Sei qui: Home > Leggi e banche dati > Resoconti consiliari > Archivio



Dettaglio seduta n.34 del 12/02/76 - Legislatura n. II - Sedute dal 16 giugno 1975 al 8 giugno 1980

Scarica PDF completo

Argomento:


PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE PAGANELLI


Argomento: Urbanistica (piani territoriali, piani di recupero, centri storici

Dibattito sulla situazione urbanistica regionale e sugli strumenti urbanistici in istruttoria (seguito)


PRESIDENTE

La seduta è aperta.
Riprende la discussione sul punto sesto dell'o.d.g.: "Dibattito sulla situazione urbanistica".
E' iscritto a parlare il Consigliere Cardinali. Ne ha facoltà.



CARDINALI Giulio

Signor Presidente, Signori Consiglieri, ho firmato la mozione presentata dai Colleghi di parte repubblicana non perché abbia sposato nella loro integrità i contenuti della mozione stessa quanto piuttosto per avere la possibilità di inserirmi, a nome evidentemente del mio Gruppo, il socialista democratico, in un dibattito che certamente offre spunti di notevole interesse. E' vero d'altra parte che successivamente la relazione del Presidente della Giunta e quella dell'Assessore Astengo hanno praticamente aperto il dibattito su indicazioni che potevano anche rendere inutili le mozioni presentate. Dico questo perché quello che intendiamo fare è un discorso molto franco, molto obiettivo, e che parte soprattutto dalla preoccupazione di individuare e trovare una continuità nella linea operativa dell'ente pubblico non tanto per quel che riguarda un'Amministrazione precedente e una successiva, quanto obiettivamente nella determinazione di parametri di riferimento, di situazioni oggettive che devono essere uguali per tutti i cittadini.
Le relazioni che abbiamo ascoltato - appunto quella del Presidente della Giunta, che ha tracciato delle indicazioni molto generiche e degli obiettivi, direi, che è difficile non condividere, e quella dell'Assessore Astengo, che è entrato in alcuni particolari, di diagnosi in primo luogo e successivamente di documentazione, della situazione oggettiva che esiste oggi nell'Assessorato all'Urbanistica - ci hanno dato uno schema in base al quale dobbiamo cominciare a lavorare. Penso che sia opportuno che su questo terreno affiniamo le nostre idee.
A mio avviso, il Consigliere Picco questa mattina ha detto una cosa esatta quando ha affermato che, in realtà, dal '45 in poi si è operato in tutta Italia in assenza di strumenti vincolistici, il che praticamente ha determinato il sorgere caotico di determinati agglomerati urbani, il modo disordinato in cui si è arrivati a certe forme addirittura parossistiche di edilizia, con le quali evidentemente oggi abbiamo da fare i conti. Credo che questa sia, obiettivamente, la prima considerazione da fare. Secondo me e su questo forse l'Assessore Astengo vorrà convenire - al di fuori di quello che è il nodo fondamentale dell'urbanistica del futuro, e cioè la disponibilità dei suoli, oggi, a trent'anni dalla fine della guerra, dalla Liberazione, si deve riconoscere obiettivamente che l'unico strumento urbanistico realmente efficace, anche se purtroppo non applicato, è ancora la legge del 1942. Questa legge aveva in sé tutti gli elementi per una pianificazione territoriale, ed aveva anche elementi sufficientemente validi per il reperimento di quelli che sono stati poi i cosiddetti oneri di urbanizzazione attraverso il meccanismo dei contributi di miglioria, che non sono mai stati, salvo casi rarissimi, applicati. Il che significa che obiettivamente, per circostanze legate alla ricostruzione, connesse al modo caotico in cui si è sviluppata la vita sociale, alle migrazioni, agli spostamenti obiettivi di popolazione, noi non abbiamo avuto una crescita ordinata e regolata, perché è mancata la volontà politica pianificatrice in questa direzione.
Quando gli enti pubblici, resisi conto della gravità del problema hanno cominciato a cercar di mettere ordine, si sono trovati in parecchie situazioni di fronte a casi ormai compromessi o in fase di compromissione o a casi che tendevano ad inserirsi in quel disordine che era così facilmente prosperato da altre parti, sulla scia, anche qui, dell'unico intervento realmente presente, quello privato, in assenza di un criterio pubblico.
Penso che, se facciamo riferimento alla pianificazione territoriale nei Paesi più civili dell'Europa, ci rendiamo conto di due fatti: in Paesi come l'Inghilterra e l'Olanda la pianificazione risulta fondamentalmente legata ai distretti o alle municipalità: anche i migliori cervelli dal punto di vista tecnico sono funzionari, appartengono alle municipalità, allo Stato esattamente al contrario di quanto si verifica in Italia.
Certamente, questa assenza di pianificazione, di ordine, di strumenti urbanistici funzionanti, ha creato situazioni abnormi. Ce ne siamo resi conto allorché il trasferimento delle funzioni alle Regioni ha attribuito alle Regioni stesse la competenza del settore dell'urbanistica. Le grandi distorsioni, quelle che ci hanno indotti a cominciare a parlare del riequilibrio dell'area territoriale, del riequilibrio dell'area torinese della necessità di far qualcosa per impedire che continuasse l'espansione dell'area torinese sul piano degli insediamenti abitativi o di quelli produttivi, hanno fatto trovare all'organo regionale un campo di intervento che presentava situazioni irrimediabilmente compromesse ed altre che erano prossime ad ulteriori compromissioni.
L'esperienza che ho fatto, sia pure per un tempo limitato all'Assessorato all'Urbanistica, mi ha permesso di rilevare che l'eredità che noi raccoglievamo dal Provveditorato alle Opere Pubbliche e dalla Sezione urbanistica era una eredità indubbiamente di buona volontà, di competenza tecnica, ma che denotava la mancanza di una volontà politica generale, e soprattutto tesa più ad impedire o a sanare, o comunque a contenere, certi fenomeni macroscopici che evidentemente un quadro politico avrebbe potuto verificare in maniera più precisa e avrebbe potuto indirizzare su strade prescelte e programmate. Nella eredità che abbiamo raccolto non abbiamo ovviamente trovato il vuoto assoluto: però abbiamo rilevato soprattutto l'assenza completa di qualsiasi elemento di programmazione urbanistica.
Fin dall'inizio si è cercato soprattutto di arrivare a dotare ciascun Comune di uno strumento urbanistico entro il quale potesse operare con certezza il cittadino, l'iniziativa, vuoi pubblica vuoi privata Ricordo di avere avviato a quell'epoca un tentativo, anche sul piano formale di istruttoria: alla presentazione di uno strumento urbanistico, concedere agli uffici trenta-quaranta giorni di tempo per il suo esame e immediatamente convocare non solo gli amministratori interessati ma i progettisti per addivenire insieme ad una valutazione delle distorsioni contenute negli strumenti urbanistici, e attuare, cioè, una contrattazione programmata che portasse, soprattutto nell'immediato, gli amministratori a rendersi conto che molte volte le loro ipotesi erano fuori dalla realtà.
Dico questo perché, mentre riconosco tutta la validità all'autonomia locale, non posso non essere d'accordo con l'Assessore Astengo quando dice che c'è in moltissimi amministratori, direi nella generalità degli amministratori dei Comuni della nostra Regione - e credo che il fenomeno si verifichi in tutta Italia - la tendenza a dotarsi di strumenti urbanistici che ipotizzino coperture di territori il più possibile vasti, al limite addirittura dell'intera area comunale, con una preoccupazione che poi non ha riscontro in una realtà oggettiva e che magari ha lo scopo esclusivamente di consentire il rilascio di tre-quattro licenze edilizie isolate, con ciò obiettivamente compromettendo la situazione anzich risolvere il problema.
Sempre dall'esperienza che ho fatto, traggo l'esempio di un Comune della collina torinese che, avendo sei o settemila abitanti, presentò non so bene se un programma di fabbricazione o un piano regolatore che ne prevedeva sessantamila: si trattava di una distorsione macroscopica, che lasciava supporre che non soltanto mancasse la coscienza della realtà che si aveva nelle mani, ma che ci si affidasse con faciloneria ad ipotesi che guardavano verso un futuro che in realtà poi non era destinato a realizzarsi, come in effetti non si è realizzato. Altri Comuni l'Assessore Astengo lo sa, certamente il collega Benzi lo ricorda prospettavano programmi di fabbricazione enormemente dilatati: pensavano con il rilascio delle licenze di costruzione, di impinguare le casse del Comune grazie alla tassa sui materiali, una assurdità, sia nella pretesa sia evidentemente in quello che ne seguiva. Molte volte gli stessi progettisti, trovandosi di fronte a questa realtà amministrativa, sono stati costretti ad accedere a certe richieste macroscopiche che si riferivano soprattutto all'inserimento nei programmi di fabbricazione di enormi zone di espansione che, almeno per quei piani che furono presentati allora, sono rimasti oggi prospettiva, non sono diventati realtà.
Dico subito che noi condividiamo l'impostazione dell'Assessore Astengo quando parla di commisurare i programmi di fabbricazione alle possibilità di incremento della popolazione, che non può evidentemente essere inteso come l'incremento che c'è stato negli ultimi anni ma come quell'incremento che ormai i dati e gli studi approfonditi consentono di ipotizzare in una realtà che evidentemente, soprattutto nella risoluzione dei problemi del Mezzogiorno, va ridimensionandosi su quantità notevolmente ridotte.
Indubbiamente questa impostazione ha la sua validità. Quando facciamo riferimento a piani regolatori o a programmi di fabbricazione che tengano conto di una realtà attuale o di una prospettiva nell'immediato (chiamiamoli piani di minima o piani contenuti, la denominazione non ha certamente alcuna importanza), vogliamo soltanto dire che la pianificazione urbanistica non deve tradursi in un sistematico sciupio del territorio soprattutto uno sciupio cui poi nella realtà dei fatti non fanno seguito insediamenti di consistente realtà, ma, come dicevo prima, solo di poche unità abitative.
Possiamo concordare, dicevo, su questo tipo di impostazione, perch riteniamo che la visione che deve esserci, la prospettiva che noi dobbiamo dare alla pianificazione urbanistica deve tener conto delle realtà che ormai sono emerse dai dati posseduti in abbondanza e non possono consentire di straripare, anche perché la ricerca di nuovi insediamenti abitativi è molto spesso in contrasto con il recupero di insediamenti abitativi esistenti fatiscenti o addirittura di intere località, abbandonate perch non più utilizzate o perché non hanno più la possibilità di agganciarsi ad insediamenti produttivi.
Riconosciuta la validità di questo tipo di obiettivi, vorrei per richiamare l'Assessorato ad una realtà immediata, che è quella obiettiva che ha in sostanza determinato certe nostre perplessità e che ci porta a verificare le intenzioni dell'Assessorato - o dell'Amministrazione, che evidentemente assume la stessa responsabilità dell'Assessorato - per avere un quadro preciso anche sotto questo punto di vista.
L'Assessore ci dice nella sua relazione che 138 piani o programmi di fabbricazione sono stati respinti in questo periodo e quindi è venuta meno quella che, a mio modo di vedere, era la contrattazione programmata con gli amministratori, per far toccare con mano come avessero creato degli strumenti distorti nelle loro finalità. Questo mi fa pensare con terrore a quello che è il riflusso nel campo delle Amministrazioni, le quali molte volte attendono la restituzione del programma di fabbricazione, o del piano regolatore, per ritornare ai concetti di legge-ponte, ai concetti, cioè, di una legislazione che è tuttora monca, non conclusa, e praticamente a quegli indici, che poi la salvaguardia dei piani in grandissima parte consente che finiscono con il diventare dello 0,10 % per la casetta nel tal posto, o l'insediamento nel tal altro, senza alcuna considerazione per i servizi essenziali, i collegamenti e tutti gli oneri riflessi che certamente graveranno sui Comuni.
Io credo che un tipo di programmazione contrattata - contrattata non nel senso di dire: "ti è tanto perché chiedi tanto", o "mi incontro a metà con te sulla base della richiesta che hai fatto", ma per una verifica con gli amministratori, i quali certamente hanno nella loro comunità spinte che li portano ad esasperare l'estensione degli insediamenti abitativi mettendo in evidenza una realtà chiara, precisa, e soprattutto parametri oggettivamente uguali per tutti, anche se ovviamente diversi, a mio modo di vedere, da località a località, e sulla base delle prospettive che ogni località può avere per quello che riguarda il futuro, permetterebbe di tagliare la testa alla possibilità di equivoci di ogni tipo.
Noi sappiamo che chi subentra in una realtà nuova, soprattutto quando si tratta di un subentrante che ha una personalità nel settore specifico altamente qualificata e altamente incisiva, è portato a fermare immediatamente le cose, per poter esaminare attentamente la situazione e trarre le proprie conclusioni. Ma riteniamo che oggi, anche per ragioni congiunturali, per ragioni obiettive, la politica dei no non sia una politica generalizzabile, mentre deve essere generalizzata la politica del riordino, la politica della pianificazione, la politica della vera e propria operatività urbanistica.
Questo, a mio modo di vedere, ha anche un riferimento nella struttura dell'Assessorato all'Urbanistica. All'inizio, gli elementi che operavano nell'Assessorato all'Urbanistica erano poche unità: la Sezione urbanistica quando fu trasferita, non contava su più di dodici dipendenti. Oggi i dipendenti della Sezione sono numerosi. Non conosco il tipo di organizzazione che l'Assessore ha adottato né mi permetterei di interferire in questioni del genere, perché ovviamente sono problemi da vedere nell'ambito della situazione interna dell'Assessorato: ma ritengo che ci siano elementi e capacità, sia a livello dirigenziale che a livello esecutivo, per assorbire e per dedicarsi a tutte le branche per le quali risulti opportuno intervenire, con particolare riferimento agli strumenti attuativi, ai piani particolareggiati, ai piani di lottizzazione, a tutti quei piani che la dinamica della certezza di un piano regolatore è in grado di mettere in moto.
Vorrei fare all'Assessore una raccomandazione che mi pare fondamentale.
Se noi abbiamo una situazione di certezza, questa deve avere la propria validità. La certezza può scaturire da criteri restrittivi: restringiamo quanto vogliamo, non intendiamo certo farci noi portatori di alcun tentativo di allargare la discrezionalità o allargare la possibilità di manovrare in qualsiasi modo; ma, nel momento in cui questa certezza la chiariamo e questa certezza è data, non aggiungiamo elementi di vincolo in modo complementare, cosicché evidentemente ciò che può apparire lecito in una direzione finisca con il diventare non più lecito per un vincolo aggiuntivo che non era stato preventivato o non era stato contemplato al momento della impostazione di un programma.
Da questo punto di vista io sono convinto - lo dico con estrema franchezza all'Assessore Astengo - che non ci sia né da parte dell'Assessorato né da parte della Giunta alcun tentativo surrettizio di arrivare a determinazioni defatigatorie nei confronti della presentazione di programmi particolareggiati di ogni tipo, e sono altresì sicuro che se il problema fosse individuato per altri aspetti o con altre finalità o con la necessità di un coordinamento, vuoi in previsione della futura legge urbanistica, vuoi per altri motivi, questo verrebbe dichiarato in termini franchi, in termini obiettivi e portato all'attenzione del Consiglio regionale, e quindi diventerebbe argomento di dibattito, certamente di esame, da parte di tutto il Consiglio.
In conclusione, sulle linee generali noi concordiamo: vorremmo però che potessimo trovarci d'accordo anche sulla linea di attuazione, sia nell'immediato sia nella prospettiva, tenendo conto di tutti gli elementi che stanno davanti a noi, e cioè certamente la validità di una autonomia comunale. Una autonomia comunale che è stata sciaguratamente compromessa dalla legge 291, che è stata, bisogna ammetterlo, una delle leggi più pericolose varate dal nostro Parlamento. Dobbiamo valorizzare l'autonomia comunale, ma contemporaneamente non limitarci ad avere un rapporto di ripulsa nei confronti delle Amministrazioni locali ma un rapporto costruttivo per la ricerca comune di obiettivi limitati, circostanziati che possano portare a quello che evidentemente tutti auspichiamo, e cioè alla dotazione in ciascun Comune di uno strumento urbanistico operante vincolativo, e, a sua volta, pur con i vincoli, in grado di offrire un quadro di certezza a tutti coloro che intendono operare.
E' evidente che, risolto questo problema, o comunque non perdendolo di vista, ci trova ugualmente consenzienti - e mi pare fosse questo l'argomento della mozione - la proposta di guardare più in là, attraverso una pianificazione che evidentemente deve investire il comprensorio, deve investire realtà territoriali certamente superiori all'entità comunale sulla quale mi pare che, mentre è avviato il discorso sul piano di coordinamento per l'area territoriale di Torino, si debba già avviare il discorso per un piano generale di coordinamento, a livello comprensoriale o a livello di più comprensori, anche qui per poter far calare una normativa precisa alla quale adeguare uniformandoli gli strumenti urbanistici che ciascun Comune facente parte di quel settore, di quel comprensorio, deve adottare Questi i concetti che il mio Gruppo intendeva esporre, ripeto, senza alcun malanimo o intento polemico, ma con un po' di preoccupazione per una situazione particolare che io, ripeto, sono portato ad attribuire alla necessità per l'Assessore di valutare personalmente le cose e di toccar con propria mano le cose. Gli raccomanderei, mentre effettua le sue valutazioni, di essere anche sollecito ad avviare ciò che è immediatamente avviabile, ciò che può senz'altro realizzarsi.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Gandolfi. Ne ha facoltà.



