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Dettaglio seduta n.96 del 10/02/77 - Legislatura n. II - Sedute dal 16 giugno 1975 al 8 giugno 1980

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Argomento:


PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SANLORENZO


Argomento:

Sul programma dei lavori


PRESIDENTE

La seduta è aperta.
Nella riunione dei Capigruppo si è concertato il programma dei lavori della seduta odierna che viene essenzialmente dedicata al dibattito sulla relazione della I Commissione sul Piano regionale di sviluppo. E' opportuno rispettare i tempi nello svolgimento dei lavori; pertanto sospenderò la seduta alle ore 12,30 e riprenderemo il dibattito puntualmente all'ora prevista nel pomeriggio. Questa procedura ci permetterà di concludere i nostri lavori ad un'ora tale da consentire a tutti di svolgere eventuali altri appuntamenti, sia ai Gruppi, sia alla Giunta, sia ai singoli Assessori.


Argomento:

Sul programma dei lavori

Argomento:

Comunicazioni del Presidente

Argomento: Commemorazioni

a) Cordoglio per il decesso del Commissario di P.S., Vincenzo Rosano


PRESIDENTE

Signori Consiglieri, devo esordire questa mattina con una notizia molto triste, la morte del Commissario Rosano, che viene ad aggiungersi alle altre luttuose notizie che hanno caratterizzato questo ultimo periodo della vita del nostro Paese.



(Tutti i Consiglieri in piedi osservano un minuto di raccoglimento)


Argomento: Problemi generali - Problemi istituzionali - Rapporti con lo Stato:argomenti non sopra specificati - Resistenza

b) Sulla serie di episodi eversivi che rinnovano la strategia della tensione e sulle iniziative che la Regione può intraprendere per la salvaguardia dei valori della Resistenza e dei principi della Costituzione repubblicana.


PRESIDENTE

Signori Consiglieri, solo al cune circostanze favorevoli neppure del tutto chiare hanno evitato che la bomba partita da Reggio Calabria o inserita sul treno lungo il percorso scoppiasse e ripiombasse quindi il nostro Paese in un clima di orrore che abbiamo già conosciuto dopo Piazza Fontana, dopo la strage dell'Italicus, dopo Brescia.
Contemporaneamente vi è stata la ripresa su larga scala delle telefonate terroristiche alle scuole ed ai luoghi di lavoro per impedire la normale attività scolastica e produttiva, le criminali provocazioni come quella dell'inserimento delle bombe nella sezione comunista di Milano, il raid fascista all'università di Roma ed i cinque attentati a sedi di caserme di carabinieri e di uffici nella capitale, il ritrovamento di 14 candelotti di dinamite nel cortile di una scuola a Milano e molti altri atti eversivi. Tutto questo indica una puntuale ripresa del terrorismo come strumento di intervento criminale nella vita politica. Fallito come strategia capace di modificare con la violenza gli equilibri politici, esso si dimostra tuttavia in grado di colpire duramente come in precedenza. Ci che è successo in questi giorni indica che non ci si trova di fronte a cellule isolate che continuano una battaglia disperata ma ad organizzazioni che dispongono e mantengono ampie possibilità di intervento.
Le ultime notizie pubblicate dai giornali sulle versioni che i servizi di sicurezza dello Stato danno sull'attentato di Roma, dicono che ci troviamo di fronte a gruppi mercenari disposti a tutto, a gruppi di criminali pagati per organizzare delitti, provocazioni, aggressioni. Per chi li manovra, chi li finanzia, chi li dirige? A questi interrogativi occorre non soltanto dare le risposte che la sensibilità dimostrata dal Paese ha già dato reagendo di conseguenza con eccezionale maturità democratica. Occorre siano impiegati tutti i mezzi di cui lo Stato dispone per individuare i covi fascisti ed eversivi nascosti sotto qualsiasi bandiera o sigla che si prefiggano la distruzione delle libertà democratiche attraverso il caos ed il terrore.
Ciò che tutti reclamano è l'efficienza e la prontezza necessaria di intervento, usando le leggi dello Stato, per liquidare ogni centrale eversiva interna, ed ogni organizzazione internazionale che operino sul nostro territorio e che agiscano contro l'ordine democratico e repubblicano.
Non è la prima volta che in questa assemblea abbiamo dovuto denunciare responsabilità, commemorare vittime, avanzare appelli, richiedere interventi.
Certo oggi occorre avvertire come assieme alla ripresa del terrorismo e della criminalità politica legate all'incerto quadro politico nazionale che si vuole forzare in una direzione reazionaria, siamo in presenza anche di un rincrudirsi della criminalità feroce ormai impropriamente chiamata "comune" dato che ha in realtà caratteri straordinari ed obiettivi oggettivamente politici. Negli ultimi mesi questa criminalità ha provocato oltre a sequestri, delitti e rapine, 22 caduti tra le forze di polizia. Al sacrificio di questi uomini nuovamente ci inchiniamo.
A questo punto occorre avvertire che il fronte di lotta contro la criminalità politica e contro la criminalità in generale deve impegnare tutte le istituzioni dello Stato, tutte le forze democratiche per la sopravvivenza stessa delle condizioni che consentono lo svolgersi civile dell'attività produttiva, della vita politica e sociale. Credo che in questa assemblea non ci siamo certo limitati alla pur necessaria denuncia.
La nostra Regione ha attuato negli scorsi anni iniziative concrete di indagine, di sensibilizzazione, di intervento su questi problemi. Ciò che abbiamo fatto è stato sempre ispirato al principio che la democrazia si difende con gli strumenti ed i metodi della democrazia. Non penso siano necessarie leggi eccezionali, ma l'impegno eccezionale di tutti, ciascuno nella sfera delle proprie responsabilità.
Le due grandi inchieste di massa della nostra Regione, sull'attività eversiva fascista e sul traffico, lo smercio ed il consumo della droga hanno significato prima di tutto un'azione di conoscenza e di coscienza, a livello di massa, dell'origine, delle cause, delle caratteristiche di questi fenomeni non solo in generale, ma nella specificità regionale.
Questa metodologia, questo modo di essere presenti è stata seguita in altre Regioni e indica, credo, un modo concreto di intervento degli Enti locali nella difesa dell'ordine democratico repubblicano.
Oggi occorre, però, più che mai saper fare l'analisi concreta di una situazione concreta. Oggi nella nostra Regione le questioni dell'ordine democratico (pur in un quadro che accomuna tutta l'Italia) presentano aspetti specifici così come la criminalità presenta aspetti caratteristici.
Questi come quelli sono stati assai precisamente messi in evidenza nella riunione che si è tenuta proprio in questa sede organizzata in accordo con il Commissario di Governo, tra Magistratura, autorità di P.S., Regione Piemonte e Comune di Torino; una delle questioni centrali è la dimensione e la grave qualità della delinquenza minorile ancora più drammaticamente evocata dalla recente sanguinosa rapina che si è conclusa con un morto a Torino e di cui i protagonisti sono stati dei giovani delinquenti.
Voglio cioè sottolineare la necessità di intervenire concretamente su queste questioni così come si presentano in Piemonte. E' assai diffusa la richiesta di una superiore concretezza di intervento per non fermarsi sempre agli ordini del giorno e agli auspici pur necessari per le indilazionabili riforme dei servizi di sicurezza, dei corpi di P.S., delle strutture e degli strumenti in possesso della Magistratura e per la fondamentale azione preventiva e di rinnovamento sociale che sono, e non bisogna dimenticarlo mai, le grandi questioni da risolvere, se vogliamo davvero togliere le basi di queste criminalità e creare le condizioni nuove di un ordine democratico e repubblicano. Si è partiti da tutte queste premesse per promuovere l'iniziativa, il Comitato regionale per l'affermazione dei valori della Resistenza, nella sua ultima seduta, ha deciso di convocare per domani, venerdì 11 alle ore 17 presso Palazzo Lascaris un incontro degli organi di gestione della scuola media superiore dei Consigli di facoltà delle Università e quindi di studenti, insegnanti e genitori con il Commissario di Governo ed il Questore di Torino per esaminare assieme e nel concreto il problema della vigilanza antifascista che sia tale da garantire l'ordine democratico contro ogni tipo di provocazione, di aggressione, di teppismo nelle scuole e nelle Università.
Su un altro piano nasce da questa stessa esigenza di concretezza la proposta che avanzo al Consiglio regionale di esaminare (in una successiva seduta, e nelle forme che riterrà più opportune) la proposta di un'inchiesta che sia ad un tempo scientifica e di massa sulle cause, sulle caratteristiche, sulle dimensioni, sulle localizzazioni della delinquenza minorile nella città e nella Regione, richiedendo il contributo della Magistratura, delle autorità di P.S., dei Comuni, e soprattutto di tutta la popolazione piemontese. Occorre conoscere di più e individuare con maggiore precisione le zone, le origini specifiche, le cause di fondo, le caratteristiche peculiari di ciò che accade in Piemonte e soprattutto nei grandi centri e in particolare nella città di Torino per poter operare sia gli interventi immediati, sia per impostare un vero e proprio piano di prevenzione a livello regionale che sia rivolto alla tutela della formazione ideale, culturale e sociale delle nuove generazioni.
Dall'altra occorre far partecipi a questo processo di conoscenza non soltanto tutti coloro che per dovere sono chiamati ad affrontare e a risolvere i problemi della prevenzione e della repressione dei fenomeni criminali, ma tutta la popolazione,compiendo un'operazione di saldatura di responsabilità individuale e collettiva, di partecipazione consapevole di tutti i cittadini, di tutte le forze democratiche per una nuova e diversa collaborazione con gli organi dello Stato preposti alla tutela dell'ordine democratico e repubblicano. Essi non attendono altro e tutti assieme non possiamo fare di meno.
Vi è consenso ad affrontare poi una questione di questo genere in una successiva sede di riunione? Credo di sì, anche per l'ordine dei lavori.
Chiede di parlare il Presidente della Giunta, ne ha facoltà.



VIGLIONE Aldo, Presidente della Giunta regionale

Signori Consiglieri, esprimo tutto l'apprezzamento e tutta l'adesione della Giunta alle linee che ha indicato il Presidente del Consiglio regionale.
Già in precedenza avevamo realizzato questo raccordo con tutte le forze presenti all'interno della comunità regionale (le forze della polizia, i Prefetti, il Commissario del Governo, i Comandanti delle varie armi dei Carabinieri e della Finanza, la società civile, le forze sociali) al fine di sconfiggere il fenomeno delinquenziale che avanza in misura massiccia.
Dichiaro a nome della Giunta regionale, che siamo pienamente disponibili con tutte le nostre risorse e le nostre capacità per concorrere ulteriormente perché questo processo riesca a superare la grave situazione in cui oggi ci troviamo.



PRESIDENTE

Ringrazio il Presidente della Giunta.


Argomento: Piani pluriennali

Dibattito sul Piano regionale di sviluppo 1976/1980


PRESIDENTE

Passiamo quindi allo svolgimento del punto quattordicesimo all'ordine del giorno: "Dibattito sul Piano regionale di sviluppo 1976/1980".
La parola al Consigliere Rossotto, Presidente della I Commissione, che illustrerà i risultati della Commissione stessa sul Piano regionale di sviluppo.



