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Dettaglio seduta n.97 del 10/02/77 - Legislatura n. II - Sedute dal 16 giugno 1975 al 8 giugno 1980

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Argomento:


PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SANLORENZO


Argomento: Piani pluriennali

Dibattito sul Piano regionale di sviluppo 1976/1980 (seguito)


PRESIDENTE

Prosegue il dibattito sul Piano regionale di sviluppo E' iscritta a parlare per prima la signora Castagnone Vaccarino. Ne ha facoltà.



CASTAGNONE VACCARINO Aurelia

L'ampio discorso del Consigliere Minucci di stamani, in risposta allo stimolante intervento del collega Alberton, ci costringe a mutare notevolmente il nostro intervento intorno alla proposta di Piano della Giunta. Il discorso del Consigliere Minucci e terminato con una proposta politica ben precisa e chiara, quale mai era stata fatta in quest'aula e che è passata sulla testa non solo del settore dal quale parlo, ma anche di una parte della Giunta in questo momento al governo della Regione Piemonte per rivolgersi direttamente alla Democrazia Cristiana con l'apparenza di una polemica che però sfocia in una proposta di collaborazione, di possibile accordo ancorché questo accordo si presentasse stamane piuttosto difficile.
Nell'intervento di oggi pomeriggio, non possiamo ignorare tutto questo.
Sottolineiamo semplicemente a questo punto quanto è avvenuto perch significa anche sottolineare che è passato appunto sulle nostre teste alla ricerca di un colloquio verso altri banchi.
Grande parte del discorso di Minucci riguarda non soltanto la Democrazia Cristiana, ma tutto il Consiglio regionale e si rivolge soprattutto alla logica nella quale dovrebbe inserirsi il Piano piemontese in una visione politica non soltanto piemontese; si riallaccia all'economia più generale dell'Italia e, all'interno dell'economia italiana all'economia dell'Italia meridionale, rifacendosi alla lunga storia dei Piani piemontesi, cosiddetti di esercitazione chiamiamoli così fatti anni fa dal C.R.P.E. Il Consigliere Minucci ha ricordato che già allora il P.C.I. aveva fatto presente la necessità del raccordo con l'Italia meridionale. Allora le forze politiche comuniste erano rappresentate nel C.R.P.E. da Garavini. Ricordo il suo intervento. In quell'occasione due sole furono le voci discordanti da un certo concerto: precisamente quella di Garavini e quella dei repubblicani.
Ritenevamo come repubblicani, partendo evidentemente da una logica diversa da quella comunista, che il discorso dell'aggregazione del Piemonte alle aree forti fosse estremamente pericoloso per il Piemonte stesso e poi anche per l'Italia meridionale.
Proprio a un economista repubblicano, che è anche deputato nella nostra circoscrizione, e dovuto uno studio sull'industria dell'Italia meridionale nel momento in cui dopo l'unificazione è avvenuto l'impatto con l'industria più avanzata dell'Italia settentrionale. Era abbastanza facile, fin troppo facile, poter pensare che un'analoga disgrazia avrebbe potuto accadere all'industria, che noi chiamiamo forte, dell'Italia settentrionale, perch un'industria forte per l' Italia non è forte in un contesto europeo, ove appunto non ci fosse la possibilità di omogeneizzare la struttura economica italiana, che certamente non passava soltanto attraverso un decentramento dell'industria verso l'Italia meridionale, ma verso una soluzione delle varie diseconomie che avrebbero reso diseconomico, se così continuato anche ogni insediamento nell'Italia meridionale stessa.
Questo problema ci fa ritornare al Piano piemontese di oggi. Devo dire con tutta tranquillità che non ho assolutamente capito il discorso del Consigliere Minucci in relazione alla logica portata avanti del Piano.
Secondo Minucci, questa è una logica meridionalista: in realtà mi sembra piuttosto che la logica del Piano si rifaccia ad un falso sillogismo di questo tipo: "se Marte c'è ci sono i marziani, quindi coltiviamo i piselli".
Francamente non vedo quale rapporto avesse il suo discorso con il Piano che ci è stato presentato. Ho avuto il tempo di ripensarci, ma continuo a non vederlo.
Vorrei tornare qui sulla polemica dei posti di lavoro. Ci viene detto che il numero dei posti di lavoro deve essere ampliato, anche se il P.C.I.
sembra disposto a lasciar cadere la cifra indicativa di 134.000 nuovi posti, sostituendola con altra non precisata. L'aumento dei posti di lavoro presuppone anche che aumenti la popolazione in età lavorativa. Le cose sono due: o la popolazione aumenta per incremento naturale (e in questo caso raggiunge con il passare degli anni l'età lavorativa), oppure i lavoratori debbono essere portati dall'esterno. Questo mi sembra sia un ragionamento esattamente contrario alla logica del Piano conclamata dal Consigliere Minucci come Piano meridionalista.
Salvo che il Consigliere Minucci non ritenga per niente valida questa premessa del Piano e che quindi dichiari di accantonarla con tutta tranquillità.
Allora, se l'accantona la maggioranza, non avremo nessuna ragione per non accantonarla noi che sin dal momento in cui il Piano è uscito siamo stati contrari a questa premessa.
Vorrei dare anche una risposta politica in collegamento con il Piano.
E' sembrato che il Consigliere Minucci si preoccupasse che altri temessero una certa visione totalizzante del Piano. Forse si riferiva a qualche altro Piano, perché questo Piano potrà essere considerato un Piano pasticcione, un Piano di qualsiasi tipo, tutto meno che un Piano totalizzante.
Perché non è totalizzante? Perché mancano le premesse metodologiche e quindi la possibilità di una scelta politica totalizzante. Qual è la mancanza metodologica? Se invece di fare delle fantasiose divagazioni nella premessa del Piano si fosse indicato il metodo con il quale si erano formate le varie parti del Piano, noi Consiglieri avremmo saputo in base a cosa giudicarlo e avremmo incominciato col giudicare il metodo stesso del Piano. Questo non ha potuto essere fatto perché questo non è un Piano, è un seguito di saggi di un certo numero di consulenti mancante assolutamente di globalità e privo di qualsiasi tipo di totalità.
Queste sono le critiche che dobbiamo fare. Sono critiche di principio ad un Piano che non è omogeneo, che non è per niente quantificato, sul quale diventa impossibile dare un giudizio, se non negativo.
Tuttavia non crediamo che il compito dei Consiglieri regionali ancorché di minoranza, sia soltanto quello di criticare, chiediamo che sia rivista la struttura metodologica del Piano perché questa è l'unica risposta politica a quanto ci è stato detto questa mattina.
Cercheremo inoltre di dare qualche indicazione di carattere politico non solo in negativo, ma in positivo, anche se mancasse una serie di dati la cui assenza non possiamo nemmeno imputare alla Giunta.
Avremmo pensato, piuttosto, ad un documento abbastanza agile e snello che vincolasse soprattutto in relazione alla spesa regionale, che è uno dei grossi problemi che dobbiamo affrontare, al nostro interno. Non so, a questo proposito, come la Giunta intenderà vincolare la spesa regionale di qui al prossimo triennio. In questo momento abbiamo un ritorno di interventi nei confronti dell'agricoltura e un ripensamento non soltanto della società italiana nei confronti dell'agricoltura, ma anche da parte di tutte le società che hanno avuto un'industrializzazione abbastanza forzata.
Noi, come altri Paesi e l'Urss stessa, abbiamo sacrificato l'agricoltura all'industria.
L'abbiamo sacrificata penalizzandola pesantemente, cioè facendole pagare il nostro progresso industriale. Questo pedaggio è oggi una molla che ci ritorna indietro pesantemente. Si deve sempre fare una scelta e se si era scelta l'industria, si doveva far pagare per un certo tempo all'agricoltura, quindi il pedaggio poteva essere lecito (salvo ritornare all'agricoltura in seguito), ma l'abbiamo fatto pagare con stupidità, non sapendo nemmeno trattare con i nostri partners a livello di Comunità Europea.
E' un'ulteriore risposta che ritengo fosse dovuta alle critiche fatte stamani nei confronti di una forzatura verso l'industrialismo avvenuto fino adesso. Ma è stata una precisa scelta politica, una scelta politica diversa fino ad ora, che a me risulti, l'ha fatta soltanto la Cina.
Comunque, tornando al nostro Piano piemontese, vorremmo sottolineare alcune cose. La riconversione industriale può e deve essere agevolata dalla Regione Piemonte con progetti concertati, di sostegno ad alcuni comparti della piccola e media industria, anche se la Regione non ha specifiche competenze nel campo dell'industria.
Dobbiamo sottolineare inoltre che una ripresa industriale sicura e continua è condizionata dall'instaurarsi di una dinamica relativa dei costi di lavoro tra l'Italia ed il MEC, compatibile e controllata.
Sia ben chiaro, non diciamo che bisogna fermare i costi del lavoro parliamo semplicemente di compatibilità dei costi di lavoro in Italia con quelli del Mercato Comune e parliamo di costi globali, non di salario percepito.
Inoltre dobbiamo sottolineare la necessità che l'espansione del terziario privato ipotizzato dalla Giunta è condizionata dall'esistenza di una politica infrastrutturale che valorizzi appieno la posizione strategica del Piemonte e che la vastissima gamma di interventi previsti dal Piano non appare compatibile con una disponibilità di risorse regionali, limitata e resa ancora più precaria da un certo gonfiamento del bilancio del 1976 e dal protrarsi di una pratica di produzione legislativa dispersiva.
La possibilità di interventi diretti della Regione in alcuni settori è compromessa inoltre dalla lentezza e dal mancato avvio di importanti strumenti quali l'Esap e la Finanziaria regionale.
Le nostre proposte sono: definire Piani operativi di intervento regionale, nel settore dei beni strumentali e nel settore tessile, Piani che escano dalla genericità del documento della Giunta, che definiscano modi e tempi per aiutare le piccole e le medie industrie in modo che si possano avviare politiche di mercato razionali, efficaci e innovative destinare con priorità, risorse al settore della formazione professionale strettamente collegate con il primo punto, sul quale abbiamo anche presentato un progetto che fra l'altro non aumenta le spese già attualmente in bilancio applicare rigorosamente in agricoltura le direttive CEE con l'adozione di un disegno di riequilibrio del territorio che veda eventualmente la realizzazione dell'asse attrezzato Voltri -Alessandria Novara -Sempione come strumento fondamentale per evitare l'esclusione definitiva del Verbano, dell'Ossola e dell'Ovadese.
A questo proposito dobbiamo osservare che in tutti questi saggi dispari, che vanno sotto il nome di Piano regionale piemontese, una parte è prodotto di un Assessorato socialista: l'assetto del territorio. Questo settore ci darà qualche preoccupazione e ne parleremo al momento della presentazione in aula della legge sulla tutela del suolo.
Ma c'è un settore del quale vogliamo parlare ora perché è fra i compiti specifici della Regione e assorbe una quantità enorme di risorse: la sanità.
Mi domando quanto del documento sulla sanità risponda a quella logica pasticciona di cui parlavo prima.
Certo, una parte risponde a responsabilità che non sono né di questa n dell'altra Giunta, perché risale a quella disgraziata legge del 1968 che va sotto il nome di legge Mariotti che ha privilegiato la riforma ospedaliera senza integrarla in una riforma globale della sanità.
E' stata una scelta politica completamente errata che oggi ci troviamo a scontare. Voglio essere chiara in proposito. Noi repubblicani non abbiamo votato la legge Mariotti perché già allora denunciammo quali sarebbero state le storture che avrebbe portato e puntualmente, ahimè!, come molte delle nostre profezie anche quella si è avverata.
Oggi ci troviamo ad affrontare il problema del Piano della sanità con un giudizio sul programma tecnico-politico che non può essere che negativo perché estremamente generico, incoerente in tutto il disegno. Non viene indicata alcuna sequenza operativa. L'incoerenza è dimostrata dall'incompatibilità tra alcune dichiarazioni programmatiche e gli obiettivi dichiarati. E' contraddittoria la pretesa della deistituzionalizzazione con la costituzione della nuova rete poliambulatoriale e soprattutto con l'istituzione dei dipartimenti di emergenza e di accettazione.
Questi servizi, che tutti vogliono più razionali ed integrati degli attuali e organizzati secondo programmi ben definiti, con la loro struttura sembrano conservare un'istituzionalità, la quale di per sé stessa rende risibili tutte le dichiarazioni iniziali di deistituzionalizzazione.
Non vogliamo allungare la critica, ma piuttosto passare alle nostre proposte.
In quest'ottica che abbiamo appena accennato il PRI propone: il potenziamento numerico e qualitativo dei corsi di formazione del personale paramedico, globalmente inteso, in quanto presupposto indispensabile per costituire le basi di una adeguata operatività e di un corretto funzionamento dei servizi sociali e sanitari un'accurata indagine ed analisi sulla funzionalità delle attuali strutture operanti nel territorio, atta a fornire gli elementi conoscitivi indispensabili per l'avvio di una reale riqualificazione della spesa prioritaria rispetto alla realizzazione del Piano regionale ospedaliero sempre promesso ma mai attuato l'avvio di un'azione concreta dei controlli preventivi, dei rischi da lavoro, intesi non come soluzione alternativa o sostitutiva di altre iniziative come per esempio le unità di base la raccolta e l'elaborazione dei dati nell'ambito del lavoro, che richiedono necessariamente tempi più lunghi e che possono essere attuate solo se collegate con la difesa dell'ambiente, ma come premessa e base per questa iniziativa la costituzione di un Comitato regionale degli Enti mutualistici dei lavoratori autonomi e dipendenti per coordinare la programmazione regionale e l'attività degli Enti ospedalieri della Regione Piemonte. Questo permetterebbe di identificare in concreto e con la partecipazione delle categorie interessate, le linee di indirizzo e gli strumenti operativi sia per il potenziamento delle strutture sanitarie extra-ospedaliere già esistenti, sia per gli indispensabili nuovi servizi.
Spero che il Consiglio abbia preso atto che, per quanto siano pesanti le critiche del PRI al complesso del lavoro presentato dalla Giunta, non intendiamo affatto sottrarci, come forza di minoranza, alla nostra responsabilità di carattere propositivo.
Ci auguriamo che sia la Giunta che il Consiglio, attraverso il lavoro delle Commissioni, realizzino il compromesso storico che quest'oggi è stato offerto da Minucci alla Democrazia Cristiana nella sua forma positiva, cioè lo realizzino nella sua forma di trasformazione della società che esce dall'incontro di due partiti di massa, e non invece nella sua forma deteriore come purtroppo è già avvenuto più volte con accordi di sotto banco tra due forze che proteggono due clientele diverse.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Marchini, ne ha facoltà.