GANDOLFI Aldo

Signor Presidente, signori Consiglieri, a questo punto del dibattito non vogliamo dilungarci molto a toccare argomenti che sono già stati ampiamente trattati ma piuttosto far presente in maniera sintetica alcuni elementi di contraddizione che abbiamo riscontrato - e che, proprio perch contraddittori ci sembrano pericolosi - nelle iniziative che la Giunta, ed in particolare l'Assessore all'Urbanistica, ha assunto in questi mesi di lavoro della seconda legislatura.
Se ci è permesso dare una interpretazione sintetica - ci scusiamo se nel farlo incorreremo in qualche errore - dell'azione che la Giunta tramite l'Assessore all'Urbanistica, è andata svolgendo dal mese di agosto in poi, prima attraverso il documento che ha elaborato sulla situazione urbanistica, il famoso libretto rosso, poi con gli atti che ha compiuto nei rapporti con gli organi comunali, da ultimo con la relazione, più sfumata su alcuni punti, presentata al Consiglio regionale (dalla quale ci par di capire che egli porti avanti sostanzialmente il disegno che già era stato enunciato alla fine dell'estate), ci sembra di poter dire che, in una situazione di disastro urbanistico, di lentezza o arretratezza culturale delle impostazioni da parte dei Comuni, di mancanza in larga parte dei Comuni piemontesi di strumenti urbanistici adeguati, tale azione si sia concretizzata sostanzialmente in un massiccio rinvio di strumenti urbanistici ai Comuni e nella impostazione rispetto ai Comuni di un discorso volto a spronarli ad usare un maggior rigore nella redazione dei piani, e ad orientare i loro sforzi verso una pianificazione a carattere intercomunale.
In questo noi cogliamo una prima contraddizione. Quando si rinviano come, a quanto ci risulta, sono stati rinviati, parecchi piani di fabbricazione di Amministrazioni comunali senza entrare nel merito delle scelte (che, se sono sbagliate, vanno giustamente contestate per condurle a dimensioni ed ipotesi più accettabili), con l'unica motivazione che è opportuno fare in una certa zona un piano a carattere intercomunale, si mette obiettivamente l'Amministrazione comunale in una situazione particolarmente difficile o penosa, cioè la si pone davanti alla prospettiva di un nuovo lavoro che richiederà anni (nella migliore delle ipotesi, secondo noi, due o tre), rendendole impossibile dare un minimo di assetto giuridico e di impostazione di criteri di edificabilità probabilmente si fanno saltare anche delle ipotesi di vincoli. In sostanza si crea una situazione in cui, a fronte del certo, sta un incerto che probabilmente è molto di là da venire; non solo, ma si avvia, in un momento molto delicato per la situazione delle finanze comunali, l'ipotesi di creazione di strutture tecniche a livello intercomunale quando ancora non sappiamo se riusciremo ad adeguare o creare strutture tecniche in modo che siano idonee al livello comprensoriale, che dovrebbe essere invece il livello dove si impostano discorsi di indirizzo e di scelte veramente qualificate.
La seconda contraddizione che noi cogliamo nella impostazione che l'Assessore ha dato a questa materia è appunto, allora, anche su questo piano, del rapporto fra piani intercomunali e piani di coordinamento territoriale, o piani, comunque, di livello comprensoriale. Non vorremmo che, per risolvere alcune difficoltà a livello comunale, le spostassimo ad un altro livello, cioè razionalizzassimo e migliorassimo le possibilità di rapporto fra alcuni Comuni nell'ambito delle microzone ma introducessimo degli elementi che possono essere altrettanto pericolosi nei rapporti fra le varie microzone di ogni comprensorio, se è vero, in definitiva, che ogni piano intercomunale, poi, rischia di contenere al limite le stesse cose: ipotesi di insediamenti industriali, ipotesi di insediamenti residenziali che non sono collocati in un'ottica di scelte, di distribuzione corretta di funzioni in un ambito territoriale ancora più ampio.
Terzo elemento, che noi giudichiamo pure contraddittorio, dal momento che si sollecitano cose che secondo noi richiedono tempi di maturazione più lunghi, è che, in definitiva, andiamo a sollecitare ed a richiedere delle impostazioni rigorose di carattere intercomunale; cioè, stiamo portando avanti, per vincoli che esistono di carattere nazionale prima ancora che di carattere regionale, delle azioni su alcuni piani (l'edilizia economica popolare, le opere pubbliche, ipotesi di insediamento industriale) che non hanno ancora una loro precisa definizione e che entro certi limiti sono anche poco coerenti con una azione di programmazione.
Cerco di esemplificare. Facciamo il discorso, che so, dell'edilizia economico-popolare. Tutti abbiamo concordemente rilevato, e anche denunciato, che le ipotesi introdotte con le nuove legislazioni a livello nazionale, i vincoli ad interventi su unità di due miliardi, che sono quelli che abbiamo dovuto considerare ultimamente in fatto di edilizia economico-popolare, l'aver dovuto fare riferimento - poiché i Comuni non erano stati in passato sollecitati a predisporre cose di questo genere unicamente a Comuni di una certa dimensione per gli insediamenti di edilizia sovvenzionata e convenzionata; l'essersi tutti i grossi Comuni che erano disponibili a fare queste cose orientati a localizzare questi interventi piuttosto in aree di espansione che sul piano della ristrutturazione delle vecchie realtà residenziali (risanamento dei centri storici), il fatto che ci sia nel nostro Paese un processo di maturazione molto importante ancora da svolgere, da far maturare su questo terreno, ci hanno portato a condurre un lavoro (e non potevamo fare diversamente: i limiti erano quelli che erano, i Comuni non erano pronti), e probabilmente saremo costretti a condurlo ancora per un certo periodo di tempo, di distribuzione sul territorio di interventi di edilizia economica popolare che non seguono ancora certo un disegno di programmazione sufficientemente maturato.
Ci domandiamo se, in questa situazione, piuttosto che spingere i Comuni a fare dei piani urbanistici intercomunali, non sia il caso di promuovere delle azioni di carattere settoriale ma che abbiano già questa visione: spingere i Comuni a fare dei piani di 167 coordinati, piani di insediamenti di nuove aree industriali che passino attraverso il vaglio e la predisposizione politica dei comprensori. Perché, piuttosto di imbarcarli verso ipotesi, ripeto, di assetto rigoroso, metodologicamente perfetto, ma lungo nel tempo e necessariamente astratto, dei problemi urbanistici, non li aiutiamo a sostanziare una realtà nuova attraverso interventi di carattere settoriale ma che, passati al vaglio dei comprensori, abbiano la capacità in una certa misura di predispone e di preparare una realtà migliore? Ci troviamo in una situazione, ci sembra, nella quale dobbiamo ipotizzare due diversi livelli e tempi di intervento: uno è quello di spingere i Comuni a dotarsi rapidamente di un minimo di strumenti, anche se imperfetti, di rapida realizzazione, che pongano per lo meno un argine a certi fenomeni speculativi, affinché essi non continuino a pregiudicare un corretto uso del suolo e del territorio; dall'altro è di avviare un fatto di pianificazione di livello superiore, ma che inevitabilmente deve partire, intanto, da azioni settoriali, e poi da piani territoriali di coordinamento, quindi da una impostazione di distribuzione di funzioni sul territorio nell'ambito dei singoli comprensori che ha la necessità di maturare, e può maturare solo con una certa lentezza, che si pu sostanziare solo attraverso piani di coordinamento territoriale, o piani ripeto, di carattere settoriale, ma a contenuto specifico (edilizia economica popolare, insediamenti produttivi e così via). Questi due modi di procedere potranno avere evidentemente al loro interno degli elementi di contraddizione, ma in definitiva devono ipotizzare una capacità di fare una programmazione, una pianificazione che in una certa misura sia iterativa che sia abbastanza pragmatica, che proceda per aggiustamenti successivi.
Cioè, il problema è appunto quello di premere e stimolare i Comuni perché, nei tempi che è lecito dare sei mesi, un anno - tutti quelli che non li hanno ancora si diano questi strumenti di minima previsti dall'attuale legislazione, e di impostare così un lavoro che nell'arco non di un anno o due ma tre o quattro anni permetta di predisporre degli interventi di pianificazione di livello superiore, che abbiano, quindi, al loro interno queste garanzie, questi elementi di maggior coerenza razionalità, efficienza, in base ai quali ci sia poi una seconda fase di revisione e di aggiustamento degli strumenti. Naturalmente, il tutto accompagnato poi da una legge urbanistica regionale, che, non appena sia chiaro a che assetto si andrà a livello nazionale sul piano della normativa dell'uso dei suoli, possa soprattutto definire livelli di competenza procedure idonee, ponendo ulteriori vincoli, se necessario, in relazione a certe tipologie del territorio piemontese.
Il rischio che noi vediamo nella impostazione della Giunta è che, in sostanza, stimolando i Comuni ad abbandonare un certo tipo di strumenti che noi consideriamo nella situazione attuale ancora importanti e necessari, li si imbarchi sulla strada della predisposizione di piani intercomunali senza connessioni ed interrelazioni con fatti programmatori di ordine superiore come quelli comprensoriali, come quelli che citavo prima (i piani di edilizia economica popolare); criteri nuovi di intervento appunto sul piano dell'edilizia residenziale, degli insediamenti produttivi eccetera; cioè che, in sostanza, non si permetta loro di raggiungere sul breve termine quello che è raggiungibile nell'attuale assetto legislativo, e si creino degli elementi di difficoltà, di contraddizione, di incoerenza nel lavoro di medio o lungo termine, tra l'altro facendo un'azione che in una certa misura, anche se l'Assessore all'Urbanistica ha cercato di conciliarla nel miglior modo possibile nel suo documento, ci appare contraddittoria con le ipotesi di lavoro che il Consiglio regionale nella legislatura precedente si era date ipotizzando appunto di far passare attraverso i comprensori questi fatti programmatori di livello superiore, compresa la definizione delle sub-aree comprensoriali, nei quali si dovessero ricavare poi dei piani specifici.
Queste sono le considerazioni che noi riteniamo di dover fare rispetto alle impostazioni della Giunta. Speriamo che da questo dibattito, che noi abbiamo voluto provocare, nasca la possibilità che questo tipo di inconvenienti non si registri, e la Giunta possa invece impostare un lavoro corretto, al quale, credo, tutte le forze politiche sono interessate, ma in maniera che questo tipo di contraddizioni non abbiano più a registrarsi, o comunque non possano esplicare quegli effetti negativi che noi temiamo, e che, dobbiamo ribadire, nella impostazione che l'Assessore all'Urbanistica ha dato dobbiamo ritenere siano ancora tutti presenti, e pericolosamente presenti.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Alberton. Ne ha facoltà.



