media degli altri Paesi concorrenti, perché queste risorse sono disperse in una miriade di leggi e di fondi divisi. Oggi, teoricamente, dovrebbero funzionare quattro fondi per la ricerca, il fondo IMI, i contratti di ricerca, il fondo di innovazione del Ministero dell'Industria e la legge 675, fondi che, con le varie leggi finanziarie, si tende a tagliare nelle risorse che erano distribuite.
Nella gestione di questi fondi ci sono poi inefficienze, ritardi sistemi farraginosi. Abbiamo necessità di ingenti interventi per garantire le risorse che sulla carta dovrebbero essere disponibili in una misura inedita per il Paese. Viglione, nel suo intervento, ci richiamava ad un'attenta considerazione del quadro nazionale di governo perché accanto a responsabilità e a colpe, che non si possono tacere, bisogna riconoscere che in questo momento sul terreno dei fondi disponibili per l'innovazione e la ricerca esiste una quantità tale di risorse teoricamente stanziate che il Paese non ha mai avuto nella sua storia.
Quindi c'è l'occasione per utilizzare una massa di risorse ingentissima che è a disposizione, ma che deve essere incanalata in vie praticabili e per progetti che diano dei risultati; quindi i fondi per l'innovazione non devono diventare un semplice schermo per interventi di tipo assistenziale clientelare o per risolvere situazioni di crisi per le quali ci vogliono interventi diversi: non finto utilizzo di risorse per la ricerca che va invece a coprire voragini delle Partecipazioni Statali o delle grandi aziende in crisi.
Ci aiuta l'esperienza degli altri Paesi. In un saggio recente un economista richiamava due line strategiche che sulla politica di ricerca e sviluppo si praticano nei Paesi industriali dell'occidente, da un lato quella che è stata chiamata "colbertismo", cioè rapporto Stato - grande impresa, la grande capacità di razionalizzare e di dirigere in modo organico dal centro la politica dell'innovazione e, dall'altro, una forte diffusione di iniziative capaci di mobilitare le piccole imprese, i consorzi di imprese, la diffusione dell'innovazione tecnologica dell'utilizzo delle provvidenze e delle risorse finanziarie in periferia le istruttorie, quel decentramento di iniziative che, proprio perché viene più direttamente a contatto della realtà periferica del sistema produttivo solo in periferia può essere fatto con qualche risultato.
Ci vogliono l'una cosa e l'altra, la razionalizzazione e il centro motore nazionale. Torna insistente ogni volta la proposta di creare il Ministero della politica industriale, unico Ministero in grado di determinare la politica raccogliendo le competenze disperse nei diversi Ministeri. Ma c'è anche la necessità di un ruolo delle Regioni come supporto di una politica decentrata, di trasferimento dell'innovazione tecnologica.
Sotto questo profilo dovremo incominciare a discutere. Esiste un progetto dell'ammodernamento del sistema produttivo che è stato richiamato nella relazione del Vicepresidente Sanlorenzo, che è scritto nel piano di sviluppo. Sono queste le cose che abbiamo indicato nel piano di sviluppo.
Intanto va detto che la "mitologia" della programmazione regionale va abbandonata da tutti, dai detrattori come dagli esaltatori. E' finita l'epoca della programmazione onnicomprensiva capace di risolvere miracolosamente tutti i problemi di una realtà regionale. I tempi sono cambiati.
Non ho difficoltà ad ammettere che sette-otto anni fa potevamo pensare diversamente.
Pensate che, se leggessimo le cose che abbiamo detto otto anni fa, non troveremmo contraddizioni o non avremmo dei ripensamenti? Ringraziamo Dio che abbiamo il cervello capace di funzionare e quindi sappiamo adeguarci ai mutamenti della realtà.
Possiamo anche pensare che nel 1975 avessimo avuto delle ambizioni più ampie. Chi nel 1 975 non aveva, in tema di politica regionale, ambizioni più ampie di oggi alzi la mano. In verità, i tempi sono cambiati e dobbiamo anche ridimensionare il ruolo della Regione alla luce della realtà in cui ci troviamo a vivere oggi.
Il piano non può essere onnicomprensivo, deve essere articolato per progetti e per obiettivi definiti. I progetti che abbiamo messo a punto (forse li chiameremo programmi per non confonderli con i progetti) per le undici aree di intervento che sono definite nelle aree di piano, sono un tentativo di individuare più concretamente gli obiettivi da raggiungere.
Badate, si può dissertare a lungo su cosa sia o cosa non sia un piano però, il materiale che la Giunta ha messo a disposizione del Consiglio, i tre volumi che contengono le indicazioni relative alla situazione socio economica, le analisi per le diverse aree-problema, le schede delle tavole rotonde, le indicazioni di orientamento di fondo della programmazione economica e della pianificazione territoriale, l'indicazione delle undici aree di progetto, sono sufficienti per incominciare a discutere.
Intanto occorrerà vedere se c'è l'accordo di tutti prima di riempire dei contenuti gli undici progetti. Per esempio, sul progetto dell'ammodernamento del sistema produttivo si può già discutere per giorni interi.
La situazione è mutata perché è cambiato il quadro economico in cui ci troviamo ad operare e perché è cambiato il quadro nazionale. Oggi c'è necessità di un maggiore raccordo con il livello centrale perché i nodi più grossi rimbalzano tutti a livello centrale, quelli della politica industriale e quelli della politica finanziaria.
Le Regioni non sono più soggetti autonomi di spesa. Questo deve essere ben chiaro. Quindi nessuna politica di spesa può essere fatta prescindendo dal quadro nazionale e dalle compatibilità fissate nel quadro nazionale. Le risorse a nostra disposizione sono scarse, soprattutto quelle libere. La necessità del raccordo con il quadro nazionale è dunque stringente.
E' in atto un forte ridimensionamento del ruolo delle Regioni. Se non vogliamo vederlo, sbagliamo ed abbiamo ritardi nelle risposte giuste. E' finita una stagione perché non c'è più lo sviluppo che abbiamo conosciuto negli anni passati. Siamo di fatto alla crescita zero, che respingiamo con la volontà e con le proposte, ma che risulta dai dati statistici.
Il 1981 è stato un anno di crescita negativa. Il 1982 al massimo avrà mezzo punto percentuale sopra lo zero.
E' finita l'epoca della finanza pubblica espansiva. Andiamo verso un tendenziale decremento in termini reali e nominali della spesa pubblica: c'è un ridimensionamento del sistema del Welfare State. E' finita l'epoca delle grandi trasformazioni istituzionali che davano alle Regioni il grimaldello per fare saltare lo Stato che è uscito dal processo di unificazione del 1865.