ROSSOTTO Carlo Felice, relatore

Signor Presidente e colleghi Consiglieri, la relazione che a maggioranza la I Commissione ha ritenuto di redigere sulla proposta di Piano regionale di sviluppo 1976/1980, a seguito delle consultazioni, è stata consegnata a tutti i colleghi, pertanto ritengo inutile una rilettura del documento.
La Commissione si era posta nell'ottica di valutare quanto fosse compatibile la proposta di Piano presentata alle forze politiche e sociali da parte della Giunta a metà luglio del '76 di fronte alle modificazioni non certo in termini positivi, della situazione economica generale del Paese e degli orientamenti delle linee di fondo su cui stentatamente sta avanzando un tentativo di ripresa e di rilancio della vita economica.
Nell'esame dei nodi esistenti a livello nazionale, nel rapporto con la comunità internazionale, nella logica di un'economia di mercato si pongono alcuni vincoli. E questo è stato messo in rilievo nel mese di dicembre valutando la dinamica dei rapporti sociali e la ricerca di ricucire rapporti sociali in un tessuto che molte volte ha conosciuto gravi fratture. La rigidità istituzionale, cioè la scala mobile, la forza contrattuale delle parti sociali, che indubbiamente in regime di economia di mercato ha e deve avere tutta la sua importanza, portano alle conseguenze ben note. Le ultime notizie pervenute registrano un deciso miglioramento, a parte le conseguenze positive del rientro di capitali dall'estero portate dalla legge 159. Vi è un'indubbia ripresa delle capacità di esportazione del Paese. Il deficit della bilancia dei pagamenti si è chiuso nel 1976 con 1000 miliardi soltanto di disavanzo, tenendo conto del settore energetico che ha alterato tutti i rapporti fondamentali. Tutto ciò vuol dire che vi è un indubbio passo positivo delle capacità di esportazione e produttive del Paese, fatto che forse non è stato sufficientemente esaminato in un momento in cui si parla sempre di crisi improduttive e determinate anche da carenza di concorrenzialità.
Una delle fasi fondamentali della politica degli anni 1947/48, per l'equilibrio delle condizioni economiche del Paese, era costituita dalle scelte einaudiane: oggi sono leggi impossibili. Esistono valori sociali ed economici a tutela di classi meno abbienti e questo è uno dei problemi di fondo su cui misurarsi.
Pertanto se si vogliono tenere fermi questi obiettivi, se si vogliono promuovere azioni verso le forze non impegnate nel lavoro, verso i giovani e verso le donne sempre più emarginate, se si vogliono risolvere i problemi del Mezzogiorno dove l'occupazione ufficiale raggiunge il tasso del 25 rispetto al 41% del Nord, credo che con la proposta del Piano si possano porre degli obiettivi positivi.
Tale proposta è stata motivo di ampie polemiche per i dati e per le strategie di fondo che essa contiene e credo che queste polemiche vengano ulteriormente evidenziate nel corso del dibattito. La Commissione ha ritenuto estremamente positive le osservazioni giunte anche da parte di coloro che non hanno sostenuto le tesi portate avanti nella relazione stessa. Si è comunque individuata la necessità di un allargamento della base produttiva che, anche a livello regionale piemontese, deve rispondere ad alcuni canoni precisi. Nelle pagide 6 e 7 della relazione sono stati individuati alcuni problemi.
Nessuno può ritenersi portatore di verità assolute e di avere individuato le scelte fondamentali di fronte alla carenza di dati, di fronte alla complessità di situazioni istituzionali. Si è ritenuto, in questa fase interlocutoria, di porre correttamente alcuni quesiti, come ad esempio, al punto a): "l'eliminazione dei flussi di immigrazione è compatibile con una politica di rinnovamento anche solo qualitativo e conseguente rinvigorimento della base produttiva regionale?"; e ancora: b) "una politica di equilibrio regionale dell'apparato produttivo è compatibile con quella del contenimento delle forze lavoro nell'agricoltura? Se tale compatibilità è ipotizzabile e realizzabile in base ad una precisa serie di interventi a favore dell'agricoltura, non esiste concreto il pericolo dell'accensione di nuovi flussi migratori dal Sud?".
Per il Comprensorio di Mondovì, dove si prospetta per il mese di dicembre una minima ripresa produttiva, si segnala da parte degli imprenditori la ricerca di manodopera in Sardegna e nel Friuli (avvantaggiandosi il termine può parere cinico di una situazione drammatica in quella località), proprio perché incomincia a mancare la manodopera nel posto. L'avvio di un'area industriale nella zona del Monregalese in presenza di una politica di contenimento delle forze giovanili nel settore dell'agricoltura, come si affronta? Questo non vorrebbe dire innescare processi che possono poi susseguirsi a tutti quei fenomeni negativi che ben conosciamo? Sono numerosi gli interrogativi.
Ma ritengo opportuno individuare altri elementi di attenzione da parte del Consiglio, che informano il significato di questa relazione. Il primo programma riguarda l'organizzazione e l'informazione per tutto quanto di attualità esiste nella realtà regionale, nel rapporto con i Comprensori che stanno nascendo. Essi possono operare nella logica ovvia di rappresentare un momento di partecipazione e di decentramento non soltanto nelle scelte ma anche nell'individuazione di una maggiore riproduzione democratica.
Il secondo programma è quello della diffusione dello sviluppo e contiene delle osservazioni, ovviamente opinabili, ma che a maggioranza sono state valutate positive, e centra anche l'estrema importanza che deve avere in questo processo il rilancio dell'economia regionale piemontese in senso qualitativo e non quantitativo.
E' inutile aprire la polemica sul capitolo dell'agricoltura e su ci che si è determinato e disperso nel settore agricolo,per ciò che esso ha sempre rappresentato in Italia in confronto alla politica industriale, per quanto ha pagato in passato e paga ancora ora la società. Sono grossi squilibri che oggi registriamo e vi è la necessità di un ricupero non soltanto in termini monetari ma anche in termini di civiltà e di rapporti diversi di socialità.
Altro problema su cui si è posto l'accento è quello che riguarda i maggiori poteri che potranno derivare alle Regioni con la legge 382. Non esiste una politica industriale propria della Regione, ma a una politica industriale concorrono altri fattori che interessano la Regione per cui occorre che ci sia una pronuncia precisa in questo settore.
Gli obiettivi sono stati individuati in maniera molto schematica possono rappresentare chiare indicazioni di fronte a continui fenomeni di ristrutturazione. E' recente il dibattito sulle aziende collegate all'Egam operanti nel Piemonte. Indubbiamente avremo altri settori che conosceranno per motivi di ristrutturazione e riqualificazione momenti di crisi e quelli potranno e dovranno essere momenti di verifica, la pietra filosofale su cui andremo veramente a confrontare le nostre scelte politiche. Vi è un mantenimento degli attuali livelli di sviluppo nei settori a comparti tradizionali.
Che cosa significa in effetti una politica a favore del Mezzogiorno senza assolutamente consentire certe attività tradizionali, ma che indubbiamente debbono essere continuamente riqualificate perché sia consentito il mantenimento degli attuali livelli di sviluppo? Senza contraddire le scelte meridionalistiche? Ognuno di noi si rende conto quanto siano importanti le scelte che si pongono.
Mi richiamo brevemente agli ultimi tre programmi del Piano. L'uso sociale del territorio è di competenza diretta della II Commissione. E' in fase di consultazione la legge urbanistica sull'uso del territorio, sulla quale esiste la necessità di alcuni ripensamenti, non critici, ma di adeguamento alla politica effettiva di programmazione. La legge è strumento di programmazione e costituisce un rapporto corretto ed esatto fra il Comprensorio inteso non come momento subordinato alla Regione, ma come organismo.
Ieri c'è stata la relazione del Consigliere Rossi sul consuntivo del 1975. Abbiamo riscontrato, e riscontriamo ancora, quanto è impossibile e difficile ricuperare disponibilità finanziarie e quanto sia necessario rivedere e riqualificare tutta la spesa pubblica. Sui servizi si pone indubbiamente un ampio discorso. La Regione deve cogliere questo momento per dare alcune indicazioni. Consideriamo quanto della quota trasferita al bilancio regionale viene assorbito e bruciato da situazioni poi di cattivo servizio. Questo termine ci viene fornito dai cittadini soprattutto nel settore ospedaliero. Consideriamo quanto questa voce venga a pesare sul bilancio regionale. Questo costituisce un altro momento di ripensamento che deve coinvolgere tutti noi e tutte le forze sociali.
Farò infine un accenno sulla formazione umana. Credo che su questo argomento si potrebbe fare dell'ampio lirismo e si potrebbero fare dei richiami continui alla dignità dell' uomo. Vorrei sottolineare che in una politica di sviluppo si impone come strumento primario, in merito alla riqualificazione nei settori dell'agricoltura e dell'industria, l'elemento umano e professionale e quanto poi questi rigiochino in termini più ampi nella creazione di cittadini coscienti in ogni momento, di fronte a qualsiasi fatto anche drammatico, come quelli ricordati questa mattina dal Presidente. Sono i dati di fondo che caratterizzano l'uomo che deve operare sulla faccia della terra nei rapporti con i suoi simili.
Ulteriori parole su questo rapporto non sono necessarie. La relazione avrà dei limiti nella capacità di analisi in tutta la grande tematica, ma ha voluto rappresentare in 47 pagine l'opera condensata di anni di fatiche e di scelte positive o negative. Sarà il dibattito che lo potrà dire.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Cardinali.



CARDINALI Giulio

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, siamo convinti che la Giunta avrebbe fatto volentieri precedere questo dibattito da una propria relazione, se non la Giunta, certamente il suo Presidente; una relazione di aggiornamento. Oggi viviamo in una dinamica tale che si riesce con difficoltà a cogliere il tutto in un quadro istantaneo e momentaneo.
D'altra parte il Piano non è più degli anni 76/80, ma è degli anni 77/80.
Sono comprensibili pertanto le difficoltà oggettive di una proposta come questa, che potrà essere realistica solo con la presenza di progetti specifici, definiti in quantità di finanziamenti e tempi di intervento. Il discorso quindi è ancora generale e necessariamente anche il nostro intervento sarà di carattere generale. Abbiamo fatto un'analisi attenta della proposta articolata della Giunta e dobbiamo riconoscere che da essa emerge una fotografia accurata della situazione regionale, definita al dettaglio, se arriviamo a consigliare alle industrie tessili e delle confezioni la produzione dei premaman per uscire dalla crisi. Si tratta però di una fotografia accurata, sulla quale si innestano delle indicazioni tuttora limitate a propositi che, come riconosce la Giunta stessa, sono legati a troppe variabili esterne, prima fra tutte la disponibilità dello Stato a fare la sua programmazione ed a finanziarla.
D'altra parte, sul Piano grava come ipoteca e questo è un altro riconoscimento che fa la Giunta la limitazione delle risorse e la rigidità della spesa regionale nel quadriennio. Sono tuttavia necessari degli obiettivi in modesta parte raggiungibili dalle forze della Regione e in gran parte ottenibili con l'azione di programma e di indirizzo regionale.
Qui intervengono i compiti istituzionali e la divaricazione oggettiva che c'è fra questi compiti e le ambizioni che sono emerse, in modo prevalente, al momento della Conferenza regionale sull'occupazione in cui la Giunta pareva inserirsi come interlocutore in grado di guidare e raccogliere indicazioni soprattutto nel settore industriale, che tuttora rimane un settore in crisi. In quella Conferenza venne evidenziato, da parte della Giunta, un proposito che non ha avuto conseguenze reali e concrete; è rimasto nel campo delle ambizioni. Non lo diciamo con soddisfazione o con compiacimento di rivincita, al contrario, lo diciamo con amarezza, perché in quella circostanza e stranamente il giudizio è concordante con quello dell'attuale Ministro dell'industria la Regione non pareva l'interlocutore valido in grado di assicurare interventi concreti.
Sono validi gli obiettivi posti nel Piano dalla Giunta, quando parliamo dello sviluppo regionale e dell'occupazione. Non andiamo a vedere se l'occupazione nel quadriennio è prevista in 134 mila unità di lavoro e se queste potranno determinare nuovi flussi di immigrazione dal Sud. Riteniamo che questo sia un obiettivo che può porsi, entro il quale può essere verificato tutto lo sforzo regionale e coerentemente portato avanti l'impegno della Regione.
E' evidente che i problemi Nord-Sud permangono all'ordine del giorno.
E' un problema che oggi può essere risolto non tanto con interventi che necessariamente potrebbero rivelarsi improduttivi, quanto con un vasto intervento di carattere infrastrutturale che possa consentire, al Sud, la valorizzazione delle sue caratteristiche peculiari sulle quali si innesterà il suo sviluppo. Non è opinabile che si possano ripetere i fenomeni tipo quello dell'Alfasud, con interventi che portano alla costruzione di macchine che già in partenza hanno un costo sproporzionato a quello della vendita. Quindi è un obiettivo ammissibile, non certamente un obiettivo fantasioso come si è anche detto in certe polemiche di giornali, obiettivo sul quale occorre coerentemente spingere tutta l'azione regionale.
Quali saranno i campi effettivi di intervento? Vorrei astrarre dalle grandi denominazioni, dai grandi capitoli, di cui ha già parlato il collega Rossotto, per vedere esattamente in quale direzione la nostra pianificazione avrà successo, con quali strumenti potremo efficacemente contribuire non soltanto ad avviare una programmazione nazionale, ma a valorizzare i nostri interventi e a rendere operante la nostra presenza nell'ambito della Regione. Il primo elemento di fondo è quello di una efficiente burocrazia regionale, che possiamo realizzare con mezzi nostri.
Siamo quindi d'accordo su tutti i problemi relativi all'informazione.
Un'efficienza che consenta la rapidità delle spese stanziate, delle istruttorie delle varie pratiche, l'anticipazione se si vuole dei fenomeni che possono interessare e quindi determinare le decisioni legislative della Regione. Gli altri interventi sono ovviamente di carattere promozionale ed incentivanti in settori già sperimentati. L'agricoltura, i trasporti pubblici e l'istruzione professionale permangono i tre campi di fondo.
Sull'agricoltura sono già emerse polemiche al momento della votazione delle leggi sulle norme CEE. Trattasi di un settore in cui l'operatività regionale è completa, si è realmente ed obiettivamente fatto uno sforzo che deve tendere non solo alla razionalizzazione dell'agricoltura piemontese ma all'elevazione fondamentalmente del reddito unitario degli addetti, per mantenere gli agricoltori sulle terre, per invogliare forze di lavoro soprattutto giovanili, a ritornare sulle terre a condizioni di guadagno e di vita analoghe a quelle di altri settori. Questo, secondo me, è un obiettivo sul quale gli sforzi finanziari della Regione possono essere portati avanti utilmente.
Trasporti. La pianificazione generale e la legge quadro sui trasporti configurano un intervento indispensabile che privilegia il trasporto di carattere pubblico in un momento di crisi energetica. Il nostro intervento ha anche la fondamentale caratteristica di dare un immediato impulso ad un'attività produttiva, che può oggi trovare anche nel campo della monocultura una diversificazione all'interno della monocultura stessa realmente efficace.
Istruzione professionale. Non abbiamo ancora speso tutte le parole necessarie. Credo che si debba quanto prima aprire in Consiglio regionale un serio dibattito sull'argomento specifico.
Ritengo che rappresenti una delle leve più importanti che ha in mano la Regione per intervenire, sia in termini congiunturali che in termini di preparazione ad una serie di attività diversificate, che non emergono spontaneamente a causa della troppa facilità di concentrazione in settori che appaiono immediatamente redditizi, ma che in realtà non hanno questa caratteristica. Se vogliamo effettivamente arrivare ad una diversificazione dell'attività industriale, è indispensabile formare quadri professionali sganciati dalle ambizioni dell'Università a tutti i costi, per realizzare nuovi tipi di obiettivi e per offrire possibilità alternative.
In merito ai servizi sociali, è evidente che nella relazione della Giunta è detto tutto. Credo che il tutto possa essere certamente accettato a livello di aspirazione. Occorre però una scelta prioritaria chiara e credo che possa avvenire esclusivamente in una direzione: quella dei servizi sociali sanitari. La riforma sanitaria è la sola oggi indilazionabile in Italia, in assenza della quale non c'è possibilità di razionalizzazione di vasti settori e di servizi collegati, che devono necessariamente rispondere alle esigenze delle popolazioni.
Ciò che non rientra in queste finalità deve essere accantonato.
L'ipotesi di perseguire una politica di estensione a macchina d'olio nella costruzione di asili nido, rappresenta, soprattutto per le implicanze a livello di bilanci comunali, non dico una follia, ma certamente un lusso e un dispendio che, in questo momento, non offre possibilità in grado di modificare in termini produttivi la situazione regionale.
Territorio e pianificazione di carattere urbanistico. Rappresentano, ed è ovvio, la magna pars della proposta della Giunta, in quanto si tratta di strumenti a disposizione immediata della Regione e quindi possibilità di intervento. Ebbene, temiamo che in questo settore si annidino i maggiori rischi per il Piano di sviluppo. I rischi dipendono dal fatto che in questo tipo di pianificazione abbiamo la sensazione di trovarci di fronte a una valutazione di carattere statico e non di carattere dinamico. Riteniamo che un Piano di sviluppo fatto fermando tutto in attesa di ottenere determinate evoluzioni, sia la negazione di quello che invece crediamo debba essere fatto: un Piano in corsa, un Piano che tenga conto della realtà dinamica che la coordini, che la indirizzi, ma non la mortifichi.
Riteniamo che la pianificazione territoriale possa contenere notevoli elementi di rischio, che finirebbero per diventare l'elemento veramente paralizzante dello stesso Piano di sviluppo, anche nei settori che si vorrebbero privilegiare e valorizzare. Si tratta di avere una visione diversa, che si inserisca in una realtà certamente da non accentuare, da non valorizzare, ma che non può essere paralizzata per 5/6 anni in attesa del perfettibile.
Evidentemente i poteri per muovere le leve, per dare un vasto respiro alla programmazione regionale non sono molti. Quelli che emergeranno dalla legge 382 certamente contribuiranno a migliorare le nostre possibilità.
Occorre che l'uso di questi strumenti sia fatto con intelligenza e capacità.
Qui parliamo degli strumenti fondamentali, la Finanziaria regionale e l'Esap, e diciamo che dovranno essere utilizzati in modo diverso. In merito alla Finanziaria regionale abbiamo già detto che non possono esserci molte ambizioni.
Ma la Finanziaria avrà mancato uno dei suoi scopi fondamentali se non verrà indirizzata come elemento coordinatore della politica bancaria nel Piemonte, come elemento che intervenga nella determinazione dei meccanismi del credito oggi essenziale, come è stato osservato ieri nella discussione sulla legge per l'artigianato.
Il sistema bancario va revisionato. Non compete a noi, ma compete allo Stato. Se questo sistema rimarrà affidato ai meccanismi di tipo automatico o di tipo accumulativo, difficilmente si potranno modificare altre cose che invece ci premono.
Attendiamo la definizione completa, la configurazione concreta dei provvedimenti, li valuteremo, scevri da qualsiasi considerazione aprioristica, cercheremo di portare il nostro apporto. I mezzi a nostra disposizione non sono molti, ma certamente efficaci se li indirizzeremo bene e se sapremo realmente valorizzarli nell'interesse delle nostre popolazioni.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Alberton, ne ha facoltà.



