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Dettaglio seduta n.122 del 01/04/82 - Legislatura n. III - Sedute dal 9 giugno 1980 al 11 maggio 1985

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Argomento:


PRESIDENZA DEL PRESIDENTE BENZI


Argomento: Programm. e promoz. attivita" socio-assist. (assist. minori, anziani, portat. handicap, privato sociale, nuove poverta")

Esame progetto di legge n. 54: "Indirizzi e normative per il riordino dei servizi socio-assistenziali della Regione Piemonte" (seguito)


PRESIDENTE

La seduta è aperta.
Prosegue l'esame del progetto di legge n. 54: "Indirizzi e normative per il riordino dei servizi socio-assistenziali della Regione Piemonte" di cui al punto quarto all'ordine del giorno.
La parola al Consigliere Majorino.



MAJORINO Gaetano

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, l'ordine del giorno presentato, che tende a precludere il passaggio all'esame nel merito del progetto di legge n. 54, merita indubbiamente attenta considerazione e meditazione in ogni parte delle motivazioni addotte. Particolarmente in quella parte che riflette la legittimità del progetto di legge nel suo insieme.
A questo proposito non si potrebbe fondatamente obiettare che si tratta di questione, quella della legittimità, ispirata a formalismo o ad esercitazione accademica, come ha già ammonito giustamente il Consigliere Martinetti.
Le scelte politiche in generale e quelle di provenienza regionale in particolare, quale che sia il loro contenuto, devono necessariamente passare attraverso il vaglio e la strettoia della legittimità, il che significa in termini concreti e soprattutto in dovuto omaggio ai principi che disciplinano lo Stato di diritto, che ogni scelta politica deve in ogni caso realizzarsi nell'ambito di quella super legge, che è la Costituzione e deve essere inoltre rispettosa delle prese di posizione che provengono dalla Corte Costituzionale e dei principi di diritto che la Corte Costituzionale enuncia nell'esercizio delle sue funzioni. Quest'ultimo inciso avrà, come vedremo, un particolare rilievo.
Diversamente opinandosi - e penso che questa affermazione non abbia bisogno di essere dimostrata - il concetto di Stato di diritto verrebbe fatalmente ad essere scalfito.
Fatta questa necessaria premessa, va rilevato come il progetto di legge oggi in discussione si presenti - e su questo mi pare non ci possano essere dubbi - come una volontà politica diretta a normativamente realizzare l'art. 22 del Decreto Delegato 616 che a sua volta ha realizzato il trasferimento alle Regioni della materia concernente la beneficenza pubblica. Come è noto in quella sede di trasferimento alle Regioni l'art.
22 del D.P.R. 616 ha definito, o meglio ridefinito (le prime definizioni della materia risalgono alla legge Crispi del 1980) il concetto e la materia della beneficenza pubblica enunciandone un criterio unitario che comprende da un canto l'assistenza sociale, intesa come diritto a conseguirla da parte di chi rientri nella categoria degli inabili al lavoro che siano nel contempo sprovvisti dei mezzi di sussistenza, e dall'altro canto la vera e propria beneficenza pubblica in senso stretto, intesa come complesso diretto ad erogare danaro e servizi a chi comunque venga a trovarsi in stato di bisogno.
Tutto ciò non ha bisogno di essere dimostrato, emerge chiaramente dal contesto del citato art. 22 del D.P.R. 616, che il progetto di legge vorrebbe attuare.
Qui è il punto centrale del mio intervento.
La Corte Costituzionale ha avuto modo di verificare in maniera completa e "ab imis" la legittimità di questa ridefinizione della materia "pubblica beneficenza" operata dall'art. 22 e l'ha verificata con la propria sentenza n. 174 del 30/7/1981, che non è da confondere, anche se di pari data, con l'altra sentenza (la 173) che ha censurato nella maniera ormai a tutti nota il trasferimento delle IPAB ai Comuni.
Il giudizio della Corte Costituzionale sulla ridefinizione della materia "pubblica beneficenza", quale abbiamo visto enunciata dall'art. 22 del D.P.R. 616, è stato positivo nel senso che l'intero contenuto dell'art.
22 è stato ritenuto pienamente legittimo, ma a condizione che si verifichino questi eventi, che io enuncio senza commenti, unicamente come cassa di risonanza di quanto sta scritto nella sentenza della Corte Costituzionale.
Le condizioni di legittimità dell'art. 22 (legge che oggi si vuole attuare) sono: 1) che lo Stato incida profondamente nell'attuazione di questo "arduo" programma della "beneficenza pubblica" mediante l'adozione di una legge di riforma dell'assistenza che funzioni come legge cornice per le legislazioni regionali 2) che lo Stato provveda al finanziamento di questo arduo programma essendo evidente che un programma di servizi sociali così ambizioso non pu essere realizzato che con il sostegno finanziario dello Stato, così come si è provveduto nell'ambito del Servizio Sanitario Nazionale mediante il fondo annuale da ripartirsi tra le Regioni 3) che un disegno organico di beneficenza pubblica così congegnato si coordini e si armonizzi fra gestione pubblica e gestione privata.
Queste sono le tre condizioni espressamente enunciate dalla Corte Costituzionale sussistendo le quali la ridefinizione della beneficenza pubblica, di cui all'art. 22, ha titolo di presenza e di legittimità nell'ordinamento.
Volendo possiamo anche per il momento accantonare la condizione al punto 3) che concerne il coordinamento e l'armonizzazione tra il pubblico ed il privato, trattandosi in definitiva di una valutazione sulla quale le opinioni potrebbero anche essere diverse.
E' certo che l'indicazione perentoria della Corte Costituzionale circa l'attuabilità del socio-assistenziale con il previo e necessario tramite della legge quadro nazionale e con il supporto finanziario alle Regioni da erogarsi ad immagine e somiglianza di quanto previsto per il fondo sanitario, di cui alla legge 833, non lascia spazio a disquisizioni.
Tradotto in altri termini, tutto ciò sta a significare che senza la legge quadro di principi e senza la predisposizione in sede di emanazione della legge quadro di un fondo nazionale per i servizi socio-assistenziali la Regione non può legiferare nella materia che oggi è oggetto del progetto di legge.
E' esatto quanto ha detto il Consigliere Gastaldi che costituisce oramai "ius receptum", che le Regioni possono legiferare nelle materie di loro competenza anche senza legge quadro, regola generale più volte affermata, ma a questa regola generale la Corte Costituzionale espressamente ed incisivamente ha ritenuto di fare un'eccezione per la materia socio-assistenziale.
Né si dica, né mi si obietti che sono stati forzati per fini di parte lo spirito e la lettera di quanto la Corte Costituzionale ha affermato tant'è vero che tutti i commentatori che si sono occupati "ex professo" della questione, concordano nel ritenere (cito per tutti Gizzi, pag. 64 del Manuale 1982 sulle Autonomie Locali): "La Corte Costituzionale ha ravvisato nell'art. 22 del D.P.R. 616 un disegno organico che non provoca costituzionali alterazioni della ripartizione di competenze fra Stato e Regioni, ma che postula, al contrario, per essere perseguito l'adozione della legge di riforma ed il concorso economico statale".
A questo punto, ragioni di opportunità politica unite all'obbligo che avevo richiamato di rispettare i principi dello Stato di diritto, e quindi anche le pronunce interpretative della Corte Costituzionale, dovrebbero suggerire, come d'altro canto è stato chiesto con l'ordine del giorno propositivo, alla Giunta e alla maggioranza una pausa di riflessione e il conseguente ritiro del progetto di legge.
Si tratterebbe, se attuata, di una ritirata responsabile ed onorevole in quanto la data di nascita del progetto di legge 54 risale al febbraio 1981, mentre il contrasto indiscutibile ed incontestabile di legittimità è successivo, luglio 1981, epoca della più volte richiamata sentenza della Corte Costituzionale.
Un siffatto comportamento, cioè il ritiro, eviterebbe da un lato il fatale infortunio legislativo conseguente all'approvazione di una legge censurabile in sede di legittimità e nel contempo si allineerebbe con il comportamento tenuto dalla Giunta durante la seconda legislatura nel corso della quale (prima di attuarsi la legislazione regionale concernente la materia sanitaria) si attese l'emanazione delle legge 833. Né si pensò mai di attuare gli articoli 27 e seguenti del D.P.R. 616 che trasferivano già nell'immediato alla Regione la materia sanitaria senza una legge quadro statale.
Il punto di vista che ho enunciato circa la preclusione all'esame del progetto di legge 54 mi esime al momento da ogni ulteriore considerazione anche se danno adito a parecchie perplessità quelle norme che dirette ai Comuni impongono lo stanziamento nei bilanci comunali di somme da erogarsi alle USL e si riversano sulle stesse competenze che la legge 833 loro non attribuiva. Ma queste sono questioni minori e di dettaglio, anche se importanti nell'economia della legge. Su tali questioni e sul merito dell'intero provvedimento mi riservo di intervenire nell'esame dell'articolato: se pur si dovrà passare all'esame dello stesso.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Marchini.