MARCHINI Sergio

Per non farmi prendere dalla logorrea, che è una nota non positiva della nostra professione, avevo preparato un limitatissimo numero di cartelle; sennonché questa mattina abbiamo avuto gli interventi di Minucci che certamente è stato stimolante, e quello di Alberton, che è stato pure interessante (mi pare che bisogna valutare gli aggettivi).
Mi spiace che il Consigliere Minucci non sia presente perché in effetti il suo intervento mi pone nella necessità di richiamare alcune valutazioni che ha fatto a ruota libera sulla politica che rappresenta e sulle forze laiche in genere.
Egli ha accennato al liberismo come se si trattasse di qualcosa a cui neanche il Partito liberale italiano dovrebbe essere attaccato. Vorrei ricordargli innanzitutto, se fosse presente, che coniare il termine neoliberismo è improprio ed indica poca conoscenza del problema.
Il premio Nobel per l'economia quest'anno è andato al liberista Friedman che non ha scritto quello che ha scritto Einaudi solo perché è vissuto 30 anni dopo. Questo sta ad indicare la vitalità del liberismo e la sua natura. Quindi, mi sembra del tutto fuorviante fare dei riferimenti al ritorno del liberismo. I Partiti che non si rifanno in termini economici alla scuola marxista, alla scuola mista, chiaramente hanno il dovere di essere attuali. Quindi, il dire "ritornare o rifarsi" è fuori luogo.
Però, parlando del liberismo come scuola economica, in ordine al problema specifico della programmazione che abbiamo davanti, vorrei dire a Minucci che il nodo fondamentale per un liberale nei confronti della programmazione è uno solo e lo abbiamo già accennato una volta: infatti una programmazione funziona nella misura in cui c'é un'autorità che la fa funzionare. Questa autorità certamente non c'è in Russia, perché, guarda caso, il grano non matura perché non è piovuto! Certamente questa autorità non è esistita fino adesso in Italia. La programmazione è fallita. E' fallita in Cina. Va avanti negli Stati Uniti, ma perché va avanti? ; va avanti perché c'è un'autorità, rappresentata da un mondo economico che si può condividere o meno, ma che comunque è articolato da forme gerarchiche che creano all'interno stesso delle forze economiche un tipo di autorità.
In Italia non possiamo collocarci in questa ottica. Mi pare allora che in Italia il problema fondamentale per un liberale è di verificare se le istituzioni siano in grado di gestire una programmazione. Le riserve vengono fuori quando si vede che i decreti Malfatti, fatti bene o fatti male, non hanno potuto essere attuati. Perché nel nostro Paese una legge dello Stato non viene attuata nell'Università?: perché l'Università non esiste più come istituzione, cioè come momento di raccordo tra la decisione e l'esecuzione, tra l'esecutivo e la cittadinanza. Quindi parlare di programmazione in un Paese in cui l'istituzione non esiste più è una forzatura logica.
La nostra preoccupazione è: l'istituzione piemontese sarà in grado di gestire quel tanto o quel poco che c'é di programmazione in questo documento? E' chiaro che la collaborazione che cercheremo di dare nella fase di esecuzione di questo disegno, verte soprattutto sulle procedure cioé sulle possibilità concrete di intervento. Non approvo Minucci quando parla di ritorno ad Einaudi, quasi che Einaudi fosse qualcosa legato al suo tempo. Einaudi ha operato nel suo tempo, ma non è legato al suo tempo. Il riferimento è antistorico, perché è proprio di questi tempi il riconoscimento del valore del centrismo che non è più quello del periodo in cui c'era soltanto Scelba che girava con le SS convertite in celerini.
Allora era una cosa un po' diversa. Il centrismo è stato quel periodo storico in cui si sono tirati su i fili del tram in Corso Vittorio, o cose del genere.
Se il centrismo non fosse riuscito a dare certe realtà e certe prospettive al popolo italiano che aveva fatto la Resistenza (non dico in termini di elite , ma certamente in termini di totalità come poi ha aderito alla democrazia); se non ci fosse stato il centrismo che ha legato come prospettiva reale la vita di ognuno di noi, la vita dei cittadini che vedevano i fili del tram finalmente tirati su ed i tram funzionare, oggi non saremmo qui; se la democrazia si è radicata in Italia e se siamo qui a fare questa polemica e grazie al centrismo.
Direi ancora qualcosa sul dissenso. Si è ironizzato sulla frase "noi crediamo nel dissenso, il PCI crede nel consenso" e si è ironizzato su un uomo politico laico (devo pensare che si tratti di un liberale o di un repubblicano) Ma c'è veramente il valore del dissenso? C'è differenza dal consenso? Secondo Minucci non c'è. Però una cosa è il dissenso, altra cosa è essere diversi o distinguersi da qualcuno. La politica, secondo qualcuno, è l'arte del consenso, cioè è l'arte di far sì che si riesca a governare con il consenso dei sudditi. In questo senso la democrazia è sempre esistita perché, anche nel periodo dei Faraoni, se i cittadini non fossero stati d'accordo prendevano il Faraone e lo buttavano giù dalle piramidi. Il Faraone aveva ottenuto il consenso utilizzando un certo strumento. Ho citato un paradosso.
Nella Republique Democratiche d'Algerie c'è un solo candidato alle elezioni; quindi come comunisti hanno posto dei distinguo nel comunismo così, per chiarezza di linguaggio, si pongono dei distinguo nella democrazia.
Qualcuno utilizza il neologismo "eurocomunismo" per creare un altro neologismo che è l'eurodemocrazia. Se andiamo in fondo vediamo che l'eurocomunismo che vuole realizzare Minucci, sempre che non venga bruciato come eretico, vuole essere un partito nell'eurodemocrazia. Ma questa da che cosa è caratterizzata? Dal riconoscimento del valore fondamentale del dissenso. L'eurodemocrazia è nata in Europa con Cartesio, quando l'uomo ha incominciato a capire che la democrazia, secondo la concezione europea, è la ricerca continua del distinguo rispetto a quello che è consentito, di dominio comune, per dare la possibilità del controllo continuo. Questa è la nostra anima.
L'Europa moderna è questa: è l'Europa del dissenso continuo, che non significa distinguersi dal comunismo di Praga, ma significa distinguersi da se stessi in ogni momento. Quindi nel momento in cui mi distinguo contribuisco a quanto sta facendo l'avversario secondo la logica del dissenso che coltiviamo dalla nostra parte politica.
Se ci sarà uno scisma di occidente, cioè sull'apprendimento da parte del comunismo del valore del dissenso come un metodo, come prassi quotidiana, lo verificheremo. Diversamente sarà stata un'occasione perduta non soltanto per il Partito comunista, ma certamente per tutta la democrazia.
Ed ora passo alle mie osservazioni sul Piano di sviluppo.
La parte politica che ho l'onore di rappresentare in questa assemblea in più occasioni ed in sedi diverse, ha espresso riserve e perplessità sulla proposta di Piano, motivando un dissenso globale sul documento stesso ed articolato sul metodo, sui contenuti, sugli obiettivi, sull'impianto stesso del Piano e più compiutamente sul nodo politico rimasto insoluto.
Il documento, infatti, gia alla prima proposta e apparso superficiale nell'esame della realtà, velleitario nelle finalità, squilibrato e contraddittorio nella sua logica, inadeguato alla complessa e grave realtà socio-economica della nostra Regione, scorretto sul piano formale e della polemica rispetto alla realtà politica ed al Paese, superato già al suo nascere, reticente.
Infine, il documento della Giunta appare permeato dal vizio più grave che possa affliggere un documento programmatico: la demagogia, disgraziata arma con la quale si tende a nascondere la nostra incapacita ad indicare con coraggio scelte, obiettivi, strumenti ed indirizzi, giustificandola con la volontà che sia la collettività piemontese ad esprimere ed assumere decisioni dal basso, cercando di contrabbandare questa incapacità di assumere responsabilità proprie dell'esecutivo come espressione più alta e più compiuta di democrazia.
L'impatto del documento con la realtà piemontese e la verifica con la collettività della nostra Regione, Enti pubblici, organizzazioni di categorie, sindacati, hanno dimostrato come le nostre riserve avessero un fondamento maggiore del nostro peso politico ed è certo che la Giunta dovrà riflettere su quanto è emerso dalle consultazioni, al di là di un voto il cui risultato appare scontato nel rispetto della logica degli schieramenti.
Una mancata riflessione della Giunta, una mancata risposta seria e consapevole ai rilievi che, con spirito indubbiamente costruttivo, la collettività ha portato al documento, comporterebbe un grave scadimento della credibilità dell'istituto regionale stesso.
Il risultato scontato del dibattito, la mole di materiale raccolto dalla I Commissione, un doveroso rispetto verso i tempi tecnici dei nostri lavori, inducono a focalizzare solo alcuni rilievi salienti emersi dalla consultazione, per conforto della nostra valutazione e riflessione della Giunta.
Abbiamo accusato di reticenza il documento. Ma non è reticenza, forse e colpevole, non affrontare fino in fondo, in un documento di questo tipo il tema centrale della produttività, premessa essenziale di ogni strategia che si prefigga la piena occupazione e la stabilità del sistema? Non è forse reticenza non sottolineare che l'inflazione nel nostro Paese, al di là degli squilibri settoriali, congiunturali e strutturali, trova la sua causa prima nel dissesto della finanza pubblica e nella dinamica del costo del lavoro? Non si può non dire, ed a chiare lettere, che in cinque anni il disavanzo pubblico ha triplicato la sua incidenza sulla base monetaria e che il costo del lavoro ha avuto in pari tempo un aumento triplo a quello della Germania Federale.
Se ci fosse Minucci aprirebbe la polemica. Mi pare che questa constatazione, al di là del nodo politico, riveli la tragica realtà del nostro Paese e gli squilibri del sistema che trovano la loro formalizzazione nel disavanzo pubblico. Il nostro Paese vive soprattutto della capacità di lavorare dei cittadini. Il rimedio è sul tema del lavoro e non possiamo certamente sperare in altri tipi di risorse.
Ci sarà la questione fiscale, ci sarà la ristrutturazione, comunque ancora una volta, come nel '48, il superamento della crisi passerà attraverso il mondo del lavoro.
O aspettiamo i fondi internazionali, o veniamo colonizzati. Il costo del lavoro, come dice giustamente Minucci, non è la retribuzione del lavoratore, ma è la somma delle diseconomie private e pubbliche che vanno a gravare sul mondo del lavoro, compresi noi stessi, perché il mondo del lavoro non è riservato agli iscritti alla Cgil o ai metalmeccanici.
Si è detto che il documento è superficiale nell'analisi e velleitario nelle proposizioni. Ma come si può giustificare altrimenti l'obiettivo dell'annullamento all' '80 del saldo migratorio, quando ciò non solo contrasta con il modello Ires, ma ignora e contrasta con realtà più forti di ogni tecnocrate di bella presenza, in primo luogo l'ampliamento della fascia scolare nel settore tessile fisiologicamente destinato ad un drastico ridimensionamento, non solo, ma un progressivo invecchiamento della popolazione rurale e comunque l'impossibilità di conciliare l'obiettivo di mantenere i livelli occupazionali in agricoltura con il miglioramento della produttività in armonia con le direttive CEE da ottenersi con il miglioramento delle strutture? Questo stesso obiettivo di saldo demografico rischia quindi di portare non già ad una nuova età arcadica di "crescita zero", ma al declino del sistema produttivo che è la conseguenza puntuale e necessaria di una mancanza di sviluppo produttivo. Senza lo sviluppo produttivo non si creano né le condizioni né le risorse con cui incentivare il Sud, ma per quanto attiene al nostro Piano, non si riequilibra territorialmente una Regione come la nostra che soffre di arretratezza economica, infine, non esistono più le stesse condizioni per il costante aggiornamento del sistema produttivo e della sua diversificazione, anche se a parole si pone la diversificazione stessa come uno degli obiettivi del Piano.
Non è dunque ipotizzabile la crescita zero; vi è solo o lo sviluppo o il degrado del sistema, ma anche quando fosse ipotizzabile comporterebbe in sintesi un aggravamento della pressione demografica nel Sud, la rinuncia alla creazione delle risorse necessarie al decollo del Sud ed infine il perpetuarsi degli squilibri della nostra Regione.
Grosse perplessità sorgono poi dall'esame dei problemi delle infrastrutture e dei trasporti, le cui indicazioni rivelano la filosofia di questa Giunta, tendenza all'autarchia, diffidenza verso la realtà economica dell'Europa, retta dalle regole di mercato.
Il rigetto dell'ipotesi superata che ipotizzava un triangolo forte dell'Italia Nord occidentale legato in via privilegiata alle aree forti del Nord, non giustifica la disattenzione verso la possibile creazione di una strozzatura nella grande viabilità commerciale europea in senso Nord-Sud con conseguente rinunzia ad ogni ipotesi di diversificazione e di sviluppo terziario.
Bisognerebbe tenere conto che in questi anni passa attraverso l'Italia il grandissimo traffico Europa e Paesi del Terzo Mondo in via di sviluppo.
Questi però non sono Paesi sfruttatori di situazioni di privilegio. Al contrario, sosteniamo la necessità che Torino ed il Piemonte assolvano alla funzione di ganglio dei traffici europei con un impegno serio, scevro da tendenze a ripetere luoghi comuni superati in termini economici e culturali.
L'esame del ponderoso materiale, raccolto nel corso delle consultazioni, rivela immediatamente le perplessità che l'esame del Piano della Giunta ha generato nei ceti imprenditoriali della nostra Regione.
Certamente non è riuscito il tentativo maldestro di contrabbandare un Piano privo di ogni indicazione quantitativa e di scelte impegnative e qualificanti come un documento aperto alle istanze ed ai contributi decisionali, creando difficoltà e suscitando perplessità gravi anche sul piano istituzionale.
Non è certo sfuggito alla collettività piemontese il limite del documento quale mero inventario dei problemi, sia pure elaborato mediante la supportazione di antistoriche contrapposizioni e scolastici schematismi incapace di elaborare nei confronti dei grandi problemi ed obiettivi non solo una corretta analisi socioeconomica, ma neppure una adeguata strategia di intervento della Regione.
Sull'attualità del Piano, la Giunta stessa ha riconosciuto come sia di fatto superato, postulando l'intervento mediante obiettivi specifici.
Sul piano istituzionale, resta il vizio metodologico di avere introdotto il Comprensorio senza avere preventivamente individuate le sue competenze a livello operativo. Infine, sul piano della questione del territorio il documento, letto in sintonia con il progetto di legge sull' uso dei suoli, appare in palese ed irrimediabile contrasto con l'obiettivo realisticamente imprescindibile di rendere possibile l'intervento dell'iniziativa privata in tempi reali e nella percentuale ascrittagli (non con lo slittamento di operatività di 240 giorni), al fine di rendere credibile l'affermazione che si vuole una casa per tutti a prezzi compatibili con le risorse.
Mi sono ripromesso di essere breve e pertanto mi avvio senz'altro alla conclusione.
Non tanto gli interventi dell'opposizione, ma soprattutto le riserve che sul documento hanno espresso forze produttive sociali, cittadini debbono, a mio avviso, fare riflettere la Giunta ed indurla ad un coraggioso riesame del metodo e dell'analisi, degli obiettivi, della realtà e delle risorse, così come emergono dalla forza insopprimibile delle cose.
Confido che, al di là di un risultato che è scontato, la Giunta e l'Assessore competente, di cui personalmente apprezzo la misura, la serietà e l'attenzione puntuale e costante agli argomenti dell'opposizione, non lasceranno cadere nel vuoto questo appello che non è solo della mia parte politica, ma di larga parte della collettività della nostra Regione.
Prima di concludere vorrei soltanto fare una mia riflessione del ponte politico che sarebbe stato lanciato da Minucci nei confronti della D.C. e far rilevare alla collega Castagnone Vaccarino che non vedo il pericolo che ci sia un'alleanza dei partiti di massa o dei partiti di clientele. Vedo soprattutto la responsabilità del mio Partito e del suo di rappresentare in Italia la continuità del modello di democrazia europea. La nostra ragion d'essere è di essere Partiti in questo senso; siamo, con tutto rispetto per gli altri, i laici per eccellenza, appartenenti alla tradizione europea che ha portato in Italia il concetto di democrazia inteso nel senso di dissenso in termini cartesiani.
In questa misura la collega Castagnone Vaccarino ed io ci dobbiamo rendere conto che la nostra adesione all'Internazionale dei Partiti democratici liberali europei, non e un fatto occasionale, non è un fatto elettorale, ma è un fatto che ci ricolloca alla nostra funzione di essere nella società attuale.