ALBERTON Ezio

Il Piano regionale arriva in aula dopo circa 10 mesi dalla sua presentazione, ed a tre mesi circa dalla fine delle consultazioni. In tutti questi mesi ci sono stati lunghi dibattiti e molte polemiche. La Democrazia Cristiana ha il dovere di illustrare con sufficiente compiutezza le sue posizioni. Mi scuserete quindi se il discorso non sarà breve.
E' a carico del Consiglio regionale un giudizio sulle consultazioni che si sono tenute. Esse hanno interessato associazioni, organizzazioni, Enti locali. Si devono registrare profonde critiche che associazioni industriali, organizzazioni sindacali e Camere di commercio hanno rivolto alla proposta di Piano. Dobbiamo positivamente consuntivare la presentazione, da parte di varie associazioni, di documentazione valida che serve a chiarire gli obiettivi, le proposte e la disponibilità in termini sia politici sia di strumenti che possono essere messi a disposizione della Regione.
Per quanto riguarda gli Enti locali, crediamo doveroso mettere in evidenza la loro scarsa partecipazione. I Comuni che hanno partecipato alle consultazioni dei Comprensori hanno oscillato tra il 10 ed il 20%. Avevamo evidenziato questo rischio già in sede di discussione sulle procedure delle consultazioni.
L'On. Libertini, in un articolo sul Piano di sviluppo apparso su un giornale torinese, lamenta che le consultazioni sono state troppo lunghe denuncia il ritardo nella discussione del Piano di sviluppo, attribuendo la causa al livello zero da cui la Giunta regionale ha dovuto partire.
La Giunta ha presentato questo Piano "aperto". Fin dall'inizio abbiamo detto che era troppo aperto, che offriva scarsi agganci dialettici, con il rischio di mettere le componenti sociali, istituzionali e politiche di fronte all'alternativa di prendere o lasciare.
La partenza da zero, secondo noi, è stata voluta. Si è voluto rompere con le esperienze, con i metodi, con il processo di pianificazione piemontese così come si era venuto a consolidare. Val la pena di ricordare alcuni aspetti della storia della programmazione in Piemonte. Essa è una maturazione comune a tutte le espressioni politiche sociali. Il Piemonte è stata una delle prime Regioni che ha potuto vantare il sorgere di questa esperienza, ha saputo individuare i grandi obiettivi che le stavano di fronte: lo sviluppo dell'occupazione, la diversificazione, l'equilibrio territoriale, la diffusione dello sviluppo.
Si sono registrate nel passato convergenze su questi obiettivi e anche sulle grandezze economiche che erano in gioco. A questi grandi obiettivi si sono aggiunti ulteriori vincoli.
L'inserimento della Regione in una economia aperta, sempre più inserita in un contesto di economia internazionalizzata e soprattutto l'accettazione dello sviluppo del Mezzogiorno: quest'ultimo non è solo un auspicio, bensì un fattore che può significare anche dure realtà per la nostra Regione. La legislazione meridionalistica a livello nazionale, la legge 183 ed il progetto di riconversione industriale, che impongono duri vincoli soprattutto per i grandi gruppi nel processo di diversificazione e di riconversione industriale, ne sono esempi.
Lo sviluppo della programmazione, alla quale crediamo che anche il nostro Partito abbia dato il suo contributo, ha consegnato alle forze politiche che oggi governano la Regione le analisi settoriali per la diversificazione produttiva, le strutture per il Piano, la legge dell'Ires una serie di strumenti per gli interventi nella gestione del Piano (ricordiamo le aree attrezzate, i Comprensori, la Finanziaria e il Centro di calcolo, tutti momenti di elaborazione, di varo di leggi della precedente Amministrazione). Che senso ha allora affermare che si è dovuto partire da zero? La maggioranza di sinistra e la Giunta da essa espressa hanno voluto operare una soluzione di continuità nell'esperienza della programmazione, volendo far discendere il Piano non dal patrimonio di studio, di elaborazione, di confronti accumulati in 15 anni, ma da una nuova metodologia di definizione dei problemi. Questa metodologia si è tradotta dapprima nella Conferenza sull'occupazione, da cui la Giunta disse di far dipendere il proprio programma ed in particolare la definizione del proprio Piano di sviluppo regionale.
Crediamo di poter affermare, come ha già fatto il collega Cardinali che la Conferenza non ha prodotto in realtà alcun risultato politicamente apprezzabile, e questo l'avevamo denunciato fin dal suo sorgere. Lo si pu verificare dai giudizi emersi durante le consultazioni. Vogliamo ricordare che Enti molto diversi per la loro rappresentanza sociale ed economica hanno espresso giudizi critici. Le organizzazioni sindacali, al di là di un assenso sulla filosofia del Piano, affermano che "il giudizio viene sospeso, si riscontra mancanza di obiettivi; si riscontra l'assenza di un'indicazione operativa". Queste sono affermazioni verificabili dalla documentazione delle consultazioni. L'Unione Industriale parla di "inventario problematico descrittivo, di mancate definizioni di competenze di Piani messaggio"; la Camera di Commercio di "mancanza di analisi sulle connessioni tra le diverse componenti del programma obiettivo, l'assenza di quantificazioni fisiche e finanziarie", e denuncia il Piano come "un fatto interno all'Amministrazione regionale".
Il fallimento di questo metodo ed il venir meno di un metodo in assoluto non è stato privo di conseguenze. A nostro parere ha alimentato il settorialismo, l'episodicità, il prevalere di un generico e sovente controproducente attivismo.
Manca un metodo razionale di impostazione dei problemi, di individuazione delle connessioni, determinando una carenza, una distorsione che rendono dubbio che si possa parlare del documento come di un "Piano" tanto nella accezione politica quanto in quella tecnico-scientifica del termine.
Soffermarci sul metodo non significa eludere la sostanza dei problemi od indugiare in disquisizioni che non incidono sui meccanismi della programmazione; consistenza logica e praticabilità politico-istituzionale del Piano finiscono infatti per coincidere largamente.
Un concetto di programmazione regionale adeguato alla struttura economica e istituzionale italiana deve partire da alcune considerazioni di fondo. La Regione non è un sistema socioeconomico e territoriale chiuso nella Regione operano una molteplicità di operatori (istituzionali economici, sociali e culturali); l'Ente Regione ha competenze costituzionalmente definite e, a prescindere dall'aspetto giuridico, non è né l'unico né il primo, nel senso di forza-soggetto che guida la dinamica della comunità regionale. Il comportamento dell'Ente Regione ha però una rilevanza particolare per il ruolo condizionante che alcune delle sue competenze esercitano sul processo di sviluppo. Al di là delle sue competenze istituzionali, l'Ente Regione costituisce comunque un punto di riferimento politico che non può essere disconosciuto dall'insieme degli altri operatori presenti nella Regione, come dagli stessi operatori nazionali.
E' per questo che già in diverse occasioni abbiamo attribuito al Piano regionale di sviluppo nella sua essenza almeno tre valenze: un contributo alla programmazione nazionale, di cui quella regionale non è una semplice disgregazione territoriale un progetto di sviluppo presentato alla comunità regionale per fornire coerenza al comportamento di tutti gli operatori una predeterminazione del comportamento dell'Ente Regione nell'esercizio della sua attività politica, legislativa ed amministrativa.
Presenta un particolare rilievo il sistema di rapporti che si costruisce fra la Regione e lo Stato, tra la Regione e gli altri operatori pubblici e privati. Questo sistema di rapporti ci sembra non venga delineato se non per frammenti, e anche contraddittori, che esprimono talvolta tendenze tra loro contrastanti in ordine al modo stesso di concepire il procedimento di programmazione. L'unico rapporto chiaramente individuabile tra Regione e comunità regionale è dato da una ricerca indiscriminata del consenso, attraverso la rinuncia a presentare troppe volte i problemi e le prospettive nella loro reale configurazione anche dura, anche crudele; la rinuncia quindi ad obiettivi non generici, ma circostanziati, che fissino precise priorità, che indichino percorsi ed impegni che non siano semplici rinvii a future scelte legislative.
Il continuo rimando a comportamenti e ad operazioni dell'Amministrazione centrale ed all'evoluzione complessiva del quadro economico su scala italiana e internazionale, senza verificarne margini tempi e possibilità, se rende possibile la proposizione di qualsiasi obiettivo avendo eliminato i vincoli possibili, vanifica al tempo stesso la sostanza della politica di programmazione, che non si sviluppa in un modo astratto, ma in un contesto storico ben definito che richiede quindi la presa in considerazione delle diverse alternative che possono presentarsi.
In altre parole, il documento troppo spesso fa discendere tutte le possibilità di realizzazione degli obiettivi assunti dal prodursi di condizioni di azioni esterne da essa non controllabili e solo in alcuni casi influenzabili. La messa a fuoco del processo di pianificazione è ancora oggi un fenomeno che deve coinvolgere tutte le forze politiche. Si deve sottolineare come la Regione rinunci troppo spesso a indirizzare il comportamento dei vari operatori, non proponendo obiettivi precisi e verificati; non si prefigura con sufficiente specificazione di obiettivi quantificati, di risorse mobilitate, di strutture e di strumenti, il comportamento della Regione stessa.
Sin dall'inizio è già emersa l'indispensabilità della legge sulle procedure della programmazione che, secondo noi, è il cardine della programmazione. In essa dovrebbe trovare spazio la definizione dei modi di collaborazione tra Giunta, Commissioni e Consiglio nell'elaborazione del Piano; dei modi e dei tempi della partecipazione delle forze sociali ed economiche; della saldatura fra il programma, il bilancio, le leggi di spesa, i programmi di settore, il processo di verifica del Piano. In essa si dovrebbe trovare (questo ci interessa più direttamente) la definizione dei rapporti tra Consiglio e Giunta sui momenti di conoscenza, che crediamo siano di diritto comune tra Giunta e Consiglio (parliamo del Consiglio nel senso di rappresentatività di tutta la comunità regionale). In questo senso dobbiamo ricordare le affermazioni della Giunta, date al momento dell'elaborazione del Piano, atte a garantire la partecipazione all'elaborazione del Piano e che invece sono state completamente disattese.
Ci troviamo a febbraio del '77, con un documento Ires che risale al novembre '75, con un Piano di sviluppo della Giunta elaborato senza la minima partecipazione del Consiglio e degli altri interlocutori regionali.
Dove e in che modo la Giunta ha inteso rispettare l'impostazione affermata di voler rapportarsi con l'Ires? Abbiamo già detto in altre occasioni che ci troviamo di fronte ad una assenza di valutazione politica sul documento del novembre '75 e che è impossibile per noi, come per altri, verificare in quale modo le scelte della Giunta possono modificare il quadro previsionale emergente da quel documento, in quanto profonde differenze di previsioni esistono tra documento Ires e documento Giunta.
Queste discordanze di previsioni tra Ires e Giunta portano ad una conclusione: vengono scartate quelle dell'Ires perché politicamente non accettabili. Si mescolano i rapporti dell' Ires ed i contributi delle Commissioni e il tutto alla fide viene condito con la volontà politica, che troppo spesso diventa velleità politica. La carenza dei metodi di rigorosità politica, non solo scientifica, emergono dal tanto discusso quadro di riferimento al 1980 della popolazione e dell'occupazione. Questo non è esercitazione matematico-accademica. Il modello econometrico demografico, messo a punto dall'Ires nel '73, non ha retto ai mutamenti intervenuti a seguito della crisi energetica e dei suoi riflessi sul settore auto Fiat, ed è quindi diventato uno strumento inagibile.
Per il 1974, questo modello prevedeva un incremento di popolazione di 29 mila unità e l'incremento reale è stato di 15 mila; per il 1975, una previsione di 31 mila unità e si è registrato un aumento di 3800; per il 1976, la previsione stimava più 33 mila unità ed i dati relativi ai primi 6 mesi indicano un incremento di 1500. Ciò era evidente quando è stata redatta la proposta di Piano; rimane pertanto legittimo il dubbio sui motivi che hanno consigliato la sua utilizzazione.
Questo l'avevamo denunciato sei mesi fa. Ci furono prima delle contestazioni anche acide, poi dei silenzi. Ora c'è l'articolo dell'On.
Libertini, "l'avevamo detto subito anche noi". Nuovasocietà, tuttavia, che è organo del Partito comunista italiano, seppure si fregia del motto "Conoscere la realtà per trasformarla", continua con arroganza, ancora negli ultimi numeri, ad accusare di ossessione nevrotica chi svolge queste critiche. Ecco perché continuo a dire queste cose.
Queste sono le tesi della Democrazia Cristiana, consolidate attraverso ampi dibattiti al suo interno; tesi su cui si può consentire o dissentire.
Non occorre andare a ricercare paternità personali: chi ha voglia di contraddire e di polemizzare lo faccia con la Democrazia Cristiana e non con questo o quell'altro personaggio.