MARCHINI Sergio

Prendo atto che il rispetto che viene chiesto al Consiglio molte volte non è da tutti ricambiato; un dibattito esige la presenza degli interlocutori se non si vuole che in questa sede qualcuno di noi venga soltanto a leggere le memorie predisposte senza raccogliere dallo sviluppo del dibattito ragioni di rimeditazione.
Se questa è soltanto una stanza di registrazione di posizioni precostituite, sarebbe molto più normale evitare di disturbare i Consiglieri che vengono qui per chiacchierare ed evitare ai Consiglieri di venire in Consiglio per parlare degli argomenti della V Commissione.
Al Presidente chiedo che i Consiglieri abbiano il loro spazio sufficiente. E' curioso che il Regolamento prevede il relatore non chi deve fare la replica la quale viene fatta dalla Giunta qualunque sia il soggetto proponente la legge, anche nel caso di iniziativa da parte dei singoli Consiglieri.
Sono distorsioni un po' grossolane che non vengono colte da chi è così attento agli strumenti delle moderne democrazie parlamentari.
La maggioranza dovrebbe essere presente non soltanto come Giunta, ma come interlocutrice della maggioranza.
Quelli che hanno chiesto di parlare questa mattina, hanno avuto l'attenzione dovuta al loro intervento, ma oggi non sono presenti a raccogliere le obiezioni o i consensi da parte delle altre forze politiche.
Il nostro Gruppo politico ha delle grosse perplessità su questa proposta di legge perché non può non convenire sulle osservazioni che ha fatto testé il collega sulle argomentazioni della D.C., formalizzate in una proposta di non passaggio agli articoli.
Mi rendo conto dei limiti di natura giuridica e costituzionali di questo documento e ricordo che il nostro Gruppo ha sempre sostenuto che l'evoluzione del sistema delle autonomie significa anche approvare delle leggi di tipo integrato attraverso i diversi livelli.
Il mio intervento, che sarà ridotto nei termini e come sempre modesto nei contenuti, si incentrerà sull'aspetto politico e non sull'aspetto giuridico. Le considerazioni fatte dalla D.C., hanno un loro pregio e probabilmente prevarranno all'esame del Commissario di Governo.
Ciononostante, ritengo che non sia opportuno bloccare un processo di riflessione e di decisione di una collettività come quella piemontese, in relazione ad obiezioni e a limiti di carattere giuridico - istituzionale.
Mi pare si debba dare per scontato che questo nostro disegno di legge possa trovare, nell'immaturità del quadro normativo generale, nella sua disorganicità e nelle sue insufficienze rispetto ad un processo, dei limiti di carattere giuridico - istituzionale non superabili.
Dobbiamo pensare di fare un pronunciamento che manifesti al potere nazionale l'insofferenza della comunità locale, rispetto al fatto che manca la legge nazionale e che denunci pubblicamente il fatto che le leggi le fa la Corte Costituzionale e non il Parlamento.
Mi pare allora opportuno non fermarsi alla dichiarazione di impotenza giuridica con il non passaggio agli articoli, ma andare a fondo sul pronunciamento che la collettività esprime su questo processo culturale sociale, politico.
Non aderirò alla richiesta della D.C., anche perché non vorrei che si verificasse un altro falso storico di cui la cultura cattolica e la cultura marxista sono abilissime dalla donazione di Costantino agli articoli sull'Unità, e cioè che questa materia sia da attribuirsi al solidarismo operaistico e al senso solidaristico cattolico.
Noi ci atteggiamo, rispetto a questi problemi, con un'ottica diversa e in questo senso sono molto attento come laico a farmi tagliare fuori da una pronuncia su questo argomento. Mi pare che a questi argomenti si arrivi con il patrimonio e gli strumenti di una società moderna, pluralista che vuole la qualità della vita, che non guarda a queste cose con la logica della beneficenza e del solidarismo ma come la stessa ragione d'essere di se stessa. Lo dissi già a proposito del dibattito sulla sanità. Noi riteniamo di essere la forza politica che ha il merito o il demerito di aver creato questa società industriale la quale con le rivoluzioni che ha cominciato alcune centinaia di anni fa si è posta una serie di obiettivi e li ha realizzati: le libertà di carattere formale, le libertà di carattere istituzionale; dopodiché ha cominciato a realizzare attraverso la rivoluzione industriale i beni che sono poi gli strumenti concreti con cui si attuano le libertà formali.
Probabilmente è arrivata alla sua apoteosi. La società di cui parliamo non è in crisi, è al suo momento finale dove si verificherà la giustezza di tutti i presupposti precedenti.
Se questa società, dopo aver realizzato le condizioni esterne di carattere istituzionale e formale per le libertà e se a queste libertà avrà dato il substrato concreto dei beni prodotti attraverso la società industriale e non riuscirà a realizzare l'obiettivo inconscio che era all'origine, cioè la qualità della vita rispetto all'epoca precedente probabilmente tutto il processo che va dai processi di liberazione nazionale ai processi di liberazione intellettuale verrebbe messo in discussione.
Riteniamo che il dibattito che affrontiamo oggi non sia né esclusivo del solidarismo operaistico né esclusivo del senso beneficiario cattolico ma attenga in pari dignità a tutte le componenti della società civile.
A questo punto, come laico che si aspetta da questa legge una qualità di vita diversa rispetto ad un'altra che ritiene superabile o superata, ho il dovere di esprimere un giudizio.
Pur condividendo tutte le obiezioni di carattere giuridico, devo dire che la filosofia che è alla base di questi indirizzi ci trova consenzienti.
Semmai prendiamo atto che non si tratta di un piano ma di qualcosa di molto più timoroso come si legge dal titolo: "Norme di indirizzo". Infatti le risorse e gli strumenti non sono tali da consentirci degli appuntamenti concreti.
Nessuno di noi si illude di arrivare a tempi brevi, attraverso questa normativa, ad una nuova qualità dei servizi sociali. Certamente questi indirizzi vanno condivisi ed apprezzati proprio là dove sono provocatori.
Prendiamo, per esempio, uno degli argomenti che è stato considerato provocatore: l'autorizzazione per l'apertura di nuove strutture per l'assistenza agli anziani o comunque per la continuità dell'esistente.
Abbiamo passato alcuni mesi a sostenere che certe prestazioni di attività debbono essere soggette ad autorizzazione. L'autorizzazione, a mio avviso non significa rinuncia alla libertà.
Ritengo che le libertà vadano realizzate e gestite nell'ambito della sperimentazione o della prestazione.
Ma il problema che oggi ci poniamo è un po' diverso. Se noi riteniamo che l'assistenza debba essere prestata con il rispetto di un minimo di condizioni, la verifica di questo minimo di condizioni è una cornice nell'ambito della quale la libertà di prestazione dell'assistenza non viene assolutamente sminuita, altrimenti chiederei che dove si scrive "libertà d'insegnamento" si intendesse libertà che si può comunque insegnare, così libertà sul piano sanitario significa che chiunque può prestare attività sanitarie (per gestire una clinica ci vogliono però le verifiche delle condizioni minimali).
Sono venuto in quest'aula con alcune idee e, ascoltando alcuni interventi, mi sono convinto che qui non stiamo facendo un dibattito legislativo tendente a produrre una legge, perché i limiti di carattere giuridico e costituzionale sono tali che questa legge non passerà al Commissario di Governo.
Ritengo sia molto più corretto rispetto a certi fenomeni proporre una legge, anche in termini provocatori, e poi vedere la legge bocciata dal Commissario di Governo, che non lasciare aperte le libertà di carattere formale; che poi queste libertà di carattere formale non vanno avanti perché improvvisamente arrivano delle leggine, che anche se non vengono approvate dal Consiglio, vengono comunque gestite.
Abbiamo visto in passato comportamenti curiosi da parte della Giunta regionale che ha di fatto bloccato certi processi anche senza una normativa. Questo è avvenuto, ed è davanti agli occhi di tutti; sappiamo benissimo che si può fare urbanistica, per esempio, ritardando il rilascio delle concessioni edilizie.
Preferisco un Comune che faccia un piano regolatore lineare e provocatorio nei confronti di certi interessi che non un Comune che con lo stesso tipo di interessi impedisce che si realizzino con dei sistemi surrettizi.
Se da parte di talune forze politiche si è ritenuto di dover introdurre questo argomento di riflessione, dico che l'argomento che è stato posto è estremamente interessante, nella misura in cui si dice: vediamo se, al di là delle norme di carattere nazionale che prevedono condizioni di tipo igienico, non sia opportuno che la comunità riesca a far crescere le condizioni di esistenza delle strutture per gli anziani ed anche un minimo di qualità della vita.
Un processo che tende a sollevare questo fenomeno a livelli più accettabili rispetto alla qualità della vita merita molta attenzione da parte delle forze politiche.
Non daremo voto favorevole alla proposta della D.C., del non passaggio agli articoli, magari con una giustificazione per assurdo. La consideriamo fondata, perché riteniamo che talune censure di tipo giuridico siano insuperabili. Il processo normativo generale in Italia è tale da impedire la crescita del livello di prestazione.
Questa pronuncia attiene a quella dialettica che un giorno o l'altro dovremo avviare con il legislatore nazionale.
Come si dialoga con il legislatore nazionale? Si può anche dialogare proponendo una legge ritenuta congrua dalla maggioranza dei cittadini rispetto ai bisogni ma che si scontra con la realtà nazionale che è non adeguata rispetto alla domanda.
Questo non è un momento veramente recepitorio da parte delle autonomie locali di un dettato nazionale che quando arriva le trova bracci secolari disponibili a realizzare quello che il legislatore nazionale ha deciso.
Se tutte le Regioni d'Italia proponessero leggi su questa materia e tutte venissero rinviate con la motivazione che è in gestazione il piano nazionale, si creerebbe una conflittualità tra l'istituto Regione e l'istituto Stato. Io, come liberale, credo che la conflittualità sia un modo per far emergere i ritardi dello Stato.
Non posso dare voto favorevole alla mozione della D.C., né posso votare contro perché dichiarerei non fondate alcune dichiarazioni di carattere giuridico che sono insuperabili.
Se si passerà all'esame dell'articolato si cercherà di capire se alcune rozzezze di questa legge sono semplicemente una pronuncia di tipo demagogico o se fanno parte di un processo ancora da raffinare per far sì che l'assistenza nel nostro Paese non sia più né un fatto di beneficenza né un fatto di volontarismo, ma sia una precisa scelta della collettività piemontese che vuole come obiettivo primario della sua azione legislativa una più avanzata qualità della vita per i cittadini.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Reburdo.



REBURDO Giuseppe

Il dibattito sul disegno di legge n. 54 assume una rilevanza importante perché costituisce uno sforzo significativo sia sul piano dei principi che su quello delle proposte per dare corso ad una mutazione anche di carattere culturale ed ideale che è venuta maturando all'interno della nostra società, grazie anche ad una serie di presenze e di lotte che hanno segnato la storia di questi ultimi anni.
E' ormai acquisita da tutti l'esigenza di concretizzare la lotta contro l'emarginazione attraverso interventi pubblici invertendo i processi. E' chiaro che un'operazione di questo tipo non può non metterci nell'ottica di vedere in termini critici, ma costruttivi, per cogliere i grandi elementi di positività di questa esperienza e per cercare attraverso questa analisi critica a proposte che in verità hanno già segnato l'esperienza di questa Regione nella passata ed in questa legislatura con l'approvazione del primo piano regionale socio-sanitario.
Vorrei in qualche modo calare queste affermazioni in esempi che cercano anche di aprire una dialettica rispetto agli interventi qui fatti. Nel nostro Paese esperienze significative e concrete di servizio in risposta ai problemi dei poveri e degli emarginati sono state una caratteristica portante di un'area culturale, ma soprattutto ideale, che è quella del mondo cattolico e dei credenti.
Nel bene e nel male questa valutazione oggettiva ci permette di trarre stimoli per compiere passi in avanti per trasformazioni, modificazioni e cambiamenti. Questo mondo ha espresso cose importanti nel passato, che hanno una lunga tradizione e che oggi sono superate, ma questo stesso mondo è stato in grado di esprimere esperienze nuove che in qualche modo hanno preceduto l'intervento pubblico in settori di emarginazione. Per esempio nel campo della droga si sono viste notevoli esperienze nate dalla società civile e sviluppatesi grazie ad una spinta di carattere religioso e che in qualche modo hanno portato a realizzare esperienze come quella del Gruppo Abele. In questo mondo si è intrecciato il passato (che aveva presentato anche soluzioni di avanguardia) con il presente.
Anche la presenza di piccole comunità di credenti, di suore, di preti inseriti in quartieri emarginati di questa mega città costruita a dismisura d'uomo, con responsabilità politiche precise di chi le ha gestite e realizzate, che hanno tentato dall'interno di svolgere momenti di animazione, di sensibilizzazione, di "coscientizzazione", rendendo protagonista il nuovo proletariato attorno al tema della sua emancipazione e realizzazione.
Non possiamo enfatizzare questa esperienza anche se essa, che è diretta espressione del mondo cattolico va opportunamente valutata e considerata per tutta la positività che ha l'emarginato, anche per quello che ci permette di fare grazie a quelle esperienze. Grazie al fatto che ci sia stata un'esperienza ci permette un intervento pubblico che fa agio su questa esperienza, che non paga lo scotto di questa esperienza, quindi è in grado di interventi qualitativamente nuovi.
Permane però una realtà contraddittoria. Sappiamo che ci sono tensioni per modificare queste esperienze. Chi non ricorda ciò che sta avvenendo nel campo degli handicappati, nel campo degli istituti di ricovero per anziani dove si tenta l'apertura sul territorio, l'uscita all'esterno di persone da tempo emarginate e chiuse tra quattro muri. Accanto a questi esempi permangono situazioni che sono di accusa.
Ci sono ancora situazioni che gridano vendetta, ci sono ancora situazioni come quella dell'Istituto Nostra Signora di Lourdes per handicappati gravi e gravissimi di Rubiana. Un giornale locale della Valle di Susa ha denunciato una situazione che già si conosceva. Dietro una copertura di carattere religioso si tenta di portare avanti una situazione che è da denunciare, è da verificare. E' un Istituto al quale sono mosse gravissime accuse sulla conduzione, sia dal punto di vista finanziario, sia dal punto di vista del metodo, di cui il responsabile amministratore unico è Don Giovanni Griva, da un gruppo di genitori in pubblica assemblea. Sono delle realtà limitate. Questa esperienza va giudicata in termini articolati.
Invito i Consiglieri e l'Assessore a leggere quell'articolo (che forse sarà oggetto di un'interrogazione) nel quale vengono fatte accuse precise per esempio, vengono pagate dalla Provincia delle rette per ogni singolo ricoverato che vanno dalle 120 alle 140 mila lire al giorno. L'Istituto in un anno incassa circa 2 miliardi. Le accuse sono di un'insufficiente attività riabilitativa, di una situazione igienico-ambientale scadente, di un'assistenza gravemente lacunosa ai limiti dell'inadempienza.
Vi sono anche le relazioni della competente USL.
Questa società è presente anche in altri luoghi della Regione, a Torino, a Racconigi, a Casalgrasso.
E' opportuno valutare quanto si nasconde dietro ad una motivazione di carattere religioso per atti che poco hanno di solidarietà umana.
Ho voluto sottolineare questo perché da alcuni interventi dei colleghi democristiani è venuta un'enfatizzazione acritica che non può costituire elemento di proposta costruttiva. Grazie a questa esperienza negativa nelle nostre iniziative siamo in grado di proporre dei correttivi o delle strade alternative.
Le motivazioni ideali, culturali e politiche che guidano le proposte innovative di questa Regione stanno anche in esperienze di altri settori che vanno al di là del mondo cattolico, le esperienze dei valdesi o degli ebrei che, anche se in modo limitato, rappresentano dei fatti importanti e significativi attraverso i quali è possibile sperimentare interventi nuovi.
Anche in campo laico esistono delle esperienze, le quali molte volte non hanno una caratterizzazione umanitaria, ma hanno interessi di carattere economico. Se siamo in grado di proporre delle innovazioni in campo legislativo questo è merito della battaglia democratica del movimento operaio.
Perché non ricordare le battaglie per l'egualitarismo e per la solidarietà che hanno modificato profondamente una cultura, che hanno rotto delle incrostazioni? Il dato unificante delle esperienze è l'incontro e la centralità della persona umana in tutte le condizioni di lavoro, di vita e di difficoltà.
Ho sottolineato questi aspetti perché ritengo che attorno ad essi si debba ancora discutere perché si rompano certe incrostazioni, perché si liberi il dibattito nel quale nulla è dato per scontato e tutto deve essere aperto alla verifica.
Questa proposta di legge è stata lungamente discussa in Commissione, ha avuto una consultazione allargata, è stata meditata nella comunità piemontese, quindi è frutto di un'operazione che viene da lontano. Sulla prima proposta dell'allora Assessore Vecchione, poi adattata alla nuova situazione, si è discusso e ci si è confrontati.
Su di essa si sono espresse le diverse realtà culturali e politiche della Regione. Si è espresso il mondo cattolico, il mondo laico e il movimento sindacale ed operaio.
Questa proposta conferma l'obiettivo della gestione unitaria dei servizi sanitari e dei servizi socio-assistenziali, contenuto nelle precedenti leggi della Regione e ripreso dal piano regionale socio sanitario.
Nel differenziarmi dagli interventi dei colleghi democristiani devo dire che questa proposta non forza assolutamente rispetto al quadro nazionale. Le leggi nazionali 833 e 382 e il decreto 616 indicano la strada ai Comuni singoli od associati per gestire i servizi socio-assistenziali.
Noi abbiamo giustamente scelto la gestione associata nell'ambito delle USL. Una legge nazionale importante come quella dell'assistenza, che tanti interessi viene a toccare, a cambiare politicamente, va conquistata anche attraverso una serie di pressioni, di iniziative, di proposte di leggi regionali che tentino di aiutare il Parlamento a formulare una legge quadro sull'assistenza. Passi avanti non se ne fanno di fronte alle decisioni che ha preso il Comitato ristretto del Parlamento sulla privatizzazione delle IPAB, che ha avuto il voto contrario dei Partiti Comunista e Socialista e dei Partiti della sinistra indipendente.
Ci pare che la strada indicata dei Comuni associati, come referenti istituzionali per la gestione dei servizi, sia da condividere e da sviluppare.
Il Gruppo D.C., o settori della D.C., all'interno della comunità vanno dicendo che questa Giunta di fatto si colloca contro o comunque non si pone in condizione di affrontare i problemi degli anziani.
Nel cogliere questa interessante polemica, devo dire che le proposte sono conseguenti alla linea di rotta all'emarginazione dell'anziano. Per questa maggioranza l'obiettivo prioritario è di mantenere l'anziano nel quadro familiare dando gli strumenti adeguati, aiuti economici, assistenza familiare, massimo decentramento dei servizi sanitari e sociali sul territorio.
Si compie invece un atto contro gli anziani quando non si affronta con sufficiente celerità il problema degli anziani con pensione minima.