PRESIDENTE

Signori Consiglieri, occorre sempre fare il punto della situazione secondo l'andamento dei dibattiti. La regola che ci siamo dati ieri è valida nella misura in cui siamo tutti d'accordo di considerarla tale senza con questo vincolare e pregiudicare la possibilità di dare tutti i contributi che si ritengono. D'altra parte i dibattiti di una certa rilevanza, che coinvolgono tutte le forze politiche, non sono numerosi; si può anzi dire che la nostra assemblea si è data una disciplina in questo senso.
Ritengo quindi che potremmo proseguire i lavori fino alle ore 18. Se altri Consiglieri a quell'ora desidereranno prendere la parola, dedicheremo l'inizio della prossima seduta alla conclusione del dibattito. Mi pare impossibile concludere questa sera, anche perché la Giunta avrà bisogno di un minimo di tempo per la preparazione delle osservazioni e delle repliche.
Vi sono obiezioni? Non ve ne sono. La parola quindi al Consigliere Bellomo.



BELLOMO Emilio

Sono d'accordo. Ritengo che smettere alle ore 18 sia ragionevole soprattutto per le considerazioni fatte dal Presidente, di dare tempo alla Giunta di meditare su questo dibattito che è ampio, approfondito e certamente fornirà materia di meditazione, se non di ripensamento, per i nostri colleghi che sono sul banco della responsabilità esecutiva.
Dirò subito che la relazione del Consigliere Rossotto mi trova allineato e consenziente, anche se la relazione deve ancora passare al vaglio del dibattito consiliare, quindi ad un vaglio maggiormente critico di quanto lo sia stato in Commissione; un vaglio che deve portare contributi ed arricchimenti, anche sostanziali, da aggiungere alle linee del Piano proposte dalla Giunta, fornire un quadro abbastanza preciso sia per quanto riguarda gli aspetti contenutistici, ma soprattutto per quanto riguarda le rispettive volontà politiche dei singoli Gruppi consiliari.
Non sono mancate in sede di Commissione manifestazioni di cauta valutazione e di prudente distacco che non mancheranno (non sono già mancate stamani) di esprimersi soprattutto in questa sede, più propriamente politica, che rappresenta una ribalta maggiore rispetto alla sede della Commissione.
Bisogna dare atto al Presidente della I Commissione dell'impegno per riportare nella relazione la proposta che è scaturita, anche se non unitariamente, dalla consultazione con le forze sociali e politiche, tutte quante indiscutibilmente protese, sia pure dal proprio angolo visuale e settoriale, a concorrere positivamente per formare un quadro partecipato di un nuovo modo di sviluppo in Piemonte e nel Paese.
La relazione si presenta come una pagina aperta al dibattito che dovrà successivamente consentire alla Giunta di tirare le conclusioni e procedere alla proposta definitiva del Piano di sviluppo, cioè all'indicazione dei progetti, dei programmi e delle linee di spesa. Come socialisti, nel momento in cui si trova il Paese, gravido di incertezze e di preoccupazioni per ogni cittadino che non voglia sottrarsi al suo dovere civico, non possiamo non rilevare la necessità di uno sforzo solidale e serio delle forze politiche e delle componenti sociali, economiche e istituzionali, per contribuire a far uscire il Paese dal tunnel della crisi politica ed economica e per garantire la salvaguardia e il consolidamento delle libertà democratiche messe in pericolo particolarmente in questi giorni.
Torna a proposito l'appello fatto questa mattina dal Presidente del Consiglio per una mobilitazione totale di tutte le forze democratiche contro la ventata di terrore e di sangue che sta passando per il nostro Paese.
Con questa premessa, sentiamo il dovere di ribadire il nostro convincimento che, di fronte ad una situazione economica di emergenza, solo un Governo di ampia solidarietà democratica sarebbe in grado di raccogliere la grande dimostrazione di responsabilità degli italiani e dei lavoratori in particolare, davanti alla pioggia di tasse e di balzelli, davanti alla stangata che quotidianamente sono chiamati a sopportare. Solo un Governo di questo tipo può raccogliere la generosa e consapevole disponibilità delle masse sociali, la tensione che è presente nel Paese che accomuna forze politiche, sociali, forze produttive e culturali, vecchie e nuove generazioni.
Si tratta di saper dare una risposta precisa, tempestiva, non tardiva non contraddittoria, non solo contingente, alla domanda complessiva che sale dal Paese, che non consente indugi o pause, non consente dilazioni, ma impone invece la capacità politica di costruire in concreto un disegno organico e programmato della nostra economia; si tratta di dare una risposta che non crei solo l'illusione di portare il Paese fuori dalle secche economiche attuali, ma che lo porti davvero attraverso il graduale conseguimento di obiettivi prefissati, verso il nuovo modo di crescere e di vivere in un quadro di vera partecipazione e di consenso, in una situazione in cui trovi luogo e diritto di cittadinanza anche il dissenso.
Sé è vero, come crediamo, che dalla crisi si può uscire; se è vero che esistono possibilità di risanare la nostra economia disfatta; se è vero che dipende da noi invertire il senso della marcia al disastro verso il quale stando così le cose, siamo inesorabilmente destinati, bisogna affermare chiaramente che dal tunnel si esce non con disegni di conservazione e di restaurazione, ma con una coraggiosa modifica degli indirizzi economici dove gli obiettivi siano rispondenti alle necessità reali del Paese, dove siano privilegiati i consumi collettivi, dove il livello di occupazione sia difeso ad oltranza, dove una chiara politica degli investimenti sia in grado di recuperare la competitività del nostro settore industriale e agricolo e di creare nel contempo nuovi posti di lavoro alla grande massa di giovani che preme alle porte della rispettiva responsabilità sociale, ma che la classe politica dirigente non è stata mai in grado finora di aprire convenientemente.
La nostra politica di programmazione troverà nei Consigli comprensoriali, i momenti di maggior impegno e di partecipazione di base esaltando nel contempo le autonomie comunali; essa dovrà contribuire a meglio prospettare un equilibrato rapporto tra le diverse strutture che operano nella nostra Regione.
Al di là delle auspicabili riforme che potranno essere apportate all'autonomia legislativa regionale dalla legge 382, al di là di questa legittima attesa del dettato costituzionale, è oggi essenziale trovare un costante rapporto fra tutti gli Enti locali, le Camere di Commercio, le società a partecipazione pubblica. Se programmare significa dare una risposta certa da parte del settore pubblico al settore privato, allora la programmazione deve indicare, oltre alle linee di intervento degli Enti locali, anche i programmi dell'industria.
Siamo persuasi che occorrerà finalizzare i sacrifici che vengono richiesti alle masse popolari ad un diverso sviluppo sociale.
La richiesta di un governo di emergenza non è una invenzione dei socialisti, essa scaturisce da un esame vero, serio, della nostra drammatica realtà. Di fronte alle realtà generali del Paese, siamo chiamati dalla realtà regionale per sviluppare la nostra iniziativa, ad esprimere scelte meditate e possibili, a svolgere un ruolo nazionale, ad impegnare tutto il nostro peso politico, economico e sociale, per contribuire al superamento delle attuali difficoltà, ad impedire in sostanza, che si verifichi il dissesto ed il crollo economico con le inevitabili conseguenze anche sul piano della vita democratica e civile del Paese.
Il problema più acuto e drammatico è l'inflazione che pesa sui redditi fissi di lavoro, punisce le categorie meno abbienti ed ostacola gravemente la ripresa economica influenzando negativamente lo sviluppo della società.
La lotta all'inflazione resta il principale obiettivo delle forze democratiche e siamo convinti che per mettere sotto controllo questo inquietante fenomeno non solo italiano, però molto più acuto e grave da noi che altrove, non basta ricorrere alle manovre fiscali e tariffarie, che pure riteniamo necessarie, ma si devono affrontare le ragioni di fondo che stanno a monte del fenomeno stesso. Abbiamo ammesso come socialisti, sia pure con qualche riserva documentata, le misure straordinarie del Governo ma se a quelle misure non fanno seguito indicazioni idonee e programmate ben difficilmente si riuscirà a portare il Paese fuori dalla crisi. Ci chiediamo, nel contempo, con il massimo senso di responsabilità, se si ritiene di bloccare l'inflazione con alcune manovre fiscali, che nel complesso finiscono di colpire maggiormente i lavoratori che non altri strati della società nei quali sono annidate tutte le forme tradizionali di parassitismo e menefreghismo, o se invece non sia più importante ed urgente per tutto il Paese affrontare alcuni nodi gordiani che minacciano di trascinare il sistema economico e politico del Paese al punto di non ritorno, dove è possibile ogni avventura autoritaria da parte del solito e sempre presente manipolo di audaci e dove il crollo di credibilità dello Stato nel suo sistema, può diventare totale ed irreversibile.
I lavoratori, attraverso i sindacati, hanno manifestato una generosa disposizione ad iniziare il discorso dei buchi nella cinghia e intendono anche portare avanti con responsabilità uno dei capitoli vitali del nostro drammatico momento sociale: il costo del lavoro. Ma non si può chiedere ai lavoratori di abbattere alcune conquiste storiche e fondamentali.
Il costo della crisi non deve essere pagato soltanto dai lavoratori, ma deve essere pagato da tutti gli italiani, soprattutto in base alla loro capacità contributiva, ai loro titoli e livelli di benessere. I Partiti della sinistra italiana da tempo hanno formulato proposte concrete e corrette per affrontare i problemi della crisi economica. Da tempo; come socialisti, diciamo che, pur facendo la debita valutazione della responsabilità di chi sta al governo e di chi ne consente la vita con l'astensione, siamo pronti a discutere su tutto e a farci carico di tutte le scottanti problematiche, compresi il costo del lavoro e il costo del denaro.
Siamo e saremo sempre dell'avviso che con i bizantinismi sulle sedi da scegliere o sui personaggi da incontrare, non si caverà mai il ragno dal buco.
Nei minivertici parlamentari dei giorni scorsi, le delegazioni dei partiti hanno ribadito queste considerazioni di fondo che, per la verità in quanto agli effetti che si riscontrano, sono oramai patrimonio di tutte le forze politiche democratiche. Se, però, sugli effetti e sulle conseguenze che potranno maturare da questa situazione, che si deteriora fuori da ogni controllo, tutti sono d'accordo, tutti sono in disaccordo invece, per quanto riguarda le misure da adottare.
Nel vertice di giovedì scorso infatti i Gruppi parlamentari su un punto fondamentale si sono trovati d'accordo: sul costo del lavoro e della spesa pubblica.
Con quali strumenti affrontare questa impegnativa battaglia, l'accordo non esiste affatto, non esiste nemmeno un chiaro consenso fra la stessa D.C. ed il Governo. Nei giorni scorsi più di uno di noi, in buona fede, non avrebbe scommesso un soldo sulla sopravvivenza di Andreotti. L'altro minivertice, Sindacato-Confindustria, con il relativo accordo su alcuni punti fermi, compresa la scala mobile, rappresentava certamente un primo reale passo ed un contributo concreto nella verifica tra Governo e forze politiche, ma ora quell'accordo minaccia di saltare per le inopinate misure assunte dal Governo nell'ultimo Consiglio del Ministri, sia per quanto riguarda la scala mobile stessa, sia per quanto riguarda la fiscalizzazione degli oneri sociali.
I sindacati sono sul piede di guerra, così pure i partiti o almeno alcuni di essi, che consentono con la non sfiducia la vita al monocolore di Andreotti.
La situazione peggiora inesorabilmente, perché si perde tempo prezioso nella ricerca di formule astratte e di equilibri talora funambolistici che male si adattano alla nostra realtà in movimento. Nel frattempo i problemi si accumulano, si sedimentano, si fanno difficili e complicati: disavanzo della bilancia dei pagamenti, deficit pubblico, inflazione galoppante crisi istituzionale e politica, elevato conflitto sociale, strategia del terrore, sfiducia e scollamento.
Su di essi avrebbe dovuto incentrarsi l'attenzione della classe politica. Le cause plurime e complesse di questi fenomeni affondano le loro radici nel periodo antecedente al cosiddetto miracolo economico basato sostanzialmente sull'alta disponibilità di manodopera e a basso costo.
In questo quadro il Piemonte, in quanto Regione traente del passato sviluppo, si è trovato a vedere enfatizzate tutte le contraddizioni che si agitano e si dibattono all'interno del Paese.
La Giunta regionale, riprendendo e facendo propri i dettati statutari ha impostato la propria azione politica incentrandola sulla programmazione come strumento insostituibile per l'individuazione, la valorizzazione e la risoluzione delle esigenze presenti nel territorio piemontese.
La proposta di Piano di sviluppo costituisce un primo risultato di tale politica che cerca di tenere conto anche degli insuccessi che hanno caratterizzato le passate esperienze di programmazione a livello centrale volendo così promuovere all'interno della nostra Regione un processo dialettico attraverso il quale confrontarsi sugli obiettivi. Non si tratta quindi tanto di un Piano prefigurato, costruito a tavolino, sulla base di metodologie di ordine tecnocratico e con l'illusione della onnicomprensività, si tratta invece di un processo in continua evoluzione un Piano flessibile che si perfeziona con i contributi concreti delle forze politiche e non politiche che vogliono veramente programmare per governare quindi, un Piano che si deve adeguare attraverso un continuo processo di perfezionamento e di adattamento alla realtà politica ed economica che muta rapidamente sotto l'impulso di eventi esterni, che tutti noi abbiamo il dovere politico di controllare. Si tratta quindi di una proposta programmatoria che è stata formulata anche sulla base di materiale tecnico e scientifico già predisposto dal CRPE e dall'Ires e in buona parte consolidato da dibattiti e verifiche già nella precedente legislatura. Sono emersi alcuni grandi obiettivi di ordine generale che dovranno costituire le linee guida lungo le quali si andrà adottando, attraverso un continuo processo di adeguamento alla realtà, tutta la programmazione attuativa nei suoi risvolti comprensoriali e settoriali. La già avvenuta istituzione dei Comprensori ed il loro prossimo e concreto funzionamento rappresentano uno degli elementi centrali del processo di programmazione regionale avviato con la proposta di Piano che dovrà ora trasformarsi in progetti operativi di intervento lungo i quali indirizzare e qualificare la spesa regionale.
La programmazione per progetti rappresenta una chiara scelta della Giunta, tesa, tra le altre cose, a liquidare la dispersione a pioggia degli interventi pubblici, quasi sempre privi di poteri di indirizzo, e volta a ridare alla spesa pubblica una concreta possibilità di guida indirizzando su un ristretto numero di interventi qualificati le risorse finanziarie disponibili.
Tale sistema d'intervento produrrà effetti non solo all'esterno, ma anche all'interno, sul piano organizzativo che richiede sempre in maggior misura una ristrutturazione dell'apparato pubblico regionale, il quale dovrà connotare il proprio operato in maniera intersettoriale procedendo anche ad una riqualificazione del proprio personale e dei propri Enti che dovranno sempre più essere pronti a sviluppare competenze atte alla gestione di situazioni complesse.
Gli obiettivi individuati dalla proposta di Piano ed ai quali si sono rifatti i progetti operativi, rispondono alla duplice esigenza di porre fine alla crescita di tipo spontaneistico così come ci insegna il passato e di connotare sul Piano il futuro sviluppo della Regione e quindi del Paese per la parte che ci compete.
Tutto ciò deve comportare atteggiamenti coerenti non solo da parte dei soggetti interni della Regione, ma anche di quelli esterni, in primo luogo da parte del Governo centrale, al quale anche il Piano piemontese ha voluto riferirsi presentandosi come una proposta di obiettivi da raggiungere, la cui realizzazione sarà subordinata sia alla possibilità da parte delle Regioni di assumere un peso crescente in termini di competenze delegate sia agli indirizzi di politica economica che il Governo attuerà o vorrà attuare. In tal senso non possono non destare preoccupazione gli ultimi orientamenti governativi, nei quali non solo non si intravede in modo chiaro e preciso quali saranno le competenze delegate dalla 382, ma sembra invece possibile scorgere una certa tendenza governativa all'accentramento delle funzioni, e quindi ad una specie di penalizzazione degli Enti locali che si vorrebbero sempre tenere in uno stato di perenne dipendenza e di sudditanza. Questi non sono comportamenti che si conciliano con una volontà programmatoria che nella Regione rappresenta una scelta politica irreversibile.
Signori Consiglieri, di questa proposta di Piano si parla da molto tempo in tutti i livelli della vita politica ed economica del Piemonte. E' un problema che la nostra Regione, prima fra le altre, ha deciso di affrontare sul serio; è giusto quindi che avesse la dimensione che ha avuto. Oltre 500 Comuni piemontesi, associazioni di categoria, sindacati forze politiche, economiche e culturali, hanno esaminato la tematica proposta dalla Giunta piemontese. Consensi, critiche o dissensi sono il naturale corollario a questa responsabile iniziativa della Giunta. La scelta ha suscitato non pochi problemi e non pochi interrogativi, ed era del resto naturale che fosse così.
La proposta di Piano fa parlare, fa discutere, fa polemizzare. Questo è da auspicarsi, è il sale di ogni vero contesto democratico e pluralistico.
Ben venga dunque questa verifica. Ad ogni forza politica tocca il dovere di illustrare la propria posizione davanti a questa bozza o progetto di Piano di sviluppo.
La Giunta e le forze politiche che la sostengono hanno il dovere di illustrare alla comunità piemontese e nazionale, l'obiettivo fondamentale rappresentato dall'avvio di un processo di superamento dello squilibrio territoriale e settoriale che costituisce un po' l'altra faccia del Piemonte.
Le altre forze politiche e democratiche dovranno documentare le critiche rivolte al progetto di Piano, legittime, ma ancora tutte da dimostrare, secondo le quali questa proposta è fuori di ogni fondatezza previsionale per quanto attiene ai nuovi posti di lavoro da qui al 1980 per quanto riguarda la sua presunta proiezione antimeridionalista, come abbiamo sentito esprimere da un autorevole personaggio del mondo politico torinese, e per quanto attiene alle presunte zone d'ombra.
Diciamo che la strategia di politica economica delineata nel Piano segna chiaramente una possibilità di rottura rispetto al tipo di crescita spontaneistica, comunque sempre imposta al Piemonte dalle grandi concentrazioni economiche, finanziarie e industriali. Su questa base chiediamo contributi reali e non strumentali, per arricchire, correggere definire, ridefinire globalmente la proposta e le sue articolazioni in progetti e in programmi.
Credo che ogni forza politica e democratica di fronte a questo grandioso impegno abbia campo, oltre che titolo, per dare un contributo costruttivo e creativo.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Benzi.