Le innovazioni istituzionali che le Regioni avevano condotto, i Comprensori, rifluiscono in una rivitalizzazione della provincia che, se non stiamo attenti, significherà soltanto accettarla così com'è. La carica innovativa dei processi di revisione istituzionale si è venuta perdendo.
In questo contesto abbiamo tre possibili atteggiamenti. Da una parte quello di vivere angosciosamente la nostra condizione come una famiglia benestante caduta improvvisamente in povertà e che passa il suo tempo ad interrogarsi su come erano belli i tempi del passato o, peggio ancora, come quel benestante diventato povero e così scemo che non si accorge nemmeno del suo stato di povertà; il secondo atteggiamento è quello di accettare un ruolo di terminale passivo di un processo tutto accentrato al centro: le Regioni soldi da spendere ne avranno sempre, ruoli delegati anche, fanno l'anello finale dello Stato, diventano un ente di decentramento amministrativo e burocratico e si accontentano di questo ruolo; il terzo atteggiamento, che mi pare l'unico ragionevole, è quello di accettare un ridimensionamento di ruolo, di ambizioni, di programmi, ma forzando il ruolo della Regione nel senso dell'innovazione, della messa a punto di nuove procedure amministrative, della messa a punto di nuove procedure di spesa, inserendosi in un processo di ammodernamento, di evoluzione e di sviluppo delle strutture pubbliche del Paese.
Guai se presentiamo, come parametro di efficienza e di efficacia dell'azione regionale, soltanto il conto delle spese che siamo in grado di finanziare. L'elemento spesa come parametro di efficienza della Regione non è più praticabile anche se dobbiamo attentamente cogliere tutti gli stimoli che sono necessari per rendere massima l'efficienza.
Il richiamo di Viglione ai residui passivi è pertinente nel senso che si devono adottare delle legislazioni di spesa capaci di innovare, anche qui sapendo che la politica sul piano della spesa pubblica non è quella di far quadrare i conti secondo la logica della cassa e del breve momento.
Tutti noi ricordiamo un'intervista del Ministro Andreatta comparsa su "Repubblica" l'anno scorso nella quale il Ministro faceva l'elogio dei residui passivi come strumento di governo della finanza pubblica. Diceva Andreatta che con i residui passivi il bilancio va a posto perché si stanziano delle somme che non si spendono, quindi sul piano della Cassa che al Tesoro interessa, le risorse non ci sono.
Questa è la politica degli slittamenti, degli impegni presi e rinviati che, in tempi di inflazione, distrugge le risorse.
E' invece necessario procedere con l'innovazione legislativa, con la revisione delle leggi dell'urbanistica, delle opere pubbliche, sapendo che il parametro spesa, pure importantissimo, è solo uno degli aspetti della vita e del ruolo della Regione. I progetti che andiamo ad attivare, che in molta parte sono integrati con quelli dello Stato, non devono consistere solo in spesa da erogare, ma anche in istituti nuovi da introdurre. Valga per tutti il discorso che si è fatto sull'agenzia del lavoro e sull'osservatorio del mercato del lavoro, istituti nuovi sul piano dell'organizzazione istituzionale e del raccordo con gli Enti locali e in genere con gli enti gestori della spesa diretta sul territorio.
Il Consigliere Brizio lamenta che alla Finpiemonte vengano dati nuovi e diversi ruoli nel protocollo di intesa tra Regione e sindacati. Non credo che in quel protocollo si dia alla Finpiemonte un ruolo di salvataggio proprio perché personalmente si è fatta la battaglia perché questo non avvenisse. Del resto, il testo dell'accordo non lascia emergere un ruolo di questo tipo.
Vengono però dati ruoli nuovi, un intervento più attivo, nell'ambito della politica industriale, un tentativo di definire delle forme di conoscenza e di indagine delle realtà aziendali in crisi. No all'intervento in forma diretta o in forma surrettizia nelle imprese perché non vogliamo la GEPI regionale. Resisteremo sempre ad ogni tentazione di fare una GEN regionale perché riteniamo che sarebbe, oltre al resto, inutile.
Ripeto, l'innovazione e progetti fortemente innovativi sul piano delle strutture e dell'organizzazione sono necessari a questa Regione e ne discuteremo presto.
Vorrei chiudere con un brevissimo richiamo ad un punto che è stato oggetto di polemica questa mattina.
Abbiamo indicato al Governo centrale una serie di progetti che dovrebbero essere finanziati dalla legge finanziaria, che non considererei un'enorme novità legislativa.
E' finalmente approdato a dignità di fondo un capitolo che contiene finanziamenti per le amministrazioni centrali e per le Regioni in cui ci confrontiamo con progetti che si sottopongono ad un'analisi di fattibilità.
Ci costringiamo noi stessi, quindi, a muoverci su un terreno innovativo e moderno nelle procedure di progettazione e di spesa. Sul piano delle risorse, però, mobiliterà una cifra modesta (qualche miliardo).
In una realtà di risorse scarse, abbiamo censito tutti i progetti pronti, anche per cominciare a fare un esperimento su come questi progetti debbono essere tradotti in schede per diventare compatibili con le esigenze della programmazione nazionale. Ma le priorità individuate sono state quelle interregionali, progetto Po e quindi un'operazione di disinquinamento e di sistemazione idrogeologica.
Questa opera probabilmente avrà un parziale finanziamento.
Non abbiamo ritenuto di indicare altre priorità della Regione, come le aree industriali attrezzate, non perché questa politica non rientri nelle priorità della Regione, ma perché abbiamo ritenuto di coprire questa politica con le nostre risorse.
Noi chiediamo che siano stanziate forti somme a favore dell'industria piemontese, che deve poter accedere ai fondi di ricerca e che è destinataria di finanziamenti diretti dello Stato. Ci è parso di non chiedere allo Stato di finanziare una parte che la Regione può, con il suo contributo, finanziare.
Quindi, mettendo in carico al nostro bilancio le aree industriali attrezzate, come contributo della Regione all'ammodernamento e alla qualificazione del sistema industriale, abbiamo chiesto allo Stato di finanziare il sistema delle imprese perché questo è compito proprio dello Stato.
Dovremo abituarci a seguire il metodo dell'integrazione sempre più stretta tra politica regionale e politica dello Stato, tra finanziamenti regionali e finanziamenti statali, tra iniziative comuni e coordinate perché anche in questa novità sta il piano di sviluppo della Regione.
Siamo sempre meno un ente autarchico dotato di propri poteri, di proprie risorse, di proprie illimitate possibilità di spaziare sull'universo e sempre di più un momento di un discorso globale che deve scontare compatibilità globali, raccordi operativi e deve scontare di essere una particella di un sistema complesso di cui facciamo parte.