MINUCCI Adalberto

E' difficile parlare con la Democrazia Cristiana, non esiste, è astratta.



BIANCHI Adriano

Qui ce n'é una concreta con la quale misurarsi.



ALBERTON Ezio

Al modello demografico si fa derivare la previsione dei 134 mila posti lavoro.Collega Cardinali, crediamo che su questi temi qualcosa in più si debba dire e non si possa pensare che siano numeri indifferenti, citati a caso, perché predeterminano, per noi, per l'economia nazionale e per altri operatori pubblici o privati, dei punti di riferimento indispensabili.
Dopo averlo valutato come un obiettivo che la Giunta avrebbe realizzato, esso è diventato un'ipotesi; oggi é, ancora una volta cito l'On. Libertini, una previsione sbagliata. Se tutto non era che un puro gioco di numeri, si è dovuto prendere atto che l'obiettivo non era n scientificamente né politicamente proponibile. Se parliamo di obiettivi programmatici rispetto ai quali non è sufficiente un'affermazione di astratto volontarismo politico, occorre una dimostrazione rigorosa della loro fondatezza e perseguibilità, condizioni che nel caso in questione non si verificano.
Relativamente all'eliminazione del saldo migratorio direttamente connesso al processo di industrializzazione del Mezzogiorno, pare altamente improbabile che sia possibile, per quanti sforzi di localizzazione di nuovi insediamenti si facciano nei prossimi quattro anni, raggiungere, nelle aree meridionali, livelli di piena occupazione nel 1980. Non per nulla il modello demografico e gli studi dell'Ires, pur con tutte le imperfezioni che abbiamo registrato, collocavano non al 1980, ma al 1986, l'annullamento di questo saldo.
In secondo luogo ulteriori e più consistenti flussi migratori sarebbero determinati proprio dal verificarsi delle ipotesi assunte dalla Giunta come obiettivi programmatici nella formazione di posti-lavoro nell'industria nella misura indicata.
In terzo luogo, ci si deve addirittura chiedere se in presenza del radicale mutamento che si è manifestato negli ultimi anni, nella dinamica demografica e stante le modificazioni intervenute nella struttura qualitativa del mercato del lavoro regionale, sia possibile un mantenimento dei livelli occupazionali in assenza, nel breve o medio periodo (prima cio che si possano realizzare significativi cambiamenti nel sistema industriale piemontese), di un saldo migratorio attivo.
Anche la relazione Rossotto, a nome della maggioranza, evidenzia esplicitamente una serie notevole di interrogativi. Le risposte condizionano sostanzialmente le proposte di Piano.
Livelli occupazionali. La Giunta propone, indica e prevede: la stabilità nell'agricoltura, a livello di 230 mila posti di lavoro, la creazione di nuovi posti nell'industria. (circa 80.000) e nel terziario (circa 55.000). Il mantenimento dei livelli di occupazione agricola, in presenza di un elevato grado di senilizzazione della popolazione rurale, si presenta non solo come improponibile, ma in netto contrasto con l'esigenza più volte riaffermata nel documento, di migliorare la struttura agricola aumentare la produttività del settore, puntare sulla professionalità degli operatori.
Sono disponibili le cifre del consuntivo del passato e delle previsioni fatte da altri istituti circa questo settore. Per offrire un punto di riferimento quantitativo, si ricorda che le ultime valutazioni dell'Ires sull'evoluzione dell'occupazione agricola al 1980, stimavano una caduta variabile tra le 40.000 e le 135.000 unità rispetto al 1975, a seconda che si facessero semplici interventi di razionalizzazione o si intervenisse più pesantemente così come richiedono e pretendono le direttive CEE. L'Ires denuncia dubbi sulla portata piemontese delle direttive comunitarie. La Giunta non fa in questo senso previsioni; tra il 1975 ed il 1976, si riscontra una caduta di 25 mila posti di lavoro in agricoltura. Anche in questo caso, l'ipotesi-obiettivo, fondata su un maggiore impegno agricolo (ma che non tenga conto dei maggiori livelli di produttività che in questo settore devono essere raggiunti), si presenta come un'operazione non credibile, né politicamente, né scientificamente. Casualmente non si dice come questo obiettivo possa essere di fatto raggiunto.
Terziario: l'aumento può essere confrontato con l'aumento ipotizzato dall'Ires (55 mila da parte della Giunta, 46 mila da parte dell' Ires) anche se esso va depurato per gli errori del modello demografico. Ma attenzione! Lo sviluppo del terziario superiore è senz'altro una condizione vincolante e necessaria per il nostro Piemonte; sulle previsioni Ires dei 46 mila posti in più, 42 mila erano nel settore pubblico (istruzione e sanità), solo 4 mila nel settore privato. Allora si pone il grosso problema della correlazione di questa previsione con i problemi della spesa pubblica. Si deve prestare particolare attenzione alla concentrazione territoriale del terziario qualificato, soprattutto quello pubblico. E' uno sviluppo auspicabile, ma esso pretende un forte aumento di produttività al suo interno e in tutti gli altri settori economici. Solo così svolgerà un effetto antinflazionistico e potrà dare un contributo al superamento della disoccupazione giovanile.
Settore industriale. Forzata ed arbitraria appare la previsione di sviluppo dei posti di lavoro nell'industria. Si consideri che un incremento di 79 mila occupati nell'industria in 5 anni va posto a confronto con l'incremento di 18 mila unità del decennio '63-'73 (quando la Fiat era un'industria traente), va posto a confronto con 190 mila posti di lavoro in più creati nel ventennio '51-'71, va posto a confronto con il processo di riconversione e di ristrutturazione che l'apparato industriale piemontese sta attraversando e con il fatto che anche in questi ultimi mesi di ripresa produttiva il livello di utilizzazione degli impianti non è ancora alla soglia di saturazione, e che, nel 1975, ben 35 mila posti di lavoro circa sono stati coperti con la Cassa integrazione.
Rimane necessaria un'analisi quantificata della dinamica dei diversi settori industriali, del volume degli investimenti necessari, analisi che non viene svolta in alcuna parte del documento.
Si ipotizza un numero di posti di lavoro maggiore che nel periodo '58 '62, fondandosi sull'aumento della femminilizzazione. Crediamo questo un obiettivo irrinunciabile alla programmazione regionale, ma non porlo correttamente in un lasso di tempo e dare l'illusione che questo obiettivo sia risolvibile nei tempi brevi che stanno tra qui e I"80, non corrisponde assolutamente ad un processo di pianificazione che porti a conoscenza di tutta la comunità regionale la durezza dei problemi.
Prima di procedere ad ulteriori analisi, desideriamo richiamare i due nodi ai quali possiamo imputare il carattere "bloccato" che ha assunto l'economia italiana in questi ultimi anni: una inadeguata crescita della produttività e l'inflazione.
La proposta di Piano contiene parecchie pagine di analisi e di proposizioni politico-ideologiche sui problemi generali del Paese e del mondo. Non stiamo a riprenderle tutte per confutarle. Abbiamo svolto recentemente un dibattito sulla politica economica complessiva e ci sembra sufficiente. Dobbiamo dire, però, che il primo nodo, quello dell'inadeguata crescita della produttività, nel documento di Piano è completamente ignorato. Esso riguarda non solo il sistema produttivo industriale, ma certamente tutto il sistema sociale, è determinante come chiave d'interpretazione di fenomeni recessivi e di possibili riprese di settore tanto più se si vuol valutare positivamente la piena accettazione del processo di integrazione dell'economia piemontese nel quadro internazionale europeo, bisogna portare con attenzione il discorso su questo tema.
Forze politiche della Giunta oggi scrivono che "La progressiva realizzazione del Mec. può consentire la rimozione del Piemonte dalla condizione di area marginale del sistema italiano per renderla area di raccordo tra il sistema italiano ed alcuni Paesi confinanti". Sono lontani i tempi in cui chi diceva questo veniva accusato di compiere una scelta anti-meridionalistica e di essere quasi favorevole all'Europa dei monopoli.
Nulla traspare della consapevolezza che pur ha animato i recenti accordi Sindacati e Confindustria, anche se li giudichiamo ancora insufficienti.
Poco vale allora parlare di promozione all'esportazione se non si ha il coraggio di compiere le analisi sui fattori che ne condizionano alla base la possibilità.
Ricordiamo anche certe affermazioni, perlomeno intempestive: "No al congelamento del la scala mobile", anche se poi si è dovuto da tutti prendere atto che interventi su questo meccanismo erano indispensabili. Di fronte alla natura dei problemi complessivi che si pongono all'economia italiana, è evidente che le possibilità di intervento delle Regioni in riferimento a tali questioni sono notevolmente limitate.
Se non deve essere sopravvalutata la portata dell'iniziativa regionale questa non di meno non può essere sottovalutata. Il recupero di produttività del sistema sociale, amministrativo, territoriale, passa in larga misura attraverso le nostre competenze. Quando si cita l'indebitamento netto annuo dello Stato, dobbiamo ricordare che il 250/o è dato dall'indebitamento degli Enti locali nel loro complesso.
Prescindendo ora da questi problemi di ordine generale, rimanendo ai flussi finanziari ipotizzati nel periodo di Piano ed alla tematica della locazione delle risorse, si deve osservare la mancanza di qualsiasi quantificazione economica finanziaria dei cinque programmi-obiettivo che renda credibili i programmi di investimento sociale; ciò, se rende arduo un giudizio sul terreno finanziario, ci sembra che renda ancor più difficile un giudizio di merito.
In difetto di questa quantificazione, l'enunciazione dei cinque programmi-obiettivo, rischia di diventare un quadro più o meno completo della situazione esistente e delle esigenze. In effetti, dall'esame dettagliato dei cinque programmi si deve osservare che essi non offrono il minimo accenno di quantificazione finanziaria delle proposte indicate. E' pur vero che non tutta l'attività della Regione si risolve e si esplicita attraverso un'attività di erogazione di spesa e rimane a sua disposizione un largo spazio di intervento organizzativo, legislativo, non necessariamente finanziario.
Per questo, sarebbe stato più utile ed opportuno che il dibattito che la Giunta ha inteso aprire sulla sua "proposta", avesse potuto vertere anche sulle indicazioni dei progetti di spesa, sulle opzioni, sulla priorità, sulla quantificazione delle risorse impegnate, tanto più se si considera il rischio di un eccessivo ottimismo sulla valutazione, per esempio, dei tassi di interesse dei mutui previsti al 12/13%.
C'è il forte rischio lo ricordava il collega Cardinali di poter erogare solo più i servizi esistenti con i dovuti relativi adeguamenti monetari.
Proprio per questo, la carenza di ogni quantificazione di spesa si fa più grave. La parte di Piano "programma obiettivo di organizzazione e informazione" è certamente tra le più rigorosamente sviluppate. Emergono a questo punto i problemi più rilevanti della programmazione regionale elaborati e messi a fuoco da tutta l'esperienza di programmazione del Piemonte, la diversificazione produttiva e il riequilibrio territoriale resi purtroppo più complessi dal problema della struttura del mercato del lavoro così come si presenta oggi in Piemonte.
Sono a nostro parere ancora una volta rilevabili carenze di metodo e di contenuto. La questione che si presenta in questo campo non è certo rappresentata dal grado di insistenza con cui si afferma di voler perseguire questo obiettivo, ma dalla scelta dei filoni che si ritiene possibile attivare nella nostra Regione. Questa scelta non viene compiuta facendo affidamento, in modo acritico e indimostrato, sui "benefici effetti" che dovrebbe avere sull'economia piemontese lo sviluppo, che su scala nazionale avranno i diversi settori industriali. Tale problematica è strettamente connessa al rapporto che si vuole stabilire tra il Piemonte e le altre aree europee da un lato e tra il Piemonte ed il Mezzogiorno da un altro.
Una consapevole collocazione del Piemonte nel quadro europeo, in funzione di area-cerniera e il rapporto con l'Italia meridionale, comporta anche una serie di scelte in ordine alle attività produttive da innescare o potenziare nella nostra Regione, le quali debbono essere coerenti a questa funzione di ponte.
L'annoso problema della diversificazione dell'apparato produttivo non può essere visto soltanto in riferimento alla crisi economica degli ultimi anni, anche se essa ha accentuato questa esigenza e ristretto i tempi a disposizione. Per individuare con realismo effettivi filoni di sviluppo occorre porsi lucidamente nel sistema delle convenienze internazionali e nel quadro degli indirizzi da assumere per un effettivo rilancio del processo di industrializzazione del Mezzogiorno. In più occorre fare i conti con le virtualità, le potenzialità di sviluppo che presenta la struttura industriale piemontese, nelle sue diverse componenti imprenditoriali, tecnologiche, di volume e di qualità della forza di lavoro.
Pensare che si possono attivare contemporaneamente, e nel Mezzogiorno e nel Piemonte, tutta un'ampia gamma di settori, dall'elettronica alla costruzione dei mezzi di trasporto collettivo, alla chimica fide, non solo è un azzardo, ma è il rifiuto di compiere le scelte che si impongono, con l'unico risultato rischioso che, se verranno confermate le indicazioni a favore del Mezzogiorno, il Piemonte si troverà privo di una sua strategia diversamente, se si vorrà forzare una localizzazione in Piemonte sarà il Mezzogiorno a pagarne le conseguenze.
Non appaiono quindi convincenti le ipotesi di sviluppo industriale contenute in questa proposta, nella misura in cui il ventaglio dei filoni e dei settori è troppo ampio e vengono schivate le scelte di fondo che in sede di pianificazione dovevano essere compiute.
Riprendendo un'osservazione già avanzata, si deve poi rilevare come non venga neppure tentata una valutazione degli investimenti occorrenti in ciascun settore, in relazione alla dinamica occupazionale che si vuole garantire, i tempi e le modalità dello sviluppo, le iniziative di cui deve farsi carico la Regione, le dimensioni e la potenzialità della domanda pubblica auspicata. Vengono ripresi nel Piano alcuni dei filoni emersi dalla preparazione degli anni precedenti. Ancora una volta la Regione non partiva da zero.
Si evitano le indicazioni, là dove appaiono negative e non confutabili: ad esempio, nel settore tessile. Si procede con forzature, se guardiamo al settore della chimica, sia per quel che riguarda le fibre che per la chimica secondaria.
Tutti gli esperti del settore dichiarano che è necessaria una maggiore produttività, una maggiore specializzazione, un maggior coordinamento nazionale, una maggiore concentrazione, una maggiore ricerca; che esiste certamente una domanda, ma che esistono anche fortissimi concorrenti.
Eppure si dice: "si svilupperà", sia riferendosi alle fibre sia alla chimica secondaria. Si dimentica, per le fibre, che se si svilupperà, si svilupperà al Sud. I settori da coltivare maggiormente sono il meccanico e l'elettromeccanico che, senza Fiat e il settore dei beni strumentali occupa ben 150 mila addetti nella nostra Regione. Nel documento non se ne parla.
Sul tema della diversificazione, certo, la Regione ha scarsi poteri diretti, ma non si può giocare solo sullo scarico di responsabilità sul Governo. Non si indicano livelli di responsabilità. Il Piano appare chiuso costruito a tavolino all'interno della Regione.
Riteniamo che la Regione debba diventare un interlocutore valido e debba costringere il Governo ad essere un interlocutore valido della Regione. Se vogliamo costruire questi piani di settore, abbiamo bisogno di elaborazioni ben più approfondite a livello della nostra Regione altrimenti i piani di settore saranno fatti a livello nazionale.
Si dice che la legge di riconversione industriale deve essere riformata nella parte di competenza da assegnare alla Regione. Crediamo che in essa esistano già presupposti notevoli per l'esercizio di responsabilità specifica da parte della Regione, tanto più quando nessuno vuole contestare le esigenze di un forte coordinamento nazionale dell'economia industriale.
Allora stiamo attenti a parlare di agevolazioni regionali all'esportazione o di mostre regionali all'estero. Dobbiamo ripartire da quell'intreccio pesantissimo realizzato in Piemonte tra concentrazione industriale concentrazione produttiva e concentrazione territoriale. Fin dalle prime elaborazioni è stato messo in evidenza come diversificazione produttiva ed equilibrio territoriale, fossero reciprocamente vincolanti.
Il primo punto da chiarire riguarda la natura del processo di diversificazione. Soprattutto negli anni '60 si sono registrate due posizioni: da un lato vi erano coloro che sostenevano essere, la diversificazione, il risultato di una conversione dell'industria motrice la quale avrebbe dovuto progressivamente ridurre il suo impegno nel settore auto per portarsi in altri campi; sul lato opposto si trovavano quanti sostenevano che la diversificazione non dovesse necessariamente avvenire a scapito dell'auto, la quale sarebbe comunque rimasta uno dei pilastri dell'economia piemontese. Il problema era di affiancare a questa industria nuovi filoni, ampliando la base produttiva regionale. Invero questa è sempre stata l'opinione di quanti hanno introdotto la tematica della diversificazione.
Richiamandoci al quadro di riferimento per il Piano regionale '76-'80 elaborato dall'Ires nel novembre del '75, mentre si valorizza il contributo che può venire al processo di diversificazione della Fiat, gruppo che si trova impegnato su una pluralità di terreni, si sottolinea come questo obiettivo di diversificazione appaia legato ad una ripresa del comparto auto.
Se si accetta l'ottica della diversificazione come processo di ampliamento della struttura produttiva, non vi è dunque contraddizione tra il consolidamento delle attività tradizionali e l'attivazione di nuove attività. Parimenti ci sembra che sia da rimuovere l'artificiosa contrapposizione che talora si è voluta vedere, in ordine agli operatori su cui fondare la diversificazione, tra grandi industrie motrici e piccole medie imprese complementari ed autonome.
Se in passato poteva avere una qualche plausibilità l'ipotesi di un innesco di nuovi filoni produttivi come risultante dell'azione imprenditoriale e dello sviluppo di piccole e medie imprese, oggi la prospettiva della diversificazione non si configura come raggiungibile senza un impegno preciso e diretto in questa direzione dei grandi gruppi industriali a partire dal gruppo Fiat. Il ruolo dell'industria motrice piemontese è da analizzare con maggiore attenzione, con confronto più rigoroso.
Una delle maggiori carte che oggi si possono giocare a favore della diversificazione è data proprio dalla nuova struttura assunta da tale gruppo, che sembra indicare la volontà di ricercare il massimo sviluppo in settori diversi da quello dell'automobile, nei quali la Fiat si era impegnata in funzione della sua produzione principale e che oggi possono acquistare una loro autonomia.
Occorre considerare da un lato il contributo che può venire dal Piemonte al perseguimento degli obiettivi di politica industriale da assumere a livello nazionale e dall'altro lato la specificità delle strutture industriali piemontesi. Nel passato sono state esaminate tutta una serie di metodologie attraverso cui configurare dei livelli di soglie critiche sulle quali innescare questo processo di diversificazione.
Sulla base dell'indicazione e della metodologia prima ricordata, nel 1974 la Regione Piemonte avviò una serie di studi nel quadro dell'elaborazione del Piano regionale di sviluppo, per giungere ad individuare quali potessero essere le effettive possibilità di diversificazione. Gli studi dell'Ires e quelli della Soris (condotti separatamente) sono giunti a conclusioni convergenti. Per l'Ires l'individuazione delle virtualità di sviluppo del sistema piemontese doveva prendere le mosse dalla considerazione del peso rilevante del settore metalmeccanico che raggruppa, se si comprendono anche le imprese motrici più della metà dell'occupazione industriale e, se si eccettuano queste circa un terzo dell'occupazione complessiva dell'industria. Anche prescindendo dall'occupazione indotta dalle imprese motrici, l'occupazione metalmeccanica risulta sempre pari a 215.000 addetti.
Queste linee di azione dovrebbero essere volte ad obiettivi ben precisi: maggiore autonomia dei "poli derivati" dal complesso Fiat razionalizzazione delle imprese produttrici di beni strumentali; azione sulle imprese complementari alle imprese motrici; azione sulle piccole e medie imprese per promuovere lo sviluppo tecnologico.
La Soris a sua volta giunse ad individuare 26 settori specifici dell'industria piemontese, che la ponevano in grado di perseguire uno sviluppo senza entrare in concorrenzialità con lo sviluppo ipotizzato per il Mezzogiorno. Anche questi settori erano fondati essenzialmente sulla componente metalmeccanica o elettromeccanica. Queste ricerche, terminate nella primavera del '75, non hanno avuto seguito. Si è tornati, a nostro parere, quindi ad un eccessivo genericismo.
Occorre riprendere quella strada, attraverso un confronto con le forze imprenditoriali, oggi forse più disponibili che nel passato. Queste sono le nostre indicazioni. L'On. Libertini replica alle nostre critiche dicendo che "la Democrazia Cristiana vuol far pagare al Piemonte le sue scelte per obbligare la Giunta a gestire la recessione". Egli dimostra di non saper neppure dove incominci il tanto conclamato confronto e cerca solo degli alibi per coprire le proprie responsabilità.
E' solo la consapevolezza delle difficoltà e della crisi che anima le proposte e le critiche; una crisi dura e per certi versi, purtroppo, più sofisticata del passato. Il mercato del lavoro presenta due aree particolarmente critiche: disoccupazione femminile e disoccupazione giovanile con la presenza simultanea di carenze ed eccessi di offerta lavoro.
In merito alla disoccupazione femminile, dicevamo che riaffermare la consapevolezza e l'irrinunciabilità di un indirizzo programmatorio, teso a superare questo fenomeno, non consente tuttavia di dichiarare il superamento del problema entro il 1980.
In merito alla disoccupazione giovanile, scatta in tutta la sua complessità ed importanza il ruolo della formazione professionale, settore che ci pare pretenda e consenta proprio l'applicazione della disponibilità alla ricerca con le altre componenti della società piemontese. Non bastano le iniziative singole, pur valide e alle quali diamo il nostro contributo né le circolari Occorre un progetto globale di inquadramento e di raccordo con il Piano.