BENZI Germano

Mi stavo domandando, onestamente, se stiamo discutendo sul Piano piemontese o se il tema è un altro. Abbiamo spaziato nei settori più vari abbiamo fatto della cultura, abbiamo parlato dei Merovingi, dei Carolingi degli Egiziani, di Cartesio, ma siamo di fronte al Piano di sviluppo che riguarda il Piemonte e sono convinto che si debba parlare proprio di questo Piano.
Dopo un rodeo durato 8/10 giorni, rischiamo di non capire quasi nulla di quanto ci dicono le varie forze politiche. Apprezzo l'amico Cardinali che, in un intervento brevissimo, ha detto il suo pensiero sul Piano di sviluppo. Non faccio voli pindarici, non mi arrampico sulla storia né sulla geografia, ma desidero parlare di questo argomento.
A parte il preambolo amichevole, dobbiamo osservare che il Piano non è passato inosservato all'attenzione dei vari Enti e dei cittadini interessati. Pochi hanno apprezzato il lavoro fatto, anzi c'è una quasi totalità di giudizi negativi. E' stato criticato dalle Province, dalle organizzazioni sindacali, da quelle padronali, dai commercianti, dagli artigiani. Oggi discutiamo su un aborto per essere in tema con l'argomento che, proprio in questi giorni, ha appassionato gli italiani. Non si pu dire che sia facile fare un Piano di sviluppo. E' fallito a suo tempo quello nazionale con tutte le conseguenze negative che ci sono state.
Dal giugno 1975 ad oggi molta acqua è passata sotto i ponti e ha diluito i programmi trionfalistici della Giunta di sinistra, che ha perso la sua baldanza dimostrata in molte occasioni e si è fatta un vestito per il Piemonte. Ci sono dati statistici dubbi, si è ipotizzato uno sviluppo a tavolino e con le consultazioni si doveva dare il nostro placet.
E' necessario osservare che è stato usato il metodo sbagliato. Era meglio procedere in modo diverso: consultare prima i Comuni, le Province gli Enti, le associazioni, i sindacati, le aziende; conoscere la realtà effettiva del Piemonte e costruire assieme il Piano di sviluppo.
Abbiamo fatto le cose diversamente e non approvo il metodo adottato d'altro canto, con le consultazioni, mi si sta dimostrando che il sistema è stato un fallimento.
Sono uno tra i pochi che hanno letto la relazione della I Commissione e non era una lettura facile. Non so quanti siano i Commissari che l'hanno approvata. E' una relazione brillante, piena di bellissime parole, una relazione poetica, ma in realtà non riflette i suggerimenti venuti dalle consultazioni. Le consultazioni sono state di tipo diverso, di altra specie e hanno rivelato controversie molto forti che nella relazione non sono evidenziate.



RASCHIO Luciano

Se non sei venuto alle consultazioni, come fai a dirlo?



BENZI Germano

Non sono venuto alle consultazioni, perché non appartengo alla I Commissione. Caro Raschio, quando parli tu, io ti lascio parlare, ma quando parlo io, mi stai a sentire. Presidente, richiami l'amico Raschio.
Vi do un esempio sul modo in cui si sono svolte le consultazioni. Il collega Bellomo diceva che 500 Comuni hanno partecipato alle consultazioni.
Non è vero, perché proprio nel documento allegato alla relazione l'elenco dei Comuni che hanno partecipato alle consultazioni risulta di 192 su 1209.
Il Comprensorio di Vercelli ha mandato due Comuni su 48, Pinerolo 8 su 46.
Vorrei anche far rilevare gli errori materiali che ci sono. Nella relazione si parla di 1200 Comuni in totale, perciò nove Comuni sono spariti. E' un infortunio qualsiasi, però queste cose, seppure irrisorie non devono succedere. Intanto il Piano di sviluppo è errato nel periodo: considera il periodo di tempo dal 1976 al 1980. Siamo nel 1977 e il Piano non è ancora in vigore, a meno che lo sia da un anno; io non me ne sono accorto, in questo caso chiedo scusa alla Giunta.
Leggo un solo obiettivo: assicurare l'occupazione. E' una cosa di cui siamo tutti convinti e soddisfatti, però qui c'è una disattenzione. Nella relazione chilometrica e piena di aggettivi c'è una carenza: non si è detto che in Piemonte stiamo perdendo il Samia. Parliamo di differenziazione di produzione, diciamo che a Torino abbiamo una grossa azienda automobilistica che condiziona tutti, che vogliamo differenziarci e che abbiamo una produzione che vogliamo potenziare. Ma nel Piano si sta zitti.
A pag. 290 si parla di "manifestazioni fieristiche", altro settore che deve impegnare l'Amministrazione in una scelta politica di fondo per far sì che l'intervento regionale diventi un disegno programmatico di politica promozionale al servizio dei settori produttivi e non si riduca ad un aiuto episodico fine a se stesso.
C'è una mia interrogazione sul Samia per conoscere, di fronte alla spogliazione del Piemonte e di fronte ad un fatto che interessa tutto il Piemonte, che cosa ha fatto la Giunta. In primo luogo si doveva convocare il Consiglio regionale per discutere del Samia, perché il Consiglio ne è responsabile. I 170 milioni spesi non sono della Giunta, ma sono dei cittadini torinesi e piemontesi che li hanno sborsati. Dobbiamo ringraziare i giornali se siamo venuti a conoscenza del suo trasferimento.
La Regione ha sempre discusso di argomenti interessantissimi, ma di questo non ha discusso.



VIGLIONE Aldo, Presidente della Giunta regionale

Sarà oggetto di una seduta successiva.



BENZI Germano

Signor Presidente, ti ringrazio per questa cortesia. La notizia si è avuta il 16 dicembre ed il Consiglio regionale, in quel momento, poteva dire delle cose diverse, poteva dire che il Samia rimane a Torino. Ritengo che il Consiglio abbia il dovere di prendere una posizione ufficiale e non debba accontentarsi di chiudere l'argomento sotto banco per mascherare la perdita di lavoro che ne deriva. La gente viene in Italia per vedere sfilare la moda, non le vacche! Ma vorrei sapere se crediamo veramente che il Samia sia perduto. Non mi curerei di ciò che si fa a Milano. Se oggi permettiamo questa operazione finiremo di perdere tutto, una cosa dopo l'altra.
Pare che qualcuno abbia osservato che con la perdita del Samia si risparmieranno 50 milioni l'anno; voglio sperare che non sia un collega a dire queste cose, perché se così fosse dovrebbe cambiare mestiere. La perdita dei 50 milioni significherebbe la perdita di lavoro per alberghi bar, cinema, teatri, per un ammontare di miliardi. Nel Piano si dice che difendiamo questa attività, che comperiamo le azioni per difenderla. Che cosa difende la Giunta in questo momento? E' necessario che il Consiglio prenda posizione oggi stesso su questo argomento, che si rompano i contratti con Milano, che si inducano i Commissari del Samia a dare immediatamente le dimissioni, poiché è gente che ha dimostrato di non essere capace. Questo bisogna fare. Ma si faccia qualcosa oggi, prima che sia veramente troppo tardi. Se si risponderà tra un mese alla mia interrogazione, sarà veramente troppo tardi.
Scusatemi, mi appassiono sul problema del lavoro, perché vivo di lavoro. Non ne parlo in modo retorico, so quel che significa costruire qualcosa, quanto è costato il Samia a Torino e mi spiace che lo si abbandoni così, con leggerezza, se sarà abbandonato. Prego il Presidente di essere preciso in proposito.
Torno al Piano di sviluppo. Ormai sappiamo che le previsioni demografiche del 1980 sono sbagliate, Minucci questa mattina ha confutato gli studi che sono stati fatti sull'argomento. Abbiamo la dimostrazione che tutti i nostri studi sono da buttar via. Questo però, porta conseguenze che nel Piano non vengono rilevate.
Tutto il ragionamento fatto sui livelli occupazionali sono sbagliati pertanto rimettiamo in discussione anche i poli di sviluppo. Se non abbiamo gente da mandare nei nuovi poli perché non ci sono lavoratori, i poli non si potranno creare. Non è sufficiente pensare che la gente andrà in un luogo perché gli si dice di andare. Tutti sappiamo che l'industria non è in mano nostra perché il Governo gelosamente non vuole che ci occupiamo degli industriali, perciò avremo poche armi per spostare l'attuale situazione in campo industriale.
Il famoso libro sul Piano regionale contiene molte pagine in cui si fotografa precisamente la situazione con statistiche. Su queste cose gli studi svolti sono buoni. Abbiamo una legge che riguarda quattro zone industriali: Vercelli, Casale, Borgosesia e Mondovì, che, di quando in quando, vengono ricordate per dire che anche noi abbiamo fatto qualche cosa. (A parte il fatto che la legge è stata approvata dalla vecchia famigerata Giunta, composta di gente insipiente che non sapeva nulla di quel che doveva fare).
In verità, non sono mai stato molto d'accordo sulle quattro zone industriali perché, individuando quelle zone, si tende a creare dell'altro pendolarismo. E' facile parlare della creazione di zone industriali, ma mettere in pratica il progetto comporta seri ostacoli per tutti quanti. In Piemonte esistono altre zone depresse che necessitano di industrie e non possiamo condannare al destino di dormitori altre città. Abbiamo zone peggiori di quella di Mondovì o di Borgosesia, perciò dobbiamo lasciare libertà ad altre zone, anche più piccole, affinché l'industria si sviluppi.
Ieri l'amico Raschio ha ricordato che nelle nostre zone industriali non è compreso l'artigianato. Ha ragione. Il settore dell'artigianato va aiutato e noi, nel Piano, non lo diciamo Sarà colpa della vecchia Giunta ma la nuova Giunta, molto più in gamba della precedente, doveva capire questa carenza e doveva prevederla nel Piano.
So, perché l'ho sentito dire, che qualche cosa si sta muovendo nelle aree industriali. Sono trent'anni che sento dire dai Parlamentari e dai Ministri che si vogliono aiutare le piccole e medie aziende, ma onestamente, bisogna riconoscere che le aziende stanno in piedi grazie alle loro capacità e non certo per merito dei Ministeri, dei Comprensori o delle Regioni; se dovessero vivere degli aiuti dei vari Enti, sarebbero morte e sepolte da molto tempo.
Nel Piano sono contenute molte cose per aiutare le piccole e le medie industrie e sono cose che sottoscrivo, però manca la parte operativa ed il tempo per attuarle. Come riuscirete a far questo? Quando lo farete? Queste cose le dicevo già 25 anni fa, quando ero Vice Presidente nazionale di un'associazione. Ma il mio invito é: "dite come riuscirete a fare queste cose, allora finalmente potrò credere al Piano".
Quello che vale per la piccola e media industria, vale per l'artigianato. Ieri ne abbiamo parlato molto. Mi sono complimentato con Raschio che ha fatto un interessantissimo intervento. Con la famosa legge varata dalla famigerata precedente Giunta diamo degli aiuti irrisori ad un tasso di interesse molto alto e riteniamo di avere risolto i problemi dell'artigianato con 15 miliardi all'anno, che rappresentano sì un aiuto ma vi sono diversi problemi connessi che qui non sono affrontati.
Veniamo alla questione dell'edilizia. Tutti sappiamo che l'edilizia è in crisi, specie a Torino dove c'è gravissima carenza di alloggi. La Regione non fa nessuna previsione, si è limitata a far previsioni sulla parte finanziata dallo Stato; in questo momento lo Stato finanzia con cifre modeste perciò possiamo realizzare solo il 4-5% di quanto è necessario.
L'edilizia deve essere un settore primario, perché può dare lavoro a molta gente, anche indirettamente; c'è crisi di alloggi, c'è sovraffollamento e c'è la crisi dei lavoratori.
Noi parliamo sempre dei grandi problemi strategici, parliamo della Cina, della Russia, di Washington, dei faraoni, ma credo sia opportuno parlare qualche volta del turismo in Piemonte.
Nella relazione si accenna allo stato di decadimento di grossi e medi alberghi.
E' vero, ma come incentiviamo il turismo? Mi domando che cosa si fa di concreto per far conoscere il Piemonte agli italiani; quali pubblicazioni, quali giornali, dove e a chi li mandiamo? Questo vale anche per l'estero. Abbiamo dei centri storici in Piemonte che possono competere per interesse con molti grandi centri italiani, ad esempio Ceva, Fossano, Mondovì, Asti, Alba e così via. Ci sarebbe un grosso turismo da sviluppare facendo conoscere questi luoghi per intanto ai piemontesi.
Ma queste cose non le facciamo conoscere, né sono puntualizzate nel Piano. Il turismo è un settore molto importante, che può provocare grossi movimenti di gente, ma per ottenere questo ci vogliono le occasioni, che non sarà certamente il Teatro Stabile di Torino ad offrire: la situazione teatrale è fallimentare, la gente non va a teatro nemmeno gratuitamente. In occasione della rappresentazione di uno spettacolo del Teatro Stabile di un paese erano presenti 30 persone, di cui 2 a pagamento e 28 gratis. Ci dimostra che gli spettacoli non attirano nessuno.