PRESIDENTE

La parola all'Assessore Sanlorenzo.



SANLORENZO Dino, Assessore al lavoro

E' già stato detto che si è trattato di un dibattito utile e questo pu essere scontato perché quasi tutti i dibattiti sono utili, tuttavia credo siano più utili quei dibattiti in cui c'è chi parla e chi ascolta, chi propone e chi dà risposte alle domande che vengono avanzate. Da questo punto di vista cercherò di assolvere alla funzione di coloro che debbono concludere un dibattito cercando di rispondere ai quesiti che sono stati posti e, forse, cercando di fare quello che la Giunta deve fare quando un dibattito spazia in tutte le direzioni, senza perdere di vista la concretezza con cui dobbiamo operare; quindi dando preminenza alle questioni che concernono o la critica all'azione della Regione o le proposte che concernono la nostra azione, giacché se il dibattito nella sua apertura non poteva non inquadrarsi anche nei temi di politica generale ed internazionale, giustamente deve ricondursi alla nostra dimensione.
Fa sorridere il fatto che sia la Giunta che richiami a fare attenzione a questioni che dipendono da noi; altre volte è successo l'inverso comunque sarà forse già questo un risultato del dibattito e nessuno potrà dispiacersene.
Mi sia consentito di obiettare al Consigliere Brizio, secondo cui la terapia di chi governa non può che essere o neoliberista o monetarista perché la stampa di oggi ci informa su repentini mutamenti di chi aveva imboccato una politica monetarista e che poi l'ha dovuta cambiare, di chi aveva reputato la politica keynesiana, sia nelle sue espressioni vecchie che in quelle nuove, uno strumento non più praticabile c che poi ricorre angosciosamente a modifiche di percorso per far fronte ad una situazione che è modificata.
Il Presidente Reagan ieri ha comunicato al mondo che persino suo figlio è disoccupato, ma questa potrebbe essere soltanto una notazione di colore.
Quando invece dice come riporta Ennio Caretto: "Reagan ha finalmente preso atto del ruolo devastante assunto dalla disoccupazione. Vale qui la pena di notare che egli ha seguito a ruota l'Istituto di Emissione Americano che la settimana scorsa ha rettificato la propria rotta abbandonando la politica di deflazione. Il Presidente, anzi, alla vigilia del discorso, ha firmato un decreto per il varo di opere pubbliche per un milione di posti di lavoro" fa esattamente il contrario di quello che aveva detto e fatto.
La cosa più sorprendente però non è soltanto quello che ha detto e fatto Reagan ieri, ma è quello che ha detto ieri Strauss in Germania. Certe sicurezze, certe fiducie acritiche, certe dichiarazioni ideologiche, che abbiamo anche sentito in questo Consiglio, debbono anche fare i conti con quel pragmatismo, con quella variabile delle ideologie e delle politiche economiche a cui si riferiva il Consigliere Mignone nel suo intervento, che portano Strauss a fare il discorso più socialdemocratico che abbia mai fatto nella sua vita, quando propone esattamente l'opposto di quello per cui si era battuto per ottenere i voti che in parte gli sono venuti e quell'indebolimento dell'alleanza socialdemocratico - liberale per il quale aveva lavorato tanto e che adesso lo porta a sostenere la necessità di fare una grande politica di investimenti e di fare strade, università, cliniche scuole, ecc.
Si riconferma la difficoltà dell'operare in questa crisi qualitativamente nuova che porta a dover ripiegare per sperimentare sperimentare ed ancora sperimentare.
Non diversamente siamo collocati noi nel nostro Paese e nella nostra Regione. Di qui la modestia nel presentare gli esperimenti nuovi di programmazione con cui ci siamo presentati, però anche l'acquisizione da parte dell'opposizione, la consapevolezza del fatto che non ci si pu richiedere rigori, precisioni, metodologie che noi stessi diciamo non più percorribili.
La polemica sul piano dura da settimane.
Il piano è quello che siamo stati in grado di presentare finora che deve essere precisato nei contenuti e che non deve tardare nel confronto con le forze politiche. Certamente ci vogliono anche le voci finanziarie sugli undici progetti.
A nessuno può sfuggire il fatto che la determinazione delle quote finanziarie che debbono sostenere i singoli progetti è una variabile che dipende da come andrà a finire la legge finanziaria e da come va a finire la vertenza del sistema delle autonomie locali, tutte unite nel rivendicare un rapporto con il Governo diverso rispetto al taglio della spesa pubblica.
I Presidenti delle Regioni d'Italia, d'intesa con L'ANCI, sono d'accordo di addivenire ad una convocazione simultanea di tutti i Consigli comunali e regionali se non passano le loro proposte. Questo è il termine del confronto.
Questo non vuol dire non accettare l'idea del taglio della spesa pubblica e la riduzione del deficit pubblico. Chi sostiene che non è necessario questo? La divergenza nasce là quando si dice chi deve pagare di più, chi deve pagare di meno, nasce sull'equità con cui si deve procedere.
Il discorso potrebbe andare avanti, ma io voglio rientrare subito nell'impegno che mi sono dato di dare delle risposte alle questioni.
Sono state avanzate delle proposte. Tre Consiglieri sono intervenuti su un punto che ritengo di grande interesse: la questione dei giovani e delle donne. I Consiglieri Vetrino, Montefalchesi e Picco hanno sottolineato la gravità particolare della disoccupazione giovanile; aggiungerei che questa disoccupazione ha carattere permanente.
Aggiungo ancora l'importanza della centralità del problema dell'occupazione (non vorrei citare Reviglio dopo aver citato Forte per non farmi dire che cito soltanto esponenti socialisti). In verità, l'on.le Reviglio, più di altri, si batte per la centralità del problema della disoccupazione non tanto per l'immediato ma per quanto riguarda la prospettiva.