BRIZIO Gian Paolo

Questa è demagogia.



REBURDO Giuseppe

Se tutto è demagogia, a demagogia rispondi con demagogia.
Il problema degli anziani non viene affrontato nel modo giusto. Il mantenimento dell'anziano nel quadro familiare è un'iniziativa che va invece incontro alle esigenze degli anziani. Quando proponiamo le comunità alloggio come servizio più vicino alla famiglia compiamo un ulteriore passo per dare concretezza al principio che ci guida nella lotta all'emarginazione; quando diamo la possibilità di inserire gruppi di comunità alloggio all'interno dei centri sociali aperti a tutti, compiamo un'operazione che affronta in modo concreto la questione. Quando, in alternativa alle mega case di riposo, proponiamo non una chiusura, non un'autorizzazione tout court, ma avviamo un processo sull'esistente discutendo con gli interessati perché non intendiamo imporre nulla, quando diciamo che per operare sul territorio ci vuole l'autorizzazione, è chiaro che vogliamo procedere con tutta la gradualità necessaria.
Quando proponiamo la casa protetta siamo coerenti con i nostri principi. E' una linea che sta crescendo all'interno della società. Quanti gruppi di volontari stanno gestendo delle comunità alloggio? Perché queste comunità alloggio non possono essere moltiplicate sul territorio anche con l'impegno del potere pubblico? Perché non favorire convenzioni con esperienze di volontariato organizzato? Perché non affrontare l'esperienza della gestione cooperativa dei servizi? Questo progetto favorisce la potenzialità e la volontà esistente nella società.
Con il disegno di legge n. 54 si aprono delle possibilità, si offre un quadro nuovo dentro il quale è possibile sperimentare interventi, avviare iniziative nuove. Al di là delle valutazioni più o meno critiche costituisce una linea di sviluppo del processo istituzionale, culturale e politico che questa maggioranza è stata in grado di produrre in questi anni.



PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE PICCO



PRESIDENTE

La parola alla signora Bergoglio.



BERGOGLIO Emilia

Al Gruppo D.C., non rimangono molti argomenti dopo gli interventi dei colleghi Martinetti e Beltrami.
Il tema della riforma assistenziale del nostro Paese è dibattuto da tempo sia a livello nazionale che a livello locale e le soluzioni proposte non sono univoche. Il dibattito non è ancora concluso per le difficoltà nella fase legislativa. Credo che sia questa la giusta dimensione da cui si può partire per vedere con obiettività e serenità un problema grave e difficile e che, al di là della posizioni politiche e differenziate, ci dovrebbe vedere più attenti. Le carenze nel campo dell'assistenza sono tante e le risposte che a tali carenze bisogna dare sono urgenti: alle persone anziane senza più famiglia, agli handicappati che non possono vivere in famiglia, ai ragazzi minori con handicap gravi, non basta rispondere con gli articoli di legge o con le polemiche, ma bisogna dare delle risposte in termine di servizio reale.
Credo sia questo il terreno sul quale confrontarci. C'é una considerazione da fare: la difesa dei valori e dei principi in cui crediamo, e che altri Gruppi politici dichiarano di condividere, anche se non c'è l'accordo sulle soluzioni. La scelta della famiglia come punto centrale delle soluzioni è data per scontata ed è la tesi da sempre sostenuta dal nostro impegno politico come democristiani.
Non è con intenti dilatori, che con troppa facilità, con scarsa attenzione a quello che andiamo dicendo ci vengono attribuiti, quasi che il dibattito e l'impegno di una forza politica siano una perdita di tempo senza coglierne, invece, l'importanza e la fondatezza sia delle argomentazioni che delle affermazioni giuridiche e pratiche.
L 'impegno della D.C., a livello parlamentare è testimoniato dalla massiccia e qualificata presenza del nostro Gruppo nel Comitato per il lavoro ristretto, per la definizione del testo della legge-quadro sull'assistenza.
L'on. Vietti è nota a molti Consiglieri regionali per la qualità del suo impegno.
Non possiamo accettare gli addebiti che ci vengono fatti come forza politica arretrata perché sostiene la sua posizione. Quando certe posizioni vengono sostenute da altri Gruppi sono definite coerenza, quando è la D.C.
che con forza sostiene le proprie posizioni ideali e politiche viene accusata di essere dilatoria. Noi vogliamo una riforma dell'assistenza che sia basata sulle nostre convinzioni, sulle nostre idee. Evidentemente ci sono questioni che non trovano la soluzione perché non ci sono opinioni concordi.
I Consiglieri Martinetti e Majorino hanno centrato il tema sulle questioni giuridiche. All'avv. Marchini vorrei dire che se il Consiglio regionale del Piemonte vuole stimolare il legislatore nazionale perch sollecitamente definisca la legge-quadro sull'assistenza, non deve ricorrere all'artificio giuridico di approvare una legge illegittima, ma deve presentare una proposta di legge di iniziativa parlamentare come strumento di pressione politica.
Questa legge viene definita di programmazione e di indirizzo. Noi abbiamo la sensazione che sia invece un elenco di intenzioni e di considerazioni che in parte possiamo anche condividere.
Con questo disegno di legge tutto deve essere rifatto, ristrutturato trasformato, ridisegnato secondo uno schema che individua servizi rigidi.
Non si potranno fare gruppi con più di 5-6 comunità alloggio per non snaturare la funzione del servizio. Non si parla dei mezzi finanziari prioritari, degli strumenti per realizzare questa nuova assistenza.
Si sa soltanto che verranno scaricati sulle USL problemi, tensioni. Si fa riferimento a strutture e ad enti (IPAB e Comuni) che per la loro autonomia giuridica non hanno alcun obbligo di collegarsi o di inserirsi nella struttura dell'USL. Quand'anche lo volessero, non potrebbero risolvere alcuni problemi essenziali per lo svolgimento di tali attività.
Cito per tutti il problema del personale e delle relative normative. Né si può fare con approssimazione riferimento alla legge Crispi del 1890, come ha suggerito a suo tempo la Giunta e come abbiamo a suo tempo dibattuto quando abbiamo illustrato il nostro ordine del giorno, in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale.
Tale norma è vero che prevede che quando le IPAB non sono più in grado di funzionare, possono essere sciolte o possono autosciogliersi, ma l'autoscioglimento comporta la cessazione delle attività e la liquidazione del patrimonio che dovrà essere devoluto ad altre attività o, come previsto dai fondatori, ad enti e persone diverse.
Anche l'interpretazione per cui i Comuni o le USL, in quanto aggregazione di Comuni, dovranno assumersi la gestione ed assumere il personale e un'interpretazione assolutamente in contrasto con le normative vigenti in materia di personale in organico dei Comuni o in materia di personale in organico delle USL. La soluzione è la chiusura delle strutture, licenziamento del personale e quindi la soppressione dei servizi.
Riteniamo invece opportuno ricercare coordinamenti e sperimentazioni alternative con l'aiuto e con la fantasia delle iniziative libere e private.
Non ci riferiamo alle iniziative di tipo speculativo. Abbiamo già assistito all'immissione dei malati psichiatrici nel territorio e quella esperienza deve farci più cauti.
Siamo d'accordo di parlare di comunità più piccole, ma non crediamo che si possa semplicisticamente cancellare con un colpo di spugna istituzioni come quelle di Corso Unione Sovietica o di Corso Casale o i reparti di geriatria dando solo un'etichetta nuova alle strutture, ma non risolvendo i problemi.
Queste cose le dicono i tecnici del settore e non sono in grado di dire se hanno ragione o meno, certamente il fatto che lo dicano mi rende perplessa. Per cui una certa cautela nel dire di avere la soluzione ideale in mano, è doverosa. Condividiamo l'obiettivo di ridurre il numero dei ricoveri, non riteniamo però questo obiettivo raggiungibile per un numero così significativo di anziani.
La ricerca di soluzioni che garantiscano dal bisogno economico con un adeguamento ed un miglioramento del sistema pensionistico, per esempio, è una risposta da potenziare ed ampliare. In questo senso la politica governativa ha fatto dei significativi sforzi anche se gli obiettivi non sono ancora completamente raggiunti.
Giova ricordare che passi importanti ne sono stati fatti. Bisogna valutare il punto da cui si è partiti e la portata dei passi compiuti altrimenti il gioco allo sfascio è assolutamente improduttivo di risultati concreti.
Il tentativo di aprire strutture per anziani, per minori, per handicappati, quando siano necessarie, ci vede d'accordo, come siamo d'accordo sulle strutture più piccole, più adeguate al territorio, più aperte alla partecipazione.
Non si può dimenticare che nel campo dell'assistenza privata si sono anticipate proprio quelle soluzioni che oggi cerchiamo di individuare.
Quando parliamo di strutture private che non richiedono un'autorizzazione, ci riferiamo alle attività libere esistenti nel nostro Paese che, come tali, devono essere sottoposte ai controlli previsti dalle leggi in materia di igiene e di autorizzazione di P.S., ecc. Né vogliamo che a causa di un'applicazione frettolosa e non sufficientemente attenta delle norme legislative si vadano a potenziare strutture di tipo alberghiero che hanno in realtà una vera e propria funzione di assistenza sanitaria. Mi riferisco alle strutture alberghiere che ospitano in modo continuativo i dimessi dagli ospedali psichiatrici e i malati privi di assistenza.
Questa denuncia va fatta in sede di Consiglio perché quelle strutture sono pagate con denaro pubblico, della Provincia e delle USL.
Non vanno dimenticate tante esperienze del mondo cattolico nel campo dell'assistenza; citarne solo qualcuna non è opportuno perché si rischiano delle omissioni altrettanto significative, come il collega Viglione ha ricordato.
Al collega Reburdo che ha citato un caso, sul quale sarà opportuna una verifica, vorrei dire che non si può sostenere la validità delle proprie tesi citando uno scandalo.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Mignone.