BONO Sereno

Perché non sei tu il primo attore.



BENZI Germano

Caro Bono, ti ringrazio per l'apprezzamento. Ma devi dimostrarmi che non è vero ciò che dico.
Vorrei fare un piccolo accenno in merito allo sport. Mi domando quali sono le iniziative della Regione in questo settore, mi domando se la Regione ha riunito qualche volta il Coni, mi domando quando abbia patrocinato sul serio qualche gara, quando abbia organizzato qualche iniziativa di massa.



MORETTI Michele, Assessore allo sport

Non spetta alla Regione.



BENZI Germano

Leggi bene quella pagina e mezza che parla dello sport, sei tu che l'hai scritta. Tutta la parte promozionale spetta a noi, ed anche quella dell'incentivazione. Non è sufficiente contribuire con 6-7 milioni per un campo sportivo o per completarlo, bisogna intervenire diversamente per incoraggiare iniziative, anche per tipi di sport che non siano agonistici.
Rischiamo di porre un'etichetta su una bottiglia vuota.
Concludo rapidamente. Ci sono due carenze di fondo, la prima è che non indichiamo la spesa anno per anno per i vari settori. Se la indicassimo sapremmo quali settori si vogliono incentivare. Sono indicate delle cifre solo in riferimento all'agricoltura, per tutti gli altri settori non sono definite.
La seconda carenza è temporale. Diciamo di fare alcune cose nel giro di quattro anni, ma non è possibile che tutto venga condensato al quarto o al quinto anno.
Il mio intervento non vuole stroncare il Piano, anzi sono convinto che una programmazione sia necessaria e che, se si riprendesse questo progetto in molti punti, si potrebbe arrivare alla stesura di un programma attuabile con il concorso e l'approvazione di tutte le forze politiche.
Se la Giunta è disposta ad accogliere i suggerimenti che stanno arrivando, a rimettere in discussione certi settori, potremmo rifare un documento che rispecchi la volontà della comunità piemontese. In caso contrario, questo Piano finirà negli scaffali e rimarrà nella memoria dei nostri figli che potrebbero dire "guarda cosa sapevano fare una volta in Piemonte. Povera gente!".



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Bianchi, ne ha facoltà.