Tradurrei i suggerimenti che i Consiglieri hanno avanzato nella proposta di elaborazione di un progetto che concerne il modo di intervenire, però non partendo da zero perché nelle proposte che abbiamo avanzato nella relazione introduttiva molte indicazioni sono rivolte ai giovani e alle donne.
Un capitolo chiamato "Cooperazione" contiene l'impegno della Giunta nei confronti di lavoratori al di sotto dei trent'anni. Tutti i progetti socialmente utili tendono ad intervenire in quella fascia grande di giovani che potranno trovare nei prossimi otto mesi lavoro. E' un tentativo di risposta e di esperimento.
E' stato proposto da parte del Consigliere Bastianini un dibattito sugli 84 progetti, una verifica di quanto è stato fatto e quanto ancora deve essere fatto. Siamo d'accordo. Si potrà eventualmente coordinare questo dibattito con quello delle undici aree del piano. La Giunta è pienamente disponibile per un confronto tra ciò che abbiamo fatto noi, ci che ha fatto il Governo, ciò che abbiamo ottenuto e ciò che non abbiamo ottenuto; luci ed ombre, lungo una linea di cui rivendichiamo la coerenza.
La linea degli 84 progetti era la linea della lotta contro le conseguenze negative sull'occupazione e contro l'inflazione: avevamo presenti quei due termini del problema a cui abbiamo cercato di uniformare il documento di piano e gli undici schemi-programma.
La Giunta non si sottrae a questo confronto. Fissiamone la data e i contenuti.
Ci sono state poi delle importanti convergenze di opinioni da parte di tutti i Gruppi politici. La prima è quella sul giudizio della crisi. C'è stato ancora qualche spunto polemico sul catastrofismo, ma sostanzialmente e a questo punto non si può più dire che fra di noi ci sono rilevanti differenze sulla gravità della crisi e sulla necessità di affrontarla con metodi nuovi; non ci sono divergenze.
Questo è un punto importante di conclusione di un dibattito.
Ci sono anche delle convergenze su molti punti dei documenti della Regione in ordine alla politica industriale: il rifinanziamento della legge 675, i piani di settore, la modifica della legge 902, la politica di attuazione della legge 240 e ciò che la Regione deve fare per impinguare questi fondi, l'importanza della legge 46, la necessità della rapida approvazione da parte del Parlamento della legge 1602.
Sono punti molto importanti dei quali però occorre conoscere le conseguenze. Se su di essi siamo d'accordo vi è una convergenza con l'obiettivo indicato dalla Giunta e cioè il rifiuto della crescita zero.
Essere d'accordo su questo e battersi per questo vuol dire fare quella scelta che ho introdotto nella discussione citando quella frase del prof.
Forte quando dice: "facciamo una scelta contraria alla crescita zero".
Ma non è così pacifico, né a livello delle forze politiche nazionali n all'interno del Governo.
Noi facciamo questa scelta negli 84 progetti, nel nuovo piano di sviluppo, correndo certi rischi, consapevoli però che sono costretti a correrli anche quelli che all'inizio avevano pensato di scegliere una strada diversa.
Noi siamo per la ripresa degli investimenti qualificati. Benché tutte le forze politiche abbiano presente che il problema fondamentale è di reperire i finanziamenti, non tutti sono d'accordo di fare la scelta che la Giunta indica.
Ci sono dei problemi sui quali l'opinione è differente. La prima opinione sulla quale non c'è convergenza di tutti è quella che è stata sollevata dal Consigliere Bastianini il quale ripropone alla Giunta di compiere una scelta ideologica, che la Giunta non può compiere.
La Giunta che regge la Regione Piemonte non è una Giunta ideologica, ma è una Giunta di coalizione, è una Giunta che trova nel programma i punti del suo impegno.
E' una Giunta che ha più valori per stare assieme, valori che non riguardano soltanto il programma (ma questa può essere una sottolineatura della parte a cui appartengo). Credo però che non sia del tutto banale dire che i valori che mettono assieme tre partiti, comunista, socialista e socialdemocratico, non sono soltanto nel programma. La Giunta però risponde di quello che fa sulla base del programma che presenta.
Il Consigliere Bastianini non può chiedere alla Giunta di fare delle scelte ideologiche, può invece chiedere di fare delle scelte programmatiche.
Se invece per ideologia si intende il fatto che la Giunta opera in questo sistema economico, in questa Europa, in quest'Italia costruita dalla Costituzione repubblicana, allora questa scelta è stata fatta da tempo. E' stato anche ricordato che le ideologie non sono dei Talmud, ma hanno un loro divenire. Questa revisione critica l'hanno fatta tutti i partiti ed ognuno ha saputo dare contenuti nuovi ed aggiornati.
Le scelte di principio sono state fatte anche dai partiti di questa Giunta in difformità con ciò che avevano fatto in passato. E oggi sono patrimonio di tutti. Non ci si può chiedere però di essere una cosa diversa da quello che siamo.
Chiarito il fatto che non ci può essere distinzione fra di noi sulla questione del catastrofismo, sono più tranquillo nel fatto che tutti i Consiglieri non potranno che cogliere le notizie che devo dare, nella dimensione e nel valore, non emblematico e non drammatico, ma più grave di quella che era a loro conoscenza.
Ho fatto distribuire ai Capigruppo l'aggiornamento (non completo) sui dati della cassa integrazione. Devo purtroppo comunicare che nell'ultimo mese c'è stato un incremento di 36 aziende che hanno richiesto la cassa integrazione straordinaria e di 3.960 lavoratori in cassa straordinaria per cui oggi siamo a 475 aziende in crisi e a 64 mila lavoratori in cassa integrazione: il più forte incremento che abbiamo registrato dal mese di maggio 1981 ad oggi.