FIORINI Fausto, Assessore all'istruzione

Occorre una legge quadro.



ALBERTON Ezio

Certo. L'iniziativa regionale può dare un contributo, tanto più in prossimità della presentazione da parte del Governo nazionale di questa legge quadro.
Dirò qualche cosa sul riequilibrio territoriale. Il problema si pone oggi in termini ancora più complessi che nel passato, per l'inversione avvenuta nel rapporto domanda-offerta di lavoro tra l'area metropolitana torinese e le altre aree. Ma mentre sarebbe richiesta una maggiore attenzione a questo tema, la programmazione territoriale nella "Proposta di Piano" appare scarsamente elaborata, pur essendo essa in gran parte di competenza regionale.
Occorre una gestione attiva del territorio che crei prima le premesse attraverso Piani territoriali su scala regionale e comprensoriale e poi via via, stimoli e promuova il riequilibrio. Diventa urgente innescare l'attuazione del piano dei servizi adottato dal Comune di Torino come elemento decisivo, non soltanto per migliorare lo standard dei servizi stessi, ma ancor più per riattivare il processo di decentramento che è fondamentale. Deve essere chiaro che tutto il discorso sulla necessità di superare gli attuali squilibri territoriali non discende dal desiderio di un'astratta armonia del territorio.
Il riequilibrio si fonda con il disegno di uguagliare le condizioni di vita o, almeno a tempi brevi, di attenuare differenze che intercorrono ancora tra aree e aree quanto a servizi, condizioni socio-economiche e reddito. E' stato dimostrato come in Piemonte ci sia ancora il 17 % di popolazione che vive con un reddito che è pari al 65% di quello medio piemontese.
Se è necessario guardare con attenzione ai problemi dei grandi centri non si debbono trascurare le condizioni in cui si trovano le aree di montagna e collina, dove il quadro di vita è certamente a un livello di gran lunga inferiore a quello dei grandi centri. Dalle consultazioni con gli Enti locali e le associazioni, sono emerse le richieste del Piano territoriale di coordinamento dell'area metropolitana torinese ed una maggiore articolazione delle analisi sulle virtualità dei singoli Comprensori. Avevamo già avvertito la Giunta che il Piano era completamente carente di ogni indicazione quantificata sui bisogni e sulle risorse da destinare ai diversi Comprensori. Questo, a nostro parere, ha reso troppo sterili le consultazioni con gli Enti locali.
Eppure la Giunta propone con il disegno di legge n. 117 sulla tutela del suolo che i Piani territoriali di coordinamento dei Comprensori derivino dal Piano regionale di sviluppo. Come? Sono ipotizzabili le difficoltà che i Comprensori incontreranno ad agganciare i loro Piani di sviluppo e territoriali a questo Piano. Il Piano diventa credibile solo se procede alla quantificazione finanziaria temporale e spaziale. Questi elementi fortemente critici erano in larga parte già noti alla Giunta ed alla maggioranza, a seguito del dibattito e del confronto iniziato con le consultazioni. Purtroppo, non ci sono state né correzioni, né aggiunte e oggi discutiamo lo stesso documento disponibile un anno fa.
La Giunta ha cercato di ridurre il rilievo della proposta di Piano nel suo complesso, annunciando la presentazione di più articolati programmi obiettivo che costituirebbero il Piano di sviluppo vero e proprio. Dobbiamo evidenziare il rischio che anche a livello regionale si ripeta la contrapposizione tra programmazione globale e programmazione per progetti che purtroppo ha caratterizzato l'evoluzione a livello nazionale.
La programmazione per progetti deve essere l'articolazione del Piano di una serie collegata di azioni programmatiche, ma non si può rischiare di perdere un quadro di riferimento complessivo che consenta, oltre che l'attuazione coordinata di questi interventi, anche la verifica sul loro grado di organicità. Mentre riteniamo necessario che il Piano indichi precise azioni programmatiche, non possiamo accettare che questa specificazione avvenga al di fuori di un solido quadro di riferimento generale. Ci pare che questo quadro di riferimento sia ancora da definire e che la sua costruzione rappresenti il primo passo da compiere nella costruzione del Piano.
Riteniamo sia necessario quindi discutere e varare la legge sulle procedure, elaborare un nuovo modello demografico, produrre un quadro aggiornato, definire la posizione ed il ruolo che si vuole assegnare all'economia piemontese nell'ambito del sistema economico italiano definire un quadro quantificato per la realtà comprensoriale e per i settori.
Questi ci appaiono i presupposti oggi mancanti per una seria politica di programmazione.
Chiedo scusa per la lunghezza dell'intervento.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Minucci, ne ha facoltà.