BIANCHI Adriano

Signor Presidente, colleghi, credo che il dibattito abbia offerto ancora una volta un'occasione valida, che non va sprecata, per precisare le posizioni ed il ruolo delle forze politiche, evitando fughe dai temi che ci sono proposti e sui quali si misurano le nostre capacità di adempiere ai compiti assegnatici, con modestia pari all'enorme gravità dei problemi che la crisi ci propone.
E' ovvio che io abbia in questo intervento un interlocutore principale non perché privilegiato, ma perché ha proposto una tematica determinata direttamente rivolgendosi a noi con valutazioni e domande specifiche di grande rilievo.
Il Consigliere Minucci ci ha proposto subito alcune domande: "voi criticate il Piano, analizzate minutamente indicazioni e valutazioni e documenti, ma non ci fate intendere che cosa volete politicamente, quale risultato volete raggiungere sul piano politico attraverso quest' azione che collocate storicamente nel momento di elaborazione e di dibattito sul Piano".
E' un pretesto, questo, per non entrare nel merito dei grossi temi che vengono proposti al Paese, alle forze politiche e alle istituzioni? Ritengo di dover subito rispondere: no. Non accettiamo, neanche come ipotesi per aprire un discorso, che il tono e le argomentazioni usate da Alberton questa mattina siano considerati come rivelatori di un'animosità che cerca pretesti per non scendere su un terreno scottante e duro. Alberton non è stato duro, è stato rigoroso con se stesso, sentiva la responsabilità parlando a nome della D.C., di motivare a fondo, con tutta la possibile chiarezza, le ragioni di una critica, perché non apparisse che il gusto della polemica e della contrapposizione con la maggioranza e la Giunta facesse premio rispetto alla sostanza degli argomenti e alla volontà di contribuire alla soluzione del problema specifico dell'avvio del Piano di sviluppo. Alberton ha cercato chiarezza anche nelle risposte, affinché non continui a sussistere questa situazione di equivoco! Noi - lo abbiamo già detto - soffriamo anche nello svolgimento del nostro ruolo di opposizione perché ci sono delle verità che circolano fra di noi e che ciascuna parte ammette in privato e vi sono delle posizioni, delle situazioni esterne che hanno tutt'altro rilievo e tutt'altra utilizzazione. Non cerchiamo ora l'umiliazione della controparte, non vogliamo che nessuno si sparga il capo di cenere; non pretendiamo assolutamente di dare dei giudizi sulla bontà degli intenti, sulla serietà dei propositi, sulla durezza dei sacrifici del lavoro svolto, sull'utilità comunque della proposta di lavoro. Ma poich c'è in corso un dialogo e un dibattito politico che vuol essere serio chiediamo che si pervenga a conclusioni serie; vogliamo farlo con toni dimessi, senza esacerbare i contrasti, perché abbiamo di vista sia la condizione della società, sia la necessità di rendere credibili le istituzioni all'interno delle quali viviamo.
Sul Piano, in particolare, si gioca non soltanto la credibilità della maggioranza, ma anche quella dell'opposizione.
In sostanza la nostra critica è stata tanto impietosa quanto non trionfalistica. Sprezzante nella sostanza ed autosufficiente è stata invece, nel passato recente, la posizione assunta dalle forze che sono in rapporto dialettico su questo tema con noi. Vi è stata una rottura della continuità culturale, nell'elaborazione di questa materia, la cui validità è stata riconosciuta questa mattina. Questa rottura è uno degli errori che la maggioranza ha compiuto e probabilmente riconosciuto al proprio interno ma non siamo qui a mettere il dito su quelle piaghe. E' stato un momento di orgoglio che è stato pagato in termini di insuccesso nella predisposizione di uno strumento credibile per la programmazione regionale.
Se devo ridurre all'essenziale le valutazioni di Minucci sul Piano (non a tutto può essere data, nell'immediatezza, risposta, anche perch l'importanza di certe affermazioni meditate e preparate non può essere svalutata in una risposta a caldo che può sembrare sommaria), mi è sembrato di capire che, secondo Minucci, i meriti sostanziali di questo Piano sarebbero due: il primo consiste nel fatto di esistere, di essere stato proposto, a prescindere dai suoi contenuti. Il secondo è che con questo atto e con i modi adottati per elaborarlo e presentarlo si è sostanzialmente fatta un'affermazione di principio e di straordinaria importanza, quella del primato della politica, del momento decisionale politico sul momento di elaborazione tecnica ed anche di partecipazione di altri interlocutori della vicenda sociale ed economica.
Ebbene, non accettiamo di passare subito a parlare d'altro, come ci è sembrato di capire che ci sia stato proposto. Vi è stato un fatto politico rilevante, abbiamo sentito dire: "Non discutiamo dei contenuti, passiamo direttamente a rielaborarli, a rimetterli insieme, verifichiamo se ci state o non ci state ad affrontare questa tematica secondo questo metodo. Il resto, e cioè l'esame del merito, sarebbe una perdita di tempo, tanto la realtà cammina così velocemente che se i contenuti fossero anche stati validi, ora sarebbero già superati e anche se non fossero stati validi superati lo sarebbero egualmente. Passiamo quindi oltre".
No, dato che non rinunciamo a che un Piano della Regione Piemonte venga formato e non pensiamo che si possano superare le difficoltà tecniche e politiche del governare, del misurarsi con la società compiendo un salto di qualità tale che porti a risolvere queste contraddizioni passando dai progetti operativi a progetti generali di trasformazione e di gestione della società.
Se dobbiamo verificare la validità delle premesse metodologiche e di principio, facciamolo pure: sia il Piano dunque la risposta. Siamo qui per partecipare, qui e fuori di qui, con le forze che rappresentiamo e con le quali abbiamo dei rapporti all'esterno, al processo critico e di analisi che va ripreso per fare il Piano.
Non accettiamo l'ha detto Alberton che non si riproponga, sia pure in termini sintetici, in termini realistici, un'analisi globale sulla quale costruire le ipotesi di progetti. Respingiamo l'alternativa, ove fosse nella mente della Giunta e penso che non lo sia di superare le contraddizioni, le insufficienze, gli errori e la non utilizzabilità del complesso materiale presentatoci, se non per parti, compiendo una ritirata sulla programmazione per progetti.
Va ripresa, questa analisi, con il massimo di istantaneità, ci direbbe Cardinali, perché avvertiamo tutti che i tempi corrono rapidamente per cui mentre si raccolgono elementi di conoscenza, questi mutano, e le soluzioni che ne derivano non sono più corrispondenti alla realtà.
Vi sono stati errori di metodo? Gli errori di metodo li abbiamo denunciati anche l'altro autunno, di fronte alla costituzione delle Commissioni, di fronte a quel momento di rottura. Avevamo previsto ciò che sarebbe avvenuto, che invece di costruire insieme un Piano, invece di costruirlo con la comunità regionale, avremmo avuto un'ipotesi, un indice una raccolta di documenti, un coacervo di proposte senza una logica e senza un rapporto con la realtà. Questo è stato il risultato.
Non pensiamo di fare dell'Ires un santuario, un santuario visitato con grande interesse nei momenti in cui ci si colloca sulle posizioni del dissenso, ma che poi diviene uno strumento da buttare nel momento in cui si apre la politica della ricerca del consenso. Prima una nobile accademia e ora semplici atti di governo. Siamo perfettamente d'accordo che la sede politica è quella che fissa le finalità, che assume le decisioni, che assume le responsabilità del dialogo con la realtà sociale, che anticipa le decisioni che servono a costruire l'avvenire. Ma se il momento politico per presunzione, salta il momento scientifico della ricerca, della conoscenza e lo piega alle esigenze di raccolta del consenso, di opportunità del momento, compie un'operazione che non è valida, non è produttiva e non è accettabile.
Siamo quindi d'accordo sul primato della politica, nel momento decisionale, che non rifiuti però le verità scomode, i passaggi impopolari.
Problema questo che incombe su di un progetto di modificazione della società. Bisogna quindi manifestare l'attitudine a non rifiutare le verità scomode per la propria parte, i passaggi impopolari, non solo quelli che lo sono per gli altri.
Assistiamo con interesse, con rispetto all' impegno dei singoli partendo dal principio del riconoscimento della buona fede. I dubbi, le valutazioni preoccupate riguardano la logica che è all'interno delle strutture politiche, la logica che è all'interno di certi sistemi di valori, di certe impostazioni politiche.
E' il momento politico che ha le responsabilità più amare, ma che non esaurisce per noi tutto, che non costituisce il momento finale e decisionale di tutto. Se allarghiamo il concetto di politica, ogni atto umano, ogni momento sociale, tutto è ricondotto alla politica; ma allora cambia il significato del nostro discorso.
Si dice: "Ma voi volete anche fare una polemica sulla filosofia del Piano, volete anche fare una specie di processo alle intenzioni su quelli che sarebbero i motivi riposti, le ragioni di fondo che ci portano a programmare". Certo, in questa fase ci siamo attenuti ai fatti, ci siamo tutti attenuti alla logica denunciata, ai propositi manifestati, alle mete indicate per rilevarne le contraddizioni, la non operatività, la non validità tecnico-scientifica, oltre che la discutibilità politica. Se vogliamo passare anche a questa altra fase, dobbiamo dire che non possiamo non cogliere, sia per il significato che ha avuto la ricordata rottura, che è stata per noi abbastanza traumatizzante perché rivelatrice di un atteggiamento politico di fondo, sia in altri momenti che riguardano la filosofia del Piano. Penso, ad esempio, a leggi che sono state citate a prova della volontà di creare gli strumenti della pianificazione, nelle quali si trova un preoccupante pessimismo di fondo, quasi una insofferenza di fronte all'estrema mobilità della società, la quale di per s costituirebbe un vizio da correggere, quasi un momento degenerativo da ricondurre alla razionalità e da ricomporre in uno schema rigoroso. Se questa filosofia facesse strada, se questa tentazione fosse tuttora presente, diremmo "non siamo assolutamente d'accordo con questa filosofia perché non consideriamo un elemento di disturbo da sopprimere, un elemento di incertezza da domare quella che è la creatività spontanea presente nella società. Non pensiamo di gestire la società, pensiamo di animarla, pensiamo di sollecitarla, pensiamo di rappresentarne i moti più validi, pensiamo di offrire alla società dei valori, delle indicazioni e da questa di assumerne; ma non pensiamo, con presunzione, di poter disporre di un modello, di un'indicazione entro i quali ricomporre e guidare la società quasi che vi fosse una separazione tra società e forza politica, tra società e partito politico, tra dottrina politica e società che opera e costruisce il proprio avvenire".
Il nostro discorso vuole essere serio. Non è polemico qui per ragioni strumentali. E' rivolto a tutta la comunità. Non cerchiamo quindi diversivi.
Mi consenta, Minucci, che aveva tanti argomenti e che molti ha trattato con l'elevato tono che la sua preparazione gli consente, di ritornare sul suo richiamo iniziale. "Prima il bastone poi la carota" si diceva una volta, ma non era questo negli intenti, immagino. Ci sono state delle estemporanee dichiarazioni del Ministro Donat Cattin, finite sui giornali prese da un contesto o da altri interventi, sulla base delle quali si vuol sottolineare la difficoltà di parlare con la Democrazia Cristiana. Dov'è questa Democrazia Cristiana? si dice cosa pensa, come agisce politicamente? Avvertiamo spesso la difficoltà di condurre a sintesi molti motivi di sollecitazione, gradi diversi di maturazione culturale, una varietà della società di cui siamo proiezione e rappresentazione. Ma rispetto a questa tematica credo che non possa essere così utilizzato un intervento fatto in un convegno nel quale la Democrazia Cristiana preparava questo dibattito e nel quale c'era stata una relazione approfondita, frutto a sua volta di una serie di riunioni, nella quale erano anticipati molti concetti che ha rielaborato e ripresentato in modo originale Alberton in questa sede. Il Ministro, stanco, viene alla riunione per solidarietà con gli amici dichiara, ricorda semplicemente, che non si pensi, non si presuma di risolvere la politica industriale a livello regionale, perché questa attiene alle responsabilità nazionali, mentre attiene alle nostre di sollecitare la programmazione nazionale. Ora, il prendere momenti così marginali della presenza politica per costruire una tesi o per denunciare difficoltà di colloquio o di rapporti, tutto questo credo non sia pertinente alla situazione.
Del resto, non sono portato a fare il difensore d'ufficio di persone che sanno rispondere dei propri atti.
Anche la dialettica che esiste tra le Regioni e lo Stato e che pu essere rappresentata in certi momenti dal Ministro non è motivo di scandalo tale da non consentirci le sintesi o da comportare giudizi che passino poi attraverso le forze politiche.
Avrei preferito che Minucci prendesse a riferimento i documenti che la D.C., sulla crisi economica e sulle responsabilità per l'adozione di decisioni gravi e importanti per la sua soluzione, ha prodotto e ha portato a conoscenza del pubblico.
Vi sono dei passaggi difficili per approdare alla concretezza operativa del Piano: ci assumiamo la parte che ci compete di impopolarità e di chiarezza. In questa linea rivendichiamo un ruolo centrale in coerenza con i precedenti che sono stati cordialmente ricordati con la citazione di un nobile rappresentante della D.C., protagonista della vicenda piemontese e torinese, il prof. Grosso. Capita spesso di essere coinvolti in giudizi piuttosto sprezzanti e rivalutati dopo. Questa è la vicenda umana e politica.
Un Partito come il P.C.I. che ha consapevolezza fisica della propria presenza nella società, della propria organizzazione, deve provare dei momenti di sconcerto, di sgomento nella prospettiva di un rapporto più ravvicinato, perché i tempi fanno sì che opposizione e maggioranza non possono permettersi comunque uno stato di isolamento. Questa e una prima risposta. Nessuna parte può ignorare l'altra, quando i protagonisti della vita sociale sono così a stretto contatto di gomito ogni giorno e con i loro comportamenti determinano il governo del Paese. Certo, siamo noi stessi motivo a volte di sconcerto, ma così è fatta la società e così un partito che ne rappresenta gli aspetti variegati e pluralistici.
Non accettiamo dunque un ruolo subalterno politicamente od eteroguidato dal punto di vista delle indicazioni culturali. Lo ha ricordato bene Alberton. Avvertiamo come tutti i precedenti al riguardo ci abbiano qualificato a svolgere un ruolo attivo. Dagli apporti al C.R.P.E., alle presenze nell'Ires, alla predisposizione come prova politica concreta della volontà di camminare in una certa direzione per la strumentazione di una politica di Piano che porta almeno il segno di un concorso non marginale ma determinante di una volontà politica precisa e di una capacità di definizione anche giuridica rispetto alle istituzioni che abbiamo ricordato come l'Esap, la Finanziaria, il Centro di Calcolo, i Comprensori. Tutta una visione che ci impegna.
Si ricercano i momenti di convergenza, si ricercano i momenti di non disarticolazione; ecco una corretta politica delle istituzioni, per un consenso e un convenire con tutti i chiarimenti del caso, su queste linee perfettamente coerente con ogni sistema politico efficacemente organizzato.