Non aggiungo nessun aggettivo. Né vorrei farmi un'autocritica per aver dato queste cifre. L'aritmetica dice questo e non è colpa della Giunta regionale se le cose stanno così.
Alla proposta del Consigliere Bastianini di andare a verificare, siamo disponibili. Queste cifre sono dell'Ufficio regionale del Lavoro, del Ministero del Lavoro e sono quelle che servono a paragonare le situazioni d'Italia, tra le quali c'è la situazione tra il Piemonte e la Lombardia. E qui c'è un elemento di distinzione tra la tesi del Consigliere Brizio e la mia.
La sua tesi pareva questa: la situazione del Piemonte è grave, ma non è più grave di quella della Lombardia tenendo conto delle strutture esistenti.
In Lombardia, in questo momento, ci sono 51.485 lavoratori a zero ore con una popolazione di 8 milioni di abitanti e con una percentuale di lavoratori occupati nell'industria che è doppia della nostra. Inoltre le aziende in crisi sono 522. In Piemonte sono 475.
La popolazione è metà di quella della Lombardia.
Non pronuncio la frase "caso Piemonte". Faccio soltanto presente che i dati sono questi. Non c'è dubbio che andrebbero depurati di ciò che pu essere successo all'interno di questo grande corpo che cresce, per vedere quanti lavoratori hanno trovato una dislocazione autonoma senza passare attraverso le registrazioni. Tuttavia, questo è pressoché impossibile farlo. Serve però l'andamento tendenziale. Poiché la meccanica della legislazione è sempre la stessa anche la depurazione è sempre la stessa.
Quindi questi dati valgono come elemento di tendenza, non certamente come elemento di unità.
Sarebbe stato più opportuno soffermarsi sui giudizi di merito delle proposte avanzate nella relazione che sono venuti solo dai Gruppi della maggioranza, che hanno dichiarato il consenso.
Ricordo che nella relazione vi erano 18 proposte e vorrei sapere se su di esse la Giunta è incoraggiata ad andare avanti o meno. Negli interventi di alcuni Gruppi è stato detto qualche cosa, ma quella scelta che ricordava l'Assessore Simonelli sull'innovazione non ha avuto l'ampiezza che meritava.
Abbiamo proposto di "concedere agevolazioni integrative di quelle stabilite dalla legge nazionale per favorire il consorziamento fra piccole e medie industrie; prefinanziare programmi di ricerca proposti da piccole e medie imprese all'IMI; rafforzare il ruolo del fondo di garanzia già costituito presso la Finpiemonte; avviare una politica di formazione a favore delle piccole e medie industrie risultate dalle ricerche finalizzate; agevolare gli investimenti tecnologici e migliorare l'efficienza dell'impresa; completare l'azione già iniziata...", ecc.
Se siamo d'accordo di fare tutto questo è del tutto evidente che il bilancio del 1983 cambia. Quale altra corretta proposizione può fare la Giunta se non quella di presentare gli intendimenti, riceverne il conforto e trarne le conclusioni nell'ambito del possibile? Noi abbiamo fatto questa operazione. Abbiamo proposto coerentemente la scelta di fondo della crescita "non" zero e del riconoscimento che l'ammodernamento del sistema produttivo è la questione fondamentale.
Dopodiché conseguono queste cose, che faremo nella misura in cui i fondi lo consentiranno; ma questo diventerà un terreno di confronto sul bilancio.
Interpreto i consensi venuti e i silenzi come un incoraggiamento ad andare avanti in questa direzione.
Se così è, vuol dire che c'è un rilevante consenso da parte del Consiglio regionale.
Più minuziosamente sono state fatte osservazioni su altre questioni contenute nelle proposte, alcune di queste non sono condivisibili da parte della Giunta. Per esempio, la proposta del Consigliere Brizio di non accettare corsie preferenziali sull'osservatorio del lavoro perché l'Unione Industriale ha espresso opinioni diverse.
Non so che cosa voglia dire "corsia preferenziale". Il progetto è in avanzata fase di discussione nella Commissione del Consiglio e, quando la Commissione finirà i suoi lavori, licenzierà il progetto. Se dovessimo ritardare l'istituzione, con tutti gli apporti che i Gruppi del Consiglio possono dare all'osservatorio del lavoro, non capirei perché dovremmo fare questo. Si è fatto questo in molte Regioni d'Italia ed è stato fatto perch è utile farlo. Non vedo quale vincolo dirigistico ci possa essere nel capire meglio che cosa succede nel mercato del lavoro in Piemonte.
C'è un'obiezione di principio. La Regione non deve preoccuparsi di aumentare questi elementi di conoscenza. Non è detto che, dato che lo dice l'Unione Industriale, debbano avere ragione loro; deve prevalere il concetto regionalista, che è stato condiviso dalle autonomie locali e dai sindacati, di attuare rapidamente quello strumento.
Il Consigliere Brizio ha manifestato dei dubbi e delle perplessità sui lavori socialmente utili. Adesso però ci troviamo di fronte ad un progetto della Regione ed attendiamo che il Governo ci dia una risposta. Le perplessità devono manifestarsi su proposte diverse da quelle che abbiamo presentato, siano modificative o aggiuntive; almeno si rifiuti in partenza il concetto di presentare progetti in quella direzione. Ma mi pare difficile.
Il Consigliere Brizio parla delle cooperative e manifesta su questo molto interesse. Devo precisare che non si tratta più di interesse. Si tratta del fatto che ci sono 100 miliardi stanziati in una legge finanziaria del 1982. Il Parlamento però non ha ancora esaminato il progetto di legge Marcora.