ALBERTON Ezio

Signor Presidente, signori Consiglieri, i documenti e gli atti finora prodotti dalla Giunta regionale attraverso l'Assessorato alla pianificazione e gestione urbanistica mi sembra impongano che non ci si limiti a giudicare gli atti esecutivi compiuti o quelli di immediata scadenza, ma che ci si confronti con estrema chiarezza su metodologie ed obiettivi di fondo, _ealizzativi_ alla prospettiva della legge urbanistica regionale.
E' necessario un confronto sul concetto stesso di pianificazione urbanistica, per verificare se, facendo tesoro di esperienze negative e anche positive del passato, è possibile costruire un modello più moderno e più democratico di pianificazione. Abbiamo presenti errori, inadempienze e occasioni perdute del passato, ma anche i contributi culturali e politici sviluppatisi in molte Amministrazioni, a cui anche la Democrazia Cristiana ha dato appoggio. Rifiutiamo per questo giudizi sommari o settari.
Dobbiamo, credo, trovare il modo di uscire dalla troppo pericolosa oscillazione emergente, a mio parere, ancora dai documenti e dagli atti della Giunta, tra una visione illuministica e tecnocratica e un pragmatismo che, rifuggendo da regolamentazioni, tende ad autogiustificarsi ricorrendo al quadro politico.
Il giusto, doveroso obiettivo di riportare l'uso del territorio sotto il controllo degli organi democratici, in una visione concatenata tra i vari livelli, non può ridursi alla riproposizione di una rigida gerarchia scalare di elaborazioni: piano regionale, piano comprensoriale, piano intercomunale, piano regolatore comunale; elaborazioni ipotizzate fattibili una volta per tutte. Ci sembra doveroso sottolineare i limiti, politici e tecnici, di questo modo di operare: politici, perché troppo facilmente questo porterebbe a chiedere forse autoritariamente limitazioni agli enti inferiori, comprimendo la loro legittima ed opportuna capacità dialettica tecnici, perché facilmente si constaterebbe che tutto sarebbe programmato in maglie troppo rigide, considerando solo quello che è dato conoscere in quel certo momento, introducendo poi seri ostacoli al recepimento di quanto, non prevedibile, positivamente può avvenire, pur sfuggendo alle capacità previsionali o di determinazione dell'Ente locale.
Eppure, siamo anche noi pienamente convinti che, preso atto di queste difficoltà, non si può abdicare e rinunciare per ciò stesso né alla giusta subordinazione degli interessi municipalistici rispetto a quelli di più ampia portata, né alla volontà di rendere l'Ente pubblico attore primario dello sviluppo, con il rischio di premiare l'anarchia dei più forti.
Occorre allora prendere atto che la pianificazione urbanistica non pu essere uno schema deciso una volta per tutte (l'"anno zero" ad alcuni tanto caro), ma è un processo che non conosce momenti di definizione finale.
Attraverso questo concetto di pianificazione-processo, noi vogliamo esaltare tutti i contenuti dialettici in esso potenzialmente presenti: dialettica tra i diversi livelli istituzionali (Regione-Comprensori Comuni), dialettica tra le istituzioni e i corpi sociali, dialettica tra le diverse fasi temporali.
E questo processo, più dinamico, e quindi, se non organizzato potenzialmente meno vinco- labile, non deve però ridursi a scelte operate pragmatisticamente, che dovrebbero essere appunto giustificate e ritrovare una bontà incontestabile nell'anima politica di chi le compie. Se perseguiamo l'ideale di uno Stato più democratico, non per questo abdichiamo, anzi, vogliamo esaltare, lo Stato di diritto. Di qui la necessità che questo processo venga opportunamente e chiaramente normato: normato nei rapporti tra i livelli istituzionali (quando la Regione deve operare delle scelte, deve, per esempio, insediare delle abitazioni popolari, o destinare i finanziamenti per opere pubbliche, chi ascolta? E che parametri esamina? ); normato nei rapporti tra le istituzioni e le forze sociali (l'insediamento di un centro direzionale, uno o plurimo che esso sia, deve e può essere deciso in un incontro tra un rappresentante della Giunta e l'Amministratore delegato di una impresa, o non dobbiamo trovare una normativa chiara e valida per tutti e per tutte le occasioni che specifichi le condizioni cui deve sottostare tale insediamento e quali parti sociali deve coinvolgere? ); normato per le interazioni temporali delle scelte (in modo che il Comune possa dire in maniera dialettica alla Regione, che, definita l'allocazione degli insediamenti, per esempio, di case popolari o di insediamenti produttivi, perché queste possano verificarsi, essa Regione deve farsi carico di queste e quest'altre infrastrutture).
Solo se sapremo proporci e realizzare l'obiettivo di normare questo processo di pianificazione saremo sicuri di ricuperare alla programmazione la capacità di strumento-guida dello sviluppo, in un contesto di certezza democratica per le istituzioni, le forze sociali, private e non. Questo per noi democristiani, primi fra tutti, è un terreno di confronto importantissimo, per noi stessi e verso le altre forze politiche; e vorremmo verificare con questo metodo la legge urbanistica regionale e verificare anche gli atti concreti di questi giorni.
Mi sia consentito, tuttavia, tentare di illustrare meglio questi concetti, applicandoli allo strumento del Piano regolatore comunale ed al Comprensorio nei suoi rapporti verso i Comuni e verso la Regione.
Problema importante è come realizzare la subordinazione formale delle scelte urbanistiche comunali a quelle intese intercomunali ed a quelle opzioni "comprensoriali" cui va senza dubbio riconosciuta l'assoluta priorità. Non si può certo negare il rischio di incompatibilità tra le scelte che oggi devono essere operate in ordine ai piani regolatori e quelle che il Comprensorio ed i vari Consorzi di Comuni a vari fini istituendi potranno o dovranno operare in vista del più generale riassetto del territorio. Oltre che di motivi politici, siamo consapevoli di perplessità più propriamente metodologiche, per il fatto che l'anticipazione di un Piano comunale sembra contraddire i postulati di una "gerarchia scalare" tra i vari livelli di pianificazione, secondo la quale le scelte prioritarie in ordine all'assetto territoriale spetterebbero ai Piani territoriali di coordinamento, cui dovrebbero, in ordinata consecuzione logica, seguire i Piani intercomunali e comunali, poi i Piani particolareggiati eccetera.
E' facile osservare che tali perplessità rispecchiano puntualmente quelle che percorrono attualmente l'intera esperienza di pianificazione regionale, e, in larga misura, nazionale. La situazione di stallo che caratterizza l'evoluzione del quadro istituzionale, i ritardi, sempre più gravi, che segnano l'avvio di un reale decentramento amministrativo e di un rinnovamento democratico delle autonomie locali, rendono in realtà sempre più aspra la contraddizione tra le istanze per una gestione più corretta ed "allargata" del territorio e gli strumenti operativi concretamente utilizzabili dalle Amministrazioni locali.
Tuttavia, proprio sul piano metodologico, può e deve essere rinvenuta la possibilità, di un superamento di tale contraddizione, nella misura in cui gli stessi strumenti urbanistici comunali possono essere ripensati in termini nuovi. Senza entrare nel vivo del dibattito politico-culturale che ha alimentato negli ultimi anni il rinnovamento degli strumenti di pianificazione, è però il caso di notare che esso, così come ha, con estrema chiarezza, sottolineato il significato ed il ruolo fondamentale della "dimensione comprensoriale" per un più moderno e democratico processo di pianificazione, con non minore chiarezza ha invalidato quella "gerarchia scalare", da rispettare tra i diversi livelli di pianificazione, che aveva ricevuto così limpida configurazione nella nostra Legge urbanistica del 1942, In realtà, può ormai ritenersi accettata, in tutte le sue implicazioni politico-operative, l'esigenza di un rapporto dialettico tra i vari livelli di pianificazione, come esigenza fondamentale di partecipazione alle scelte per l'uso e la gestione del territorio. Ma è necessario avvertire che tale esigenza è destinata a rimanere confinata nel limbo delle intenzioni qualora non si realizzi, ai vari livelli di pianificazione, quella flessibilità degli strumenti normativi che deve consentire di renderli effettivamente suscettibili di interagire reciprocamente.
Ora, non v'è dubbio che la configurazione tradizionale del Piano Regolatore, con le sue scelte irrevocabilmente e rigidamente fissate in un disegno non più modificabile, rende del tutto improponibile l'instaurazione di rapporti dialettici tra il Piano Regolatore comunale e gli altri livelli di pianificazione.
E' necessario, dunque, per avviare un processo di pianificazione democraticamente articolato a più livelli, ricercare - pur nei limiti dell'attuale quadro istituzionale - quelle configurazioni del Piano Regolatore comunale che consentano di riferirlo dialetticamente alle altre istanze di pianificazione, e in primo luogo alle decisioni che riguardano l'intero comprensorio.
Ciò sarà tanto più possibile quanto più si prenderà realisticamente atto di quello svuotamento della cosiddetta funzione "programmatoria" del Piano regolatore che l'esperienza degli ultimi decenni ha ormai denunciato e si riconoscerà nel Piano regolatore uno strumento di tipo essenzialmente "vincolistico", capace non tanto di dettare autonomamente le linee dello sviluppo urbano (che restano, nell'attuale contesto, condizionate da un ben più complesso gioco di forze agenti sul territorio, in larga misura esterne al campo comunale ed in genere alla sfera di azione pubblica) quanto di controllare i "modi" di tale sviluppo, fissandone le regole di coerenza.
Tale rinnovamento del Piano regolatore comunale assume, in questo particolare contesto storico e territoriale, un preciso significato politico, perché corrisponde all'esigenza che le scelte comunali possano anticipare, senza in alcun modo pregiudicarle, le scelte che dovranno prossimamente emergere a livello comprensoriale e regionale.
Esso può, in altri termini, consentire di evitare le "fughe in avanti" verso una chimerica "dimensione ottimale" per la risoluzione dei problemi urbani e territoriali, senza però ripiegare su superate soluzioni di taglio municipalistico. Il rinnovamento della struttura normativa del Piano regolatore si impone. Si consideri, in questo particolare contesto storico e spaziale, la struttura normativa di tipo tradizionale, basata cioè su un sistema di vincoli "statici". Essa, subordinando ogni intervento attuativo ad una serie di condizioni, opportunamente parametrate ma definite "una volta per tutte", non può fare a meno di basare l'intero disegno del Piano su un insieme di previsioni immodificabili, che l'esperienza rivelerebbe presto in larga misura arbitrarie, o inattendibili, o irrealizzabili, su cui comunque scarsa sarebbe l'incidenza dell'Ente locale. Basti pensare all'effetto travolgente che uno spostamento occupazionale della grande industria (il quale, anche se concordato con i pubblici poteri, non lo sarebbe certo a scala puramente comunale) o una consistente modificazione dei programmi esecutivi di un ente come l'ANAS, potrebbe avere su un sistema di vincoli che pretendesse di predeterminare totalmente entità e caratteristiche dei singoli sviluppi urbani. Qualunque decisione che modificasse le condizioni "esterne" in cui il Piano è stato impostato rimetterebbe in discussione ogni volta l'intero disegno del Piano, dando il via ad una sterile rincorsa degli eventi reali da parte dei programmatori locali. In questa situazione, una certa flessibilità sarebbe ottenibile come l'esperienza insegna, soltanto ad un prezzo molto alto, cioè con una corrispettiva rinuncia a controllare e condizionare gli interventi da farsi: flessibile sarebbe, a questo punto, soltanto un piano "permissivo".
Ad evitare il rischio, è necessario rifarsi a quella profonda ristrutturazione dell'apparato normativo tradizionale che tende ad un condizionamento "dinamico" dello sviluppo insediativo. Tale ristrutturazione può prendere le mosse dal concetto di "capacità insediativa", secondo il quale la insediabilità di ciascun punto o zona del territorio varia al variare del suo grado di urbanizzazione, delle carenze arretrate di servizi eccetera. Gli interventi insediativi non sono più ammissibili semplicemente in base ad un dato cartografico, di disegno fissato dal Piano; essi diventano ammissibili soltanto se, di volta in volta, si verificano nelle realtà determinate condizioni (esistenza e fruibilità di servizi ed infrastrutture, secondo determinati standards).
Poiché l'operatore pubblico ha possibilità di incidere direttamente su tali condizioni, esso cessa di assistere passivamente allo sviluppo della città, e acquista il potere di "guidarlo" e controllarlo. E sotto questo profilo vorremmo ricordare le esperienze culturali e politiche di tante Amministrazioni:pensiamo ad Asti, Alba, Cuneo, Collegno, Ivrea, Aosta, solo per citare un ventaglio di Amministrazioni sicuramente non collocabili tutte ed esclusivamente su un fronte politico.
Ma proprio questo collegamento, irrinunciabile, tra insediamenti e servizi, apre i problemi più ardui. Poiché, nella situazione generale di carenza di servizi ed infrastrutture, tale condizione assume oggi inevitabilmente il significato di un blocco, di un contenimento rigido di ogni possibilità di sviluppo. Una conseguenza dura, difficilmente generalizzabile e applicabile per qualunque Amministrazione. Una conseguenza, soprattutto, non transitoria, a causa dell'impossibilità da parte dell'Amministrazione pubblica di modificare sensibilmente, a tempi brevi, la situazione generale dei servizi, per la sua cronica debolezza finanziaria. Un condizionamento efficace e realistico dello sviluppo insediativo dovrebbe evitare la rigidità dell'alternativa tra blocco assoluto e libertà indiscriminata. Esso dovrebbe consentire all'Amministrazione pubblica di guidare e controllare realmente lo sviluppo, attuando un graduale e selettivo risanamento delle condizioni della città. Esso dovrebbe evitare di subordinare ogni iniziativa attuativa, in ogni parte della città, ad una improbabile avveniristica palingenesi della struttura urbana; e, al contrario, far sì che ogni iniziativa possa inscriversi in un processo di graduale rovesciamento della situazione attuale (e sia lecita solo a questa condizione).
E' stato introdotto da più parti il concetto di "grado di rispondenza" di una misura, cioè, articolata e complessa, dell'insieme delle condizioni in cui versa ogni zona o parte della città. Come rapporto tra le disponibilità reali e quelle ritenute, responsabilmente, accettabili dall'Amministrazione comunale in base ai traguardi che essa si pone nei suoi programmi esecutivi.
Ecco che allora l'adozione di un sistema di vincoli non statici affidando a strumenti ben più agili e incisivi il controllo della dinamica reale degli sviluppi insediativi, consente di restituire ai contenuti tradizionali del Piano regolatore la funzione loro propria, che non pu certo essere quella di una guida dello sviluppo urbano (come l'esperienza ha amaramente dimostrato). Sta ad essi indicare "dove" e "cosa" può essere realizzato nel territorio comunale, ma spetta a strumenti normativi di tipo "dinamico" stabilire "se" e "quando" tali realizzazioni possono aver luogo.
Ecco che allora la conclusione che i piani regolatori non devono recare solo i tradizionali vincoli spaziali sull'uso del territorio, ma anche determinare quali equilibri devono essere costantemente rispettati (fra insediamenti e infrastrutture, e anche fra le destinazioni d'uso degli insediamenti); definendo anche le condizioni e le successioni temporali nell'esecuzione degli interventi, risalta davvero la funzione programmatoria dell'Ente locale, attraverso programmi periodici aventi forza vincolante.
Si pone subito il problema di come far funzionare sistemi come quelli prospettati in presenza o in assenza di una programmazione territoriale.
Si può dire che proprio un sistema come quello dei vincoli dinamici pu in qualche misura salvare il processo di pianificazione locale anche di fronte alle più serie ipotetiche difficoltà nell'individuazione del comprensorio, oppure di fronte al concreto mancato funzionamento del comprensorio stesso come organo formale di progettazione del territorio.
Infatti, ricordiamo che il sistema di nessi prospettato tende, in ogni caso, a coinvolgere non soltanto gli equilibri locali ma anche quelli estranei alla realtà strettamente locale, e, soprattutto, ai potere locale.
Certamente, non sarà facile, in assenza di una impostazione pianificatoria globale, articolare in modo esauriente gli equilibri già detti. I Comuni potranno e dovranno, però, non appena i programmi concepiti lo esigeranno, riferirsi a certi problemi non risolvibili localmente rinviando le relative responsabilità operative alla Regione, senza escludere che localmente gli sviluppi possano essere normativamente condizionati alla soluzione di quei problemi. E questo può valere per le grosse infrastrutture necessarie a certi sviluppi, per la presenza di edilizia popolare o di attività prioritarie, e così via: tutte cose cui provvederà, se vorrà e potrà, la Regione, ma che il Comune individua come condizionanti nel sistema locale degli equilibri.
Naturalmente, quando poi, da parte dell'Autorità regionale (o comprensoriale), si darà luogo ad una formale pianificazione del territorio, in quella sede potranno e dovranno meglio definirsi i nessi e gli equilibri di portata sovracomunale.
Ma intanto pare logico ritenere che fin d' ora possa funzionare quel rapporto dialettico fra i piani locali e la politica comprensoriale secondo cui a quest'ultima (formalizzata o meno in piani) compete una funzione prevalentemente programmatoria, e cioè la determinazione delle cose che via via devono collocarsi sul territorio, mentre a quelli compete prevalentemente la definizione dei modi e degli equilibri secondo cui le cose stesse potranno localmente realizzarsi.
Il Comprensorio deve dunque essere un governo intermedio tra Regione e Comuni, capace di un'azione efficace nei confronti dell'una e degli altri Ma con quali funzioni specifiche? Una posizione non infrequente in materia tende a limitare l'azione del governo comprensoriale ad un generico coordinamento volontario delle iniziative autonome dei Comuni appartenenti ad una medesima unità territoriale; e ciò specialmente per i settori dell'urbanistica e di alcuni servizi pubblici, per i quali la formazione di consorzi potrebbe dimostrarsi conveniente.
Una espressione tipica di questo atteggiamento è il ben noto Piano regolatore intercomunale, le cui teoriche capacità di coordinamento esigerebbero, per realizzarsi nella pratica, una omogeneità di situazioni ed una solidarietà di intenzioni che l'esperienza ha dimostrato praticamente irraggiungibili, se non come momento iniziale di incontro a livello dei più generali (o generici) indirizzi propositivi.
Ma la necessità di ottenere "almeno" il coordinamento degli strumenti urbanistici comunali e degli interventi per opere pubbliche non sembra proponibile come contenuto qualificante dell'ordinamento comprensoriale. Ci si deve chiedere, al contrario, se attraverso simili atteggiamenti non si rischia piuttosto di far passare a livello locale velleità di ricupero di stantii municipalismi; tanto più che, in definitiva, il comprensorio consorzio potrebbe in tal modo coprire strumentalmente il rinvio di scelte efficaci di programmazione e pianificazione.
Una seconda ipotesi per il governo comprensoriale tenderebbe invece a riconoscere per esso le competenze di un "ufficio staccato" della Regione rispetto alle cui decisioni sarebbe consentito ai Comuni soltanto l'esercizio autonomo di funzioni esecutive, o poco più. Il rischio di tale ipotesi non consiste soltanto nella burocratizzazione dei processi decisionali, e cioè nell'annullamento di ogni capacità partecipativa reale: essa significherebbe anche la fine delle autonomie locali, come se la loro attuale crisi avesse il significato di definitivo ed irrecuperabile deterioramento, ciò che è comunque da dimostrarsi. Trattasi chiaramente di una posizione conservatrice, che tende a vanificare dall'interno i nuovi ordinamenti attraverso l'apparente adesione ad essi, dal momento che certo su di essa si determinerebbero tensioni e conflitti ben difficilmente componibili, con il risultato della neutralizzazione di ogni nuova capacità operativa.
Tanto più necessaria appare questa partecipazione dei Comuni al dibattito comprensoriale se si riconosce che il riordinamento dei governi locali deve procedere, come si è già affermato, non soltanto verso la razionalizzazione degli interventi settoriali, ma piuttosto verso una politica generale di programmazione e pianificazione, di cui i comprensori costituiranno il livello intermedio di formazione e di gestione.
E' necessaria questa partecipazione dei Comuni al dibattito, perché al governo comprensoriale dovrà competere il coordinamento progettuale e operativo delle politiche settoriali che investono direttamente i Comuni: dalle zone agricole e montane ai distretti scolastici, dai "comprensori" di bonifica ai piani di zona per l'edilizia economico-popolare, dai piani consortili per le attività produttive industriali, artigianali commerciali, ai piani comprensoriali dei servizi sociali, dai bacini di traffico alle unità sanitarie locali e ai comprensori ospedalieri, dai consorzi per le opere pubbliche ai piani comprensoriali di sviluppo delle reti commerciali, dai piani regolatori intercomunali ai piani territoriali di coordinamento. Si tratta di predisporre non una serie di comprensori disarticolati di settore, ma di unificarli tutti in un unico comprensorio di programmazione e pianificazione generale che li "governi" nel quadro generale, rispetto alla cui definizione è ben chiara la diretta competenza degli Enti locali.
Ora, è appunto rispetto alle funzioni di sintesi programmatica da affidare al Comprensorio che assume un preciso significato l'organizzazione operativa del territorio comprensoriale per "sub-comprensorio". La legge istitutiva piemontese "accenna" soltanto al sub-comprensorio, senza definirne affatto le competenze e le dimensioni. Ma queste sembrano direttamente deducibili appunto dall'analisi delle funzioni comprensoriali Il sub-comprensorio si presenta, nella logica programmatoria comprensoriale, come "minima unità operativa" di riferimento dei programmi di gestione delle politiche settoriali. Ad ogni sub-comprensorio potrebbe opportunamente essere affidato, per il territorio di sua competenza, il compito fondamentale di predisporre, in accordo con i Comuni, i progetti operativi degli interventi settoriali programmati complessivamente dal governo comprensoriale, in proporzione alle risorse disponibili, ed a diretto contatto con gli Enti locali.
Dal punto di vista tecnico, si deve riconoscere che in tal modo potrebbero essere garantite la qualità dei progetti attuativi e la efficienza operativa degli interventi; dal punto di vista politico, il diretto contatto tra sub-comprensori e Comuni potrebbe a sua volta garantire il controllo di questi sul concreto attuarsi dei programmi comprensoriali, mentre, rispetto alla reale dimensione dei problemi settoriali da affrontare, sembra possibile in tal modo evitare il frazionamento dei piani operativi in "lotti" affidati unicamente alle capacità locali, non sempre adeguate per motivi obiettivamente insormontabili. Si otterrebbe così, oltre a più qualificate condizioni di razionalità progettuale e di efficienza operativa, una "moltiplicazione" delle risorse finanziarie e tecniche locali, in termini di economie progettuali e gestionali. In sostanza, si tratterebbe di riconoscere al comprensorio una "efficacia politica decisionale" di programmazione, al sub comprensorio una "efficacia tecnico-operativa" sotto il controllo degli Enti locali.
Ne risulterebbe compromessa l'autonomia degli Enti locali? Al contrario, nella misura in cui al sub-comprensorio fossero riconosciute competenze unicamente operative, per attuare i programmi decisi nel quadro regionale dal governo comprensoriale, il quale, a sua volta, come si è già notato, costituirebbe la più reale garanzia delle autonomie locali appunto per la sua qualità di "autogoverno comunale", governo assembleare di Comuni sopra i Comuni. Il sub-comprensorio, nelle prospettive sopra indicate nulla aggiungerebbe, dunque, ma nulla toglierebbe, a questo autogoverno, e quindi alle stesse autonomie locali; consentendo invece la gestione tecnica degli interventi in dimensioni proporzionate alla loro effettiva consistenza.
Una ulteriore capacità operativa potrebbe però essere riconosciuta ai sub-comprensori: la capacità cioè di "autogoverno" gestionale, delle funzioni sociali realizzate attraverso i programmi di intervento. In altri termini, il sub-comprensorio, come il quartiere urbano, potrebbe configurarsi, sotto il controllo generale del comprensorio e specifico dei Comuni partecipanti, come momento autentico della partecipazione popolare alla gestione dei servizi sociali, dalla sanità all'istruzione, dai trasporti al tempo libero. Da questo punto di vista, "tutto è da inventare"; ma, se è vero che la partecipazione popolare non può non trovare suoi obiettivi limiti in un coordinamento preciso con le istituzioni democratiche, non si può neppure ignorare il contributo che non soltanto a livello complessivo del dibattito politico, essa pu garantire verso il raggiungimento di un effettivo "uso sociale" delle strutture territoriali e settoriali.
Questi sono alcuni concetti che ci è sembrato opportuno evidenziare.
Forse allargano la problematica rispetto a quella dell'indagine dell'analisi della situazione in atto degli strumenti urbanistici dei singoli Comuni giacenti presso l'Amministrazione regionale. Però abbiamo inteso in questo modo invitare la Giunta e tutte le forze politiche a ritrovare su queste linee di tendenza un terreno di confronto, proprio per dare un significato anche agli atti che immediatamente dovrebbero essere compiuti nei confronti delle Amministrazioni comunali.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Calsolaro.