Abbiamo le carte in regola su questo piano e crediamo di poter procedere, di essere creduti, se diciamo che non veniamo qui a fare polemiche astiose, ma sostanziate di seri argomenti. Vogliamo dunque che la faticosa ricerca e la tempestiva attuazione della programmazione proceda e prosegua, e questa volontà trovi pure tutte quelle convergenze necessarie perché non si può pensare di realizzare una politica di programmazione che investe direttamente le istituzioni e il ruolo diretto delle forze sociali e delle forze politiche, senza che si determinino dei momenti di chiarezza e di intesa. Qui vien fuori il discorso sull'unità nelle decisioni politiche e sul pluralismo che, senza il momento decisionale, intristisce e svanisce in mera affermazione di principio. Qui viene fuori il discorso del Piano come atto di sovranità che ci fa porre delle domande. Quale tipo di sovranità? E' un termine che può essere equivoco: la sovranità assoluta o quella costituzionale o semplicemente una sovranità illuminata e tollerante o il frutto di un corretto modo di concepire la società e lo Stato, le forze politiche e le istituzioni? Non c'é da parte nostra nessuna ricerca di fuga verso la riedizione di impostazioni liberistiche, ma certamente ci sono dei valori da ricuperare e da riproporre, da rimeditare, che sono presenti alla nostra attenzione, così come mostra il PCI di avere grande attenzione rispetto al recupero di valori, di metodologie di rapporti, già contestati, già respinti, già considerati come espressione negativa di una concezione borghese della società e dello Stato.
Ecco, allora, che ribadiamo che il ruolo dell'impresa ha da essere profondamente rimeditato; che l'autonomia dell'impresa ha da essere riconsiderata nel suo significato anche sociale e deve essere culturalmente rivalutata, non per intendere che la libertà dell'impresa divenga la mera libertà del capitalista e dell'imprenditore di perseguire in ogni modo un certo tipo di profitto, ma perché diventi il modo efficace, tecnicamente valido, di organizzare la produzione e di rispondere verso la società, con lo spazio di libertà e di autonomia che consenta di perseguire questi scopi. Diciamo quindi che bisogna consentire che i margini di autonomia anche nel settore economico, siano definiti, non diventino sfumati, non diventino scoraggianti. Non si possono infatti sollecitare le responsabilità senza fornire margini di libertà e di autonomia corrispondenti alle responsabilità che si sollecitano.
I movimenti sindacali e politici in genere hanno fatto molti passi su questa via. Il ritardo culturale sulla funzione dell'impresa, sulla necessità che essa sia collocata esattamente nella sua funzione sociale, è stato pagato duramente in questi anni, quando si è negata validità a certi fattori della produzione, estraendoli dal processo produttivo come se fossero a questo indifferenti.
Tanti soggetti dunque ed una sola sede di decisione? No. Tanti soggetti, tanti spazi relativi e coordinati di autonomia, tante sedi di decisione, un grande spazio alla sede fondamentale e centrale che è lo Stato, che è il momento della decisione politica. Un processo di sintesi questo sì, continuo, ma che si apre alle nuove contraddizioni e alle nuove proposte e non pretende di ottenere una polizza di assicurazione per tutti gli accidenti dello sviluppo economico e sociale che il momento politico non può totalmente e preventivamente control lare.
Possiamo, rispetto a questo momento, produrre valori, possiamo indicare soluzioni, possiamo avere per riferimento principi, ma non ci sentiamo di proporre un progetto di società talmente definito in base al quale basti un accordo tra potenti forze politiche per garantirne la realizzazione ed il successo.
Questa mattina il collega Minucci diceva: "Noi potremmo fare un governo di alternativa. Faremmo un governo, ma non la trasformazione della società". Noi diciamo che si possono fare anche accordi tra grandi forze politiche le quali presumono di poter costruire una società che invece ad esse si sottrae; e accordi che possono portare il Paese alla rovina, alla frattura all'interno delle forze politiche sicché, in luogo di un'operazione di unità e di sintesi, si compirebbe un'operazione di disgregazione finale del tessuto politico del Paese. Questa è una delle preoccupazioni che abbiamo. Non respingiamo infatti le occasioni di incontro, di approssimazione continua, perché abbiamo interesse a costruire una base solida della democrazia nel nostro Paese, una base di consenso alle istituzioni, una base di accordo sociale, che ci sollecita a riconoscere ed a trovare valori attorno ai quali la società si organizza: valori di serietà e di costume nuovi. Non si può risolvere una crisi come questa, mondiale e nazionale, senza nuovi modelli di comportamento, senza nuovi modelli di consumo, senza nuovi riferimenti ideali, senza che si offrano ai giovani ragioni valide per accettare sacrifici ed attese per fare lunghe, faticose e difficili preparazioni alla vita.
Ma stiamo attenti anche a concepire l'austerità quasi come una nuova mistica. Ricordo, e non sembri sconveniente e poco rispettoso l'accostamento, come negli anni della mia prima gioventù si cercasse di superare le contraddizioni che erano nella società e di canalizzare le sollecitazioni politiche attraverso soluzioni mistiche.
L'austerità intesa come serietà di vita, come scala di valori, ci trova d'accordo e vorremmo essere anche coerenti rispetto ai principi che ci vengono dalla nostra formazione. Ma, attenti a valorizzare preventivamente i principi di un'austerità che in alcuni processi di formazione di Stati improntati al sociale, che oggi vengono finalmente sotto questo profilo criticati, erano soltanto il risultato negativo di un insuccesso rispetto ai propositi e alle mete che venivano proposti... L'austerità forzata l'austerità grigia, l'austerità burocraticamente diretta quale sbocco della pretesa di ordinare e di costringere in certi schemi tutta la società, è un'austerità che non interessa nessuno, che non ha alcun valore morale.
Siamo pure d'accordo che questa società ha perduto buona parte dei valori della famiglia, del risparmio, della vita ordinata, anche del decoro personale. Questi valori, che non sono borghesi nel senso deteriore abbiamo il coraggio di dirlo, sono valori perenni che oggi riscoprono forze che ieri li hanno negati. Attorno a questi principi costruiamo una nuova prospettiva sociale, se non un nuovo modello di società.
Mi avvio alla conclusione e vengo al discorso sulla base produttiva.
Anche qui, come si può non essere d'accordo quando si dice che l'espansione meramente quantitativa, l'espansione di una politica assistenziale, significherebbe cattiva utilizzazione delle risorse? Sappiamo che tutti gli Stati, che hanno avuto uno sviluppo industriale sono partiti da uno sviluppo agricolo che ha fatto progredire prima la società agricola. Quando oggi si afferma che certe vie per ridurre il costo del lavoro non sono politicamente percorribili, che cosa si dice? Si contraddice la ragione perché certe misure antinflazionistiche sono riconosciute necessarie dalla ragione di tutti. Ne prendiamo atto, così come prendiamo atto delle difficoltà incontrate per la politica meridionalistica. Ma che la base produttiva del Piemonte debba essere approfondita, allargata qualitativamente, credo che nessuno possa negarlo.
Senza che si producano le risorse non potremo agire. Non tutte le Regioni d'Italia potranno contribuire allo stesso modo. Così si può dire sul numero degli occupati. Una Regione ad indirizzo prevalentemente agricolo, dal punto di vista statistico, potrà avere un coefficiente di occupati nettamente superiore a quello di una Regione a sviluppo prevalentemente industriale. Questi sono fatti strutturali che non debbono scandalizzare.
Non pensiamo ad un equilibrio matematico dei modelli per tutto il Paese certo che senza un equilibrio del modello nazionale non è possibile coltivare prospettive di ordinato sviluppo sociale ed economico.
Non proponiamo, non l'ha proposto Alberton, le nostre ipotesi non guardano ad un Piemonte avulso da tutto il resto del Paese. Anche le ipotesi lotaringie o di rapporti con delle realtà nazionali a noi vicine credo che fossero in funzione dell'accrescimento di quella capacità di produrre risorse nella nostra Regione che non sono distorcenti rispetto alle prospettive nazionali, ma incentivanti rispetto alla produzione da mettere a disposizione dell'intero Paese.
Le questioni si sono poi affinate, tant'é vero che, partendo da posizioni contrapposte, adesso si riconverge su quelle stesse posizioni.
Sono d'accordo che i modelli demografici finiscono per essere il risultato di scelte economiche, politiche e sociali che stanno a monte.
Sappiamo che in Piemonte c'è la Fiat e c'è un certo tipo di struttura che va modificata, ma sappiamo anche che questa struttura determina delle conseguenze di natura demografica. Sono elementi di conoscenza messi a nostra disposizione e sui quali si sono costruite delle ipotesi.
La nostra critica sta in questo: si può rifiutare concettualmente il principio che il modello demografico possa essere costruito al di fuori della politica e della società, è un dato, un risultato dell'azione politica, ma quando lo si deve assumere come ipotesi di riferimento per fare un'opera di pianificazione, deve essere un modello esatto e non sbagliato, deve essere un modello aggiornato e non superato, non deve essere soprattutto un modello adottato per convenienza politica, per far apparire risolvibili in termini brevi problemi e situazioni che invece sono risolvibili solo in termini più lunghi e forse con grossi sacrifici.
Non c'è soltanto la produttività del settore industriale. Sappiamo che non c'è azienda collocata al centro di un'attività produttiva valida, che abbia un mercato, che non si trovi oggi spiazzata per la riduzione di produttività e per il crescente costo del lavoro, che non si sia mangiato il capitale di rischio, che non sia completamente nelle mani delle banche con l'innesco di un processo rovinoso per il costo del denaro.
Qualche giorno fa abbiamo avuto l'esempio di una fonderia valida che, a distanza di pochi mesi, ha bruciato il capitale sottoscritto perché, su 70 dipendenti, 50 lavorano e 20 in media stanno a casa. I sindacati cercano di intervenire, ma ci sono state reazioni e minacce.
Queste situazioni vanno affrontate, queste cose vanno dette e riconosciute: sono il tallone d'Achille al piede di tutto il Paese.
La produttività va aumentata nel settore industriale e nel settore agricolo, ricordando però che la produttività del mondo agricolo del nostro Paese è data come disastrosa, malgrado che sia aumentata più che in qualsiasi altro settore negli ultimi 40 anni, se consideriamo il numero degli occupati di allora e quello di oggi. Ma questo non basta, è assolutamente insufficiente.
Dobbiamo anche riconoscere altre realtà: quando si dice che l'agricoltura italiana non ha un solo comparto moderno, si dicono delle cose inesatte. E' mancato uno sviluppo dell'agricoltura italiana di carattere eccezionale, quale sarebbe stato necessario ad accompagnare lo sviluppo industriale e l'enorme sviluppo demografico. E' mancata una politica rivoluzionaria ed eccezionale per risolvere un dato strutturale e storico che ha dimensioni enormi.
La D.C. è pronta ad affrontare una grande operazione di razionalizzazione sociale. Così come non abbiamo il progetto diretto della società da sovrapporre a questa per vederla già configurata negli anni '85 '90 o al 2000, così pensiamo che neanche lo vorremmo prefigurare in modo determinato.
Abbiamo coscienza che le difficoltà dei tempi hanno portato ad uno schiacciamento fra le due grandi forze politiche e popolari del Paese di altre forze intermedie; ma abbiamo coscienza che queste forze rappresentano culturalmente, storicamente e socialmente molto di più di quanto non abbiano saputo rappresentare sul piano elettorale. La razionalizzazione e la semplificazione politica è forse necessaria, ma il tema che ci viene proposto è quello degli spazi da preservare per far sì che queste forze e queste presenze storiche, culturali e politiche si possano esprimere pienamente e totalmente. Certo, si devono prendere decisioni: l'essere al governo significa non poter godere di tutti i benefici che si hanno stando all'opposizione e stando all'opposizione bisogna avere la forza ed il realismo per non seguire e cavalcare tutte le sollecitazioni che paiono innovazioni e spesso non sono che ritorni all'indietro. Così come ritorni all'indietro, avvertiti dall'animo popolare più semplice, sono tutte quelle posizioni irrazionali per cui ogni volta che un movimento politico (lo constatiamo anche in questi giorni nelle vicende universitarie) già estremista, già extraparlamentare, già contestatore rispetto alle istituzioni, sente di dover assumere un minimo di razionalità, un minimo di rapporto realistico e concreto con le realtà che rappresenta, subito viene scavalcato quasi che solo l'irrazionale fosse risolutore dei problemi che angustiano la nostra società, nella negazione totale della storia che abbiamo dietro, dell'esperienza degli altri Paesi, dei rapporti che abbiamo con altre forze.
Tutto questo deriva dall'insicurezza di sé, dalla non chiarezza delle proprie radici culturali in forze politiche e democratiche di minori dimensioni che avrebbero la possibilità di meglio interpretare e guidare questi momenti del dissenso. Ecco il discorso sul dissenso e sul consenso.
La democrazia non è il momento del dissenso, anche perché storicamente il dissenso come tale non esprime la democrazia; nella democrazia non esiste mai in senso stretto il dissenso; nella democrazia c'è un'opinione che si misura, c'è una proposta che si misura e si confronta e che viene condotta poi a sintesi operativa in un rapporto civile. Il dissenso è la manifestazione tipica di una situazione di compressione o di dittatura. E' la ribellione profonda dell'individuo, della dignità umana che non accetta di essere schiacciata in realtà totalizzanti. Il dissenso si produce con il nazismo, con il fascismo, con ogni forma totalitaria.
Questa è una rivolta umana, è il tributo di sangue e di sacrifici immani di eroismo che si paga alla libertà.
Qui, in una democrazia, non dobbiamo proporre il dissenso come essenziale. Lo proponiamo per riferimento e per giudizio rispetto a società che non riconosciamo democratiche e che vorremmo vedere modificate in senso democratico. Da noi il problema non è neanche della manipolazione, della raccolta e del coordinamento del consenso. Il problema è di un confronto serio, onesto, vario riguardo ai problemi nazionali.
Ogni forza politica ha il dovere di contribuire al formarsi di un consenso di base e di fondo, in una specie di patto sociale e politico, sul quale poi si può svolgere più facilmente la dialettica politica in ordine a problemi che riguardano la contingenza storica, le soluzioni tecniche dei problemi.
Prima di rigettare trasformazioni radicali delle società che potrebbero derivare solo da un incontro di forze politiche e da un loro patto che finirebbe per stritolare anche le loro possibilità evolutive, cerchiamo insieme di costruire, ciascuno al proprio posto, una base sempre più larga di consenso sulle condizioni essenziali di rapporto e di vita necessarie per rendere un Paese evoluto e civile e per allargare gli spazi di libertà e di autonomia.
La nostra tradizione, che vuol vedere valorizzati questi momenti di autonomia, ha da imparare da altre il senso dello Stato e il senso della sintesi. Il lungo cammino fatto per approdare a questa conclusione, ci ammonisce che dobbiamo impegnarci di più in questa direzione, ma senza la presunzione intellettualistica o politica, in funzione solo della forza che ci viene data per la presenza della società e per la presenza delle istituzioni, di poter risolvere problemi che la società risolve per vie che ci sono anche misteriose, che dobbiamo solo accompagnare con rispetto facendo il nostro dovere là dove siamo collocati.
E' un fatto positivo che questi documenti siano stati elaborati per tentare di fare un Piano di sviluppo, che sia di stimolo alla programmazione nazionale, sia di riferimento agli operatori regionali, per la costruzione di un quadro completo, mon velleitario, che abbia il senso delle proporzioni. Anche le insufficienze di ieri e gli errori di oggi possono essere garanzia di passi in avanti domani.
Non solo non ci emarginiamo, non solo non ci mettiamo in una posizione distaccata e polemica, ma chiediamo chiarezza, possibilità di conoscere lo stato in cui sono le cose oggi per costruire su queste con responsabilità verso la società regionale. Questa, del resto, non sarebbe molto attenta alle nostre polemiche se da queste non scaturissero indicazioni concrete per costruire qualcosa di positivo e di nuovo.