MIGNONE Andrea

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, il dibattito avviato questa mattina sul disegno di legge n. 54 si è andato progressivamente divaricando in alcuni interventi di carattere generale che hanno toccato aspetti di ordine giuridico e ideologico, gli uni legati alla legittimità del disegno di legge, al quadro normativo esistente, gli altri legati ad interpretazioni e a visioni particolari.
E' un elemento che non favorisce una discussione serena e in grado di trovare unitarietà in quest'aula a causa della mancanza di una legge quadro di riforma dell'assistenza, che avrebbe dovuto essere definita nel momento in cui si approvò la legge di riforma sanitaria.
Da un lato abbiamo la carenza di una legge-quadro e dall'altro un'abbondanza di sentenze e di pareri di comitati, più o meno ristretti sulla cui opportunità vi sarebbe da discutere, posto che il problema all'attenzione di tutti è che comunque occorre adeguare le istituzioni e le attività socio-assistenziali alle nuove condizioni della società, alle nuove indicazioni di ordine sociale e culturale che sono ormai un patrimonio acquisito.
La Regione Piemonte ha svolto un ruolo positivo nell'ambito delle sue competenze sia in ordine a disposizioni legislative sia in ordine ad indicazioni di tipo programmatico.
Ricordo che la legge n. 39 che per certi versi anticipava il D.P.R.
616, al di là della sua applicazione e delle interpretazioni date dalla Corte Costituzionale in ordine ad alcuni articoli; ricordo il piano socio sanitario, nel quale viene più volte richiamata l'esigenza di programmazione, di riordino e di integrazione dei servizi sanitari e socio assistenziali. All'interno di questo processo ci sta anche il disegno di legge n. 54 la cui portata è molto più ampia di quanto non dica il titolo.
Non è un disegno di legge frettoloso né intempestivo.
E' opportuno un intervento della Regione al riguardo non fosse altro come momento di sollecitazione e di richiamo al livello nazionale parlamentare e governativo.
La legge dell'assistenza è ormai - cosa riconosciuta da tutti superata dai tempi e dalle mutate concezioni presenti nella nostra società.
Questo non vuol dire disconoscere, anzi, vuole riconoscere ed esaltare il ruolo e la funzione di un pluralismo di presenze in questo settore.
E' un riconoscimento ed un'esaltazione in questo mutato quadro dell'espressione del volontariato che ha svolto una funzione importante e per certi momenti vitale e fondamentale in un momento in cui lo Stato era latitante.
Questo non vuol dire che si debba procrastinare l'esigenza fondamentale di un disegno programmatorio generale che inserisce il complesso dei servizi e delle strutture socio-assistenziali all'interno di un disegno più complessivo.
Questo è l'obiettivo lungo il quale si sono mosse la Giunta e la maggioranza. Su questo disegno di legge c'è il nostro consenso. L'obiettivo principale che ci trova largamente consenzienti è quello dell'integrazione fra i vari momenti sociali, assistenziali e sanitari, così come è già stato affermato nel piano socio-sanitario.
Siamo consapevoli dei problemi che si pongono in ordine al trasferimento delle funzioni assistenziali alle USL dal momento che le stesse sono già gravate dai problemi d'ordine sanitario per cui si potrebbero prevedere dei momenti di gradualità, come è previsto all'art. 8 all'art. 37, con le convenzioni per le Comunità montane e all'art. 36.
Può essere discutibile se sia opportuno fissare il termine del 1982 o se sia più opportuno prevedere un tempo più lungo. Io credo che l'importante sia affermare questo principio, poi all'interno di esso si possano trovare delle articolazioni graduali di impegno.
A proposito del discorso di integrazione, secondo noi portante e fondamentale, vi sarebbe da fare una riflessione, come già facemmo attorno all'art. 9, per quanto riguarda il responsabile e non il coordinatore.
Purtroppo vi sono alcune disposizioni legislative che non ci consentono, anche lessicalmente, di andare oltre questo aspetto. Crediamo tuttavia che, al di là delle parole, si debba intendere che il momento assistenziale sia integrato nel momento sanitario senza arrivare dal punto di vista delle strutture e delle funzioni dei servizi a far sì che il momento sanitario prevalga su quello socio-assistenziale.
La sentenza sulle IPAB della Corte Costituzionale ha rimesso in moto una serie di meccanismi ed ha rimescolato le carte.
Riteniamo che politicamente non si possa condividere quella sentenza anche se riconosciamo che giuridicamente pone una serie di questioni alle quali deve dare risposta prima di tutti il Parlamento. Questo richiamo va fatto al Parlamento.
Diverso è il discorso sugli artt. 23 e 24 in ordine alle autorizzazioni. Condividiamo quanto affermato dal Consigliere Marchini che ha espresso il corretto modo di intendere le autorizzazioni, che non vuol dire escludere a priori certe strutture private che, anzi, siamo convinti che debbano continuare a svolgere la funzione importante che sin qui hanno svolto. Non si può non riconoscere all'ente pubblico l'obbligo e non solo il diritto di accertare alcuni pre-requisiti che sono pregiudiziali per il riconoscimento di certe attività e di certe funzioni.
Quali gli altri cardini del disegno di legge? Da un lato l'esigenza di un coordinamento e quindi il riconoscimento della dimensione sovracomunale e all'interno delle USL. pur con quelle riflessioni di prudenza e di gradualità che ho già ricordato. Ci pare di dover sottolineare il discorso sull'attività domiciliare che significa il recupero della famiglia, il mantenimento all'interno del contesto sociale ed abitativo dei bisognosi di assistenza, siano handicappati, fanciulli, anziani.
Mi sembra molto avanzato il discorso dell'inserimento della riabilitazione e del recupero degli handicappati. L'assistenza economica nel passato non era così riconosciuta e così esplicitata in un testo di legge. Questo recupero è positivo nella misura in cui fa riferimento ad un discorso di raccordo a parametri oggettivi e quindi ad un discorso di minimo vitale.
Questo disegno di legge va inteso come stimolo e come indicazione di carattere culturale, come risultato di un processo acquisito da tutte le componenti.
Poiché c'é una divaricazione fra il discorso di carattere generale ed alcune riflessioni in ordine ad aspetti più puntuali con tenuti nei singoli articoli, mi pare o p por t uno distinguere i due momenti, quindi, che oggi si possa concludere il dibattito su questa indicazione di carattere generale ed in una prossima seduta di Consiglio si possa affrontare l'esame dettagliato delle singole disposizioni di legge.



PRESIDENTE

La parola all'Assessore Cernetti per la replica.



CERNETTI Elettra, Assessore all'assistenza

Ritengo che dibattito sia stato di estremo interesse, che tutti gli interventi siano stati altamente qualificati, da qualsiasi parte siano venuti.
Ringrazio in primo luogo il mio Capogruppo che oltre che relatore è stato uno dei sostenitori più attenti e più costanti di questo disegno di legge. Devo riconoscere l'impegno costante del PCI, del PSDI e la collaborazione intelligente del PLI. Lascio per ultimo il Gruppo della DC non solo per sottolinearne l'importanza ma per riconoscere l'apporto serio ed impegnato che ha dato. Le mie proposte sono state in gran parte accettate e hanno contribuito a migliorare la legge. E' indubbio che posizioni ideologiche differenti stanno alla base del concetto "assistenza" che per questa maggioranza ed anche per altre forze politiche presenti in questo Consiglio non può che essere un'assistenza laica, erogata dagli Enti locali come dovere ed assunta dagli assistiti come diritto.
La Giunta riconosce l'indubbio valore della beneficenza delle forze cattoliche. Siamo anche convinti che le rivoluzioni profonde non si attuano da un giorno all'altro, ma in tempi medi e attraverso lunghe riflessioni e meditazioni.
I tempi per la presentazione di questa legge ci sembrano maturi perch negli ultimi cento anni ci sono stati molti cambiamenti. La legge nazionale sull'assistenza è vecchia di cento anni e la beneficenza non può più essere affidata al buon cuore di pochi, né può essere accettata dagli assistiti con riconoscenza. Deve essere pretesa come diritto.
Per questo la Regione Piemonte anticipa la legge nazionale, così come ha anticipato il piano socio-sanitario regionale su quello nazionale.
Questa è una legge democratica che rispetta la dignità delle persone che rispetta il pluralismo; nessuno vuole cancellare con un tratto di penna l'esistente, nessuno vuole distruggerlo.
Ci sta bene che le istituzioni presenti si affianchino a quelle pubbliche adeguandosi alle mutate esigenze della società. Per questi adeguamenti il Consiglio stabilirà tempi e criteri perché le ristrutturazioni siano attuate non in termini traumatici e distruttivi.
Anche la D.C., sollecita il rinnovamento. Chi ha questa volontà è nostro alleato. Ma per rinnovamento si deve intendere non solo adeguamento delle strutture e dei servizi, ma rinnovamento dei concetti informatori che stanno alla base dell'assistenza.
Prendiamo atto che la D.C., approva l'assistenza domiciliare l'assistenza economica, la promozione e l'inserimento sociale, ma tutto questo ha un senso se è finalizzato ad un obiettivo che non può essere che quello di diminuire i ricoveri degli anziani non autosufficienti in istituto secondo un criterio di non emarginazione. E' difficile sostenere un concetto di istituzionalizzazione. Gli anziani in istituto sono infelici, nel migliore dei casi, sono rassegnati, si sentono inutili perch protetti dalla mattina quando si alzano alla sera quando vanno a dormire.
Diceva Pavese: "Chi non sa perché si veste la mattina e si sveste la sera ha perduto la voglia di vivere".
Le statistiche ci dicono che il 30 % degli anziani, la più alta percentuale, muore nel primo anno di ricovero.
La Regione finalizzerà la maggior parte delle sue pur esigue risorse nell'assistenza domiciliare, che non potrà che comportare la diminuzione dei ricoveri a cui necessariamente tendiamo .
Il concetto di non emarginazione si accompagna all'assistenza domiciliare. L'assistenza domiciliare è di estrema importanza solo se ha come obiettivo finale un minor numero di ricoverati autosufficienti.
Per gli anziani autosufficienti che non possono vivere in famiglia per svariate ragioni, e per gli anziani delle campagne e della montagna che si stanno spopolando, abbiamo previsto comunità alloggio che sono molto vicine alla struttura familiare, dove gli anziani si ritrovano porta a porta con coppie più giovani. Per gli anziani non autosufficienti, che sempre più vedono ridotta la possibilità di un'assistenza 24 ore su 24, sono ipotizzate delle strutture protette, ex novo o ristrutturate.
In Piemonte ci sono 460 case di riposo con circa 30 mila posti letto.
La riconversione dovrà avvenire gradualmente per cui negli istituti troveranno ricovero gli anziani non autosufficienti, mentre gli anziani autosufficienti troveranno servizi alternativi.
Sono previsti anche i centri di incontro che saranno abbinati ad un determinato numero di comunità alloggio. Se abbinassimo i centri di incontro ad un numero eccessivo di comunità alloggio ritorneremmo alle vecchie strutture che non vogliamo.
Alcuni Consiglieri hanno criticato le dimensioni della casa protetta che sono volutamente ridotte proprio perché permettono una rete più fitta sul territorio; le grosse strutture invece, che oggi ricoverano dai 700 agli 800 anziani, sradicano l'anziano dal suo contesto abitativo e sociale infatti molti anziani non autosufficienti provengono dalla provincia o da altre province.
Tentiamo di mantenere l'anziano nel proprio paese, Nei proprio quartiere, favorendo un interscambio continuo tra l'esterno e l'interno.
Siamo convinti che questa legge, surrogatoria di quella nazionale, ha dei limiti, non può prevedere un fondo per l'assistenza né un organico per il personale socio-assistenziale. Però i tempi sono maturi e matura è la società e la Regione Piemonte ha già fatto molti passi in questa direzione i quali richiedono una conclusione.
Non siamo stati autoritari. I Comuni passeranno le gestioni alle USL entro un anno dall'entrata in vigore della legge per consentire la gradualità. La legge è stata lungamente discussa e meditata con consultazioni quanto mai ampie. E questo è garanzia di democrazia.
Non c'è dubbio, non abbiamo l'assoluta certezza di avere in tasca una ricetta infallibile. Siamo in un periodo di riconversione, di mutamenti profondi, cerchiamo con modestia e con umiltà di interpretare le esigenze delle fasce deboli della popolazione, come gli anziani e come gli handicappati.
Sono stati sollevati dei dubbi in merito alla legittimità della legge e soprattutto in merito all'autorizzazione. Con l'autorizzazione intendiamo dare la certezza agli utenti del tipo di servizio di cui possono fruire.
Dal campo sanitario al campo alberghiero tutte le strutture sono soggette ad autorizzazioni preventive o a licenze.
Anche la citata legge 90, di cento anni fa, stabiliva che gli istituti pubblici e privati venissero chiusi dall'autorità (allora era il Prefetto) qualora non avessero risposto a criteri di buona assistenza. Con l'autorizzazione abbiamo inteso dare una garanzia alle istituzioni stesse.
Quanto alla legittimità, siamo coscienti di correre dei rischi: una legge regionale anticipatoria della legge nazionale corre questi rischi.
Preferiamo però un discorso rischioso di innovazione vera piuttosto che una legge che non corre rischi, che non va ad innovare nulla e si limita a codificare il presente ed il passato.



PRESIDENTE

Il dibattito è concluso con la replica dell'Assessore Cernetti. Come è stato stabilito nella riunione dei Capigruppo il passaggio alla votazione degli articoli è rinviato alla seduta del 7 aprile 1982. In apertura di quella seduta vi sarà l'esame della proposta di ordine del giorno del Gruppo DC.


Argomento: Formazione professionale

Relazione sulla formazione professionale


PRESIDENTE

In merito al punto quinto all'ordine del giorno do la parola all'Assessore Ferrero per la relazione sulla formazione professionale.



FERRERO Giovanni, Assessore all'istruzione.