CALSOLARO Corrado

Per trarre alcune considerazioni a conclusione della relazione dell'Assessore Astengo è opportuno prendere le mosse da un dato significativo e comunque tale da condizionare l'intero quadro complessivo della politica urbanistica regionale.
Mi riferisco, cioè, a quel 5 % dei Comuni della nostra regione che ospita il 60 % degli abitanti, dal che risulta che su una popolazione di 4.450.000 abitanti, 2.670.000 sono concentrati in 51 Comuni, mentre i restanti 1.757.000 sono sparsi in 1158 Comuni.
Si tratta - per i 51 Comuni indicati - di quelli concentrati in massima parte nelle aree che hanno avuto il maggiore sviluppo, e che presentano ovviamente i problemi maggiori. Attorno ad essi, in quanto costituenti i diversi poli di comprensorio, sono state ritagliate le relative zone di influenza.
Ad esempio, attorno a Torino si è considerata un'area comprensoriale di 230 Comuni; attorno ad Ivrea un comprensorio di una settantina di Comuni, e così di seguito per tutto il Piemonte. In alcuni comprensori si trovano le Comunità montane, che hanno struttura, amministrazione e gestione autonome difformi dal resto dell'area comprensoriale, di cui pur fanno parte, e che non ha ancora una propria organizzazione.
Che cosa significa questo? Che a livello organizzativo del comprensorio occorre individuare una matrice che, nelle sue varie componenti, sia in qualche modo affine o correlata a quella individuata per le Comunità montane.
Le Comunità montane sono da considerarsi, nell'ambito dei rispettivi comprensori come aree sub-comprensoriali con particolari problemi che emergono differenziandosi sensibilmente da quelli del resto del comprensorio.
Analizzando i problemi del resto del comprensorio rileviamo un'altra differenziazione tra le aree che hanno subito il maggiore sviluppo rispetto ad altre che invece sono rimaste stazionarie in quanto collocate su di un territorio con caratteristiche prevalentemente agricole.
Accertato ciò, si tratta di intervenire in primo luogo sulle aree che hanno subito il maggiore sviluppo, quelle cioè ubicate attorno ai centri principati.
Queste aree possono essere considerate come "aree patologiche", o di primo intervento, con uno specifico proprio determinato da carenze e da arretrati sociali e funzionali da affrontare e da risolvere ad ogni livello. La loro individuazione è condizione preliminare per l'indicazione delle linee di base riguardanti il loro futuro in armonia con il programma e gli indirizzi del piano di sviluppo regionale per il necessario riequilibrio della Regione.
Suscita certamente delle preoccupazioni quanto è affermato nella relazione dell'Assessore secondo la quale solo i 51 Comuni con popolazione superiore ai 10.000 abitanti possono essere controllati dalla Regione per il fatto che hanno degli uffici tecnici, mentre i restanti 1158 Comuni (che riguardano, pur essendo minori, una parte non trascurabile della popolazione piemontese, 1.757 000 abitanti, pari al 40 % del totale) sfuggono al controllo regionale.
Le perplessità nascono da questa specie di confessione oggettiva di impotenza della Regione, che peraltro ha delle competenze fondamentali da assolvere in materia di pianificazione urbanistica alle quali non pu evidentemente rinunciare.
L'azione di controllo della Regione dovrebbe essere esercitata secondo una articolazione che preveda interventi coerenti alle caratteristiche delle singole aree ed alla loro diversa tipologia.
Per le Comunità montane, che comprendono complessivamente 486 Comuni la predisposizione di singoli piani intercomunali e la organizzazione di uffici di piano con la collaborazione attiva della Regione.
Non va trascurata la possibilità di un raggruppamento delle diverse Comunità montane specialmente di quelle maggiormente frazionate o atomizzate, come accade per esempio per il Canavese e per il Vercellese (mi ricordo di non avere votato - nel corso della I legislatura - a favore della legge istitutiva delle Comunità montane proprio perché mi era sembrato abnorme il criterio seguito di un eccessivo frazionamento delle stesse e soprattutto per non essere stata attribuita loro, come invece proposto dall'allora progetto socialista di istituzione delle Comunità montane, una competenza obbligatoria in materia di urbanistica e quindi di piani territoriali) per consentire ad esse di potersi dotare degli strumenti e dell'organizzazione necessari per affrontare con efficacia e validamente i problemi riguardanti le loro aree che - come ho detto - sono troppo frazionate e limitate sia a livello territoriale, sia a livello demografico.
2 Per le aree di maggior sviluppo (quelle definite patologiche, o sub comprensori di primo intervento), la loro delimitazione, per intervenire a livello di pianificazione intercomunale alla quale affidare la risoluzione dei problemi e degli indirizzi fissati dal programma di sviluppo regionale.
3. Delimitazione delle aree di intervento delle zone collinari (Torinese Monferrato, Langhe, e così via), secondo criteri simili ed aggiornati rispetto a quelli ai quali si ebbe ad informare l'individuazione delle Comunità montane.
Si tratta infatti di sub-comprensori che hanno caratteristiche tali da renderli suscettibili di interventi particolari, per la salvaguardia dei beni culturali storico-ambientali; per la conservazione degli aspetti paesaggistici; per la valorizzazione delle specifiche colture; per l'introduzione del turismo sociale; e per tutti quegli indirizzi atti a rivitalizzare il tessuto connettivo esistente.
4. I Comuni fuori dagli ambiti considerati (e cioè montano, urbano collinare) sono quelli delle zone agricole pianeggianti che non hanno avuto una pressione rilevante e che, conseguentemente, dovrebbero avere una regolamentazione più semplice, esclusivamente a livello di programma di fabbricazione provvisorio e ridotto, da meglio precisare in sede di piano zonale agricolo quale elemento di saldatura tra i vari sub-comprensori e le Comunità montane.
Questa classificazione sommaria permetterebbe di semplificare i problemi della pianificazione urbanistica per intervenire con maggior vigore sulle aree di più rilevante interesse, con l'energia e la capacità che la Regione deve sapere esprimere.
Non dimentichiamo, per esempio, che a livello delle Comunità montane la Regione dovrebbe intervenire per un controllo immediato, specialmente nelle zone interessate dallo sviluppo degli sport invernali: in queste zone la compromissione è stata certamente più massiccia, e pertanto l'intervento regionale deve determinare, o concorrere a determinare, una inversione di tendenza bloccando lo sviluppo indiscriminato.
Si tratta di fermare, di non lasciare continuare, gli scempi verificatisi in luoghi come Bardonecchia, Sauze d'Oulx, Sestriere, Limone Frabosa (per citarne alcuni), esempi tipici di razzia ambientale e paesaggistica, di classica colonizzazione della montagna, che non possono essere accettati supinamente.
A livello delle aree sub-comprensoriali nelle quali l'espansione ha assunto forme più imponenti, occorre fissare gli ambiti da assoggettare alla pianificazione intercomunale e di intervenire su quanto sino ad oggi è stato costruito.
Questi sub-comprensori, aree patologiche di forte sviluppo, dovrebbero essere analizzati in relazione agli strumenti urbanistici esistenti per realizzare il loro recupero funzionale e sociale.
Lo stato di compromissione esistente, evidenziato dalla relazione dell'Assessore che avverte appunto la necessità di un recupero indispensabile, pone la questione del tipo di intervento da adottare.
Bisogna allora predisporre, sul tessuto esistente a livello comunale, la prima maglia operativa di base, rivedendo la definizione di ogni singolo piano.
Si tratta, in sostanza, di far prevalere una visione dei problemi della pianificazione che parta proprio dal tessuto esistente, operando su di esso.
Si devono in primo luogo prendere in considerazione le aree più consolidate, generalmente rappresentate dai centri storici e dalle zone che fanno corona ad essi (e cioè le zone A e B di cui al D.M. 2 aprile 1968).
Queste aree non dovrebbero essere ulteriormente compromesse se non dopo che il Comune abbia realizzato un piano particolareggiato di sistemazione che possa recuperare i tessuti attraverso una accurata radiografia delle situazioni di fatto, al fine di percepire le possibilità innovatrici che queste aree possono realizzare.
All'interno di queste aree si dovrà cercare di realizzare un riequilibrio di carattere sociale e funzionale, nonché di carattere formale, per dare agli ambienti un volto umano qualificato, agendo anche su elementi semplici come l'arredo urbano e l'introduzione del verde intervenendo sulle sistemazioni viarie, creando assi o isole pedonali parcheggi, e tutta una serie di operazioni che dovrebbero completare un discorso necessario a rivalutare l'ambiente urbano fornendolo di tutte le attrezzature pubbliche necessarie.
Per le aree omogenee di tipo C occorre prendere in considerazione soltanto le aree, parzialmente compromesse, secondo un parametro da stabilire, vietando ogni ulteriore sviluppo delle aree di espansione e risolvendo i loro problemi attraverso piani esecutivi di iniziativa pubblica.
Occorre che queste aree siano dimensionalmente ridotte, per riequilibrare il territorio a vantaggio delle zone A e B adiacenti, da sistemare.
Si tratta, così, di prevedere un altro disegno urbano attraverso uno sviluppo a nuclei circondati da zone verdi, anziché privilegiare il classico sviluppo a macchia d'olio con l'espansione della rete viaria realizzata poi a scacchiera, e di interrompere lo sviluppo delle zone B attraverso fasce di rispetto destinate a verde o ad attrezzature pubbliche per proporre all'espansione un disegno a nuclei di dimensioni tali che possano sostenere attrezzature pubbliche dimensionalmente accettabili sul piano sociale.
E' auspicabile, per non rallentare la produzione edilizia, che le operazioni relative a questi piani siano compiute in un arco di tempo non superiore a dieci-dodici mesi, sufficienti per affrontare tutte le fasi di elaborazione, di adozione, di pubblicazione e di approvazione finale da parte della Regione.
Se questi tempi fossero realmente rispettati si concorrerebbe a favorire una autentica credibilità negli strumenti urbanistici. I Comuni sarebbero maggiormente indotti a seguire il sistema tecnico dei piani particolareggiati che non a realizzare l'attuazione dei loro strumenti urbanistici attraverso i piani di esecuzione di iniziativa privata, Questi sono in genere territorialmente non idonei ad affrontare i problemi della pianificazione urbana, perché intervengono sovente su aree limitate non sufficienti a garantire delle unità minime di servizi e difficilmente sono coerenti al disegno urbano che li circonda.
Passando alle aree industriali, sembra opportuno di dover rilevare che per ogni sub-comprensorio vadano operate delle scelte di contenimento.
Ad esempio, nell'area metropolitana di Torino, limitata a 53 Comuni sarebbe stato accertato che 8.088 ettari sono destinati, dagli strumenti di pianificazione comunale, all'industria. Ciò significa che teoricamente potrebbero esservi occupati 808.800 operai: una previsione evidentemente del tutto spropositata che occorre seriamente ridimensionare, tenendo conto della problematica particolare dell'industria torinese, in rapporto al riequilibrio regionale e alla sua riconversione produttiva.
Occorre pertanto un'indagine per ridimensionare le previsioni, con l'eliminazione di tutte le aree non ancora compromesse da insediamenti esistenti o da atti già approvati.
Questa prima setacciatura permetterebbe di conoscere realmente la situazione attuale, l'espansione avvenuta in questi ultimi anni; di elaborare un piano che tenga conto delle necessità future dell'industria e dell'artigianato, ed inteso a favorire e a soddisfare il decentramento delle aree più congestionate.
Si tratta, in ultima analisi, di fare delle scelte coerenti al processo di trasformazione in atto per individuare la localizzazione delle nuove aree attrezzate in aderenza ad uno schema di previsione del futuro dell'area metropolitana.
In questa maglia delle situazioni consolidate, di quelle da recuperare e da salvaguardare, si dovrebbero cercare gli elementi di connessione che possono determinare alcune strutture portanti riequilibranti e tendenti a vertebrare il territorio.
Ciò va fatto non attraverso una razionalizzazione del sistema attuale che in pratica consisterebbe in una evidente rinuncia, ma indirizzando gli sforzi verso il recupero graduale delle situazioni che congestionano l'area e di quelle che risulterebbero in contrasto col disegno generale di piano.
Pertanto la revisione urbanistica di ogni area sub-comprensoriale potrebbe avvenire in due fasi logicamente concepite come successive ma cronologicamente interconnesse fra di loro.
La prima dovrebbe riguardare i provvedimenti e le azioni da assumere nei vari Comuni in ordine alle aree omogenee di tipo A e B, indicate dai piani vigenti per il loro recupero sociale, funzionale ed ambientale; i provvedimenti da imporre nelle aree di espansione di tipo C (escludendo i piani zonali della 167) con interventi per un nuovo disegno urbano coerenti al territorio; i provvedimenti per rivedere la situazione delle aree produttive in conformità alla programmazione regionale, per la ricerca di un nuovo equilibrio territoriale con l'individuazione delle nuove aree attrezzate in applicazione della 865.
Questi provvedimenti di prima fase dovrebbero permettere di poter affrontare la pianificazione dei singoli sub-comprensori di maggiore sviluppo avendo sgombrato il campo dalle scelte che oggi compromettono, se accettate come sono, qualsiasi intervento organico sul territorio.
In questo modo viene affrontata la prima maglia delle due grandi categorie dell'uso del suolo, costituita dagli insediamenti residenziali e da quelli industriali.
I problemi di seconda fase che riguardano le scelte per le nuove aree attrezzate, per le nuove espansioni residenziali, per l'istruzione superiore, per l'Università, per la terziarizzazione sociale di tipo pubblico e privato, per il tempo libero, per i trasporti, per il verde, per le strutture sanitarie di livello superiore, per la rete delle infrastrutture comprensoriali sono da rimettersi alla pianificazione generale da realizzarsi a tempi brevi.
Questi servizi e queste strutture, opportunamente calibrati costituiscono gli elementi portanti e riequilibranti del territorio, e precisamente la seconda maglia che deve sovrapporsi alla prima.
Occorre pertanto intervenire immediatamente sulla prima maglia, quella più minuta, per riordinarla, recuperarla e socializzarla, operando senza compromettere le scelte a livello della seconda maglia che deve costituire la struttura connettiva dell'insieme.
La maglia minuta esiste ed è su quella che si deve intervenire subito con operazioni qualificanti necessarie alla sua rivitalizzazione. La seconda maglia può calarsi in questa realtà, configurando scelte con caratteristiche tali da nobilitare l'azione pianificatrice anche nei confronti della maglia minuta, creando un necessario raccordo, una opportuna compenetrazione tra i due ordini di problemi. In questo modo si affronterebbero i problemi più minuti che i territori compromessi hanno da risolvere avviando un processo di recupero graduale nel tempo, permettendo con le scelte fatte sul recupero urbano di calare i problemi superiori su di un tessuto in via di sistemazione.
Si eviterebbe pertanto di attendere la pianificazione per affrontare i problemi esistenti nella maglia più minuta.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Carazzoni.