PRESIDENTE

Chiede di parlare il Consigliere Bontempi, ne ha facoltà.



BONTEMPI Rinaldo

Chiedo una breve sospensione dei lavori per valutare il prosieguo del dibattito.



PRESIDENTE

Mi pare che la richiesta possa essere accolta. Ci sono pareri contrari? Non ve ne sono. I lavori sono sospesi per alcuni minuti.



(La seduta,sospesa alle ore 17,50 riprende alle ore 18,40)



PRESIDENTE

La seduta riprende. Ha chiesto la parola il Presidente della Giunta Viglione.



VIGLIONE Aldo, Presidente della Giunta regionale

Signori Consiglieri, il dibattito odierno, assai interessante ed approfondito, ha messo in evidenza una serie di circostanze, di comportamenti e di disponibilità delle forze politiche in ordine al Piano di sviluppo.
La Giunta non può che cogliere positivamente tutte le indicazioni di metodologia che sono emerse e, per dare le risposte conseguenti a questa nuova fase del dibattito, data l'importanza che esso assume, ritiene necessario sospendere questa sera i lavori e riprenderli giovedì prossimo.



PRESIDENTE

Ritengo si possa accogliere la proposta della Giunta, anche perché è fortemente motivata e risponde alla logica dello svolgimento del dibattito.
Il Consiglio è pertanto convocato per giovedì prossimo, alle ore 9,30 con all'ordine del giorno la conclusione del dibattito sul Piano regionale di sviluppo e gli altri punti rimasti in sospeso.
La seduta è tolta.



(La seduta ha termine alle ore 18,50)



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