MINUCCI Adalberto

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, questa discussione è stata preceduta nelle ultime settimane da una serie di prolemi che in qualche modo hanno trovato un'eco nell'intervento del collega Alberton. Vale la pena di rifarci a quelle polemiche, perché sono indicative di un clima di pericoli presenti nella situazione politica attuale, al di là dell'occasione fornita dal dibattito sul Piano regionale.
Confesso all'amico Alberton e a tutto il Consiglio regionale di non avere ancora ben capito il senso delle polemiche sollevate da parte della Democrazia Cristiana e da parte di alcuni gruppi e uomini della Democrazia Cristiana. Le differenze e la confusione che si riscontrano non mi sembrano colmate dall'intervento di Alberton. Posso anche accettare, se questo è un editto, che Alberton abbia parlato a nome della Democrazia Cristiana nel suo complesso; Alberton ha citato a lungo l'onorevole Libertini, le posizioni che vengono espresse.
Non capisco soprattutto il tono astioso e un po' grottesco di crociata che hanno voluto dare a queste polemiche, alcuni settori e uomini della Democrazia Cristiana.
Grottesco perché si tratta di mortaretti polemici che sembrano svolgersi nel vuoto pneumatico, come se il Paese e la Regione non avessero una storia, come se dietro ogni processo e ogni elemento di crisi non vi fossero delle cause e delle responsabilità.
L'intervento di Alberton non fa eccezione alla regola. Ci ha detto che le due cause di fondo della crisi sono la scarsa produttività e l'inflazione. Qualsiasi economista (Alberton è un esperto di economia e lo ha dimostrato anche stamani) sa benissimo che la scarsa produttività e l'inflazione sono conseguenze di altri fattori.
Le cause quali sono? Da che cosa è dovuta la bassa produttività del sistema economico italiano? A quali politiche economiche, a quali organizzazioni sociali, a quali forze parassitarie, a quali forze politiche che hanno protetto le forze parassitarie, a quali mancate scelte di riforme, a quale ritardo pauroso nella programmazione vanno ricondotte le cause? Se volete rendere credibile il contributo positivo, che siamo in ogni caso pronti ad accogliere, dovete partire da questo minimo di correttezza intellettuale prima ancora che politica.
Devo confessare che ascoltando Alberton e leggendo certe dichiarazioni dei giorni scorsi, mi veniva in mente la storiella di quel viaggiatore aggredito da un malfattore che voleva buttarlo dal treno e che, annaspando per difendersi, si aggrappava al campanello d'allarme. La sirena suona arriva la polizia ferroviaria e il malfattore a questo punto denuncia alla polizia il povero tizio che si è aggrappato al campanello d'allarme (voi sapete che quando si suona l'allarme si viola una legge). Questo è il vostro atteggiamento.
Che cosa c'è dietro? C'é semplicemente la volontà di annullare o di sminuire con una campagna propagandistica preventiva l'effetto politico e psicologico che l'ormai imminente varo del Piano avrà sull'opinione pubblica? Capisco che la gente avrà chiaro di fronte agli occhi che il nuovo quadro politico, uscito dalle elezioni del 15 giugno 1975, rende possibile un rapido varo della politica di Piano, mentre il vecchio quadro politico non l'aveva consentito, addirittura l'aveva respinto. Conosco la statura e il buon gusto di molti colleghi della Democrazia Cristiana. Non credo che ci sia solo questo motivo, anche perché la posta è talmente meschina che non vale nessuna candela.
Allora che cosa c'é? Forse c'é il timore sacrosanto (sacrosanto nel senso che ipoteticamente si può benissimo coltivare) che la Giunta adottando il Piano, pretenda di muoversi verso una prospettiva di pianificazione rigida, centralista, totalizzante? Forse c'è la concezione del Piano "deus ex machina" e da questo si vuole tirare in ballo una polemica più generale sulla filosofia della politica di Piano? Sull'atteggiamento delle varie forze politiche? E' una discussione che accettiamo, semmai con un po' dr coerenza in più e mi rivolgo ad Alberton, che è partito dicendo che il Piano regionale è stato presentato dalla Giunta come troppo aperto e poi ha finito dicendo che è un Piano troppo chiuso. Non ho capito questa differenza.
Se c'è il timore che si tratti di un Piano troppo chiuso, troppo rigido, totalizzante, rassicuratevi perché noi stessi, che pure deriviamo dai postulati della nostra teoria e dall'analisi scientifica che siamo abituati a condurre sulla realtà, abbiamo la convinzione della necessità storica della pianificazione nelle società moderne. Siamo pero decisamente contrari ad una concezione di Piano come deus ex machina, come totalità assoluta. Abbiamo l'onestà intellettuale di dire che questa convinzione ce la siamo maturata in un lungo e talvolta drammatico processo autocritico che ci ha portati a prendere le distanze da modelli di pianificazione centralizzata, oggi alla base di contraddizioni nelle società che le hanno adottate. Non ignoriamo il valore che consiste nel riconoscere e nel cogliere i vari momenti di un processo attraverso cui si formano, anche con errori e talvolta con drammi, le proprie posizioni. Da tempo siamo approdati ad una concezione del Piano come quadro di riferimento, come processo in continua formazione, come terreno di cultura di un pluralismo autentico, economico, sociale destinato a far maturare nel modo migliore le decisioni. Ma le decisioni devono essere il prodotto del processo programmatico, altrimenti il pluralismo senza programmazione, oggi, rischia di intisichire e di condurre al suo contrario.
Proprio perché siamo convinti di questo, perché consideriamo la programmazione un processo profondamente democratico, abbiamo dato molto peso a questo e non sempre tutte le parti della comunità regionale hanno risposto al nostro appello.
Abbiamo dato molto peso alla consultazione di tutti i soggetti e alla Conferenza sull'occupazione e sugli investimenti, anzi, la Conferenza è stato il primo grande terreno di confronto e anche di scontro con i vari soggetti e di questo abbiamo tenuto conto in tutti gli aspetti della nostra politica in questa fase.
Infine, se le polemiche discendono, invece, dalla corretta o presunta individuazione di errori, di carenze contenute nella proposta specifica elaborata finora, questo è non solo legittimo, ma utile. Allora, non capisco perché si preferisca lo sparo dei mortaretti a una critica seria costruttiva nelle sedi ove si può giungere a correzioni ed a decisioni comuni.
Di tutte le ragioni possibili della polemica, la più singolare mi sembra quella enunciata nei giorni scorsi sulla Gazzetta del Popolo dall'onorevole Guido Bodrato, non so se a nome della D.C. o di chi. Bodrato ha detto che "uno dei torti della nuova maggioranza, nel momento in cui vara il Piano, è quello di presentare come nuova una proposta politica ed economica che invece era già stata elaborata e discussa da noi", come dire "vi travestite con i nostri panni".
Se questo è il nostro torto, è facile intenderci. Se davvero ci siamo presentati in queste vesti e ci siamo fatti belli con le penne del pavone ci vuole poco a fare atto di contrizione. Perché litighiamo? Semmai l'idea di apparire dei vostri continuatori potrebbe dar fastidio a noi. Voi potreste solo vantarvi. Siccome sono stato fra i partecipi di questo processo, ne conosco quasi passo passo gli svolgimenti.
Consigliere Alberton, la tua età non ti assolve dalle responsabilità del tuo Partito. Forse sarebbe persino bene che la Regione facesse un atto di omaggio ad un uomo come Giuseppe Grosso, che fu l'iniziatore dell'unione delle Province piemontesi e che, sia come esponente delle Province, sia come massimo esponente del Comune di Torino, ha dato un contributo eccezionale anche alla costituzione dell'Ires.
Proprio perché sono convinto che nella storia gli elementi di continuità hanno un grande valore, vorrei cogliere alcuni elementi di discontinuità, talvolta di rottura, dovuta non solo a diverse scelte politiche. Rispondo all'osservazione di Bodrato. Rispetto al periodo a cui si riferisce la sua nostalgia, cioè quella delle discussioni e del confronto di idee sul Piano regionale, un primo elemento di novità sta nel fatto che la Giunta regionale presenta un Piano come atto politico di governo e lo porta in questa sede - da cui uscirà una decisione, una deliberazione, una legge - se mi consentite questo termine.
C'è una diversità di fondo tra questo atto e una discussione, per quanto importante e formativa, che non è mai approdata a scelte di Piano anzi si è sempre svolta mentre altrove, nelle Giunte, si decideva l'opposto di quanto si stava discutendo.
Con amici come Bodrato e come altri di certi settori della D.C. (non voglio fare qui differenze di correnti), con i colleghi socialisti, i comunisti, i repubblicani, con alcuni esponenti della socialdemocrazia, in quel periodo discutemmo a lungo in tavole rotonde attorno all' Ires. Erano cenacoli o luoghi di ricerca non presi in considerazione da chi governava.
Si governava in nome di ben altri principi e su ben altre linee.
Il grande merito della Giunta e di tutte le forze che vi hanno contribuito è quello di portare il Piano di fronte alla comunità regionale come un atto politico concreto, come una svolta nel modo di governare.
Come tutte le cose di questo mondo, anche le più perfette, hanno un margine di ambiguità che lascia dei cascami nel futuro. Un cascame è questo della polemica sull'Ires, permettetemelo, amici democristiani che avete discusso sui giornali nelle settimane passate. Si sta presentando la cosa come una sorta di santuario violato: l'Ires santuario della programmazione piemontese. Questo aveva un senso allora, forse, se lo ha avuto. Nel momento in cui la programmazione era ignorata, vituperata o non accettata dagli organi di governo, era logico che anche da parte di noi comunisti talvolta si strumentalizzasse persino l'Ires, come sede di posizioni politiche, elaborazioni comuni, come forzatura per premere sul potere politico.
Oggi la situazione è cambiata. Oggi il problema della programmazione si risolve in primo luogo in quest'aula. L'Ires deve ritornare ad assolvere una funzione di strumento tecnico di decisioni che non possono che essere politiche. Non c'è niente di più meschino di questa polemica. Voi non ci avete dato retta. Avete addirittura offeso il direttore dell'Ires. Ma quale concetto si ha del funzionamento degli organi della democrazia e della programmazione stessa? Quando diciamo che la Giunta oggi compie un atto di governo, lo diciamo anche rivendicando la coerenza di tutta una serie di atti che ha compiuto o che ha predisposto e su cui tutte le forze politiche sono state già chiamate a discutere, a decidere assieme. I Consiglieri Rossotto e Cardinali hanno sottolineato questo aspetto di coerenza.
Sono le leggi, gli strumenti di Piano, la legge delle procedure che ci apprestiamo a varare, la legge urbanistica, la legge quadro sui trasporti la costituzione dei Comprensori come organi essenziali di pianificazione la costituzione per quanto faticosa e per quanto difficile di un Centro di calcolo e di informazione regionale, la costituzione della Finpiemonte sulla quale andremo presto a prendere le determinazioni necessarie. Alla Finpiemonte si affianca l'Esap. Ecco qui un dato di continuità nessuno ignora che l'Esap fu costituito nell'altra legislatura nel quadro operativo fondamentale della politica di Piano. La coerenza è nella costituzione dei primi centri di formazione di tipo nuovo, nell'introduzione di nuovi meccanismi di spesa, su cui si è soffermato più volte il Presidente Viglione, che hanno consentito, che consentono e devono consentire, una maggiore agilità e capacità di investimento da parte della Regione.
Voglio sottolineare un'altra novità, che mi sembra la principale: la scelta del Piano si innesta oggi nello sforzo e nella battaglia che noi altre forze con noi, e mi auguro tutto il Consiglio con noi, stiamo facendo per superare una concezione delle istituzioni democratiche subalterna ad altri centri di potere che hanno difeso con tanto accanimento in questi anni le prerogative di essere i soli a decidere soprattutto nel contesto della politica economica. E' una concezione che fa degli Enti locali e delle istituzioni regionali le entità realmente autonome e capaci di decidere a nome della collettività da cui siamo stati eletti.
Uno degli elementi principali che va sottolineato è quello del Piano inteso come atto di sovranità delle assemblee elettive. Questo è un altro dato nuovo rispetto al passato, se vogliamo discutere dei processi reali di cui siamo stati protagonisti o quanto meno testimoni. Mi rifaccio a una tematica che ha sollevato Alberton, per sottolineare che vi è poi una diversità che discende dall'analisi dei processi reali e dall'analisi della crisi, ma più che nella sua gravità, nel suo segreto, nelle sue peculiarità, nei tratti originali che la distinguono da qualsiasi altra crisi precedente. Infatti, secondo me, è persino curioso il clima che si è creato nel Paese.
Capisco l'imbarazzo degli economisti che proprio nel momento in cui sono più utili, dimostrano di essere in disarmo. La crisi li ha disarmati per il modo in cui si sta realizzando. La novità di questa crisi non è tanto nei dati quantitativi e negli indici di produzione. Sotto questo profilo viene persino la voglia di dire in una Regione come la nostra "ma che crisi!". E' dal '70 che si è avviato un processo critico, ma si va da una fase di stagnazione ad una fase di recessione, ad una fase di ripresa.
La novità sconvolgente è proprio la mancanza di qualsiasi ciclicità di questi fenomeni; per cui un anno si va indietro, un anno si stagna, un anno c'è il boom, il che dimostra in fondo che i vecchi meccanismi regolatori e di controllo del ciclo economico non funzionano più. Questo spiega anche il senso di frustrazione e di demoralizzazione che i soggetti della vita economica spesso dimostrano: un senso di smarrimento vero e proprio, crisi di prospettive, che hanno tutti, anche i potenti della terra, anche quelli che fino a ieri pensavano di avere in mano la gestione dei processi economici.
Questa è la vera crisi. Prendiamo la famiglia Agnelli,tanto per assumerla come emblema. E' uno dei punti su cui siamo chiamati a riflettere. Gli economisti, che io definisco neoplastici, hanno battezzato con un termine nuovo questo misto di stagnazione e inflazione, la stagflation. Ma se qualcuno si illude che l'uno o l'altro alla fine finirà per annullare uno dei termini o che tutti e due possano essere attenuati non ha capito niente del processo che stiamo attraversando. Non ha ancora capito che se il sistema economico attuale non conoscesse a breve o a medio termine modificazioni profonde, noi vivremmo con la stagflation per tutta la vita; ce la siamo sposata, se non si modificano i meccanismi profondi di accumulazione.
Come si esce da tutto questo? Con un ritorno ad un neoliberalismo che forse neppure l'amico Marchini considera più attuale. Eppure avete visto che uomini intelligenti, fra i più preparati che ha il nostro Paese, come Carli, lo rilancia come una critica alla concezione, alla prassi dello Stato assistenziale, che è stata propria del centro sinistra degli anni '60; per abbandonare questa prassi ed i danni che essa provoca alla vita economica del Paese, torniamo al liberismo, torniamo a Einaudi. C'è anche qui del grottesco. Non si vuole fare i conti con quello che sta avvenendo.
Lo dico senza nessuna pretesa di dare una lezione, ma come riflessione di un uomo politico, di un dirigente politico, sulle esperienze concrete che stiamo vivendo.
Diamo tutto alle imprese, compresi gli incentivi dello Stato.
Risuscitiamo gli spiriti vitali delle imprese e del mercato; sono cose che sono state scritte sui maggiori organi di stampa del nostro Paese.
In realtà qui si ignora che uno degli epicentri, forse il principale della crisi attuale è proprio quello del logoramento del ruolo dell' impresa. Crisi senza ritorno e concezione dell' impresa come epicentro come soggetto assoluto dello sviluppo. In certi momenti di lucidità congiunturale, persino uomini come Agnelli o come Carli hanno ammesso che alla base della crisi attuale c'è la passata concezione dell'impresa che oggi non regge più e va modificata. Hanno ammesso che l'impresa deve diventare non più un soggetto esclusivo dello sviluppo, ma un soggetto della programmazione collettiva dello sviluppo.
D'altra parte tutto ciò che fanno le imprese oggi, non solo in Italia ma anche negli Stati Uniti e negli altri Paesi più sviluppati, è quello di rapportarsi in modo sempre più integrale allo Stato, alle sue decisioni, ai suoi programmi, ai suoi investimenti. Questo ruolo nuovo dello Stato non può più essere ignorato da nessuno. Ecco, allora, la necessità della programmazione, ecco allora quel tanto di forzatura che, almeno da parte nostra, è stata fatta attorno al Piano regionale.
Il Piano regionale ha anche un valore di proposta politica a chi non vuole avviare ancora una programmazione nazionale. E' anche una provocazione in senso utile, e va colta. Su questo occorre che tutte le forze che hanno la sensibilità per ciò che sta accadendo, si pronuncino. Ma programmare oggi, significa consentire alle istituzioni democratiche di essere le sedi di una sintesi, di un coordinamento, di una guida democratica dei processi economici. Ha ragione Alberton quando dice: "la programmazione ha molti soggetti". Tutti i soggetti della vita economica e sociale del Paese, devono essere messi in grado di partecipare alle determinazioni di uno sviluppo programmato. Ma poi dobbiamo essere concordi almeno su questo punto: tanti soggetti, ma una sola sede di sintesi e di decisione. E questa sede non può che essere quella che rappresenta tutti cioè l'assemblea elettiva, la Regione nel caso nostro, il Parlamento, il Governo che lo rappresenta. Su questo non ci possono essere degli equivoci.
Invece nei giorni scorsi ci sono stati equivoci. D'altra parte, credo che anche in questo senso occorra vedere il rapporto tra Piano regionale e Piano nazionale, a cui si riferiva sempre Alberton. La provocazione va bene se viene raccolta. Negli ultimi mesi ci siamo trovati di fronte ad una serie di atti delle forze politiche che avevano governato finora che vanno contro un ruolo programmatorio delle Regioni. Quando, utilizzando strumentalmente la questione del modello demografico inserito nel progetto di Piano, sentiamo dire da Donat Cattin: "le Regioni non devono avere nessun potere nel determinare la politica industriale", io dico che non ha capito niente di quello che sta avvenendo e di ciò che è necessario fare.
Queste spinte e queste tentazioni neocentraliste hanno delle motivazioni strumentali, spesso di mero potere da difendere. Chi è abituato da anni ad amministrare la cassa degli incentivi capisco che si dolga quando si chiede che gli incentivi o qualsiasi altro provvedimento economico, vengano messi in discussione e decisi democraticamente. Se c'è solo questo, capisco. Se c'è altro, se c'é la volontà di non assegnare poteri alle istituzioni democratiche, a cominciare dalle Regioni, nel quadro di trasformazione dello Stato, allora non capisco più e penso che siamo di fronte a degli atteggiamenti molto pericolosi.
Bisogna intenderci se per pluralismo si intende quello che è avvenuto nell'ultimo trentennio, per cui poche, grandi, grandissime imprese autentici stati nello Stato, hanno deciso per tutti sul modo di utilizzare le risorse, sul modo di produrre, sugli obiettivi, sulle scelte e hanno deciso anche per conto di migliaia e migliaia di medie e piccole imprese che sono sempre state in una condizione di subalternità.Se quello è il pluralismo io mi arrendo. Tenetevelo! Ma se per pluralismo si intende la capacità effettiva, il mettere in grado tutti i soggetti, comprese le medie e piccole imprese, comprese le grandi imprese (grandi come dimensione produttiva, ma che non hanno lo stesso potere che hanno avuto negli anni passati la Fiat e la Montedison) allora è un'altra cosa. Allora, questo pluralismo non può essere che il prodotto di un nuovo quadro istituzionale in cui la guida ed il coordinamento vengono assunti non da centri economici, che poi in realtà sono eccentrici rispetto alla vita nazionale, ma dalle assemblee che la rappresentano.
A proposito dell'argomento introdotto dall'onorevole Bodrato, vorrei dire ancora una cosa. In passato abbiamo discusso ed elaborato molte cose assieme, almeno con una serie di forze politiche più interessate alla politica di programmazione. Del resto il centro sinistra nacque con questa vocazione programmatoria, ma dobbiamo ricordare che a proposito delle grandi scelte da cui dipendono i meccanismi di accumulazione e di sviluppo la diversità di posizioni è stata profonda. Semmai c'é un avvicinamento rispetto al passato. Mi auguro che questo avvicinamento vada avanti.
Nell'aula del Consiglio comunale di Torino, tante volte mi sono scontrato, anche duramente, con le concezioni che avevano un loro centro di elaborazione scientifica anche in certi nuclei dell'Ires, che soprattutto erano quelli che esprimeva la D.C. (qualche volta anche i colleghi del P.S.I.), quando si sosteneva una certa collocazione del Piemonte nell'economia nazionale e internazionale che non potevamo condividere.
Non dimentichiamoci che non traemmo dal miracolo economico la conclusione che era necessario andare ad una politica di riformismo condiscendente, come dire "che raccogliesse i margini economici dell'espansione del miracolo e facesse qualche operazione di riformismo sociale". No, noi criticammo a fondo e radicalmente lo stesso miracolo economico e mettemmo in luce tutti i pericoli e le contraddizioni che avrebbero portato alla stagnazione degli anni '60, e poi alla crisi degli anni '70. Qual era questo pomo della discordia? Proprio la collocazione del Piemonte in rapporto al Mezzogiorno d'Italia. Lo dico semplicemente, non voglio correre il rischio di violentare le opinioni che ha espresso Alberton, quindi se dico cose inesatte, mi si corregga; ma ho l'impressione che anche nel suo discorso ci fossero ancora i residui di quella filosofia contro cui combattemmo 10/15 anni fa e ancora recentemente.
Negli anni '50, di fronte al decollo del miracolo, la teoria della D.C.
era quella di De Gasperi, enunciata proprio a Torino: "lo sviluppo si concentra al Nord, ma poi raggiunto un certo grado al Nord, deborderà nel Sud, si diffonderà per autogenesi".
Negli anni '60 la teoria invece cambiò. Divenne più raffinata e fu quella delle aree forti. Abbiamo dovuto combattere questa teoria anche qui dentro, agli inizi degli anni '70. La ricordate e non voglio annoiarvi perché vi sembrerebbe di ascoltare un disco ormai vecchio.