CARAZZONI Nino

Signor Presidente, Colleghi Consiglieri, un dibattito sull'urbanistica presuppone - o, almeno, dovrebbe presupporre - la specifica ed approfondita conoscenza della materia in esame.
Siamo purtroppo privi - e lo confessiamo apertamente - di una siffatta competenza: ma, tuttavia, se questa minorità costituisce un obiettivo limite al nostro intervento, ugualmente ci è sembrato doveroso, ancorch opportuno, partecipare a questo dibattito, non foss'altro che per affermare talune considerazioni: non quelle di cui sono capaci i grandi disciplinari di turno, ma quelle - elementari, se si vuole - del cittadino qualunque.
A giudizio del quale, il dire che l'urbanistica versa in una grave situazione, è affermazione lapalissiana ed altrettanto risulta chiaro a chi debba ascriversi la responsabilità di una tanto abnorme situazione. Ma il problema è grave,ancor più, a monte delle responsabilità regionali. Con questo vogliamo ricordare l'approvazione da parte del Consiglio dei Ministri (29 novembre 1975) del disegno di legge sulla edificabilità dei suoli che ebbe una immediata e vasta eco negli ambienti politici ed economici.
A nostro parere si tratta di continui impedimenti (spesso solo di aride enunciazioni programmatiche, che lasciano poi il tempo che trovano) cioè quasi delle reti in cui imbrigliare ogni timido accenno di ripresa edilizia: e così la realtà amara del blocco delle costruzioni trova alimento dalle farraginose elucubrazioni tra le sinistre ed i democristiani, questi ultimi costretti a subire ormai la pressione incalzante di chi sa di poterla fare da padrone. Non ultima violazione urbanistica, tanto per semplificare le vicende, è quella rappresentata dal prolungamento o proroga dei vincoli urbanistici sui suoli, vincoli che la Corte Costituzionale già ebbe a dichiarare illegittimi: per cui, di conseguenza, appare assai dubbia anche la legittimità costituzionale di questo modo di procedere che segna ulteriore aggravio ad ogni iniziativa volta ad avviare l'edilizia su termini concreti, chiari, il più possibile equilibrati anche in funzione della proprietà, che non può essere mortificata, compressa e sconnessa dalla miopia demagogica la quale, tutto volendo fare e provvedere, finisce invece per tutto paralizzare. Né va sottaciuto il fatto che proponendo, continuamente, minacce di provvedimenti in danno della proprietà stessa, si finisce per disincentivare ogni spunto operativo in favore di una auspicabile edilizia. In più si alimenta proprio in virtù di programmate azioni spogliatrici che poi tardano a verificarsi (e qui i sospetti si allargano per un discorso che potrebbe portarci lontano), quella fuga di capitali che noi condanniamo come furto alla collettività, ma che non possiamo non riconoscere nella sua drammatica realtà. In altre parole: le lunghe, ripetute minacce di spogliazioni e di prevaricazioni in danno della proprietà o della iniziativa edilizia privata ottengono risultati estremamente pericolosi per tutta la collettività. E di ciò noi chiamiamo responsabili sia il Governo che dal 1945 non è ancora riuscito a varare una legge urbanistica, sia la Regione, che avrebbe potuto già fare più e meglio poiché, more solito, i provvedimenti arriveranno spesso, quando sarà troppo tardi e molti dei guasti che vengono giornalmente elencati (e spesso sono guasti veri e inconcepibili in un Paese moderno) saranno guasti irreparabili. Noi crediamo che l'Assessore Astengo, professionalmente assai impegnato in vicende urbanistiche di vasta entità sia economica che sociale, nelle sue prese di contatto assembleari avrà pur constatato che molti Comuni spudoratamente godono di benefici urbanistici che ad altri, magari confinanti, vengono negati. Così, in questi anni, proprio sotto il regime della Regione si sono visti premiare assurdamente, proprietà e terreni che avevano altre vocazioni urbanistiche o che, quantomeno, avrebbero avuto bisogno di definizioni urbanistiche tali da frenare la convulsa ed irrazionale crescita. Ma perché ciò accade? Accade perché un altro Comune non riesce ad ottenere in tempo equo ed utile lo strumento urbanistico efficiente, capace di raccogliere le attese dei cittadini. E questi vanno dove possono costruire, concretamente, non a chiacchiere, poiché l'inflazione spesso annulla i sudati risparmi di chi ha lavorato magari una vita per ottenere il premio di una casa in proprietà.
Le dettagliate analisi statistiche dell'Assessore all'Urbanistica fanno emergere un quadro caotico e quanto mai negativo circa la posizione, nei confronti degli strumenti urbanistici, dei Comuni piemontesi. Ma questo disordine, ma queste mancanze, ma tutte le inadempienze a chi si debbono ascrivere? Non ci pare credibile asserire che la "situazione urbanistica sfugge ad una seria possibilità di controllo" perché, se così fosse, non si giustificherebbero né la carenza di disposizioni per il passato, né lo stato confusionale attuale.. Perché è altrettanto inutile studiare e ristudiare il già studiato per il passato per poi concludere che occorre l'impianto di nuove revisioni: cosicché qui si rischia davvero di porsi nella condizione del cane che cerca di mordersi la propria coda.
La conseguenza del caos urbanistico è davanti agli occhi di tutti E l'opinione pubblica è ormai stanca di ascoltare sempre i funamboleschi discorsi dei grandi disciplinari di turno in ogni occasione Il giocare con l'urbanistica - o lo scherzarvi - e altamente drammatico. La posta in gioco e grossa, osiamo dire primaria.
L'aver paralizzato l'attività edilizia privata, insieme a quella pubblica (che, non lo si dimentichi, riesce solo a contribuire con un 5 circa al costruito in Italia) è provocatorio nei confronti della Nazione.
E' semplicemente scandaloso e tende a premiare solo chi e avvezzo a pescare nella miseria e da questa trova spunto per mutamenti più o meno legittimi, quantomeno sotto il profilo di una eticità che ricordarla pensiamo non sia male davvero.
Paralizzare l'edilizia in attesa dei grossi piani o delle varianti su piani che sono già vecchi quando nascono (e il problema è a volte persino scandaloso perché serve al potere per fare e disfare a seconda di interessi che, se possono a volte essere validi, sono però eticamente non puliti o quanto meno contrari al concetto di giustizia eguale per tutti) è miopia politica e sociale. E', quasi sempre, gioco e aspetto di patteggiamenti politici, un modo tutto italiano di autolesionismo collettivo, giacché il piano urbanistico equivale a quello edilizio.
Così i capitali votati all'edilizia emigrano, escono di casa, ed è pure difficile condannare del tutto coloro che depauperano la ricchezza nazionale quando si abbia presente che tale ricchezza dovrebbe essere congelata, magari defraudata, perché manca, legittimamente, la possibilità di operare con qualche tranquillità sia nel regime dei suoli sia nel regime della costruzione. La Regione, invece di rapidamente risollevare un settore semiparalizzato qual è quello dell'edilizia, studia e ristudia nuove complicanze procedurali. Non discutiamo, e non lo sappiamo fare, sulla validità teorica dei sommi pensieri dei devoti dell'urbanistica. Discutiamo solo di tempi e di provvidenze. Di aspettative deluse e di risultati che non ci sono.
E adesso Lei, Assessore Astengo, ci viene a dire che bisogna ricominciare tutto da capo, riportando il Piemonte all'anno zero.
Onorevole Assessore, noi ci sentiamo invece - nel quadro di tutto ci che sin qui siamo andati sottolineando - di esortarla a "scendere sulla terra", a fare presto e bene le poche cose che si possono fare, e fare in modo di aprire se non grandi strade nuove, almeno qualche sentiero, dove coloro che desiderano operare attivamente per costruire case, cooperative comprese, case popolari tra le prime, siano posti in condizione di poterlo fare.
In un dibattito sull'urbanistica, questi concetti elementari, ed insieme fondamentali, non potranno essere sottaciuti dalla Destra Nazionale.
Anche perché, interpretando correttamente quanto qui anticipato e dall'intervento del Presidente della Giunta e dall'Assessore all'Urbanistica, se ne debbono trarre le seguenti preoccupanti conseguenze: 1 Tutti i piani regolatori, i programmi di fabbricazione, le relative varianti giacenti in esame od inviati alla Regione successivamente al 15 giugno sono stati ovvero saranno in gran parte respinti per essere rifatti sulla base delle nuove linee programmatiche ed in relazione alla futura legge urbanistica regionale, sempre in una visione intercomunale: per conseguenza i Comuni dopo anni o decenni di attesa e dopo molte spese non hanno alcuno strumento urbanistico, con la conseguenza che l'edilizia o viene bloccata ovvero viene disciplinata unicamente dalla legge 765 del 6.8.1967, la quale per l'art. 17 prevede gli indici di fabbricazione nel rapporto 1,50 nei centri abitati e 0,10 mc/mq nelle altre parti, sempre che i Comuni non applichino le cosiddette misure di salvaguardia in rapporto a strumenti urbanistici che i Comuni però sanno che saranno respinti dalla Regione.
2. Tutti i piani di lottizzazione con le relative convenzioni verranno e, di fatto sono, fermati presso gli uffici regionali, salvo - a quanto risulterebbe - alcune eccezioni: basta vedere al riguardo, come per i piani regolatori, gli atti della Regione dopo il 15 giugno e confrontarli con i periodi precedenti.
Certamente alcune lottizzazioni, specie nei Comuni turistici, possono e debbono essere modificate per ridurre speculazioni e salvaguardare l'ambiente: però diverse altre lottizzazioni sono rese obbligatorie dalle norme urbanistiche, che prescrivono per molte zone non edificate, definite di espansione la obbligatorietà della lottizzazione: per conseguenza molti piccoli proprietari spesso non possono costruire i terreni faticosamente acquistati ovvero da anni in proprietà se non con tale procedura, la quale ora viene in pratica bloccata o resa molto lunga e difficoltosa.
3. La maggior parte dei progetti di opere pubbliche, trasmessi alla Regione, la quale aveva richiesto tale invio entro il 31 gennaio 1975 per esaminarli e per poterli finanziare con contributi in conto capitale o con interessi, sono fermi,non evasi e non esaminati, non già perché incompleti ma prevalentemente perché tali progetti dovranno essere esaminati con criterio comparativo dai futuri Comprensori oggi non ancora funzionanti n funzionabili per un prossimo futuro: come conseguenza i fondi, che i Comuni avevano disponibili nel 1975, oggi sono come valore, per la svalutazione divenuti non più sufficienti e le opere pubbliche non vengono fatte con danno della collettività.
Questa è la realtà di fatto - una realtà mortificante e preoccupante quale ci sembra di dover rilevare e denunciare. A sua modifica, la Destra Nazionale - per dare, dal suo punto di vista, un contributo anche costruttivo a questo intervento, propone: Che la nuova legge urbanistica regionale si uniformi alle leggi della Costituzione italiana ed urbanistiche nazionali: in essa sull'esempio recente della Francia e di altri Stati Occidentali, la perequazione del valore dei terreni rispetto alla edificabilità potrà ottenersi attraverso una tassazione dei terreni con fabbricabilità maggiore a beneficio sia dei Comuni sia dei proprietari aventi terreni con fabbricabilità minore. In ogni caso la nuova legge regionale non dovrà annulla re sotto qualsiasi forma la possibilità edificatoria al privato pur ovviamente eliminando le forme speculative.
2) Che i comprensori siano organi tecnici e non politici e vengano rivisti nelle loro delimitazioni, salvaguardando le autonomie dei Comuni ed anche delle Comunità montane, costituenti da molti anni dei veri e propri comprensori.
3) Che le opere pubbliche, con progetti approvati in linea tecnica dal Genio Civile o comunque con elementi tecnici sufficienti, vengano finanziati, per eliminare l'assurdo di fondi disponibili sia alla Regione sia ai Comuni bloccati ed inutilizzati; senza attendere il loro esame prevalentemente politico, in seno ai futuri comprensori.
4) Che piani regolatori, programmi di fabbricazione, varianti urbanistiche vengano esaminati, se possibile, dalla Regione per la loro approvazione con tutte quelle modifiche di ufficio, compatibili con la vigente legislazione urbanistica, e non "insabbiati" in attesa dei piani intercomunali, la cui esperienza finora in Italia, da Torino a Milano, a Roma e molte altre città è stata negativa per la lungaggine della procedura delle adozioni comunali.
Queste le nostre proposte, che affidiamo alla cortese attenzione dell'Assessore e dell'Assemblea.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare l'Assessore Rivalta; ne ha facoltà.