Signor Presidente, signori Consiglieri, questo appuntamento in Consiglio giunge a più di un anno di distanza dal momento in cui sono subentrato nella delega in materia di formazione professionale a Gianni Alasia. Una parte delle indicazioni qui contenute sono dovute al suo lavoro e, ovviamente, data la consistenza e la strutturazione interna proprie di un sistema formativo esse si collocano in continuità con le attività della precedente legislatura. L'interessante ed articolato dibattito che ha portato alla stesura della legge 8, la competenza dei suoi protagonisti, e qui voglio citare almeno Fiorini e Conti, illuminano le attività della Regione in materia.
La presenza di una legge regionale che nasce dalla legislazione quadro nazionale - e la 845 è una delle poche leggi quadro emanate dal Parlamento in applicazione del dettato costituzionale - ha infatti permesso un'ampia elaborazione che ha coinvolto direttamente le strutture regionali e che contiene un'ampia messe di analisi sulla situazione e che prospetta le tendenze di sviluppo.
A questi materiali, consegnati alla Commissione ormai da qualche tempo credo si debba fare riferimento per trovare i dati di fatto da cui far nascere la proposta di piano pluriennale previsto dalla legge regionale 25/2/1980, n. 8.
All'odierna relazione in Consiglio regionale spetta il compito di richiamare i punti del dibattito politico attuale sulla formazione professionale e di anticipare, sottoponendole alla verifica del dibattito le linee e i fini che la Regione deve perseguire.
L'intervento delle Regioni in materia di "istruzione professionale" modifica radicalmente la preesistente situazione del settore e le possibilità di intervento degli enti, allora collegati al Ministero del Lavoro; ciononostante non pare che tutte le potenzialità proprie dell'istituto regionale, tenendo conto che si tratta di materia ex art. 117 della Costituzione, e quindi trasferita, siano state fin qui sviluppate. E dal momento che a parità di ordinamento non corrisponde da parte delle Regioni a Statuto ordinario pari impegno e capacità nell'esercizio delle funzioni trasferite si deve riconoscere che il tema lungi dall'essere esaurito assume ad un tempo rilevanza sul versante politico ed istituzionale.
In primo luogo è inaccettabile che si consideri, con facile denigrazione che ultimamente pare assurgere al rango di luogo comune uguale l'impegno della Regione Piemonte e quello di altre Regioni che anche per diversa ispirazione politica, hanno dato soluzioni certo meno rigorose ai temi dell'organizzazione delle attività di cui trattasi.
L'articolarsi dell'istituto regionale in singole Regioni postula necessariamente un'autonomia di iniziativa ed un'articolazione di comportamenti in ogni ambito territoriale. E ogni Regione risponde quindi dei propri atti non all'istituto regionale in sé, ma alle diversità sociali, storiche e territoriali, nonché alla responsabilità delle classi dirigenti locali devono essere ascritte la difformità ed ancor più l'eventuale lacunosità di singoli comportamenti. L'incapacità eventuale dell'ordinamento di uno Stato di possedere l'effettiva idoneità ad imporsi a tutti gli altri soggetti esistenti sul suo territorio non può essere mai attribuito ad uno solo dei suoi momenti costitutivi: è per sua natura problema nazionale e generale. Non a caso la Regione Piemonte ha considerato inadeguato alle esigenze del mondo del lavoro del Piemonte perché frutto di un'arretrata e assistenziale concezione della formazione professionale, il recente contratto nazionale degli enti privati di formazione professionale, non a caso il tema dell'autonomia delle Regioni e della necessaria riforma delle amministrazioni centrali dello Stato quale coronamento della riforma regionalistica sono stati affrontati con singolare efficacia dai Presidenti delle Regioni Piemonte, Lombardia ed Emilia Romagna, congiuntamente con il Ministro agli Affari Regionali in una tavola rotonda recentemente svoltasi a Torino.
Il passaggio, d'altro canto, ad enti elettivi di competenze precedentemente svolte dall'amministrazione dello Stato richiede molto rigore nell'evitare che la maggiore politicità, propria della più diretta partecipazione dei cittadini e delle forze sociali alla determinazione delle scelte di indirizzo del settore, determini una diretta inframmettenza dei partiti nelle singole scelte amministrative. Non si tratta né di moralismo né di sfiducia nei confronti dei partiti, chi vi parla è infatti più che mai soddisfatto di militare nel partito in cui milita, ma piuttosto di una riflessione ad alta voce su quella che si profila essere la ribellione della società e delle forze del lavoro e della cultura nei confronti di un'eccessiva invadenza di troppi personaggi (Assessori e politici). E l'intromissione si configura per intanto con il forzare i singoli atti dell'amministrazione; la programmazione richiede invece una capacità di individuare e perseguire i fini propri dello stato-ordinamento e la strumentazione che sappia realizzare il dinamico contemperarsi dell'interesse collettivo e di quello privato.
Non pare però che il mondo disponga oggi di felici sintesi tra politica ed economia. Né è pensabile una teoria piemontese che risolva le difficoltà del mondo.
Basti ricordare un molto acuto intervento di Luigi Covatta sull'"Avanti" laddove dice: "Se il binomio innovazione - governabilità è inscindibile nel resto d'Europa esso diventa ancora più significativo nel caso italiano. In Italia, infatti, non dobbiamo misurarci con la crisi dello stato sociale di matrice socialdemocratica, dobbiamo misurarci con la crisi di quel Welfare State all'italiana... Anche per questo forse, il riformismo italiano ha dato luogo a risultati così discutibili tali da accentuare piuttosto che attenuare la crisi di governabilità".
Gli argomenti del convegno sulla crisi del Welfare State organizzato dalla Regione Piemonte e dalla Fondazione Basso, svoltosi in quest'aula alcuni mesi or sono, meritano di essere tenuti presenti quale sfondo del nostro dibattito sul ruolo della Regione per sviluppare una politica attiva del mercato del lavoro.
Una ripresa di dialogo tra le componenti interne al mondo del lavoro ed un intensificarsi dei rapporti tra la Regione Piemonte e le organizzazioni sindacali e rappresentativa dei lavoratori e degli imprenditori vale almeno quanto un miglioramento delle metodologie didattiche nel settore.
La prima indicazione, allora, sulla quale discutere è la necessità di allargare, ben al di là di quanto si realizzi oggi, limitatamente ad alcune delle categorie che costituiscono la società piemontese, i rapporti della nostra Regione con gli interlocutori naturali, e cioè con i ceti popolari da un lato e con i tecnici e gli intellettuali dall'altro, per una ripresa economica. Neppure lo sviluppo del terziario, in una situazione in cui si deve difendere la struttura produttiva industriale della nostra Regione da una preoccupante tendenza allo smantellamento si sorregge solo con singole infrastrutture, per quanto esemplari, o con una pur fondamentale politica territoriale. Sono in gioco la credibilità dello Stato e l'immagine dello sviluppo; ed è di qui che partono la fiducia e le energie necessarie per attuare le idee e per muovere le risorse economiche necessarie ad uno sviluppo moderno. Non voglio insistere su questi temi: forse però gli spunti della relazione di un anno fa sulla politica culturale non si sono dimostrati troppo estranei al dibattito culturale ed economico dei mesi trascorsi.
Ciò che manca, forse più si ogni altra cosa, oggi nel nostro Paese, è la volontà di mobilitazione attorno a pochi punti qualificanti e centrali.
Uno di questi che sta a monte e a valle del processo produttivo, che ha attinenza immediata con i processi formativi scolastici, la cui riforma non si realizza o stenta a realizzarsi, è il tema dell'occupazione.
Ci troviamo in uno stato di vera e propria emergenza che invade ormai il campo dei valori e delle ragioni profonde della vita sociale. Dobbiamo renderci conto che occorre restituire con atti concreti e con la creazione di serie prospettive ai lavoratori e alle lavoratrici del nostro Paese in ogni ordine e grado la loro dignità facendoli uscire dalla condizione di assistiti nella quale sono costretti.
La disoccupazione, che colpisce ormai tutte le categorie della popolazione e in primo luogo i giovani e i lavoratori che hanno rappresentato il cuore dello sviluppo negli anni passati, è un immenso spreco di risorse.
Questo è uno dei punti e una delle argomentazioni del nostro rapporto con il Governo e per valutare i termini possibili degli investimenti aggiuntivi.
Quando si delinea anche nel campo dell'assistenza, come un fenomeno destinato a durare, il non lavoro a micidiali effetti di demoralizzazione e di smobilitazione, c'è da chiedersi se perdura uno stato di cose quale quello che oggi abbiamo di fronte, da una parte chi avrà ancora voglia di intraprendere un'attività, di rischiare, di assumere le responsabilità di iniziative, se la sua esperienza accumulata nel momento in cui è entrato nel mondo produttivo è stata per anni segnata dall'angoscia di perdere il lavoro e la prospettiva di averne un altro o dall'incertezza di poter mantenere le condizioni di redditività dell'impresa.
Chi oserà dire allora che la disoccupazione è un male necessario? La mancanza di lavoro è un cancro sociale che nella nostra situazione pu essere anche un elemento di grande instabilità democratica.
Fissare come obiettivo l'aumento dei posti di lavoro e la loro riqualificazione, non implica soltanto la formazione professionale; troppi guardano ad essa come un palliativo di tipo assistenziale. La formazione è strategica nei tempi medi se si definiscono gli altri obiettivi, le grandi scelte economiche industriali, di assetto del territorio, ecc.
Se questo è l'orizzonte in cui ci si deve muovere, dobbiamo giudicare positivamente, e quale premessa necessaria, l'attività sin qui svolta, per sviluppare il settore, per affinare le metodologie, per formare quadri tecnici capaci; si tratta di interventi che hanno richiesto negli anni passati anche qualche taglio e ridimensionamento in alcuni settori di attività.
Per giungere all'attuale livello di attività, che è di gran lunga superiore anche in termini di volume a quello riscontrabile al momento del trasferimento delle competenze dallo Stato, la Regione ha dovuto impiegare un volume crescente di risorse.
In termini finanziari la situazione dell'81 vedeva, a fronte di una spesa complessiva di circa 50 miliardi, un impegno di 9,5 miliardi da parte dei fondi statali (ex FAPL), di 15 miliardi da parte della CEE, soprattutto concentrati nei corsi di riconversione dei lavoratori occupato o in C.I.G.
e di ben 25,5 miliardi da parte del fondo comune, e cioè delle risorse fresche regionali.
Questo impegno di risorse ha peraltro permesso una crescente uniformità interna del settore e la realizzazione di non poche iniziative sperimentali di livello e portata nazionali.
Basti ricordare la sperimentazione connessa all'introduzione delle metodologie sulle fasce professionali di qualifica nel settore metalmeccanico, sviluppate con il concorso dell'ISFOL. la realizzazione dei centri di Biella, Orbassano e Vercelli. Ma dall'enumerazione dei risultati conseguiti attraverso il lavoro, generosamente profuso da migliaia di docenti, amministratori e specialisti no possiamo care alcuna giustificazione per un indifferente ottimismo riferito alla situazione di oggi.
L'impegno dell'oggi consiste nel non nascondersi nessuna delle difficoltà e degli impedimenti che si stanno frapponendo all'applicazione della stessa legislazione vigente: difficoltà ed impedimenti largamente ispirati al crescente quanto irrazionale fastidio nei confronti delle Regioni, che pare essere l'elemento aggregante dell'offensiva da parte delle amministrazioni centrali dello Stato. Le difficoltà nascono soprattutto da mancanza di un corretto rapporto istituzionale, da insufficienti erogazioni finanziarie e dall'incertezza politica e legislativa in materia di lavoro e industria.
Su questi punti vi è una presa di posizione approvata dalla conferenza dei Presidenti delle Regioni italiane che costituirà la base per il confronto con il Governo. Questa posizione si è resa necessaria per l'indefinito e inconcludente protrarsi degli incontri tra il Ministero del Lavoro e gli Assessori regionali alla formazione professionale.
Sotto il profilo istituzionale, si rivendica l'univocità delle procedure per l'ammissione delle imprese ai finanziamenti del Fondo Sociale Europeo, nonché l'emanazione dei decreti necessari a rendere operanti le fasce di qualifica, presupposto per la definizione degli orientamenti didattici da parte della Regione, nonché l'attivazione delle procedure già previste dalla legge 845 per le aree con forti squilibri tra la domanda e l'offerta di lavoro.
Le entrate statali, che coprono solo una piccola parte degli oneri sono in parte bloccate, o presentano arretrati di anni (fondo di rotazione) o non sono state mai attivate (art. 18, punto h) della legge 845) o sono state assorbite in diminuzione all'atto dei trasferimenti delle funzioni alle Regioni (fondo per la copertura degli oneri INPS per gli apprendisti).
E' opportuno, altresì, segnalare che un riparto fittizio del Fondo Sociale Europeo, come predisposto dal Ministero del Lavoro, è pregiudizievole per un utilizzo dei relativi contributi da parte delle Regioni, che vedono così falsate le loro possibilità di accesso ai fondi con conseguente mancanza di una qualsiasi programmazione, che tenga conto delle esigenze di tutte le Regioni. E' da notare, inoltre, il grosso divario esistente tra le disponibilità del fondo di rotazione degli esercizi 1981 e 1982, dovuto a restituzione di fondi da parte del Ministero all'INPS, giustificata poi dallo stesso Ministero come incapacità delle Regioni ad attivare i progetti specifici. Si tratta in questo caso addirittura di evidenti strumentalizzazioni.
Non è pensabile che permanga uno squilibrio così forte, nel bilancio dello Stato, tra i 18.500 miliardi della pubblica istruzione e le poche centinaia di miliardi per la formazione professionale: anche da questi dati si può vedere quanto cammino l'Italia deve fare per potersi inserire in posizione non subalterna nei processi economici dell'Europa. Né si pu biasimare la politica di restrizioni decisa dalla CEE per il finanziamento del cosiddetto consolidato (progetti giovani); ad una migliore finalizzazione del Fondo Sociale Europeo deve corrispondere un'adeguata presenza di risorse sul fondo comune di cui all'art. 8 della legge 16/5/1970, n. 281.
In generale le incertezze sulla 760, le difficoltà di applicazione della legge 675 e le proposte inerenti la formazione professionale contenute nella proposta di legge di riforma della scuola media superiore al di là delle, speriamo, solo contingenti difficoltà finanziarie, rendono assai mal definita la prospettiva in cui i nostri impegni si vengono a collocare.
La stessa possibilità di fare fronte con il bilancio regionale a questa situazione è legata al poter tenere ferma la 845 quale legge quadro del settore. A quale titolo, altrimenti, possono essere sottratte risorse ad altri interventi regionali pure necessari e obiettivamente ridimensionati nella proposta di bilancio 1982, se non al fine di perseguire una politica attiva del lavoro? Un piano pluriennale, che si colloca nell'attuale situazione, non pu certo essere un piano contabile, di piccole ma tranquille certezze. Il suo collegamento con il piano regionale di sviluppo, previsto dalla legge regionale n. 8 assume il significato di una sollecitazione intensa e straordinaria ai soggetti politici ed al sistema della formazione professionale per elaborare proposte originali, per sviluppare inventiva ed iniziativa.
Come dicevo all'inizio non è né facile né forse opportuno introdurre svolte brusche nell'organizzazione di un apparato così articolato e strutturato. Ma già nell'anno formativo 1982/83 devono potersi leggere innovazioni importanti e nuove tendenze. Questa relazione e il materiale allegato contiene i riferimenti per detto piano. La Giunta regionale è disponibile allo sforzo straordinario che le compete; nell'interesse dello sviluppo della nostra Regione sono fiducioso che anche le forze sociali saranno all'altezza del contributo che l'attuale situazione loro richiede.
Il nodo fondamentale che balza agli occhi esaminando le cifre relative al settore è il contrasto tra il costo degli interventi, onerosi al limite del sopportabile per la parte pubblica ed i risultati, cioè gli effetti in termini di numero di occupati e di attività economica indotta.
Non si vuole qui sostenere tanto che il costo per ogni singola persona formata è alto, ma che l'impegno e la difficoltà per la Regione di trovare 25-30 miliardi tutti gli anni di risorse fresche non sono forse compensati da un intervento dello stesso significato per la Regione in termini di politica attiva del lavoro.
Non è un problema di tipo contabile, ma di valutazione politica complessiva, di effetti della spesa.
La formazione professionale va intesa come politica del lavoro finalizzata all'occupazione, al miglioramento delle produzioni di beni e servizi, all'evoluzione dei sistemi organizzativi degli apparati pubblici e delle industrie. Essa può efficacemente operare solo se coordinata con altri interventi di politica economica e di politica del lavoro. L'economia piemontese sta attraversando un periodo assai difficile, più volte questo Consiglio ne ha discusso.
Il Piemonte vive un processo di profonda trasformazione, i risultati dei cambiamenti indotti dalla crisi forse oggi non sono ancora così chiari è certo però che nulla potrà rimanere com'era prima.
Interi settori e grandi aree sono investiti da ristrutturazioni radicali degli apparati produttivi con gravi riflessi sui livelli occupazionali.
Mentre le ore di cassa integrazione si contano a centinaia di migliaia ogni mese, il collocamento è di fatto bloccato ed il numero dei disoccupati effettivi aumenta.
Si assiste tuttavia a fenomeni anche di significato inverso, connessi all'introduzione di nuove tecnologie, alla diversificazione produttiva alla conquista di nuove aree di mercato, alla riorganizzazione degli apparati.
Tendono ad essere emarginate ed espulse le componenti più deboli della forza lavoro ed emergono, al tempo stesso, nuove professionalità.
Una politica del lavoro finalizzata al pieno utilizzo delle risorse professionali ed umane deve saper cogliere entrambi gli aspetti dei tassi di occupazione e della qualità della forza lavoro impiegata.