Allora in che cosa sta la distinzione, a cui il Consigliere ha fatto riferimento, fra noi e l'attuale formula del progetto? Che il progetto sembra essenzialmente destinato a fare in maniera che i lavoratori delle aziende in crisi si assumano la gestione dell'azienda con il contributo dello Stato. Questa può essere una strada praticabile e questa strada quando sarà approvata la legge, sarà seguita anche dalla Regione.
Da me è stata avanzata, per esempio, per risolvere il problema della Grisfond, problema è però un altro. Noi cerchiamo di percorrere assieme a quella, anche la strada dello sviluppo della cooperazione.
Si stanno compiendo in Piemonte esperienze ancora modeste nella quantità ma interessanti per la qualità e cerchiamo, naturalmente non introducendo criteri della legislazione regionale in quella nazionale che favoriscano al di fuori del lecito ciò che invece bisogna favorire, di promuovere su una base produttiva seria, una prospettiva che faccia sì che i giovani e i cassintegrati che possono dedicarsi alle cooperative non siano degli assistiti, ma siano dei produttori coscienti, forze produttive nuove in una Regione dove, d'altra parte, la cooperazione ha bisogno di esprimersi.
Ma la questione sta nei termini di una risposta che il Governo e il Parlamento devono darci, in un rapporto dialettico non conflittuale per fare in modo che si esca con stanziamenti sicuri e con un progetto regionale in quella direzione.
Il Consigliere Bastianini ritiene che, in fondo, la Regione ha fatto persino di più di quanto appaia all'esterno. Non lo so. Può darsi che ci sia un difetto di informazione.
Se questo voleva fare riferimento alla politica delle aree attrezzate devo dire che i dati che abbiamo consegnato in questo momento sulle aree attrezzate dicono che cosa abbiamo fatto in questo campo e quali sono le intenzioni per il prossimo futuro.
In sostanza, nel documento c'è una descrizione minuziosa di un'azione già svolta, non di un impegno da assumere.
L'Assessorato al lavoro non ha svolto la sua attività soltanto nel rendere noti i bollettini sui cassintegrati, ma, con altre parti della Giunta, ha realizzato altre cose, per esempio i 100 miliardi di investimenti per le aziende che si sono sistemate in quelle aree con 2.000 posti di lavoro e con altre iniziative che devono ancora essere attuate secondo il piano che la Giunta ha annunciato e secondo gli stanziamenti fatti e quelli da compiere.
La battaglia perché in futuro questi stanziamenti ci siano è tutta aperta. Ci sarà un confronto sui fondi che avremo a disposizione sul bilancio 1983 e sulle scelte che dovremo compiere.
C'è un impegno della Giunta di presentare il bilancio per il 1983 in tempi così utili e cosi ravvicinati da consentire che ci sia il minimo di discrepanza fra l'impegno che ci assumiamo qui e la concreta attuazione di esso.
E' evidente che la dislocazione di quote rilevanti di bilancio da un settore ad un altro deve essere accompagnata dalla "dizione" che indica da dove si deve togliere per impinguare il bilancio, adesso così modesto.
Non so quali intenzioni abbiano i Capigruppo relativamente al dibattito che abbiamo svolto. Mi pare che ci sia una proposta di votare un ordine del giorno sulla questione dei lavoratori Venchi Unica e sull'impegno che abbiamo assunto con il Governo per la prossima settimana.
Vorrei dare ancora una risposta alla dichiarazione che ha dato l'ing.
Annibaldi su "Repubblica", dove segnala un fatto di cui anch'io avevo dato la stessa interpretazione.
In sostanza, la Fiat finora non ha ricevuto una lira del denaro pubblico. Qui viene fuori la discrepanza consueta fra gli stanziamenti che vengono annunciati e la corresponsione concreta dei quattrini.
Ci dogliamo di questa discrepanza che fa sì che il denaro, quando arriva, vale di meno a causa del tasso di inflazione. Tuttavia, questa non può essere un'attenuante o una scusante rispetto alla questione che aveva sollevato il Consigliere Montefalchesi.
Noi siamo per il rispetto degli accordi siglati. Si capisce che il problema va visto alla luce della situazione economica e della persistente caduta del mercato automobilistico. Però, per quanto riguarda la Regione c'è un aspetto particolare che va sottolineato. C'è stata la discussione sulla deliberazione se deve essere fatta dal Consiglio o dalla Giunta. Le nostre posizioni sono divergenti. Mi pare che non ci fosse però divergenza sul fatto che bisognava approvare il piano di finanziamento della Fiat.
Noi abbiamo fatto questo. C'è una clausola assieme al finanziamento che dice: "l'attuazione del progetto M1 dovrà essere fatta attraverso consistenti aliquote di lavoratori che verranno riassorbiti".
Su questo insistiamo perché è un impegno assunto pochi mesi fa. Questo fatto cambia qualitativamente il tipo dell'impegno. C'è un rapporto sindacato - Governo - Fiat che deve trovare le sue linee, le sue sedi conflittuali, ma c'è l'aspetto particolare della Giunta regionale che diede il parere favorevole proprio perché il progetto comprendeva il rientro di aliquote significative di lavoratori. E' un impegno preso a ragion veduta quando tutti i termini della situazione occupazionale Fiat erano del tutto noti sia all'azienda che a noi.
Credo che su questo terreno qualche cosa otterremo. Infatti, non c' nessuna dichiarazione dell'azienda che neghi questo impegno assunto due mesi or sono.
Un prossimo incontro tra la Giunta e la Fiat, reso necessario per tanti altri elementi di interesse comune, non potrà non mettere al centro della discussione anche il rispetto di questo particolare tipo di impegno, che è diverso dall'altro e che è relativo ad un progetto di sviluppo dell'azienda automobilistica.
Ho ritenuto di dire questo anche per fare chiarezza su una questione sollevata dal Consigliere Montefalchesi.