RIVALTA Luigi, Assessore al Piano territoriale regionale

Gli interventi che si sono succeduti quest'oggi hanno quasi unanimemente sollecitato aderenza alla realtà.
Questo richiamo alla realtà è necessario, sia perché da un lato, come molti Consiglieri hanno sottolineato, le situazioni dei singoli Comuni hanno alle spalle una storia che non si cancella dall'oggi al domani - ed è una storia di cui tener conto - sia perché dobbiamo renderci compiutamente conto della situazione in cui si è chiamati ad operare. E la relazione introduttiva del prof. Astengo, per quanto riguarda la situazione degli strumenti urbanistici credo sia stata esplicita, e abbia dato a tutti l'idea della gravità della situazione in cui versa la politica urbanistica comunale.
Non era una novità. La sistematicità però con cui questa informazione ha descritto la realtà, è servita perché tutti abbiano ora di fronte la situazione e la portata operativa dei piani urbanistici che i Comuni si sono dati. E mi pare che questa situazione non la si sia disconosciuta in questo dibattito, anzi, direi che tutti ne hanno preso atto.
Vorrei aggiungere un'altra osservazione, partendo dalla complessa situazione economica e sociale che stiamo attraversando, e che non pu essere disgiunta dalla politica territoriale, dalla politica urbanistica e dalla politica edilizia che in generale è stata svolta in Italia negli anni passati.
Si dice che gli effetti di concentrazione che si sono avuti nell'area torinese sono negativi, che i processi di industrializzazione hanno provocato squilibri settoriali e deleteri abbandoni in settori produttivi importanti, come ad esempio l'agricoltura; si denuncia la gravità del problema della casa; ebbene, questi sono tutti fattori connessi con il tipo di sviluppo economico che ha avuto il nostro Paese In questo quadro rientra la politica urbanistica fin qui attuata. C'è una stretta coerenza fra la situazione degli strumenti urbanistici che ha denunciato l'Assessore Astengo ed il tipo di sviluppo economico che abbiamo avuto.
L'impegno di modificare la politica di gestione urbanistica che si svolge nella nostra Regione non ha quindi un'incidenza solo settoriale, ma si integra strettamente con l'esigenza che qui in Consiglio è stata da tutti dichiarata di dare alla Regione, al nostro Paese, una prospettiva di ripresa dello sviluppo; coincide con l'esigenza di intervenire a modificare le linee di sviluppo economico fino ad oggi perseguite: vuol dire rendere la pianificazione urbanistica coerente alle nuove esigenze economiche e sociali, ad un nuovo meccanismo di sviluppo.
I processi economici che ci sono stati nel passato si sono sviluppati in un modo anarchico; le stesse iniziative imprenditoriali private che li hanno sostenuti hanno finito con l'essere succubi di tale situazione che si è mostrata senza sbocchi e prospettive; di qui l'esigenza di fare svolgere dall'Ente pubblico, in questo caso dalla Regione, attraverso il piano di sviluppo economico e sociale, una funzione di coordinamento non soltanto delle iniziative pubbliche, ma anche delle iniziative private in modo che abbia termine ogni processo di tipo anarchico, in modo che i vari soggetti operatori dello sviluppo sociale ed economico, siano essi pubblici o privati, trovino, attraverso la politica di piano, dei punti di confluenza capaci di consentire evoluzioni successive e cumulative dello sviluppo.
In questo contesto, è chiaro che bisogna intervenire per correggere le deformazioni che esistono nella pianificazione urbanistica. Il fatto che nella sola area comprensoriale torinese i piani urbanistici comunali consentano di insediare, oltre agli abitanti attuali, altri tre milioni di abitanti, il fatto che nei piani regolatori dei Comuni dell'area comprensoriale torinese esistano indicazioni di aree industriali che possono contenere strutture per un altro milione di addetti, dice che è necessario intervenire immediatamente se vogliamo essere coerenti sostenitori di una linea economica diversa, che non veda la concentrazione nell'area torinese come unico punto di riferimento territoriale di uno sviluppo, ma che imponga una politica di riequilibrio e comprensoriale e regionale, coerente anche con una politica di riequilibrio nazionale.
Ecco perché allora diventa immediatamente necessario avere un atteggiamento nei confronti dei piani regolatori che vengono presentati che non sia dello stesso tipo di quello che il Ministero prima, e la Regione poi, hanno avuto nel passato.
Con ciò non voglio aprire polemiche; colgo il fatto che ci sono processi di maturazione che avvengono con lentezza, con difficoltà, anche con conflittualità, ma colgo anche il fatto che qui ormai siamo tutti coscienti che bisogna invertire rotta.
In questa situazione il modo di invertire rotta nella politica urbanistica è quello di esaminare i piani regolatori comunali con coerenza rispetto a delle previsioni realistiche, rifiutando previsioni illusorie come sono state quelle introdotte nei piani regolatori nel passato.
E' chiaro che previsioni per tre milioni di abitanti insediabili nel comprensorio torinese non consentono nessun controllo da parte degli enti pubblici, non consentono alla Regione di dirigere lo sviluppo territoriale previsioni per ulteriori tre milioni di abitanti nel comprensorio torinese consentono un grado di libertà così ampio, che di fatto qualsiasi operatore, pubblico o privato, può agire in assenza di vincoli e in assenza di qualsiasi coordinamento e linea direttrice.
Sotto questo profilo deve essere preso in considerazione lo sforzo che compie l'Assessorato all'Urbanistica in questo periodo per attuare un controllo dello sviluppo urbano e dell'uso del suolo.
Sono passati sei mesi; rispetto all'urgenza di intervenire possono essere considerati tanti, ma io credo che debbano essere oggettivamente considerati uno spazio di tempo ristretto rispetto ai problemi emersi e che bisogna affrontare.
Altro dato che contraddistingue l'attuale situazione, ed è emerso dalla relazione del prof. Astengo, è costituito dalla assoluta mancanza di una politica di coordinamento intercomunale delle iniziative pubbliche e private.
Ecco allora che diventa necessario non soltanto esaminare gli strumenti urbanistici comunali con coerenza a previsioni di sviluppo realistiche, ma diventa necessario poter coordinare tra di loro le previsioni urbanistiche comunali e la gestione della loro attuazione, almeno di quei Comuni contermini i cui processi di integrazione sono ormai evidenti.
La definizione delle previsioni e l'integrazione delle strutture urbane a livello intercomunale sono condizioni fondamentali per innovare la politica urbanistica; è questo l'apporto che la pianificazione e la gestione urbanistica può dare per il superamento della complessa situazione di anarchia che ha caratterizzato lo sviluppo sociale ed economico del nostro Paese.
Tutto ciò pone in evidenza la funzione della programmazione e della pianificazione regionale: dirigere lo sviluppo economico e sociale, dando alla Regione la possibilità di promuovere e coordinare le iniziative che da più parti, private e pubbliche, possono essere sviluppate, al fine di realizzare le condizioni perché lo sviluppo risponda a fini sociali e si riproduca, si autoalimenti e non si inceppi; in questo contesto si pone l'esigenza di una programmazione e di una pianificazione urbanistica e territoriale che sostenga un processo di ottimizzazione dello sviluppo economico e sostenga una rigorosa linea di utilizzo delle risorse senza sprechi e distruzioni.
Si tratta perciò di realizzare una pianificazione urbanistica ed una pianificazione territoriale che sia coerente alle finalità di sviluppo economico-sociale.
E' fissato nello Statuto che la Regione deve svolgere questa sua funzione di direzione dello sviluppo economico, attraverso i piani regionali e attraverso i piani comprensoriali; la pianificazione territoriale e la gestione urbanistica deve essere coerente con questa linea operativa. Si rende quindi evidente l'esigenza di promuovere la pianificazione territoriale, a livello regionale e a livello comprensoriale, attraverso la quale si devono fissare le linee strategiche organizzative del territorio e precisare le caratteristiche spaziali dello sviluppo economico che si intende promuovere. Ma contemporaneamente è necessario che il livello di pianificazione locale, quello comunale, agisca coerentemente con una linea d' azione di questo genere, e sia già suo immediato supporto, o quanto meno ne salvaguardi l'avvio, tenendo conto che la pianificazione economica e sociale e quella territoriale, è soltanto oggi in fase di elaborazione, e la sua attuazione richiederà tempi non brevi.
E' quindi necessario procedere ai due livelli di pianificazione territoriale (regionale e comprensoriale) e locale (comunale e intercomunale) come momenti interagenti, senza aspettare che prima l'uno sia definito, e successivamente l'altro ne dipenda.
In alcuni degli interventi è stato ritenuto necessario far precedere la pianificazione territoriale alla definizione delle linee di pianificazione locale. Io credo che questo sia profondamente sbagliato, poiché si tratta di avviare un processo di pianificazione non rigido, ma continuamente in rapporto dialettico con le stesse modificazioni della realtà che la pianificazione contribuirà a promuovere; aspettare quindi la pianificazione territoriale per mettere in atto una più motivata pianificazione locale significherebbe posporre interventi di gestione e controllo urbanistico locale che invece dobbiamo realizzare immediatamente anche per salvaguardare da nuove compromissioni e vincoli la costruzione in atto di processi di pianificazione territoriale.
Sotto questo aspetto mi sembra che debba essere posta sullo stesso piano temporale la definizione di linee di pianificazione territoriale comprensoriale e regionale, con la definizione di contenuti della pianificazione locale.
Quella dei Comuni è una presenza storica istituzionale di grande valore, e la pianificazione locale deve avere come riferimento le comunità comunali, che costituiscono l'articolazione democratica di base.
Ma perché dobbiamo subito, immediatamente, procedere ad una pianificazione comunale in un'ottica di carattere intercomunale? Perch dobbiamo subito cercare di far sì che la pianificazione comunale sia vista all'interno della pianificazione intercomunale? Dicevo prima: nelle zone di integrazione dei tessuti urbani dove il problema del coordinamento funzionale è addirittura evidente; ma più in generale, oggi fare della pianificazione urbanistica locale vuol dire sì definire all'interno di ciascun Comune le zone in cui è possibile sviluppare le residenze, sviluppare le industrie, organizzare il sistema viario comunale, individuare i servizi sociali comunali, ma vuol dire anche, nella generalità dei casi, definire il modo in cui questi elementi fisici della struttura funzionale della vita comunitaria devono organizzarsi ad un primo livello di organicità e integrazione, che quasi mai si realizza a livello comunale.
In questi anni abbiamo affrontato il problema della organizzazione del servizio scolastico a livello di distretto, stiamo discutendo di organizzazione dei servizi sociali e sanitari a livello di zona socio sanitaria; ecco allora la dimensione funzionale e di gestione dei servizi: nella quasi totalità dei casi, nella nostra Regione (direi che potremmo escludere soltanto il Comune di Torino), è un problema che si pone a livello intercomunale. Le stesse zonizzazioni che sono state fin qui proposte, da quella per i distretti scolastici, a quella delle zone socio sanitarie che sono state proposte dall'attuale Giunta, in questi giorni indicano come, al di fuori del Comune di Torino, l'organizzazione di questi servizi sia in tutti i casi un'organizzazione che ad un primo livello di efficienza e di organicità si struttura a livello intercomunale.
Se la gestione urbanistica locale non è soltanto un processo che tende a far crescere, ad espandere gli abitati, ma è sostanzialmente un processo che tende a gestire lo sviluppo residenziale, lo sviluppo delle attività industriali in connessione con l'organizzazione e con la gestione dei servizi, ecco che allora la gestione urbanistica locale, che pure parte dalla dimensione comunale, deve essere formulata in un'ottica intercomunale, deve tendere a concretizzarsi anche formalmente a livello di piano intercomunale.
C'è quindi una sostanziale coerenza e un'impostazione giusta nel lavoro dell'Assessorato alla pianificazione e gestione urbanistica e della Giunta regionale. E credo che non sia vero che l'impostazione della pianificazione e gestione urbanistica secondo questa ottica, debba essere intesa come imposizione del piano intercomunale, come diceva prima il Consigliere Gandolfi. Seppure, come ho richiamato, una gestione urbanistica, nella misura in cui intende essere strumento qualificante della vita della comunità, e riferirsi pertanto alla struttura dei servizi sociali, non pu non porsi a livello intercomunale, tuttavia non c'è nessuna intenzione da parte nostra, di imporre forzatamente il piano intercomunale.
Non si è imposto ai Comuni di abbandonare i piani regolatori comunali ma essi sono stati stimolati a formulare i propri piani comunali in un'ottica intercomunale, e ove possibile attraverso un processo di elaborazione e di studio che veda aggregati più Comuni. Il piano intercomunale è un obiettivo da conseguire. Negli stessi interventi di oggi nessun Consigliere ha negato l'importanza dello sbocco intercomunale, ed è in questi termini che la Giunta e l'Assessorato all'Urbanistica hanno posto il problema. Si stimolano i Comuni a procedere alla propria pianificazione comunale in un'ottica di carattere intercomunale, e ove è possibile, a realizzare formalmente dei piani intercomunali (e quindi realizzare le condizioni strumentali per gestire i processi urbanistici a livello intercomunale).
E' sufficiente rifarsi ai documenti che sono stati inviati ai Comuni dall'Assessorato alla pianificazione e gestione urbanistica in risposta e come giudizio sui piani regolatori esaminati (io ne ho esaminati alcuni) ci sono dei giudizi di merito sui contenuti del piano regolatore comunale relativi alle previsioni comunali e all'organizzazione urbanistica comunale, e c'è poi un invito a rivedere quei contenuti in un'ottica intercomunale, al di fuori di visioni municipalistiche e campanilistiche.
E' una responsabilità che l'Assessorato e la Giunta si assumono. E' un impegno che i partiti della maggioranza alla Regione si sono assunti anche all'interno delle amministrazioni comunali, sia da posizioni di maggioranza sia da posizione di minoranza; è un impegno politico che noi sentiamo l'obbligo di assolvere e che vogliamo assolvere, ma non abbiamo imposto a nessuno di procedere su questa linea se essa non è localmente ancora matura culturalmente o politicamente.
Su questa strada, credo si possa dire che se non si sono operate imposizioni, si sono invece ottenuti molti consensi. Lo stesso Consigliere Martini stamane richiamava il fatto che nel Cuneese molte Comunità montane si sono predisposte ad operare attraverso i piani intercomunali.
Questo sta a significare che il problema della pianificazione intercomunale è una realtà recepita, sentita dalle stesse comunità locali e che quindi l'Assessorato all'Urbanistica non ha fatto dei salti non corrispondenti alla situazione reale locale, ma ha colto un'esigenza che vi è anche nelle comunità locali.
Penso quindi che si debba ritenere corretta l'impostazione che l'Assessorato alla pianificazione e gestione urbanistica ha indicato: tutti i Comuni devono dotarsi di uno strumento urbanistico comunale, ed ove è possibile devono dotarsene immediatamente attraverso un'elaborazione che veda aggregati più Comuni.
Quando si dice che le previsioni dei piani regolatori comunali devono essere realistiche (il Consigliere Picco stamattina sottolineava che i piani regolatori devono essere anche piani di minima), quando assumiamo questo come uno degli impegni operativi, come uno dei caratteri a cui informare i piani regolatori comunali, credo che dobbiamo dire che questo è tanto più facile nella misura in cui noi politicamente, e istituzionalmente, cerchiamo di far procedere i Comuni attraverso una pianificazione di carattere intercomunale, o almeno nella sua prospettiva.
E' proprio l'elaborazione che avviene nel confronto fra più Comuni che pu consentire a ciascun amministratore di cogliere l'irrealtà di previsioni che municipalisticamente possono essere individuate. E' proprio questo rapporto intercomunale, fra più Comuni, che crea la coscienza delle dimensioni reali dello sviluppo; l'operare in una visione puramente comunale è una condizione che rende più facili gli errori previsionali, e non solo quelli, ma conseguentemente anche quelli relativi all'organizzazione delle infrastrutture e dei servizi.
E' quindi politicamente corretto chiedere ai Comuni di dotarsi di un piano regolatore comunale, ma di farlo insieme ad altri Comuni, affinché il confronto dialettico promuova una definizione più accurata degli obiettivi della stessa pianificazione comunale.
Devo poi ancora precisare, rispetto ad affermazioni di altri Consiglieri, che si deve - come l'Assessore Astengo sta promuovendo eliminare l'equivoco tra piano regolatore e piano di fabbricazione.
Nel dibattito, il programma di fabbricazione da alcuni Consiglieri è stato individuato come uno strumento di più facile realizzazione, e quindi più adatto ai Comuni di dimensioni minori.
Non credo possa più essere sostenuta una duplicità di strumenti di pianificazione comunale, né sul piano culturale, né sul piano politico; non sul piano culturale: l'elaborazione dottrinaria ha ampiamente dimostrato la non validità del programma di fabbricazione; ma anche sul piano politico amministrativo è dimostrabile. Non c'è differenza, dal punto di vista della fatica, dell'onere, dei conflitti di interessi, delle difficoltà di dibattito, tra il formulare un programma di fabbricazione e il formulare un piano regolatore; non si è dimostrato in nessun caso che si fa più in fretta ad elaborare e giungere all'adozione di un programma di fabbricazione che non un piano regolatore. E' diversa invece la portata amministrativa del programma di fabbricazione rispetto al piano regolatore.
E qui voglio richiamare due elementi fondamentali: per il programma di fabbricazione è ancora sindacata la possibilità di indicare le aree per i servizi sociali e il sistema viario. Allora, che senso ha oggi, quando il problema della pianificazione e della gestione urbanistica è soprattutto quello dell'organizzazione della vita della comunità attorno alla struttura dei servizi sociali, dire ai Comuni di elaborare un programma di fabbricazione, quando sappiamo che non è in grado neppure di indicare a livello comunale le aree sulle quali dovrebbero essere organizzati i servizi sociali? Se noi perseguissimo ancora questa strada saremmo dei cattivi amministratori della Regione: spingeremmo i Comuni ad un impegno pesante che non dà dei risultati positivi.
Secondo: i piani regolatori comunali consentono di passare alla fase attuativa attraverso piani particolareggiati; i piani di fabbricazione non consentono di passare ad una fase attuativa attraverso i piani particolareggiati. Mentre diciamo che anche la politica urbanistica, come momento realizzativo dell'organizzazione territoriale, deve essere considerata parte integrante di una modalità di uso corretto delle risorse capace di farci superare la crisi e di eliminare gli sprechi, mentre diciamo che l'Ente pubblico, a tutti i livelli, deve diventare un soggetto capace di coordinare le iniziative pubbliche e private, che significato pu ancora avere l'invitare i Comuni a dotarsi di uno strumento urbanistico che, una volta adottato, non solo non consente di garantire le aree per i servizi, ma non consente di gestire i processi di attuazione dello sviluppo urbano attraverso piani esecutivi di iniziativa comunale? Deve essere smentita una volta per tutte una linea di pianificazione comunale che faccia ancora riferimento ai programmi di fabbricazione. Va quindi detto che l'impostazione assunta da questa Giunta, dall'Assessorato alla pianificazione e gestione urbanistica è corretta, è giusta culturalmente, e anche politicamente.
Credo di poter concludere dicendo che attorno al problema della pianificazione e gestione urbanistica e della pianificazione territoriale in questi mesi forse si sono creati e ingenerati degli equivoci. Non voglio dire che questi equivoci siano stati creati ad arte; credo che non si possa spiegare solo così. Va detto che alcuni equivoci si sono potuti generare in una fase di avvio di un lavoro che vede tutta la Giunta impegnata a corrispondere ai problemi che la situazione reale ci pone, per le difficoltà di coordinare i rapporti fra Regione e Comuni; rapporto reso complesso anche dal contemporaneo ma necessario e positivo processo di costituzione del comprensorio, e dalla ancora non risolta definizione dei rapporti tra i diversi livelli di pianificazione comprensoriale e sub comprensoriale. Credo che gli equivoci vadano imputati soprattutto alla complessità, del processo che si è avviato.
A questo punto, chiarito come è stato chiarito in questa sede, che i piani regolatori comunali devono essere un punto di partenza della politica di pianificazione e gestione urbanistica, che la pianificazione locale parte quindi dalla dimensione comunale e che deve tendere ad una visione di carattere intercomunale estesa ad un territorio che consenta di gestire organicamente i servizi sociali, che deve essere eliminata l'alternativa del programma di fabbricazione, allora credo che veramente ci sia una possibilità di trovare una posizione unitaria di impegno politico perché il controllo urbanistico dei processi di sviluppo nella nostra Regione venga realmente attuato; credo sia allora il caso di lasciare alle spalle polemiche passate e polemiche più recenti, e che si debba, di fronte a questa unità di intenti e di obiettivi, che qui sono stati, tutto sommato condivisi, impegnarsi tutti insieme perché proceda il più rapidamente possibile quel processo di maturazione all'interno di tutta la comunità regionale, che è necessario per realizzare effettivi processi di pianificazione urbanistica e territoriale.
Mi sembra che sia questo il punto su cui ci dobbiamo confrontare e su cui dobbiamo dichiarare la nostra solidarietà, il nostro impegno.
Noi - e qui parlo non come Assessore, ma come Gruppo comunista - il nostro impegno lo abbiamo dato in questi mesi; chiediamo che lo diano, se hanno un fondamento le dichiarazioni che sono state fatte qui da tutti i Consiglieri, anche gli altri Gruppi, perché si superi nei tempi più brevi possibili, in pochi mesi, quella situazione di inconsistente capacità di gestire i processi urbanistici che oggi caratterizza i piani regolatori intanto modificando i contenuti degli strumenti urbanistici che ancora sono da approvare e che purtroppo, come ci ha dimostrato l'Assessore Astengo provengono alla Regione ancora con una mentalità, con una visione urbanistica che non è coerente con le esigenze di pianificazione dello sviluppo.



BELLOMO EMILIO



PRESIDENZA DEL VICE PRESIDENTE BELLOMO

E' ancora iscritto a parlare, l'ultimo oratore, Consigliere Berti.
Prima di dargli la parola comunico che il Presidente della Giunta ed il Presidente del Consiglio si sono recati all'Università degli studi dove dalle ultime notizie ricevute, pare siano state lanciate delle bombe incendiarie.
La loro assenza quindi è dovuta ad un motivo di emergenza.
La parola quindi al Consigliere Berti.



BERTI Antonio

Desidero richiamare alcuni elementi emersi da questo dibattito anche per vedere quale conclusione è possibile trarre, almeno dal mio punto di vista, tenuto conto che è poi l'Assessore che lo conclude.
E' un dibattito che ha registrato interventi positivi, quali si sono fatti carico di indicare linee di politica urbanistica e di affrontare il problema degli strumenti comunali, cioè il momento di approvazione degli strumenti comunali in un contesto di politica urbanistica che per molti versi deve ancora essere costruito.
Dico subito che a fronte di un dibattito che in quasi tutti gli interventi ha fatto emergere appunto il momento di approvazione degli strumenti comunali, si pone l'ordine del giorno a firma Picco, Martini Alberton, Cardinali, Gandolfi.
L'intervento che volevo fare non era questo, ma l'ordine del giorno presentato mi obbliga ad una rettifica che mi porterebbe lontano, e non è mia intenzione, quando si dice, a seguito della discussione "impegna la Giunta a predisporre i mezzi necessari affinché entro sei mesi siano resi operanti e cioè approvati tutti gli strumenti urbanistici generali dei Comuni giacenti in attesa di istruttoria e di approvazione alla data odierna".
Mi sono chiesto che serietà ha quest'ordine del giorno, manca la firma dell'Assessore Benzi, il quale ci ha lasciato una eredità di oltre 400 strumenti urbanistici non approvati in cinque anni. E' la domanda che mi sono posto durante questo dibattito, di fronte ad alcuni interventi, che hanno impostato la discussione quasi ignorando che c'é un'eredità, che c' una situazione da cui non si può prescindere se si vogliono affrontare i problemi e se, all'insegna del confronto politico più volte dichiarato, si intende ricercare le vie di uscita.
La mia opinione è che questo dibattito dovesse concludersi, sentite anche le dichiarazioni dell'Assessore Astengo, con il rinvio alla Commissione di quanto è emerso, per costruire lì una proposta operativa che garantisse la soluzione di certi problemi, anche quello dell'approvazione degli strumenti urbanistici.
Ma la questione posta in questi termini ignora completamente il contesto politico che pure è affiorato in alcuni interventi come in quelli di Gandolfi, di Cardinali, di Alberton, tra l'altro interventi che non hanno commesso l'errore di ignorare quello che c'é alle spalle, se ne sono fatti carico essi stessi; non è mia intenzione attribuire responsabilità e colpe, lo abbiamo già più volte dimostrato, non ci interessa la polemica per la polemica lo ha detto anche Rivalta, ma non si può ignorare che sei mesi or sono c'erano più di 400 strumenti urbanistici da approvare e non si può umanamente pensare che in sei mesi si predispongano gli strumenti per approvarli tutti, così come sono.



PICCO Giovanni

Non ho detto questo, se ignoriamo i contenuti della discussione, allora ...



BERTI Antonio

Sui contenuti della discussione dirò poi qualche cosa, per ora mi limito a registrare l'ordine del giorno e vi chiedo: ammesso e non concesso che sia umanamente possibile fare in sei mesi quello che per anni non è stato fatto, reso ancor più difficile per quello che non è stato fatto chiedere che siano resi operanti ed approvati in sei mesi tutti gli strumenti urbanistici in attesa di istruttoria, vuol dire forse chiedere che siano approvati così come sono? Voi a questa domanda dovete rispondere.
Non si possono fare degli apprezzamenti ed esprimere orientamenti di una politica urbanistica e poi chiedere tout court che i piani attualmente giacenti siano approvati così come sono.



PICCO Giovanni

Compito istituzionale della Regione non è di approvare gli strumenti così come vengono presentati, ma di approvare "quelli" e non "altri".



BERTI Antonio

Compito istituzionale della Regione è quello di fare della politica urbanistica e di corrispondere agli indirizzi che ci siamo scelti, che possono non piacere al Consigliere Picco, ma che sono stati espressi anche da vari esponenti delle altre forze politiche.
Certo, il nostro Consiglio Regionale ha la fortuna di avere degli amministratori che hanno diretto dei Comuni, anche Picco ha diretto il Comune di Torino, ma non mi pare che abbia lasciato un'eredità fatta di piani regolatori, varianti e piani particolareggiati, lui si rende conto per primo che la situazione è complessa ....



MARTINI Mario

Abbiamo discusso una giornata su un piano di serenità, è il modo di parlare questo? Se volete la polemica riprendiamo a discutere tutto.