Vorrei dire che oggi lavorare per la ripresa significa attribuire particolare importanza soprattutto alla seconda questione.
L'elevamento della qualità del lavoro ed il miglioramento dei livelli tecnici e culturali dei lavoratori accompagnati da un diverso rapporto tra le forze produttive e forme della produzione sono, a mio parere, i riferimenti essenziali per la programmazione degli interventi di formazione professionale.
Il presente della formazione professionale, in qualche modo, deve obbligatoriamente essere costituito sulla base di ipotesi per gli anni a venire. Ciò vale, in particolare, per la formazione dei giovani in cerca di prima occupazione.
La struttura dell'occupazione nella Regione sta rapidamente modificandosi. Cresce una domanda di qualificati per funzioni diverse da quelle tradizionalmente connesse alla produzione di merci destinate al consumo.
Volendo schematizzare in termini certo grossolani ma di una qualche utilità per organizzare le attività di formazione professionale si possono individuare almeno le aree seguenti: 1) forza lavoro caratterizzata da consistente esperienza lavorativa e da basso livello di scolarità che viene posta in condizioni marginali rispetto alle dinamiche del mercato del lavoro. L'intervento formativo, che si impone anche per effetto di importanti accordi sindacali, soprattutto relativi ai grandi gruppi industriali, non può che muoversi in via prioritaria sulla fasce che hanno più elevata possibilità di reimpiego, pur senza escludere interventi "attivi" volti ad abbattere gli elementi di rigidità artificiosa pur presenti nel rapporto tra offerta e domanda 2) forza lavoro caratterizzata da professionalità tecniche od amministrative moderne e flessibili, richieste in generale dai settori dell'industria e in quelli di servizio alle imprese. Si assiste alla caduta di certe frettolose affermazioni secondo le quali diplomati e laureati erano eccedenti ed inutili: in realtà "buoni" diplomati e laureati, magari orientati da corsi specifici o da stage in impresa sono uno dei poli del rinnovamento della struttura produttiva. Proponiamo di collegare un'iniziativa tra la Regione, l'Università, il Politecnico, la Scuola di Amministrazione Industriale e in generale le strutture di ricerca della nostra Regione per cominciare sotto un'etichetta che sia costante ed organizzata a promuovere quel complesso di interventi che forse non sono la tradizionale formazione professionale, ma che sono sempre più richiesti dagli stessi dirigenti delle imprese e che sono condizione essenziale per un inserimento dei giovani con un elevato livello di studio scolastico all'interno di un qualificato lavoro e all'interno delle imprese 3) il permanere di richiesta di forza lavoro qualificata, di carattere certo più tradizionale ma che sarebbe grave trascurare nei suoi aspetti di qualità e quantità. L'attuale struttura del sistema formativo piemontese è invece prevalentemente rivolta ai più tradizionali mestieri operai 4) la richiesta di forza lavoro con caratteri particolari legata alla domanda sempre di più esterna al sistema industriale inteso in senso stretto proveniente in particolare dal cosiddetto terziario, in continua espansione per numero di addetti.
Occorre, quindi, un diverso rapporto tra gli investimenti destinati alla formazione degli operai, corsi di primo livello per giovani in possesso del solo titolo dell'obbligo e gli investimenti rivolti alla formazione dei tecnici, dei diplomati, dei quadri.
Queste attività formative di secondo livello devono essere finalizzate sia al sostegno della ripresa industriale, sia allo sviluppo ed alla qualificazione del settore terziario.
Ritengo, inoltre, debba essere modificato il rapporto tra la formazione dei giovani e la formazione degli adulti, destinando a questi ultimi nuove grandi risorse.
La riqualificazione dei lavoratori adulti occupati e disoccupati va realizzata in un contesto di formazione permanente all'interno del quale devono essere previsti momenti di recupero della scolarità di base.
Ciò impone diversi e nuovi rapporti tra la Regione e le autorità scolastiche statali.
Un tema di grande rilievo è quello dell'apprendistato. Gli apprendisti sono, in Piemonte, circa 80.000 e non esistono attività formative destinate a questi giovani.
L'impegno di tutte le forze politiche del Consiglio deve essere rivolto verso una modifica della legislazione nazionale in materia per renderla più adeguata.
Nell'attuale situazione è necessario promuovere momenti di sperimentazione di percorsi formativi specifici per gli apprendisti che siano di stimolo per la riforma di questo istituto.
L'intera problematica della formazione professionale è da interpretarsi in stretta correlazione con le modificazioni in corso negli istituti di collocamento e con il funzionamento dei nuovi organismi previsti dal D.L.
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I rapporti tra i giovani e gli adulti, tra i disoccupati e gli occupati, tra le attività di primo livello e quelle di livello superiore vanno stabiliti anche tenendo conto dei criteri di armonizzazione previsti dalla Commissione regionale per l'impiego ed il complesso della formazione professionale deve in qualche modo riflettere gli indirizzi e le procedure in base ai quali si sta sperimentando il nuovo sistema di avviamento al lavoro.
Nel procedimento di formazione della legge di riforma il dibattito è stato fortemente caratterizzato dal confronto tra diverse impostazioni circa i limiti della nominatività nelle assunzioni. Da un lato emerge la preoccupazione di evitare discriminazioni tra i lavoratori ampliando i margini di discrezionalità dell'impresa, dall'altro si evidenziano gli effetti negativi dell'attuale sistema di chiamata numerica che inducono le imprese a ricorrere ad espedienti o a non sostituire il turn-over per evitare costi non produttivi.
L'antagonismo che ha condizionato il confronto tra le soluzioni alternative via via proposte può, in parte, essere superato se viene riconosciuta pienamente la funzione del potere pubblico nell'assicurare certificazioni dei livelli della professionalità che corrispondano alle effettive caratteristiche dei lavoratori aspiranti al posto di lavoro.
Nel contesto di una nuova organica classificazione nazionale questa funzione dovrebbe, credo, essere assolta dalle Regioni per le competenze ad esse trasferite in materia di formazione professionale che comportano il rilascio dei certificati di qualifica.
Affinché il sistema formativo piemontese possa assolvere pienamente ai propri compiti è necessario procedere ad una riorganizzazione delle modalità in base alle quali funzionano i Centri di formazione professionale e gli enti pubblici e privati che operano nel settore.
Oggi, salvo qualche felice eccezione, il funzionamento dei Centri di formazione professionale è sostanzialmente analogo a quello di un normale istituto professionale scolastico.
Si tratta di operare una trasformazione graduale dei C.F.P., da scuole di tipo tradizionale a momenti di organizzazione della formazione professionale sul territorio, capaci di concorrere alla programmazione e di attuare i programmi avvalendosi di tutte le risorse tecnologiche e professionali di cui la società dispone, capaci di operare in modo flessibile rispetto alle necessità sociali e di essere soggetti attivi nei processi di trasformazione, agendo anche come supporto tecnico agli enti locali e alle stesse imprese.
La Regione, in attuazione della legge 8/1980, dovrà approvare gli ordinamenti didattici organizzando gli iter formativi per cicli e per moduli in base alla sperimentazione sulle fasce di professionalità che per i vari settori già si sta attuando.
Colgo l'occasione per ribadire l'urgenza con cui lo Stato deve dare attuazione a quanto disposto dalla legge quadro sulla formazione professionale.
Negli ordinamenti didattici dovranno essere contenuti criteri e norme sull'edilizia, sulle attrezzature didattiche, sui requisiti del personale docente, sugli accessi, sulle prove finali di certificazione.
La riorganizzazione del sistema formativo piemontese dovrà avvenire con il contributo degli enti, delle imprese, delle organizzazioni sindacali dei lavoratori.
Parte determinante di questo processo saranno i provvedimenti relativi al personale del settore, al quale dovranno essere attribuite nuove funzioni con corrispondenti ed adeguati miglioramenti nel trattamento.
Specifiche iniziative di formazione dei formatori dovranno accompagnarsi ai processi di trasformazione previsti nel settore ed ai programmi di investimento.
Alla luce di quanto brevemente rappresentato sulle dinamiche del mercato del lavoro e sulle possibili trasformazioni della struttura formativa si può tentare di affrontare la contraddizione di cui si è prima parlato. Detta contraddizione nasce, a ben vedere, dal tentativo di sviluppare una politica di intervento nel settore dell'economia e del lavoro senza una sufficiente partecipazione delle forze economiche e delle organizzazioni dei lavoratori.
Questo tentativo, infatti, rischia di diventare insostenibile più ancora per ragioni politiche che per motivazioni meramente economiche. La soluzione non può che consistere allora in una duplice azione.
Sul versante delle imprese e degli operatori economici è necessaria una loro diretta presenza, attraverso le strutture produttive, gli esperti e le risorse che essi muovono.
Sul versante dei lavoratori va valutata la possibilità di considerare il ricorso alla formazione professionale pubblica non solo nei momenti dell'attacco all'occupazione, ma in generale nella contrattualistica.
La Regione dal canto suo può individuare tipologie di corsi, anche brevi, che non rendano inutilmente oneroso sul piano sociale il ricorso allo strumento della formazione professionale. Questo pare essere il terreno ineludibile per evitare il ricorso solo rituale alla formula "politica attiva del lavoro". I risultati dipenderanno dalle idee che ciascuno saprà esprimere e dalla volontà, che io penso comune, di non sopravvalutare i vantaggi, io credo assai effimeri in verità, delle rigidità e delle intransigenze reciproche.
Una politica di rapporti più stretti con il mondo del lavoro e di estensione coraggiosa del volume formativo è la proposta della Giunta regionale.
Non si vuole certo con questo ragionamento ignorare l'importante tematica relativa ai vari settori produttivi e alle specificazioni qualitative in termini di mestieri e relative professionalità. Esistono già parecchie informazioni in materia, raccolte d all'Osservatorio Regionale sul Mercato del Lavoro, da indagini generali condotte anche con la partecipazione delle organizzazioni dei datori di lavoro, nonché da molte indagini specifiche per territorio o per settore. Altri lavori in tal senso sono in preparazione e verranno puntualmente offerti all'attenzione del Consiglio.
Quello che si vuole mettere in rilievo è la differenza sostanziale che esiste tra la descrizione di un fenomeno e la stima della sua proiezione temporale, che si basa sulla prevedibilità nel tempo dei comportamenti fondamentali, dalla decisione, che può essere indotta al di là delle tendenze naturali, di modificare i comportamenti fondamentali. E la politica guarda con interesse soprattutto alla modificazione dei comportamenti.
Le attività di formazione professionale non esauriscono la loro funzione negli effetti sulla dinamica del mercato del lavoro. Non a caso infatti, gli elementi di promozione umana e di intervento nei processi sociali sono stati, fin dal suo nascere, una connotazione importante degli interventi nel settore. Così come la negazione di un necessario intervento assistenziale porta poi all'interno dei settori produttivi tensioni e contraddizioni esplosive e distorcenti per lo stesso sviluppo, così la considerazione apparentemente efficientista di espellere dalla formazione professionale quanto non riassumibile in moduli tecnocratici porta a rendere assistenziali parti importanti dell'attività, venando di assistenzialismo l'intervento complessivo.
La dualità tra assistenza (intesa in senso più lato della mera assistenza sociale) e sviluppo (inteso non solo come incremento del prodotto nazionale lordo) è un modo di manifestarsi della distanza tra politica ed economia.
Una particolare attenzione deve essere dedicata a questo angolo visuale perché non si tratta di giudicare la liceità di generose elargizioni di privati, ma di destinare risorse pubbliche in un quadro di conclamata restrizione delle stesse.
Io credo che la pubblica amministrazione debba poter obiettivamente documentare le trasformazioni da essa operate nella società. Il criterio non può che essere quello di rendere più autonoma la dinamica economica, di far sì che ogni intervento aumenti l'autosufficienza del soggetto interessato; molte delle attuali degenerazioni nelle pur doverose azioni di sostegno dell'economia e di intervento nel mercato nascono dall'aver deciso di accrescere la dipendenza dal finanziamento pubblico dei soggetti sui quali si è intervenuto. Di qui passano le trasformazioni illiberali ed autoritarie nell'ordinamento pubblici, di qui nasce uno Stato onnipresente ed opprimente ostile alla società civile.
Io credo che non ci siano facili applicazioni di questi principi e che proprio per questo, la discussione debba avvenire alla luce del sole.
Vi sono interessi degli allievi della formazione professionale, vi è la necessità di sostenere il pluralismo degli enti e delle associazioni espressione del pluralismo della società, vi è l'effetto sociale, economico ed ideale di taluni interventi. Non si possono confondere questi livelli tra loro distinti.
Lo sforzo di definire nel campo dell'agricoltura la metodologia dei corsi progetto, l'interesse per alcune aree territoriali quali la collina e la montagna sostenendo attività integrate di formazione professionale, di produzione di materia prima e di trasformazione della medesima in loco, il fornire la qualificazione tecnica agli allevatori che permetta loro di sostenere attraverso una buona qualità del prodotto l'efficace immagine di un marchio aziendale non possano essere valutati solo in base al costo per unità di lavoro formata.
In questi bilanci costi/benefici deve essere messo all'attivo l'effetto economico che si ottiene rendendo abitate zone oggi disabitate e quindi incolte (basti pensare a certi costi non solo economici, purtroppo conseguenti al dissesto idrogeologico) e rendendo credibile la possibilità di un posto di lavoro a categorie quali i giovani, i disoccupati, gli espulsi dall'industria che oggi non vedono una prospettiva.
A fronte dei costi della formazione professionale per le riconversioni industriali va collocata la piaga, ben più grave che per i soli aspetti economici di decine di migliaia di persone umiliate dalla mancanza di lavoro e di ruolo attivo.
Nessuno, infatti, potrà credere che uno Stato che ha speso più soldi in un mese per la cassa integrazione che in un anno per la formazione dei lavoratori possa poi presentarsi quale censore morale di rigidità o rifiuti corporativi sull'utilizzo della forza lavoro.
E, peraltro, non si può rispondere alle imprese artigiane che richiedono un supporto dai corsi di formazione professionale con la pur vera constatazione che molti corsi inseriti nel piano annuale di attività sono di interesse per quei giovani che si possono inserire nel settore. La richiesta contiene una pur legittima aspirazione a partecipare alla progettazione dei corsi e di contribuire, attraverso la messa a disposizione delle strutture aziendali, alla loro realizzazione. E, a ben vedere queste sono le giuste aspirazioni di una categoria di imprenditori di lavoratori, che richiede di vedere riconosciuta attraverso il rapporto con la Regione, la funzione che occupa nella produzione di beni e servizi nel sostenere l'occupazione nel necessario diversificarsi dell'attività produttiva.
Vi è un tema sul quale è necessario soffermarsi: quello relativo alle attività di formazione professionale per gli handicappati. Una trattazione soddisfacente di questo tema esula dal tempo concessomi dal Regolamento del Consiglio.
Per accenni però si può ribadire che, se da un lato non può essere etichettata per formazione professionale l'attività propria dei servizi socio-assistenziali delle U.S.L., dall'altro il problema di favorire l'inserimento lavorativo degli handicappati spetta, almeno in parte, alla struttura della formazione professionale. E ciò, voglio ribadirlo, al di là della possibilità di far conseguire a tutti i soggetti interessati un attestato di qualifica. E' però importante un inserimento lavorativo condizione indispensabile per molti di questi so etti per raggiungere un più alto grado di socializzazione ed una almeno parziale autosufficienza nel reddito, che segua ad un: effettivo processo di miglioramento delle capacità di lavoro. Si intende sperimentare, sia pure con le necessarie cautele e con gradualità, l'inserimento di soggetti idonei nella formazione professionale ordinaria. Ciò, senza rinunciare, comunque, ad un attivo concorso anche per quelle trasformazioni dell'ambiente di lavoro che rendono praticabili le possibilità di inserimento.
Questi temi dovranno adeguatamente riflettersi nella stesura del piano pluriennale.
L'attività di formazione professionale comincia inoltre a costituire un terreno di elaborazione e sperimentazione di idee nuove, uno stimolo per la stessa struttura produttiva e per la scuola.
Vorrei affrontare un paio di temi, a titolo di esempio.
La qualità dell'organizzazione scolastica sta diventando uno dei presupposti più importanti della riforma della superiore. Risulta ormai evidente che non basta la revisione dei programmi per rinnovare l'insegnamento ed adeguarlo alle odierne esigenze di qualità. La strumentazione didattica - non solo i laboratori, ma i mezzi audiovisivi le biblioteche, ecc. - non può essere gestita da ogni singolo docente. Ben misera concezione della libertà dell'insegnamento è quella che lascia ogni singolo docente isolato nell'affrontare i rapporti con gli allievi e, per il loro tramite, con la società. Così facendo si finisce per rendere responsabili solo i singoli insegnanti di lacune che sono lacune della scuola, della sua disorganizzazione. Ed il concorso che la strumentazione può fornire alle capacità dei singoli è anche organizzazione di quelle umane risorse.