PRESIDENTE

Il Gruppo repubblicano ha presentato un ordine del giorno. Altri Gruppi intendono presentare un ordine del giorno? La parola al Consigliere Bontempi.



BONTEMPI Rinaldo

Da una prima visione dell'ordine del giorno presentato dal Gruppo repubblicano, ritengo che sia ampiamente condivisibile, ma che manchi di una valutazione sulle iniziative e l'operato della Giunta.



PAGANELLI Ettore

Ritengo anch'io che l'ordine del giorno presentato dal Gruppo repubblicano richieda un esame più approfondito.
Chiedo al Presidente del Consiglio di fornire ai Consiglieri il resoconto stenografico delle repliche degli Assessori entro due-tre giorni.



VIGLIONE Aldo

Il dibattito ha evidenziato molti punti comuni anche se nell'immediatezza dell'intervento, possono essere state date delle interpretazioni non perfettamente rispondenti alla realtà. Le repliche degli Assessori hanno comunque fatto giustizia.
Questo dibattito è di importanza eccezionale. La partecipazione dei Gruppi è stata molto alta e qualificata e lo sforzo compiuto dalla collega Vetrino ci induce ad una meditazione.
Sarebbe opportuno poterci trovare su un terreno comune per esprimersi in modo concorde. Pertanto le repliche degli Assessori sono necessarie ed importanti, ma è importante disporre anche dell'intero dibattito, per poter concordare una proposta di ordine del giorno unitario nella prossima seduta.



BONTEMPI Rinaldo

Siamo d'accordo di presentare e votare, nella prossima seduta, un ordine del giorno unitario.



MONTEFALCHESI Corrado

Sono d'accordo sulla pausa di riflessione che consenta di verificare il merito dell'ordine del giorno.
Con il collega Reburdo ho presentato un ordine del giorno sul problema specifico della mobilità verso gli uffici fiscali che attende una risposta da parte della Giunta. Giovedì prossimo chiederemo di discutere anche quello.


Argomento: Trattamento economico dei Consiglieri

Esame deliberazione: "Legge 5/7/1982, n. 441. Disposizioni per la pubblicità della situazione patrimoniale di titolari di cariche elettive e di cariche direttive di alcuni Enti. Modalità per la prima applicazione ai Consiglieri regionali nonché ai soggetti di cui agli artt. 12 e 15"