BERTI Antonio

Consigliere Martini, lei mi dà la possibilità di farle un'osservazione:se lei fosse stato attento a come io ho iniziato il mio dire avrebbe probabilmente capito che ho posto in evidenza che a fronte di un discorso che ha registrato momenti positivi e di contenuto, sta un ordine del giorno che è soltanto strumentale, che ignora di fatto i contenuti emersi dal dibattito. Lei non può non considerare questo. Ma come dobbiamo considerare le discussioni, non soltanto, ma anche le prese di posizione e le conclusioni a cui il Gruppo della D.C. è pervenuto nel recente dibattito la settimana scorsa circa la volontà di non strumentalizzare, ma di operare sulla base di una ricerca positiva delle soluzioni? Un ordine del giorno di questo tipo voi lo potete anche presentare, ma volete soltanto farvelo respingere. E' questo che volete? Se invece il discorso è un altro, se è la ricerca comune delle strade per uscire, allora si tratta di non proporre delle prese di posizione di questo tipo, ma di andare in Commissione (ed è la proposta che vi faccio) per cercare la strada partendo dalle cose che si sono dette; questo è un metodo che abbiamo seguito anche nel passato, quelle poche volte che abbiamo parlato di politica urbanistica.
Può anche urtare qualcuno il tono con il quale mi esprimo, ma devo dire che l'ordine del giorno, arrivando a conclusione di un dibattito che si è svolto in quel modo, non può non assumere un carattere provocatorio.
Io poi vi richiamo ad un'altra questione. L'Assessore Astengo, la Giunta insediata sei mesi or sono si propone di affrontare i problemi degli strumenti urbanistici. Quali sono i punti di partenza? Io prescindo qui dalle argomentazioni e anche dai documenti che la Giunta ha presentato, ma non per questo non li approvo, e parto da alcuni atti che sono stati già compiuti da questo Consiglio Regionale. A fronte di una delibera approvata da questo Consiglio il 30 aprile 1975 per esempio per quanto riguarda il piano di coordinamento dell'area metropolitana di Torino, in un ordine del giorno in cui si fissavano alcuni orientamenti, si stabiliva per esempio oltre a non procedere per la Torino-Pinerolo, per la seconda pista di Caselle, per Borgaro, ecc., anche di assumere tra i vari parametri quello della distribuzione della popolazione addizionale prevista nei termini di 319.641 unità all'anno 1986. Cioè il Consiglio Regionale si è formalmente impegnato, per quanto riguarda l'area ecologica di Torino, ad operare attraverso la costruzione di meccanismi economici ed urbanistici perché la popolazione non si sviluppi oltre 300.000 persone.
Questo è un atto del Consiglio Regionale. Coloro che hanno partecipato al dibattito sanno anche che da un esame fatto, veri strumenti urbanistici dell'area ecologica di Torino consentono insediamenti per tre milioni di abitanti. I piani regolatori esistenti (in molti Comuni non ci sono ancora) così come sono stati fatti consentono tre milioni di insediamenti.
Una Giunta che si propone di costruire una politica di approvazione degli strumenti urbanistici, può prescindere da questo? Si può quindi andare a cuor leggero ad esaminare e ad approvare strumenti urbanistici che non solo modificano questo stato di cose, ma che probabilmente lo aggravano? Può, l'approvazione degli strumenti urbanistici, prescindere dagli orientamenti che ci siamo dati che per quanto riguarda per esempio la Provincia di Torino si propongono di diminuire la presenza umana per decentrare le condizioni di vita e gli insediamenti nelle altri parti del Piemonte? E non è forse vero che nel momento in cui la Regione approverà il piano territoriale di coordinamento per esempio dell'area metropolitana di Torino, i singoli piani regolatori esistenti dovranno adeguarsi ridimensionando al massimo? Siamo stati tutti consapevoli, nell'ultima riunione in cui l'Assessore Rivalta ha presentato queste linee, che si tratta di problemi estremamente complessi con cui dovremo fare i conti.
Io richiamo queste questioni soltanto per dire che mi pareva fossero emersi questi orientamenti dal dibattito. La situazione attuale io non l'attribuisco alla cattiva volontà degli amministratori, ma essenzialmente al fatto che ogni Comune ha operato all'insegna di due spinte, una di carattere politico positivo, che è quella di produrre attraverso gli strumenti urbanistici uno sviluppo guidato delle città nel senso di costruire una politica per l'uomo; la spinta delle forze interessate alle speculazioni sui terreni che hanno in molti casi ottenuto che le dimensioni delle aree residenziali fossero ampliate oltre il lecito rispetto alla dinamica dello sviluppo demografico.
Tutti questi sono fatti da cui non si può prescindere e che giustamente preoccupano chi si è assunta la responsabilità di individuare una linea di politica urbanistica che mentre incentiva, mentre costruisce una rete di strumenti urbanistici a livello di ogni Comune, si preoccupa che ognuno di questi strumenti urbanistici sia coerente con una politica generale del territorio, coerente con le finalità di cui si è già parlato e che ci daremo con il piano. Devo dire che le superdimensioni di molti piani erano determinate - e lo sono ancora in parte - dal fatto che mancano i parametri a livello provinciale, regionale, nazionale, cioè mancano molte delle questioni (Alberton le ricordava tutte, secondo me in un intervento notevolmente positivo, anche per come individua una certa linea di sviluppo a livello comprensoriale per quanto riguarda la politica urbanistica) interessanti di cui prendere atto e che ci servono per costruire quella politica di cui stiamo parlando.
Un altro punto fermo a proposito degli strumenti urbanistici non pu non essere la legge sulle Comunità montane in cui, affermando, come del resto dice la legge nazionale, che ogni Comunità montana deve farsi il proprio piano di sviluppo e quindi il piano urbanistico, abbiamo aggiunto il piano urbanistico o di coordinamento territoriale sotto la forma del piano regionale intercomunale.
Le valutazioni fatte a quel tempo e codificate nella legge sono un punto da cui non prescindere, le discussioni sui piani regolatori intercomunali hanno una loro definizione e collocazione precisa per esempio nelle Comunità montane, anche se io distinguerei - e l'ho già in parte chiarito al Consigliere Martini prima - l'affermazione secondo cui le Comunità montane, quelle per lo meno che stanno per finire il piano di sviluppo, oggi si apprestano a fare i piani territoriali di coordinamento.
Abbiamo a lungo disquisito su questo per non essere tutti quanti edotti che i piani territoriali di coordinamento sono definiti dalla Legge del 1942 e che non possono essere collocati a livello di una Comunità montana soprattutto così come sono state costruite in Piemonte. Sappiamo che la dimensione del piano territoriale di coordinamento, per affermazioni fatte e scritte anche in questi documenti, è assunta a livello di area ecologica per formare il piano di coordinamento concorrono le varie Comunità montane.
Sono problemi che vanno affrontati partendo dalle decisioni che già sono state prese e che noi riconfermiamo, rapportandole alle previsioni di sviluppo economico e demografico e in questo contesto, tenuto conto anche dei nuovi compiti che i Comprensori dovranno assumere, vedere quali strumenti mettere in opera perché i piani regolatori giacenti siano rapidamente approvati. Questo è secondo noi, un atteggiamento costruttivo che arriva allo scopo.
La nostra opinione l'abbiamo espressa prima con Rivalta, ma l'abbiamo espressa anche in Commissione quando si è discusso per la prima volta il documento presentato dall'Assessore Astengo. E in questa discussione abbiamo detto chiaramente che per quanto riguarda i piani intercomunali riteniamo essenziali le Comunità montane, per quanto riguarda il momento comprensoriale intendiamo piani a livello comprensoriale, per quanto riguarda i piani regolatori esistenti noi siamo dell'opinione di esaminare sollecitamente i piani dei Comuni che hanno una notevole consistenza e di esaminare, secondo parametri che vogliamo stabilire tenendo conto degli orientamenti espressi in questo dibattito, anche gli strumenti urbanistici dei Comuni minori soprattutto per tutta quella parte che non entra nei confini delle Comunità montane.
Sono orientamenti credo sufficientemente chiari di intervento che se assunti dalle altre forze politiche ci possono portare, lo ripeto, in Commissione, a una discussione costruttiva che ci impegnerà anche nel tempo ma con delle scelte precise. Io tengo conto di quello che ha detto Picco cioè di andare ai piani di minima, è un'ammissione importante perché nel passato non dico lui, ma in generale contro i piani di minima ci sono state varie opposizioni; quando se n'é incominciato a parlare si è rapidamente dovuto abbandonare questa strada perché non erano recepite queste indicazioni. Ne vogliamo riparlare? E' un altro argomento. Si può benissimo approvare gli strumenti urbanistici quando questi assumano l'impegno politico di ridimensionarlo a livello di piano di minima, cioè tutte le approvazioni possono essere consentite nella misura in cui non contraddicono e non compromettono ulteriormente un quadro che è già così ampiamente compromesso. E ho voluto citare dei dati effettivi, non delle cose dette così.
Concludendo questo intervento, se si vuole operare all'insegna del confronto e della ricerca di soluzioni positive, pregherei vivamente le forze politiche che hanno firmato questo ordine del giorno di voler recedere perché l'esito è abbastanza scontato; credo che nessuno sia interessato a presentare un ordine del giorno per vederselo respinto, noi questo non lo vogliamo, vogliamo cercare una strada per risolvere il problema, se avete questa volontà anche voi, potremmo decidere per esempio di convogliare il dibattito in Commissione e lì cercare di risolvere la questione che è stata proposta.



PRESIDENZA DEL VICE PRESIDENTE BELLOMO

La parola ancora al Consigliere Picco, ma in via del tutto eccezionale.



PICCO Giovanni

Chiedo di parlare perché, visto che il Consigliere Berti è entrato nel merito dell'ordine del giorno che avrebbe dovuto essere esaminato dopo la replica dell'Assessore, vorrei illustrarlo brevemente a nome dei presentatori. Se invece l'Assessore vuole replicare prima, io posso anche farlo dopo.



PRESIDENZA DEL VICE PRESIDENTE BELLOMO

Ha facoltà di parlare.



PICCO Giovanni

Cercherò di essere breve perché mi rendo conto della lunghezza del dibattito, ma proprio questa lunghezza e la sua importanza credo non ci debba lasciare con l'intesa di un accordo che potrà maturare forse in una sede che non sappiamo quale sia ed a tempi non definiti.
Voglio richiamare l'attenzione del Consiglio Regionale sulla gravità della situazione che viene prospettata. Io credo che la polemica con il passato sia scontata e non debba essere tirata in causa perché le responsabilità che competono oggi all'esecutivo lo portano comunque a dovere affrontare la situazione, indipendentemente dalle cause e dalla responsabilità che possono esservi per il passato.
La maggioranza deve rendersi conto che l'impegno da affrontare è quello della realtà di 765 Comuni in attesa di vedere definita la loro questione relativa allo strumento urbanistico, Non vedo perché la presentazione di un ordine del giorno che vuole fissare dei tempi, per arrivare almeno a certe scadenze, debba essere interpretato dal Consigliere Berti come una provocazione; anzi, è una dimostrazione di serietà proprio per dare una risposta alle comunità che attendono da noi una parola su questo importante settore.
Se è giusto - e questo lo si potrà valutare in sede di Commissione come tutti hanno riconosciuto, che in fondo il programma di fabbricazione è uno strumento superato e che quindi in prospettiva non deve più essere affrontato, la realtà è che 404 Comuni dovranno abbandonare ogni ipotesi di programma di fabbricazione e predisporsi per un Piano regolatore, oppure un Piano regolatore intercomunale. Di questo prendiamo atto. Però prendiamo anche atto che vi sono 361 strumenti urbanistici, Piani regolatori e programmi di fabbricazione giacenti, dietro i quali (e l'ha ricordato Rivalta) c'é tutta una storia di elaborazione sofferta a livello dei singoli Comuni. Noi non possiamo pensare di tornare all'anno zero dicendo: "quello strumento non va, è inadeguato e quindi le indicazioni che dà la Giunta Regionale sono nella direzione e del Piano comunale e del Piano intercomunale", perché questo vuol dire differire di fatto di due o tre anni la messa a punto di un qualsiasi strumento urbanistico per i Comuni.
Non ho sentito dall'Assessore, nella sua relazione, l'intenzione di tallonare questi Comuni con tempi precisi per metterli in condizioni di adempiere ad obblighi di legge. Se così non è (come può effettivamente non essere perché mi rendo conto delle difficoltà politiche) dobbiamo mettere quei Comuni che hanno adempiuto per legge ai loro obblighi, adottando uno strumento, in condizioni di avere approvati gli strumenti a suo tempo elaborati.
L'equivoco che l'ordine del giorno possa presumere che si debbano approvare tutti gli strumenti "così come sono" credo che sia contraddetto da tutto ciò che abbiamo detto nella discussione; nella formulazione letterale di un ordine del giorno vi possono anche essere imperfezioni, ma la buona fede e le parole chiare che sono state espresse in tutti gli interventi, sul contenuto dell'azione promozionale attiva che deve svolgere la Regione nel modificare questi strumenti a livelli di piani di minima o non di piani di minima, ma tali da garantire l'obiettivo della salvaguardia del territorio (questo è detto chiaramente nell'ordine del giorno), credo che non si possa eludere e sia perciò un impegno che vada affrontato. Si dice chiaramente "verificato il grave divario che ancora esiste tra Comuni che sono dotati di strumenti e Comuni che invece sono privi di un'effettiva garanzia di tutela e disciplina del territorio, si deve provvedere ad assumere precisi impegni." Il senso politico dell'ordine del giorno è questo e noi intendiamo riconfermarlo pienamente, almeno per quanto ci riguarda, perché riteniamo che sia questo il tipo di risposta da dare alle conclusioni della discussione.



PRESIDENZA DEL VICE PRESIDENTE BELLOMO

La parola al Consigliere Gandolfi, con l'invito ad essere conciso.



GANDOLFI Aldo

Vorrei brevemente intervenire sul significato dell'ordine del giorno.
Devo ribadire anch'io che non era certo nostra intenzione proporre l'approvazione di strumenti urbanistici anche se questi non si inquadrano con l'ipotesi di programmazione regionale; ciò che volevamo sottolineare e lo avevamo detto nel corso del dibattito - è l'esigenza che la Giunta rispetto agli atti urbanistici che i Comuni propongono non li rifiuti rimandando a meccanismi di pianificazione più complessi che rischiano di allontanare molto i tempi con delle prospettive a medio e lungo termine, ma permetta l'acquisizione di alcuni strumenti che in molti casi hanno e devono avere il significato della salvaguardia, della tutela di un minimo di ordine nell'edificazione.
Detto questo, siccome mi sembra che Berti ponesse prima un'esigenza che mi sembra obiettiva, cioè che bisogna arrivare a delle definizioni concrete in termini di tempo e di cose da fare che siano realistiche, pertinenti e possibili, chiedo se per trovare una conclusione costruttiva non sia il caso di fare una sospensione di qualche minuto e di vedere a livello di capigruppo se la proposta di Berti, o qualche altra proposta ci permette di arrivare ad una conclusione del dibattito che fissi una posizione del Consiglio Regionale costruttiva e univoca.



PRESIDENZA DEL VICE PRESIDENTE BELLOMO

In linea di massima potremmo essere d'accordo, però mi pare giusto che l'Assessore replichi a tutti gli interventi che ci sono stati. Dopo faremo una sospensione brevissima.
La parola all'Assessore Astengo.



ASTENGO Giovanni, Assessore agli strumenti urbanistici comunali ed intercomunali

Ritengo di poter contenere la replica in tempi ridotti.
Sono state formulate nei vari interventi alcune considerazioni di giudizio globale sulla situazione attuale urbanistica ed è ovvio che a seconda delle parti politiche questa visione cambi.
Vorrei subito sgomberare il campo da un equivoco di fondo che è emerso ad un certo punto nell'intervento del Consigliere Picco: essere cioè i piani fondati su elementi di obiettività e quindi tali da avere una loro fondatezza, qualunque siano le scelte politiche o le posizioni politiche delle Amministrazioni locali. Non sono stati esattamente questi i termini usati, ma sostanzialmente questa era la tesi di riferimento, cioè la tesi del piano neutrale.



PICCO Giovanni

Non hai capito, non ho assolutamente detto questo.



ASTENGO Giovanni, Assessore agli strumenti urbanistici comunali ed intercomunali

Hai detto che c'é una obiettività nei piani.



PICCO Giovanni

Ho detto che in certe scelte vi sono delle obiettività.