ALBERTON Ezio

Illusione!



MINUCCI Adalberto

Illusione raffinata, intendiamoci, perché il Piemonte si integra in questa Europa merovingia, nell'Europa centro-occidentale, dopodiché - si diceva - sarà l'Europa a risolvere i problemi del Mezzogiorno. Nel secolo futuro i meridionali avranno dall'Europa unita questa soddisfazione!



OBERTO Gianni

Sarà un'Europa lotaringia.



MINUCCI Adalberto

Ha ragione lei. Questo fu alla base dei primi progetti cartacei a cui si intitolò la programmazione in Piemonte negli anni '60 e noi la combattemmo sin dall'inizio.
Nell'intervento di Alberton mi sembra di cogliere questo aspetto. Non ritengo giusto che il Piemonte debba collocarsi tra l'Europa e il Mezzogiorno. Non sono due entità alla stessa distanza verso cui si debba assumere un atteggiamento di neutralità o di partecipazione allo stesso titolo. Il Mezzogiorno ed il Piemonte fanno parte dello stesso meccanismo di accumulazione nazionale. Nessuno di noi, neppure il vostro Partito annulla questa grande entità che sono gli Stati, le Nazioni. Nella nostra epoca il principio di nazionalità sta rispuntando come un valore attivo, in molti processi.
Noi vogliamo partecipare al processo di integrazione sovranazionale nella pienezza della facoltà del nostro Paese. Il Piemonte, secondo noi, e lo diciamo da sempre, sarà tanto più forte ed avrà una forza contrattuale tanto maggiore nei processi multinazionali, quanto più avrà un retroterra solido nell'economia nazionale. La debolezza di oggi sta nel fatto che ci portiamo la famosa palla di piombo al piede dell'arretratezza meridionale e della scarsa produttività del sistema, da cui dipende anche l'incapacità di sfondare su certi mercati esteri. La priorità è il Mezzogiorno, priorità economica, non solo morale. In passato siamo andati ad un crescente distacco fra Nord e Sud, ma oggi questo dato di coscienza può essere comune. La crisi è ormai ad un grado tale per cui lo stesso Nord industriale, lo stesso Piemonte, non avrà nessuna possibilità di rilancio se non si riconverte ai fini della ripresa meridionale. Questo è il centro della riconversione.
Quando diciamo che il Mezzogiorno non può non essere il primo punto di riferimento organico per qualsiasi prospettiva economica, e quindi per qualsiasi politica di Piano della nostra Regione, non facciamo un'operazione meramente politica ideale (anche se questo ci interessa), ma vogliamo fare un'operazione economica. Oggi su questo c'è più coscienza e ne siamo lieti.
Tutte le Regioni saranno chiamate tra una settimana o poco più a Catanzaro a discutere di questi problemi. Non voglio sottacere qui che, una volta che ci sarà l'accordo sulla priorità meridionalista, vi saranno degli equivoci da eliminare perché si tratterà di decidere quale strategia meridionalista bisognerà adottare.



OBERTO Gianni

La Giunta precedente aveva promosso un Convegno Nord-Sud al quale hanno partecipato i rappresentanti dell'industria e dei sindacati.



MINUCCI Adalberto

Avvocato Oberto, anche se a volte ho la tendenza ad appassionarmi ai temi che espongo, non voglio dare nessuna forzatura polemica a quello che dico e tanto meno non sono tra quelli che ignorano la storia. In ogni caso il problema della strategia meridionalista è fondamentale per il modo con cui la si affronta. Ci sono discussioni anche al nostro interno ed è legittimo che ci siano. C'è discussione fra i sindacati, tra noi e i colleghi socialisti. Cerchiamo di far quagliare questa discussione e di arrivare, se possibile, ad una visione comune delle cose. Non vi nascondo che sono allarmatissimo, anche in rapporto alla situazione politica e alle tensioni sociali, per una campagna mistificatoria, di demagogia e di strumentalizzazione, che è in atto da parte di alcuni uomini politici, che non sono la D.C. ve ne do atto ma purtroppo fanno parte della D.C. Quando si tenta, per esempio, di riproporre la questione meridionale (in termini meno grossolani di quanto abbia fatto Ciccio Franco alcuni anni fa a Reggio Calabria), come problema di contrapposizione alle esigenze del Nord; quando addirittura l'onorevole De Mita nelle piazze meridionali e in Parlamento va dicendo che la classe operaia del Nord con il suo egoismo impedisce al Sud di svilupparsi; quando si traggono conclusioni che l'unico modo di industrializzare il Sud è di trasportare qualche pezzetto, qualche frammento dell'attuale struttura produttiva nel Mezzogiorno, io dico che è un modo di lasciare inalterate le cose e se possibile di peggiorarle.
Voglio dire a De Mita e non solo agli uomini della D.C., ma anche ad uomini di altri Partiti che partecipano a questa campagna, che se in questo modo cercano di porre riparo al fatto che la crisi ha eroso i margini con cui conservavano le loro clientele, e se oggi non sanno che cosa dire ai loro clienti, sbagliano completamente e non otterranno neppure lo scopo meschino che si propongono.
In realtà la crisi mette in luce tra i suoi dati essenziali, che la malattia è proprio nell'apparato industriale attuale. La scoperta di questa crisi non è la questione meridionale, che si sta aggravando, la novità sta nel fatto che l'apparato industriale del Nord si è esaurito nelle sue potenzialità e va modificato e convertito. Trascinare qualche pezzo qualche fabbrica in Campania o in Calabria, significa solo trascinare altrove gli arti di un corpo infetto e non risolve niente del problema della modificazione di un meccanismo complessivo, del modo come si accumulano le risorse, come si utilizzano e come si finalizzano. Il problema è il processo di riconversione.
Il valore del Piano piemontese sta nella sua intuizione, di cui ci assegniamo la paternità come PCI o PSI e la attribuiamo a tutto il Consiglio regionale. Ci dovrà essere poi uno sforzo comune su questo terreno. La forza è proprio quella di individuare e di assumere il Sud come fine prioritario e organico di una riconversione, di una modificazione qualitativa dei processi di sviluppo del Piemonte.
Come vengono impostate le questioni di riconversione industriale? Discutiamone. Sono convinto anch'io che ci sono molti limiti, che la crisi supera certi termini concreti con cui sono state poste le questioni.
D'altra parte se mentre si discute del settore chimico, trovi un ministro che molla altri 400 miliardi a Cefis, molto difficile fare altre cose. Il problema è stabilire l'azione che vogliamo svolgere per realizzare questo primo obiettivo di fondo che attribuiamo al Piano.
La nostra impostazione, la riqualificazione dell'apparato produttivo il ruolo fondamentale che l'agricoltura piemontese deve assolvere in questo riassetto (perché fare dell'agricoltura un asse centrale dello sviluppo è una scelta meridionalista, oltre che una scelta utile anche a ricomporre gli squilibri della bilancia dei pagamenti),il modo come concepiamo la riqualificazione della popolazione attiva, sono obiettivi che vanno in questa direzione.
Non voglio respingere la polemica che si è fatta sul modello demografico, sugli obiettivi di occupazione, sui nuovi posti di lavoro. E' una polemica che esiste anche nel nostro interno, ma vorrei metterne in luce preliminarmente tutta la carica di nominalismo inutile che contiene.
Per principio e per formazione culturale modestissima, non ho mai creduto ai programmatori che fanno dei modelli demografici l'asse portante della programmazione. E' una visione apologetica dell'economia, una visione che taglia la radice di chi decide.
Quando si parla dei flussi migratori dal Sud al Nord, dal Mezzogiorno al Piemonte, ci domandiamo chi li ha determinati. Il buon Dio? I grandi sbalzi dell'emigrazione in Piemonte sono sempre stati preceduti da scelte di investimenti, così è stato per la ristrutturazione Fiat dei primi anni '50, per il boom della seconda metà degli anni '50, per il salto migratorio della seconda metà degli anni '60 (RivaltaFiat). La gente non abbandona la propria terra se prima non gli si indica la possibilità di lavoro. Non è giusta la teoria di qualche amico, pur di grande valore, che lavora all'Ires, secondo cui nel contesto di due realtà sociali e territoriali una delle quali più ricca di reddito e di potenzialità civili, l'altra più povera, la gente abbandona la più povera per andare nella più ricca. La gente lascia la propria terra se ha un lavoro. Se ci fossero soltanto queste leggi spontanee la gente sarebbe tutta concentrata in un polo del mondo.
Non è così. Alla base di ogni spostamento c'è sempre un investimento produttivo, un'occupazione garantita o quasi. Se inserire i modelli demografici nel Piano è un rito, facciamolo pure, ma non andiamo oltre questa considerazione un po' rituale. Noi abbiamo accolto il modello dell'Ires perché era pronto, perché c'eravamo impegnati in Consiglio a portare un progetto al più presto e poi modificarlo tutti assieme se era necessario. Ma avevamo scarsa fiducia nella modellistica demografica in generale e lo dicevamo con la critica agli errori che erano già impliciti in quel modello, non solo nel calcolo (ci sono stati errori anche di calcolo). Da un lato si protesta per la violata lesa maestà dell'Ires dall'altro si dice di aver fatto nostri gli errori dell'Ires. Cerchiamo di ragionare per metterci d'accordo, per un'intesa, per vedere concretamente le cose, non per fare delle scaramucce che non servono al compito che sta di fronte a tutti noi.
Noi aprimmo il fuoco contro i nuovi insediamenti industriali dai tempi di Rivalta. Non fummo soli, c'erano anche i colleghi socialisti e la sinistra democristiana piemontese. Dobbiamo ribadire questa posizione.
Dobbiamo essere contro un allargamento quantitativo della base produttiva del Piemonte, anche perché lo riteniamo illusorio se non passa da un prioritario decollo dell'economia meridionale e da un reinserimento del Mezzogiorno nel ciclo moderno del nostro sviluppo.
Questa è la prima questione su cui dobbiamo concordare e su cui dobbiamo poi essere tutti decisi a dar battaglia, a far funzionare un meccanismo programmatorio che ha mille strumenti. Se Donat Cattin non ci vuole dare strumenti di politica industriale, ebbene, utilizzeremo la leva del territorio, utilizzeremo la leva delle agevolazioni che la Regione pu dare in mille campi.
Siamo invece d'accordo per una trasformazione qualitativa di questo apparato, non campata in aria, non velleitaria, che parta dai processi che ci sono, dalle industrie che ci sono e che vada ad una loro nuova qualificazione in tutti i campi, nelle scelte produttive, nelle tecnologie e così via. Occorre lavorare per far decollare i nuovi settori dinamici strategici in Piemonte e altrove, assumendo sempre come principio che in una fase storica, nell'arco di un Piano o di due Piani, dobbiamo bloccare i livelli di occupazione medi, complessivi, assoluti del Piemonte. Ma è inutile dichiararlo perché li bloccherà la realtà.
Il tasso di attività in Piemonte sta declinando in questi ultimi 10/15 anni e sta declinando proprio perché non si sono risolti e non si risolvono i problemi del Mezzogiorno, perché non mettiamo in moto un nuovo meccanismo d'accumulazione.