PRESIDENTE

Esaminiamo ora la seguente deliberazione: "Legge 5/7/1982, n. 441.
Disposizioni per la pubblicità della situazione patrimoniale di titolari di cariche elettive e di cariche direttive di alcuni Enti. Modalità per la prima applicazione ai Consiglieri regionali nonché ai soggetti di cui agli artt. 12 e 15".
Ve ne do lettura: "Il Consiglio regionale vista la legge 5/7/1982, n. 441, concernente: 'Disposizioni per la pubblicità della situazione patrimoniale di titolari di cariche elettive e di cariche direttive di alcuni Enti' ritenuto che le disposizioni della suddetta legge si applicano: a) nei confronti dei Consiglieri regionali secondo modalità stabilite dal Consiglio regionale b) nei confronti: 1) dei presidenti, vicepresidenti, amministratori delegati e direttori generali di istituti e di enti pubblici, anche economici, la cui nomina proposta o designazione o approvazione di nomina spetti ad organi della Regione 2) dei presidenti, vicepresidenti, amministratori delegati e direttori generali delle società al cui capitale concorrano la Regione o enti ed istituti dipendenti dalla Regione, nelle varie forme di intervento o di partecipazione, per un importo superiore al 20 3) dei presidenti, vicepresidenti, amministratori delegati e direttori generali degli enti o istituti privati, al cui funzionamento concorrano la Regione o enti ed istituti dipendenti dalla Regione in misura superiore al 50% dell'ammontare complessivo delle spese di gestione esposte in bilancio e a condizione che queste superino la somma annua di L. 500 milioni considerato: che entro tre mesi dall'entrata in vigore della legge anzidetta (e cioè entro il 2/11/1982) i membri in carica del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati, nei cui confronti la legge stessa pure si applica, devono presentare: a) una dichiarazione concernente i diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri; le azioni di società; le quote di partecipazione a società; l'esercizio di funzioni di amministratori o di sindaco di società, con l'apposizione della formula 'sul mio onore affermo che la dichiarazione corrisponde al vero' b) copia dell'ultima dichiarazione dei redditi soggetti all'imposta dei redditi delle persone fisiche che gli adempimenti indicati alle lettere a) e b) del punto precedente concernono anche la situazione patrimoniale e la dichiarazione dei redditi del coniuge non separato e dei figli conviventi, se gli stessi vi consentono che le suddette dichiarazioni vengono effettuate su uno schema di modulo predisposto dagli Uffici di Presidenza del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati, d'intesa tra loro considerato che anche i Consiglieri regionali e gli altri soggetti prima elencati debbono presentare le suddette dichiarazioni entro il 2/11/1982, ai sensi del combinato disposto degli artt. 6, 11 e 12 della legge 5/7/1982, n. 441 ritenuto che i suddetti termini, previsti dall'art. 6 della legge, non consentono di adottare un provvedimento legislativo ad hoc ma che, pur tuttavia, in attesa di tale provvedimento, il Consiglio stesso debba adottare ogni opportuna misura atta ad assicurare ai Consiglieri regionali e agli altri soggetti sopra menzionati di assolvere entro il termine previsto dal 2/11/1982 ai propri obblighi di legge visto che lo schema di modulo predisposto ai sensi dell'art. 5 dagli Uffici di Presidenza del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati, d'intesa tra loro, possa essere opportunamente utilizzato in questa prima fase transitoria anche per le dichiarazioni effettuate dai soggetti di cui alla presente deliberazione considerato che, a tal fine, data l'urgenza, per disciplinare l'anzidetta fase di attuazione della legge 441/1982, in attesa di una legge organica, occorra provvedere con atto amministrativo delibera 1) i Consiglieri regionali e gli altri soggetti indicati nella premessa sono tenuti a presentare, entro il 2/11/1982: a) una dichiarazione concernente i diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri; le azioni di società; le quote di partecipazione a società; l'esercizio di funzioni di amministratori o di sindaco di società; con l'apposizione della formula 'sul mio onore affermo che la dichiarazione corrisponde al vero' b) copia dell'ultima dichiarazione dei redditi soggetti all'imposta dei redditi delle persone fisiche 2) gli adempimenti indicati alle lettere a) e b) del punto precedente concernono anche la situazione patrimoniale e la dichiarazione dei redditi del coniuge non separato e dei figli conviventi, se gli stessi vi consentono 3) le dichiarazioni devono essere presentate, per quanto riguarda i Consiglieri regionali, al Presidente del Consiglio regionale e, per quanto riguarda gli altri soggetti che vi sono tenuti, al Presidente della Giunta regionale 4) le dichiarazioni devono essere effettuate sullo schema di modulo allegato alla presente deliberazione che di essa forma parte integrante 5) nel caso di inadempienza il Presidente del Consiglio regionale e il Presidente della Giunta regionale, per quanto di rispettiva competenza diffidando gli inadempienti entro il termine di quindici giorni. Senza pregiudizio di sanzioni disciplinari che saranno eventualmente previste nell'ambito della potestà regolamentare ovvero, per i soggetti non Consiglieri regionali tenuti a presentare le dichiarazioni, dalla legge regionale attuativa della legge 441, nel caso di inosservanza della diffida, rispettivamente per quanto di rispettiva competenza, il Presidente del Consiglio ne dà notizia al consiglio e il Presidente della Giunta pubblica la notizia dell'inosservanza sul Bollettino Ufficiale della Regione 6) la dichiarazione di cui alla lettera a) del punto 1) e le notizie risultanti dal quadro riepilogativo della dichiarazione dei redditi sono riportate, per ciascun soggetto, nel Bollettino Ufficiale della Regione 7) stante l'urgenza di provvedere per i più imminenti adempimenti di cui sopra, ai sensi dell'art. 49 della legge 10/2/1953, n. 62, la presente deliberazione è dichiarata immediatamente esecutiva e sarà pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione ai sensi dell'art. 65 dello Statuto".
Chi è favorevole è pregato di alzare la mano.
La deliberazione è approvata all'unanimità dei 38 Consiglieri presenti in aula.


Argomento: Problemi del lavoro e della occupazione

Ordine del giorno presentato dai Consiglieri Bontempi, Montefalchesi Mignone, Brizio, Salvetti, Vetrino e Marchini sulla richiesta di cassa integrazione in favore di 28 aziende della Regione Piemonte


PRESIDENTE

Infine, è stato presentato il seguente ordine del giorno firmato dai Consiglieri Bontempi, Montefalchesi, Mignone, Brizio, Salvetti, Vetrino e Marchini sulla richiesta di cassa integrazione in favore di 28 aziende della Regione Piemonte.
Ve ne do lettura: "Il Consiglio regionale del Piemonte di fronte al deteriorarsi della situazione in alcuni punti di crisi aziendale, che rischia di produrre gravi tensioni sociali, afferma la necessità che vengano immediatamente avviati a soluzione i seguenti problemi: a) erogazione della cassa integrazione in grave ritardo per i lavoratori di 28 aziende nella Regione Piemonte b) possibilità, per i lavoratori in cassa integrazione, ai sensi della legge 301, di poter accedere ai benefici della legge 155 sul pre pensionamento c) formalizzazione della proroga di utilizzo della legge 301 ai fini dell'erogazione della C.I.G., già previsto nella legge 63 del 5/3/1982 per avviare a soluzione specifiche e transitorie situazioni di crisi, in attesa della riforma complessiva del mercato del lavoro.
Il Consiglio regionale del Piemonte impegna la Giunta regionale a sollecitare la soluzione di tali problemi nelle competenti sedi governative".
Chi è favorevole è pregato di alzare la mano.
L'ordine del giorno è approvato all'unanimità dei 38 Consiglieri presenti in aula.
Comunico, infine, che il Consiglio è convocato per il giorno 21 ottobre prossimo.
La seduta è tolta.



(La seduta ha termine alle ore 15.00)



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