Io credo che dal lavoro compiuto da alcune Regioni ed enti di formazione si possano ricavare spunti per la riforma della scuola. Perch non utilizzarli? La Regione Piemonte ha da tempo avviato una politica di convenzioni quadro con gli Atenei torinesi, queste convenzioni che sono in fase di rielaborazione e di rinnovo vedranno particolarmente accentuata nella prossima stesura la parte che riguarda l'attività didattica ed editoriale dei docenti e quella che attiene il convenzionamento di strutture permanenti. Attraverso queste convenzioni sarà possibile costruire una sempre più efficace interazione tra i settori produttivi e il mondo della ricerca abbreviando i tempi di trasmissione delle informazioni relative alle tecnologie ed alle innovazioni e costruendo sedi permanenti e qualificate di corsi monografici e specialistici. In analoghi termini quelli dell'acquisizione di elementi esterni di cultura - può collocarsi l'utilizzo delle opportunità offerte da recenti accordi intervenuti con aziende private. Faccio riferimento ai riflessi che in questo settore potranno farsi derivare dall'attuazione di quanto previsto dalla Commissione Regione/Olivetti.
Si tratta certamente di un'attività che non può essere ricompresa nella formazione professionale tradizionalmente intesa, ma che potrà costituire un elemento di innovazione di particolare interesse e rilevanza culturale.
Infatti, in molti processi produttivi è indispensabile intervenire a livelli dei quadri tecnici se non addirittura a livelli di vertice se si vuole avviare un processo capace di moltiplicarsi negli effetti. Non a caso, infatti, in molti Paesi stranieri vi sono sedi congiunte tra Università, centri di ricerca, imprese ed enti pubblici, che svolgono questo essenziale compito.
Il senso di questo intervento di carattere moltiplicativo è stato illustrato dalla relazione sul turismo dell'Assessore Moretti. Non ho ripreso la parte in cui si trattava dell'attività degli operatori turistici cercando di individuare non solo nel singolo lavoratore ma anche nell'organizzazione delle strutture turistiche uno degli elementi sui quali agire attraverso opportune modalità di formazione.
Come si vede le interazioni possibili tra formazione professionale e scuola ai diversi livelli ben lungi dal limitarsi al solo utilizzo di locali o di insegnanti, può dar luogo, nel rigoroso mantenimento dell'autonomia propria di ciascun ambito a risultati di gran lunga superiori a quelli ottenibili da ciascun comparto singolarmente assunto.
Non vi è dubbio, peraltro, che per le considerazioni esposte in precedenza la Regione intende sviluppare degli specifici corsi di secondo livello in connessione con istituti tecnici industriali statali utilizzando almeno parzialmente le relative strutture e, per il tramite di convenzioni le capacità didattiche presenti.
Anzi, un recente convegno promosso dal Ministero della Pubblica Istruzione sui rapporti tra andamenti demografici e scuola ha messo in rilievo che l'andamento di contrazione della frequenza scolastica per ora particolarmente sensibile ai livelli dell'obbligo non ha soltanto rilevanza regionale come già da anni anticipato dalle impostazioni programmatorie della Regione Piemonte, ma tocca larga parte del territorio nazionale.
Non sarebbe davvero possibile pensare che possano essere sprecate risorse così ingenti costruite con l'impegno di tutta la collettività in una fase che è caratterizzata dalle contrazioni delle risorse disponibili a livello locale.
Le proposte che sono formulate consentono di affrontare il tema relativo alle modalità di attuazione della legge n. 8 - più volte richiamata - e, per quanto non è stato specificato nella relazione, i contenuti dell'attuazione stessa.
Sembra, al riguardo, possibile evidenziare, anche in funzione di una semplificata esposizione , un triplice ordine di riferimenti: il tema del coinvolgimento degli Enti locali nella politica regionale segnatamente con riferimento all'attribuzione delle deleghe i problemi di riorganizzazione all'interno della Regione la prospettiva concernente le modalità di sviluppo del necessario confronto con le forze sociali.
Un ampio disegno di coinvolgimento dei Comuni e delle Province, ma valorizzando appieno il momento comprensoriale - è delineato dalla legge n.
8, in termini di partecipazione politica ad un processo politico. Non mero decentramento di attività di amministrazione, ma attivo concorso alla politica regionale del lavoro. Più in generale, elemento di coerenza rispetto alla problematica generale delle deleghe.
A seguito della diretta attribuzione di competenze operate dalla legislazione nazionale a favore degli Enti locali (D.P.R. 616) - in esplicita funzione di surroga, rispetto alla mancata pratica di una politica di deleghe da parte delle Regioni - si deve, infatti, ritenere che l'insieme delle competenze che la Regione è in condizione di delegare non possa costituire che un completamento di quella riorganizzazione di competenze.
Per contro, l'opera di riorganizzazione che può conseguire alla delega costituisce impegno rilevante per la Regione, specie per quanto concerne la riduzione della struttura da conservare all'ente, il diverso disegno organizzativo e funzionale delle stesse e di prevedibili profondi mutamenti cui informare i rapporti tra organi della Regione, strutture e risorse finanziarie.
D'altra parte, si tratta di mutamenti previsti dallo Statuto regionale per quanto concerne i rapporti istituzionali e finanziari connessi all'istituto della delega e definiti dalla legislazione in materia di organizzazione del personale che, individuati negli Enti locali, il riferimento organizzativo ed istituzionale prevede l'utilizzo dell'istituto della mobilità recentemente definito.
I problemi di carattere organizzativo degli enti destinatari delle deleghe potranno essere messi a fuoco in incontri con gli enti stessi, da organizzare negli ambiti territoriali comprensoriali. Le deleghe, d'altra parte, non dipenderanno esclusivamente dalle determinazioni regionali, ma altresì, dai tempi necessari per la definizione di quel processo. Si configurerà, in tal modo; un'anticipazione - anche sperimentale - del processo generale di deleghe.
Per lo sviluppo di quei temi si fa rinvio al documento in materia, già consegnato alla I Commissione consiliare permanente.
Il disegno generale di delega può, infatti, trovare primi ambiti di sperimentazione in settori di peso e dimensione adeguati. La discussione sui programmi comprensoriali della formazione professionale comporta il graduale superamento degli aspetti procedurali della legislazione e dell'amministrazione, per privilegiare gli indirizzi di merito; è noto il peso delle critiche di cui è oggetto l'azione delle Regioni, accusate di essersi limitate alla definizione di più o meno articolate procedure.
Per quanto concerne il tema dell'individuazione dei destinatari delle deleghe, si osserva quanto segue: l'esperienza realizzata nella precedente legislatura (con riguardo a taluni settori) ha dimostrato la scarsa praticabilità di operazioni di riordino istituzionale "forzate" attraverso l'organizzazione delle deleghe attesa l'irrinunciabilità di detto riordino, ma valutata la complessità, sembra proponibile che lo stesso sia indotto - riorganizzando le materie in sé; perché a questo riordino sostanziale possa conseguire un processo di riorganizzazione istituzionale in quest'ambito ed in fase di avvio del processo, non sembra essenziale definire quali soggetti enti debbano essere delegati e per quali ambiti. Più probabilmente, tali indicazioni possono assumere carattere di eccezionalità, a fronte della "normalità" di una delega che - soddisfatte determinate condizioni organizzative, finanziarie e di struttura - risulti "proposta" al sistema delle autonomie nel suo insieme, perché giochi tutto il suo ruolo la capacità degli enti di esserne attivi recettori.
Questa può essere una scelta che non pregiudica la possibilità di una proposta organica di riordino (ad esempio, per la costituzione di consorzi od associazioni plurifunzionali, che si avvalgano della partecipazione dell'insieme degli enti), ma che, al contrario, in alternativa ad operazioni di ingegneria istituzionale, ne realizzi i presupposti di sostanza.
L'individuazione dei soggetti destinatari di delega, le ipotesi formulate o caldeggiate, hanno esaurito ogni teorica possibilità. Ne è prova, tra le altre, la caduta dello stesso interesse per quelle diatribe.
Al pari di quanto sembra avvenire nel rapporto Stato/Regioni e come evidenziato, anche di recente, dalla stessa elaborazione scientifica, in materia, non è dato ozi di distinguere per funzioni gli enti elettivi, se non in termini estremamente lati, specie a seguito delle più recenti modifiche dell'ordinamento, in materia di competenze (soppressione della distinzione tra spese obbligatorie e facoltative).
A questo proposito appare possibile avviare un discorso di revisione della legge 8, non certo in termini generali e di impostazione, ma sulla base di concreti programmi di gestione discussi e concordati in particolare con gli Enti locali. Terreno di estremo rilievo - anche se in termini diversi - di rapporto con gli Enti locali - riguarda il tema della formazione del personale della pubblica amministrazione. In materia, le proposte della Giunta assumono i seguenti riferimenti: le normative statuali e regionali in ordine all'organizzazione della Regione e degli Enti locali (le:e n. 3/1979 - D.P.R. 191 e D.P.R. 810 recanti i contratti di lavoro degli Enti locali - legge regionale n.
6/1980) la funzione di coordinamento della Regione ed il raccordo con gli Enti locali, specie di grande dimensione (città di Torino - Province Capoluoghi di Provincia) l'indicazione per una "funzione" di formazione, indipendentemente dalla relativa struttura e fisionomia istituzionale, rivolta ad essere parte integrante - e non subalterna - nel processo di trasformazione degli enti l'acquisizione dei necessari apporti culturali, strumentali e di metodo per l'incisività dell'azione che si propone.
In termini generali, fungono da parametro - e da contenuto - i temi delle riforme e, più in particolare, le conseguenze di queste all'interno degli enti.
Nell'avviare - o nello sviluppare - un'azione rivolta a supportare il funzionamento della macchina pubblica, arricchendone, in termini di cultura e di proposte organizzative, le capacità complessive, la Regione verifica su se stessa e sull'insieme degli enti la capacità di dotarsi di quell'impianto che fornisce - ma di cui pretende l'utilizzo, con il concorso dei soggetti interessati - all'ambito privato. E questo è certamente un problema di coerenza. Ma nell'operare scelte - metodologiche certamente, ma più ancora di merito - si verificano, invece, gli indirizzi politici generali dell'ente.
In estrema sintesi - con il necessario rinvio, non solo agli approfondimenti in questa sede, ma anche a fasi progressive di elaborazione e di confronto con le altre amministrazioni interessate - la formazione (quella "nuova" ed emergente) nella pubblica amministrazione viene strutturata nei termini seguenti.
Verifica e sviluppo di quanto già organizzato, in funzione di un'ulteriore prospettiva, per il superamento degli elementi di sperimentazione presenti nelle iniziative già realizzate.
Individuazione di "fasce" di destinatari, da realizzare tenendo conto: delle categorie su cui, per ampiezza quantitativa e per l'esigenza di innovare l'organizzazione dei servizi, la formazione possa concorrere in modo determinante a conseguire l'impostazione degli uffici e servizi in coerenza con quell'ipotesi di "qualifica funzionale" che la più recente contrattazione ha enucleato dei processi di decentramento, in atto e di prospettiva, cui sono interessate le amministrazioni locali. In quest'ambito la formazione deve essere concorso effettivo al decentramento, nei suoi aspetti cruciali (le deleghe, per la Regione; il decentramento delle strutture provinciali; il decentramento nelle circoscrizioni, l'organizzazione della periferia comunale) della possibilità di "pilotare", con tutti i necessari supporti culturali, l'introduzione di nuove tecnologie (informatica - office automation - comunicazioni) in ambito pubblico, per modificare la stessa fisionomia del posto di lavoro.
Alle strutture pubbliche, agli enti strumentali della Regione, al mondo della cultura, ma, in linea di principio, anche all'offerta privata in materia, la Regione, attraverso il necessario concerto con gli altri Enti locali, propone dei riferimenti e trasmette una richiesta complessiva.
In tal modo, la formazione, per così dire, "interna", tenderà ad assumere la funzione di traccia - e di supporto - per il rinnovamento dell'impianto burocratico e dei servizi.
Metro di valutazione dei conseguenti risultati dovrà essere - poiché è una maggiore efficienza, specie qualitativa, l'obiettivo di fondo - un miglioramento degli standard di rendimento. Ed anche questo metro ha, nei contratti di lavoro e nella legislazione nel pubblico impiego, puntuali riferimenti.
La riorganizzazione delle competenze in seno alla Regione Piemonte deve perseguire la finalità di rendere, anche per effetto delle deleghe, più incisiva l'attività di programmazione e di indirizzo che le è propria. A detta attività risultano connesse le funzioni essenziali di rapporto con gli enti di formazione a cui deve essere garantito, per gli aspetti di maggior rilevanza connessi al pluralismo e alla necessariamente unitaria funzione di progettazione, un unico referente. Ciò potrebbe comportare una revisione dei rapporti intercorrenti tra organi ed organismi regionali nonché suggerire più idonee e snelle procedure.
A titolo esemplificativo di questa problematica, che non si pu anticipare nei suoi termini generali, si illustrano le procedure in corso per quanto attiene la formazione professionale nei campi interessati dalla legislazione socio-sanitaria. Qui, infatti, risulta di particolare evidenza la coerenza alla luce dell'art. 15 della legge 833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, tra gli organi di gestione previsti dalla citata legge 8/1980 (Consorzi comunali a livello di U.S.L., ai sensi del T.U. '34, legge comunale e provinciale) e le associazioni di Comuni (U.S.L.) di cui alla legge regionale 3/1980, applicativa della 833.
Le prescrizioni contenute nel piano socio-sanitario prevedono quindi l'integrazione delle specifiche attività formative nella più generale politica dei servizi.
Attraverso il necessario, formalizzato coinvolgimento degli Assessorati regionali competenti e senza in nulla contraddire quanto previsto dall'art.
12 della legge n. 8 si può così realizzare in tempi brevi la delega delle funzioni agli Enti locali (per le parti non ancora trasferite dal D.P.R.
616) e il coordinamento tra domanda ed offerta di formazione.
La riorganizzazione delle competenze coinvolgerà la stessa organizzazione degli uffici e tenderà a modificare il ruolo degli enti di formazione.
In analogia a quanto già predisposto per le procedure di concessione della presa d'atto regionale ai corsi liberi verranno portate avanti delle proposte di regolamenti aventi quindi carattere d'approvazione nel Consiglio regionale.
Data la vastità e l'impegno della materia che viene abbracciata all'interno della dizione formazione professionale, risulta problematico il ricorso ad attività istruttorie non preventivamente ricondotte ad 'un criterio di evidente uniformità. Questo permetterà di introdurre gradualmente, ma in modo sempre più incisivo, dei criteri legati alla valutazione degli effetti dell'attività di formazione e permetterà un decentramento delle procedure di verifica contabili ozi indubbiamente pesanti e complesse in quanto lontane dalla concreta gestione dei centri.
Si apre qui un terreno di iniziative e di elaborazioni non solo per la Giunta, ma in primo luogo per il Consiglio e per la competente Commissione l'introduzione di parametri legati ad una puntuale analisi costi/benefici comporta la precisazione in sede di piano pluriennale di univoci indirizzi politici.
Il considerare, nell'attuale situazione, quale parametro capace di influenzare la ripartizione dei fondi tra gli enti ed i centri, il costo per persona formata cozza contro la disuniformità nei criteri di immissione ai corsi stessi, nonché con la presenza di tipologie formative non completamente unificate. Infatti, laddove la struttura di formazione deve farsi carico di un non soddisfacente assolvimento dell'obbligo scolastico da parte degli allievi, oppure laddove le qualificate richieste del mercato del lavoro sono atipiche rispetto a quelle in media richieste, si riscontra, per effetto di abbandoni durante lo svolgimento dei corsi, una pur differente tipologia organizzativa, un costo ovviamente più elevato non addebitabile certamente ad inefficienza delle strutture stesse.
La revisione delle procedure sarà poi dettata dall'esigenza di adeguarsi al mutare di prescrizioni e procedure dettate da soggetti esterni: tra tutte basti ricordare la profonda revisione in atto a livello comunitario.
Le deleghe e la conseguente revisione del ruolo della Giunta regionale comportano mutamenti nel ruolo degli enti di formazione. In coerenza ad impegni già assunti in quest'aula si dovrà permettere agli enti stessi di dotarsi di idonee strutture progettuali, capaci di concorrere in un quadro armonico e coordinato all'elaborazione delle metodologie e dei contenuti della formazione stessa. Nel contempo, proprio per evitare una pubblicizzazione surrettizia e strisciante, gli enti dovranno assumere un ruolo sempre più incisivo per adeguare le loro strutture agli indirizzi definiti dai piani formativi pluriennali ed annuali.
Le esaltazioni dell'originalità e dell'autonomia dei ruoli rispettivi è punto irrinunciabile per costituire un equilibrato sistema formativo regionale.
Questa breve introduzione non può che avere lo scopo di stimolare il dibattito nel Consiglio regionale e nella comunità piemontese. Si propongono certamente indicazioni e riferimenti di principio che per quanto disunibili dalla citata legge 8, sono solo parzialmente presenti nella concreta vita della formazione professionale regionale. Mentre mi pare che sui principi e sui riferimenti la discussione possa avviarsi rapidamente e produrre ulteriori arricchimenti del già consistente patrimonio culturale fin qui elaborato, non mi pare debbano nascere illusioni sulla possibilità di derogare dalla necessaria gradualità propria delle fasi applicative.
L'apertura di un ampio confronto con il mondo del lavoro, che avrà momenti e sedi articolati e specifici, si integrerà con le necessarie iniziative decentrate di coinvolgimento dei Comitati comprensoriali. E' impegno della Giunta, per quanto le compete, di assicurare la massima partecipazione possibile di soggetti interessati fin dalle prime battute della predisposizione dei documenti di programmazione.