ALBERTON Ezio

Non è il modello demografico, sono scelte valutate.



MINUCCI Adalberto

No, non sono scelte valutate, lo diciamo da mesi e stiamo discutendo ....



(Proteste dai banchi della minoranza)



MINUCCI Adalberto

Qui stiamo discutendo su che cosa fare. Il problema qual é? Noi abbiamo assunto un modello demografico e per noi ha valore quel modello demografico, pur nei suoi errori. Non lo abbiamo assunto come legge proprio per dimostrare quali contraddizioni si aprirebbero se non si andasse ad una modificazione di fondo del meccanismo di sviluppo. In merito al termine di occupazione e al tasso di attività, non riteniamo che il vero parametro da assumere sia un tasso di attività a livello nazionale.
Non possiamo più discutere come si è discusso e deciso finora, isolando Regioni, zone, aree e Comuni. Il tasso di attività che costituisce il parametro vero per decidere della qualità e della quantità di sviluppo, è il tasso di attività nazionale. Noi possiamo ipotizzare un tasso di attività all' 80% in Piemonte, ma se non risolviamo prima la questione del decollo del Mezzogiorno, il Piemonte fra 10 anni avrà il 30 % di attività.
In un meccanismo di accumulazione unitario è impossibile andare avanti con una Regione al 41 % e con la Lucania al 22%. Non ha senso. Questo lo diciamo da sempre.
C'è una spinta e una lotta del movimento operaio piemontese e torinese che nessuno può ignorare. Le grandi lotte di questi anni che sono state unitarie (ed anche qui non vogliamo assumerci delle paternità), hanno avuto questo elemento di novità straordinaria: investimenti al Sud e nuovi insediamenti industriali. Oggi il movimento sindacale unitario, parte con una nuova vertenza alla Fiat, il cui valore è proprio questo.
Questa è solo una delle grandi prove di responsabilità e di maturità che sta dando la classe operaia italiana. L'altra prova è l'accordo tra sindacati e Confindustria. Ha ragione Carli quando scrive sul Corriere della Sera in risposta a La Malfa ed a qualche amico della D.C.: "ci rimproverate di aver firmato un accordo con i sindacati che risparmia solo 2 mila miliardi del costo del lavoro complessivo, ma voi mi dovete trovare dice Carli quale altro soggetto sociale o politico ha fatto questo sacrificio sinora". Che cosa hanno fatto gli altri per risolvere la crisi?



BIANCHI Adriano

C'è tutta una retorica del sacrificio.



MINUCCI Adalberto

Non è una retorica del sacrificio. Questo è un dato: 2 mila miliardi che vengono in questo modo risparmiati e messi a disposizione come risorsa possibile per il rilancio dello sviluppo. Non amo la retorica e, appunto voglio citare dei dati.
Se il metro di misura dell'inflazione e delle strozzature dell'economia italiana è la bilancia dei pagamenti, incominciamo a vederne le tre partite fondamentali. Nel 1976 la bilancia dei pagamenti italiana conosce un saldo passivo nel settore dell'energia, soprattutto del petrolio, di 4.700 miliardi; conosce un saldo passivo nel settore agricolo alimentare di 2.700 miliardi. L'unico saldo attivo che conosce, guarda caso, è nel terzo settore, quello dei manufatti industriali, l'unico in cui ha peso il costo del lavoro.
Il mio Partito è tra quelle forze politiche che ritengono che ci sia un problema di costi del lavoro da razionalizzare e ridurre anche all'interno delle aziende; stiamo lavorando in questo senso; le decisioni sindacali vanno in questa direzione. Ma non creiamo dei mulini a vento, perché se riuscissimo a razionalizzare in tutta la misura possibile i costi di lavoro aziendali o per unità di prodotto, questi 3 mila miliardi di attività che abbiamo adesso nella bilancia dei pagamenti per i manufatti industriali potranno diventare 3.200, 3.500 o forse 4.000 .



BIANCHI Adriano

Ma ci sono le conseguenze sui settori più deboli.



MINUCCI Adalberto

Certo che ci sono. Hanno un grande peso. Però, Bianchi, se hai una visione dell'insieme dei fenomeni, come certamente hai, non puoi che concludere quello che vorrei concludere io su questo punto. Il vero dramma dell'economia italiana non è il costo del lavoro (che è tuttavia un problema da risolvere), ma è la scarsissima produttività; è un'agricoltura che non esiste come agricoltura moderna; è un terziario largamente parassitario; sono diseconomie esterne che pagano le industrie, molto più forti delle diseconomie interne aziendali e dei costi del lavoro. Quando non era di attualità la polemica politica e il dover spendere parole che agissero come propaganda, questi problemi erano riconosciuti anche dai grandi industriali, qualche anno fa.
Pensate a questi dati: nel 1976 c'e stato un boom. Il prodotto industriale del nostro Paese è il più elevato di tutti i Paesi occidentali Giappone compreso come tasso di incremento (10,6%). Il dato che riguarda il prodotto lordo nazionale per l'Italia, che è in uno degli ultimissimi posti, è del 3,8% o 4%. In Giappone è del 6 % ; negli Stati Uniti è del 5/6% .
Perché? Perché l'industria agisce in un contesto economico generale nel nostro Paese, per cui il peso delle arretratezze, il peso degli strati parassitari è tale da riflettersi sul prodotto lordo nazionale.
C'è un punto fondamentale su cui vorrei che si giungesse, non dico ad un accordo, ma ad un'intesa. Un Piano come quello che intendiamo varare come contributo alla politica di programmazione a livello regionale è anche un grande progetto di riorganizzazione della società e la ricerca affannosa di una nuova collocazione degli strati sociali nel nostro Paese. E' una ricerca tesa a restringere l'area sociale improduttiva, quando non apertamente e vergognosamente parassitaria. Non attribuisco la responsabilità a questi strati, ma a chi li ha collocati, a una storia, ad un processo. Se vogliamo uscire dalle strette in cui ci troviamo, dobbiamo dare vita ad una grande operazione di razionalizzazione sociale che è grandiosa per una Regione come il Piemonte, ancora più grandiosa e grave per le Regioni dove non c'è neppure un apparato produttivo che abbia raggiunto il grado di sviluppo che ha raggiunto il nostro. Pensiamo a certe Regioni meridionali, al peso dei sussidi pubblici anche nella vita normale della povera gente.
La D.C. è pronta a questo perché secondo me l'interrogativo è fondamentalmente politico. Non credo che risolveremo questo problema in un quinquennio. Ci vorranno 10/20 anni, ci vorranno gli sforzi di almeno due generazioni. Ma se non si avvia a soluzione adesso, noi non usciremo dalla crisi.
La D.C. è pronta a questo. E' un tentativo di analisi scientifica quello che si deve fare assieme. Capisco che questo comporti difficoltà di scelta nella D.C. ed ho rispetto persino delle difficoltà di scelta.
Scusatemi, colleghi Viglione e Simonelli, se introduco un'altra piccola nota di discussione con voi. Non è una polemica. Qui sta poi la diversità del nostro atteggiamento verso la Democrazia Cristiana e verso la famosa questione dell'alternativa al compromesso storico. Non siamo affatto contrari all'ipotesi di andare al governo con tutti i Partiti laici. Si deve sapere che faremmo soltanto un Governo e non si sa quanto durerebbe.
Non daremmo assolutamente vita ad un processo di trasformazione della società, perché questo è un processo di trasformazione che ha bisogno della partecipazione e del consenso di tutti i grandi soggetti sociali. Non possiamo pensare che l'Italia si trasformi e diventi una società moderna se gli strati oggi collocati ai margini della produzione, addirittura contro la produzione, non vengono reinseriti attraverso un'operazione di consenso e non certo di violenza, anche perché sarebbe del tutto illusorio.
Ecco il discorso sulla Democrazia Cristiana. Se vogliamo dare a questa operazione il significato di un grande progetto di riorganizzazione della società, tutte le forze devono rapportarsi a questo progetto, così come la D.C. non può più fare a meno dell'apporto costruttivo della classe operaia che a sua volta ha delle leve fondamentali per realizzare questo progetto quindi non può fare a meno del rapporto con il Partito socialista e con il Partito comunista, che rappresentano storicamente la parte essenziale della classe operaia.
Più volte il Segretario del nostro Partito ha ripetuto il discorso su austerità più cambiamento: austerità intesa non come una misura congiunturale, ma come un modo di atteggiarci di fronte ai grandi problemi dello sviluppo della vita sociale Non come messianismo. Addirittura qualcuno dice che vogliamo un socialismo trappista. No, non questo.
Vogliamo il benessere e la libertà della gente, ma se non andiamo ad un mutamento dei consumi, nei modi di vita, nei modelli culturali, non si uscirà da questo inghippo, non si darà un nuovo equilibrio e una nuova dinamica alla società italiana. A questo progetto non si può andare se non fissiamo, tutti assieme, almeno per grandi ipotesi, le intese dei nuovi valori e delle nuove finalità verso cui muoversi.
Non difendo in toto il Piano del Piemonte nelle sue parti settoriali e nelle sue formulazioni tecniche; esso contiene la logica di un progetto di cambiamento, di rinnovamento democratico dell'economia, di rinnovamento democratico dello Stato. Non a caso si è scelto come primo programma obiettivo, la riorganizzazione dell'Amministrazione, fondandola su una informazione di tipo nuovo che sia essa stessa base della vita e della coscienza democratica. Anche gli altri programmi del Piano sono finalizzabili e coerenti con questo grande progetto di trasformazione democratica.
Credo che un'operazione di questo tipo possa essere realizzata soltanto se poniamo l'accento sul consenso. Può essere realizzata su un terreno di democrazia e di libertà. Insisto su questo punto. Non è un problema di furberie. Ho fiducia nella D.C. per avviare un dialogo da pari a pari, così come con i colleghi socialisti e con tutte le forze che vogliono partecipare al progetto di trasformazione. Ho letto in questi giorni delle singolari affermazioni per le brillanti banalità che contenevano. Erano interviste di uomini politici torinesi e piemontesi. Si è detto: "noi abbiamo una diversa concezione della democrazia rispetto ai comunisti. Loro cercano sempre il consenso, noi invece riteniamo che la base della democrazia sia il dissenso".
Il nostro Partito ha sempre dissentito dal potere e mi sembra una banalità eccessiva. Se a volte ho dissentito, anche rudemente quando necessario, è stato per imporre o salvare la democrazia. Il nostro è un Partito che affronta, anche con profonda sofferenza, il problema del dissenso perché è contro qualsiasi repressione del dissenso, anche nei Paesi che si definiscono socialisti con cui abbiamo un rapporto di classe di collegamenti, di conoscenza ed anche un atteggiamento di fondo. Dissenso e consenso fanno parte della stessa dialettica. Non ci sarebbe il dissenso se non ci fosse il consenso. Però ciascuno di questi due termini, della dialettica e della libertà, si configura in un certo modo, si accentua e assume un peso diverso a seconda dei momenti storici che stiamo vivendo. Al centro della situazione attuale vi è una dissociazione della società e dello Stato, un peso di forze disgreganti centrifughe che possono mettere a repentaglio anche la convivenza civile, non solo il futuro di progresso e di benessere. In questi momenti, come la storia ci ha insegnato, il problema vero è quello di aggregare il consenso necessario ad un'opera di ricomposizione unitaria, un consenso che si fondi sull'autonomia delle reciproche posizioni, sulle libertà massime di ciascun soggetto. Se ciascuno è responsabile, non solo di fronte a sé stesso, ma di fronte alla società di cui fa parte, questo è in primo luogo il momento del consenso di un disegno unitario.
La nostra proposta di Piano tende ad offrire un terreno comune di discussione, di confronto, anche di polemica, su cui tutte le forze fondamentali della democrazia piemontese sappiano andare all'intesa unitaria ed all'elaborazione di un cammino comune.



PRESIDENTE

Molti Consiglieri sono ancora iscritti a parlare.
Propongo di sospendere adesso i nostri lavori per riprenderli puntualmente oggi pomeriggio alle ore 15. Vi sono obiezioni? Non ve ne sono.
La seduta è tolta.



(La seduta ha termine alle ore 12,30)



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