PRESIDENZA DEL PRESIDENTE BENZI


Argomento: Problemi del lavoro e della occupazione

Ordine del giorno sul contratto 1981/1983 dei lavoratori delle Ferrovie dello Stato


PRESIDENTE

E' stato presentato dai Consiglieri Ferrari, Viglione, Mignone Revelli, Vetrino, Brizio, Marchini e Montefalchesi un ordine del giorno sul contratto 1981/1983 dei lavoratori delle Ferrovie dello Stato.
Ve ne do lettura: "Il Consiglio regionale del Piemonte preso atto che il Governo, a distanza di due mesi dalla firma del contratto di lavoro dei ferrovieri, non ha ancora presentato alle Camere il disegno di legge che recepisce il contratto del triennio 1981/1983 considerato che la discussione sulla legge di riforma dell'Azienda Autonoma delle Ferrovie dello Stato sta incontrando notevoli ritardi - di fronte al senso di responsabilità della stragrande maggioranza della categoria che, per prima, si è data un codice di 'autoregolamentazione' invita il Consiglio dei Ministri ad inviare alle Camere il disegno di legge sul contratto 1981/1983 dei lavoratori delle Ferrovie; ad operare perché le Commissioni competenti licenzino al più presto il testo del disegno di legge sulla riforma dell'Azienda Autonoma delle Ferrovie dello Stato all'interno di un processo complessivo di riforma della pubblica amministrazione".
Chi è favorevole è pregato di alzare la mano.
L'ordine del giorno è approvato all'unanimità dei 34 Consiglieri presenti in aula.


Argomento: Problemi del lavoro e della occupazione

Comunicazione del Presidente del Consiglio regionale


PRESIDENTE

Signori Consiglieri, comunico che questa mattina si è svolto l'incontro tra la Regione Piemonte (Presidenza della Giunta, del Consiglio e Capigruppo consiliari) ed i rappresentanti delle organizzazioni dei lavoratori della CEAT, al termine del quale è stato siglato un documento.


Argomento: Nomine

Nomine


PRESIDENTE

Infine, in merito al punto tredicesimo all'ordine del giorno procediamo con la seguente nomina:


Argomento: Nomine

Comitato regionale di solidarietà: un rappresentante per ciascun Gruppo consiliare


PRESIDENTE

Si distribuiscano le schede e si proceda alla votazione.



(Si procede alla votazione a scrutinio segreto)



PRESIDENTE

Comunico l'esito della votazione: presenti e votanti n. 34 hanno riportato voti: Avondo Giampiero n. 21 Salvetti Giorgio n. 21 Mignone Andrea n. 21 Montefalchesi Corrado n. 21 Cerchio Giuseppe n. 12 Marchini Sergio n. 13 Vetrino Nicola Bianca n. 13 Majorino Gaetano n. 13 Scheda nulla n. 1 Li proclamo eletti.
Prima di concludere i lavori comunico ancora che il Consiglio è convocato per il giorno 7 aprile prossimo per la prosecuzione dei lavori.
La seduta è tolta.



(La seduta ha termine alle ore 18,45)



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