ASTENGO Giovanni, Assessore agli strumenti urbanistici comunali ed intercomunali

Devo subito chiarire che in ogni caso i piani non sono neutrali, ma sono il risultato di una scelta politica, sempre.
Questi piani, formulati dalle varie Amministrazioni locali in relazione a specifiche scelte programmatiche, noi li stiamo ora esaminando in Assessorato nell'ambito di un Comitato di funzionari da me costituito preciso che nessuna legge regionale è stata predisposta dalla passata legislatura per istituire, al pari di ciò che è avvenuto in altre Regioni un Comitato urbanistico con la presenza di esperti esterni; è questo un vuoto da colmare e non appena possibile sarà premura dell'Assessorato di proporre, o in sede della legge regionale urbanistica, o con uno stralcio di legge, o con una modifica della legge 28, un Comitato urbanistico formato da funzionari e da esperti esterni, Oggi l'esame dei piani avviene nell'ambito di una Commissione formata da quattro funzionari di grado elevato che esaminano i piani in mia presenza, insieme con il relatore cioè al funzionario che ha istruito la pratica.
La constatazione principale che emerge da questo esame, che si svolge di norma, per una intera giornata il mercoledì di ogni settimana é, salvo rare eccezioni, la generalizzazione di una impostazione politica che tende alla massima estensione, alla massima capacità ricettiva degli insediamenti, grandi o piccoli che siano. E' chiaro che il divario fra dinamica reale e domanda potenziale di sviluppo risulta molto più evidente nei piccoli Comuni che in quelli più grandi, ma l'impostazione, salvo ripeto alcuni casi è generalmente quella di un eccesso di dimensionamento con enormi occupazioni di territorio: questo eccesso non consegue ad un errore nel calcolo dimensionale, o a statistiche non corrette, o al fatto che i professionisti abbiano sbagliato qualche misurazione, ma consegue ad una esplicita scelta politica, e precisamente alla ricerca di massimizzare la rendita sul territorio comunale, nelle aree suscettibili di sviluppo.
Questa è una scelta politica che, recepita dai progettisti dei piani comporta gravi conseguenze nella struttura stessa dei piani.
Ora, io constato e riferisco che sono gli stessi funzionari, cioè il corpo interno della Regione, che si ribella a questa impostazione ed alle sue conseguenze progettuali; affermo che, per la verità, essi si erano ribellati anche prima, ma che subivano allora condizionamenti tali, per cui questo moto di ribellione non poteva estrinsecarsi fino in fondo.
Oggi dunque sono i funzionari sia come istruttori della pratica, sia come membri del Comitato che esprimono un pesante giudizio di merito. Vi garantisco che sono stato io stesso, qualche volta, a insistere per cercare di ricuperare ancora in qualche modo qualcuno degli strumenti esaminati.
In questa situazione il rinvio dei piani all'Ente locale ha molto spesso il significato di richiesta di riesame del piano per apportarvi modificazioni, in modo che, se apportate rapidamente, lo strumento sia suscettibile di approvazione. Si tenga conto che dobbiamo operare nell'ambito delle leggi e che non esiste la possibilità di modificazione ex officio dei piani, se non nei quattro casi fissati dall'art. 3 della legge 765, e cioè: per mancata aderenza ad un piano territoriale di coordinamento, per mancata aderenza a delle scelte dello Stato, per violazioni alla tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali e ambientali e per violazione degli standards. Al di fuori di questi casi non si può andare con le modifiche ex officio, per le quali occorre che l'Amministrazione comunale esprima entro 30 giorni il suo consenso alle indicazioni fornite dalle osservazioni dell'Assessorato. In questa direzione ci muoviamo. Però vi sono casi irrecuperabili e riguardano previsioni e ipotesi di piano veramente aberranti; alcune di queste portano la firma, signori Consiglieri, anche di professionisti di nome e ciò mi angustia molto, ma poiché i piani sono atti pubblici, nessuno mi impedisce ad un certo momento, se la cosa si renderà necessaria, esporre in una mostra questi atti sottoponendoli a pubblico giudizio.
Ebbene, a questi atti si dice no, in essi non c'é materia minima per un ricupero; fortunatamente si tratta di casi numericamente esigui, anche se sostanzialmente e moralmente assai gravi.
E' chiaro che la procedura di rinvio che si instaura per i vari casi da quelli dei piani ricuperabili con modifiche, a quelli da sostanzialmente rifare, non è una procedura rapida perché con il rinvio il piano è nelle mani del Comune ed è il Comune che deve a questo punto operare; ciò che noi possiamo fare è di aiutare l'opera di ricupero, mediante consigli ed è ci che gli uffici tentano di fare nell'ambito delle modestissime forze a disposizione. Posso dare subito le cifre di queste forze. Esse sono sbalorditive: disponiamo per l'istruttoria dei piani di un laureato ogni cento Comuni, di un diplomato ogni 130, e di una segretaria dattilografa ogni 300 Comuni. Questo rapporto è tale che, pur lavorando tutti intensivamente, da questi organi non si può pretendere l'impossibile.
L'aumento dell'organico degli uffici urbanistici si impone in modo pressante e io mi auguro che attraverso la legge sulle strutture che auspico a tempi brevi, sia possibile aprire al più presto la possibilità di concorsi per allargare la consistenza di questi uffici in modo da renderli adeguati alla dimensione della Regione ed alla sua organizzazione comprensoriale. E' assurda, signori Consiglieri, l'ipotesi che vi siano 2 funzionari laureati, 1 diplomato ed 1 segretaria per Comprensorio e che vi sia inoltre almeno 1 funzionario laureato e 1 diplomato per ogni Comune con più di 100.000 abitanti? Ebbene in tal caso occorreranno in totale 33 laureati, 18 diplomati e 15 segretarie, cioè circa 40 unità in più delle attuali. Supposto di avere questo organico, occorre anche pensare ad un rodaggio, ad un intenso lavoro interno negli uffici, necessario perch tutti i nuovi venuti possano assimilare una comune metodologia di esame che non è frutto di improvvisazione; in ogni caso è necessaria una crescita, all'interno degli uffici, di carattere culturale, di consapevolezza delle funzioni svolte, che si traduce quindi in termini di obiettività di giudizio. E' nostra cura costante cercare di ottenere il massimo grado di distacco psicologico tra chi istruisce la pratica e l'oggetto di questa istruttoria, il che richiede il suo tempo. Tutto ci non è dunque realizzabile dall'oggi al domani.
Questa situazione penso che debba essere tenuta presente per un giudizio sui tempi di esame delle pratiche ereditate in giacenza. Ci sono cioè dei tempi di maturazione che sono obbligatori e che si concretano da una parte nella crescita di consapevolezza della politica urbanistica da parte dei Comuni e dall'altra nella crescita e organizzazione interna da parte degli uffici.
Ha detto il Consigliere Cardinali: noi avevamo tentato un colloquio una specie di contrattazione programmatica e questo pare non sia stato il metodo seguito in questi mesi. L'affermazione non è esatta perché numerosi sono stati gli incontri con le Amministrazioni locali: io posso testimoniare con il Sindaco e la Giunta di Lanzo, o di Casale, ecc.
incontri che sono durati talvolta anche molte ore per condurre a soluzione casi difficili. Ma questo metodo non lo possiamo generalizzare per il 1209 Comuni e quindi cerchiamo di applicarlo là dove ne esiste effettivamente l'opportunità.
Altri discorsi li faremo anche, con maggiore rendimento, riprendendo quella serie di consultazioni e di incontri sul posto per gruppi di Comuni.
E' evidente però che perché questo sia possibile dobbiamo crescere numericamente almeno nella misura che ho indicato precedentemente e che rappresenta il minimo inderogabile. Cosicché se ci si riferisce all'ordine del giorno presentato dalla minoranza in cui si afferma la necessità di fornire all'Assessorato i mezzi necessari non si può non concordare occorre però tener presente che fino a quando non sarà varata la legge sulle strutture non sarà possibile sbloccare la situazione; oggi ci sono degli impedimenti oggettivi, perché le poche assunzioni che possono essere oggi fatte, in attesa di concorso, sono a livello della minima retribuzione e quindi scoraggiano molti giovani, anche di valore, che potrebbero aver interesse a diventare funzionari regionali! Occorre dunque accelerare la preparazione della legge sulle strutture, superando ogni indugio ed eventualmente anticipando uno stralcio di essa per coprire le esigenze dell'Assessorato cui sono preposto.
Chiarito questo punto, mi corre l'obbligo di dichiarare che, in complesso, qualche risultato positivo si è già raggiunto. Il colloquio con le Amministrazioni locali si è aperto; lo si è avviato con la distribuzione del primo documento, che - mi preme di precisare - non era un documento come qualcuno ha affermato, soltanto personale; certo, è stato scritto personalmente da chi vi parla, ma prima di essere messo in circolazione era stato presentato e discusso nel Dipartimento ed aveva avuto l'avallo generale di carattere politico.
Dopo il primo documento ed il primo giro di incontri - anche questi non frutto di iniziativa individuale, ma di decisione di Giunta - si sono tenuti rapporti continui con le Amministrazioni. Le stesse lettere di trasmissione degli atti che si restituiscono per modificazioni - e io cerco che queste lettere non abbiano carattere burocratico, ma che aderiscano il più possibile alle singole realtà specifiche, e anche tutto questo è frutto di una maturazione culturale che deve essere conseguita - stanno dando i loro frutti. Abbiamo agli atti, pronte per essere avviate a concretezza (non appena, io mi auguro, la proposta di emendamento della legge 34 sarà resa operante, o per lo meno sotto forma di promessa di contributo, che potrà esser erogato con l'approvazione del bilancio) 90 richieste di Comuni con l'indicazione del relativo importo per la redazione di piani regolatori comunali singoli e abbiamo 150 Comuni di Comunità montane e altri 50 Comuni esterni a Comunità montane, cioè un totale di 200 Comuni che si sono già espressi attraverso deliberazioni consiliari per la formazione di piani intercomunali. Abbiamo dunque un totale di 290 Comuni che hanno espresso la loro volontà di modificare il processo di pianificazione usando strumenti adeguati, come il piano regolatore, che come vi ha illustrato con molta chiarezza il collega Rivalta, hanno possibilità operative d'innesco di successivi atti esecutivi e che quindi potranno dare in tempi abbastanza rapidi i loro frutti.
In tutti i colloqui, in tutti gli incontri che sono avvenuti ci sforziamo di smitizzare il discorso sulla difficoltà concettuale dei piani.
Se l'obiettivo primario che si assume è quello illustrato nell'intervento del Consigliere Picco e che si concreta nella formazione di piani di minima, e su questo obiettivo concordo pienamente, la redazione dei piani così come ha anche illustrato il collega Calsolaro, può essere raggiunta rapidamente se attuata in fasi successive, di cui la prima fase abbia a garantire il minimo delle cose necessarie; fra queste la dotazione dei servizi sociali che oggi invece si trovano nella realtà al di sotto dei minimi. L'obiettivo dei piani di minima consiste dunque nel raggiungimento di quegli standards di servizi sociali che sono irrinunciabili, che per ora accettiamo nella misura minima degli standards ministeriali, ma che, con legge regionale, proporremo che vengano aumentati, così come sono stati aumentati nelle Regioni Emilia-Romagna, Toscana, Lombardia e Veneto (per restare nel confronto con le Regioni più prossime).
Ecco che allora questa operazione di reperimento delle aree per i servizi diventa prioritaria. Mi dispiace per il Consigliere Carazzoni che non è presente (si è scusato prima con molto garbo per la sua assenza) mi dispiace per la sua parte, i cui interessi sono stati da lui rappresentati in modo estremamente chiaro e corretto - ma questi vincoli si debbono porre in modo preciso e specifico e non possono essere assolutamente eliminati dai piani o superati da qualche strano meccanismo; certo, si tratta di vincoli applicati sulla proprietà terriera ma non possono essere considerati solo sotto il profilo di una imposizione alla proprietà, ma come mezzo, peraltro eliminabile nel nostro sistema, per avviare in concreto il processo della dotazione di servizi sociali senza i quali qualsiasi comunità, grande o piccola che sia, si squalifica dal punto di vista dei rapporti sociali.
Se questo è l'obiettivo politico da raggiungere, è certo che lo si pu concretare in tempi rapidissimi. Si tenga conto, inoltre, che questi vincoli non possono considerarsi aleatori, mobili, flessibili, sono e debbono essere vincoli precisi e rigidamente identificati: si tratta infatti di scuole di ogni ordine e grado, di giardini, di parcheggi e così via, per realizzare i quali occorrono aree che debbono essere individuate precisamente sulle particelle catastali. E' necessario quindi, che si elaborino disegni di piano che possano tradursi immediatamente nella realtà, cioè che si usi scala 1:2000, che è quella normalmente usata dal catasto.
Se dunque questo è l'obiettivo concreto e abbiamo la sensazione che molte amministrazioni abbiano perfettamente compreso che i piani non sono più identificabili né in fumisterie mitologiche né in quelle gonfiature di speranze della rendita fondiaria che furono oggetto del contenuto dei piani del passato decennio, se questo viene compreso, è certo che l'obiettivo pu essere realizzato in tempi molto rapidi.
Ecco che allora già la realtà si sta muovendo in questa direzione, sta dando ragione alla nostra impostazione politica se è vero che ci sono 290 Comuni pronti a seguire questa nuova linea; se, quindi, la Regione fornirà i mezzi e l'aiuto necessario a che queste indicazioni si concretino, io ritengo che molti passi in avanti si potranno fare in tempi rapidissimi.
L'esame dei piani è semplicemente un fatto strumentale interno necessario, tra l'altro proprio rispetto a quel tipo di piani gonfiati e socialmente inaccettabili che l'impostazione politica di molte Amministrazioni locali ha prodotto negli anni precedenti e che è nostro dovere correggere. Il problema reale è invece quello della pianificazione concreta che si attua nelle varie realtà locali; questo è l'aspetto reale che dobbiamo seguire attentamente. E' precisamente la consapevolezza assunta dalle varie Amministrazioni, dai vari Consigli comunali nel riesame dei vecchi strumenti urbanistici che emerge dalla presa di coscienza dei fatti nuovi, dalla comprensione delle priorità sociali che occorre assolvere. Questi sono i problemi reali.
Ritengo che l'aver aumentata questa consapevolezza costituisca un grosso risultato politico, valutabile non certo attraverso la quantità di carte, di decreti e di bolli, ma attraverso la estensione e la profondità di questa consapevolezza, che, una volta radicata saprà essa stessa in concreto difendere le aree per i servizi sociali, saprà difendere tutte le istanze di rinnovamento emergenti dalle Amministrazioni locali e dai comitati di quartiere, di fabbrica, di borgata.
Questa è la realtà politica nella quale ci stiamo ora muovendo, che è ormai ben diversa da quella di sei mesi fa. Verso questa strada molte amministrazioni stanno camminando ed io credo sia nostro compito sviluppare adeguatamente il discorso, sul piano pratico, oltreché anche sul piano teorico e legislativo.
Certo, alcuni ragionamenti che sono stati fatti, anche con finezza, dal Consigliere Alberton, possono aprire dei discorsi nuovi, ma io sono in questo momento estremamente prudente, perché, in questa veste, ritengo preferibile uno strumento anche rozzo, direi quasi primitivo, ma che dica esattamente ciò che vuole, con il corredo dei costi, e con la precisa delimitazione delle aree occorrenti per ottenere i risultati indicati piuttosto che un piano che discenda da una costruzione intellettualmente raffinata, ma di scarsa operatività. Così non nascondo che sono preoccupato quando si parla di vincoli flessibili rapportati alle capacità insediative e di verifica continua di queste capacità e quindi anche del dimensionamento dei servizi perché là dove esiste una maturità politica e culturale questo tipo di discorso può anche essere utile se rettamente interpretato in senso di verifica costante della presenza di servizi sufficienti, come conditio sine qua non per la concessione di una licenza edilizia, ma non vorrei che questo tipo di discorso potesse essere assunto come pretesto per modificare e variare perennemente le operazioni di intervento per i servizi, che invece è necessario prefissare.
Ciò non toglie che il discorso vada ripreso in sede di legge urbanistica e che certe risposte alle esigenze espresse nell'intervento del Consigliere Alberton possano essere date in termini di diversa organizzazione operativa degli strumenti urbanistici così è chiaro che la formazione dei programmi attuativi annuali o poliennali diventa estremamente importante perché questi consentono la verifica continua tra domanda e offerta dei servizi sociali.
Io credo quindi che il dibattito abbia messo in luce molti aspetti, che l'approfondimento possa avvenire anche con la conoscenza degli atti cui ci riferiamo, perché è chiaro che la mia ottica, che parte dalla conoscenza di questa consistente serie di piani esaminati, è certamente diversa dall'ottica dei Consiglieri, che ragionano forzata mente in termini globali e di visione politica generale.
Tutti gli strumenti di carattere conoscitivo che possono essere utili dovranno essere affrontati e direi che già i documenti predisposti per il piano di sviluppo costituiscono, rispetto al dibattito odierno un elemento conoscitivo aggiuntivo. Si è infatti predisposta una serie di cartogrammi contenenti indicazioni sulla distribuzione territoriale di vari fenomeni socio economici ed urbanistici che consentiranno maggiori elementi conoscitivi e quindi anche di affinare meglio i giudizi che si esprimono.
Sono un primo passo verso la messa a punto di un programma di "indicatori" urbanistici, permanenti che potrà attuarsi con la creazione della banca dei dati urbani alla cui impostazione si sta lavorando in un apposito ufficio dell'Assessorato.
C'é un ultimo concetto a cui vorrei accennare. Ciò che ci preoccupa fortemente, a livello di Giunta ed a livello degli uffici dell'Assessorato è il consumo del territorio a fini extra agricoli.
Giustamente in tante discussioni che vertevano sul problema agricolo è stata ripetutamente messa in luce la necessità di salvaguardare questo bene primario e di non considerare certe aree semplicemente come aree in lista d'attesa per l'utilizzazione edilizia e quindi da abbandonare all'uso primario nella speranza di conseguire una rendita secca, che solo per il fatto di essere operata, ha per effetto di far decadere l'interesse per l'uso primario, e, una volta realizzata, ha per effetto di bruciare irreversibilmente l'uso agricolo.
Non nascondo di essere veramente preoccupato di questo fenomeno che cerco di analizzare (é una ricerca piuttosto difficile perché mancano le perimetrazioni degli abitati di tutti i Comuni, manca uno strumento che, se ci fosse, ci consentirebbe di fornire i dati precisi); dovremo dunque fare un grosso sforzo per capire qual è stato nella nostra regione il consumo di territorio a scopi extra agricoli, consumo che comprende sia l'uso urbano in senso stretto sia i consumi indotti. Dagli elementi fino ad oggi acquisiti abbiamo la sensazione che questo consumo sia di gran lunga superiore a quello di un'utilizzazione, sia pure generosa dello spazio in cui sia soddisfacente la quota dei servizi sociali, ma anche ampie le aliquote per la residenza, per l'industria e per la viabilità. Abbiamo la sensazione che attraverso la gestione che è stata condotta sino ad oggi il consumo del territorio abbia assunto parametri di gran lunga superiori a quelli ragionevoli: da valutazioni globali sommarie e ancora da verificare dovremmo essere nell'ordine di grandezza di un consumo decuplo di quello che sarebbe stato necessario attraverso una corretta gestione.
E' dunque al ricupero di un bene fondamentale e insostituibile, il territorio, su cui dobbiamo dirigere tutti i nostri sforzi ed è anche in questo senso che l'operazione di ricupero, di riesame degli strumenti urbanistici è coerente con gli obiettivi di ricupero e ricostituzione degli elementi fondamentali dell'economia della nostra Regione, fra cui emergono in modo preminente gli insediamenti urbani come elemento motore dell'economia e della vita sociale e come, essi stessi, patrimonio economico in uso ed in continua trasformazione, la cui gestione, se assennata o no, può contribuire in modo determinante in senso positivo o negativo alle sorti generali del processo economico.



PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SANLORENZO



PRESIDENTE

Il dibattito è così concluso, ma vi è la richiesta di una breve sospensione per vedere di concordare, o no, un ordine del giorno conclusivo.
Sospendo la seduta per pochi minuti.



(La seduta sospesa alle ore 19 riprende alle 19,15)



PRESIDENTE

La seduta riprende.
Mi è stato comunicato che nella riunione dei rappresentanti dei Gruppi sarebbe stata raggiunta un'intesa per cui l'intera materia contenuta nei due progetti di ordine del giorno viene demandata alla Commissione competente che esaminerà criteri, parametri, tempi, modi e strumenti per applicare le cose che qui sono state ricordate.
Questa è l'intesa unanime raggiunta ed in questo modo si esaurisce il punto all'ordine del giorno.


Argomento: Organizzazione regionale: argomenti non sopra specificati

Sul programma dei lavori e sulla conferenza dei Capigruppo


PRESIDENTE

Il problema che adesso abbiamo di fronte è quello di vedere come e quando tratteremo gli altri punti iscritti all'ordine del giorno, ancorch si decida eventualmente di non proseguire la riunione, perché la discussione è aperta.
Avremmo ancora all'ordine del giorno il dibattito sulla sicurezza sociale e sanità, l'esame del disegno di legge 36 bis "Partecipazione della Regione alla Soc. S.p.A. SAMIA" e la "Commissione regionale per la sistemazione idraulica e forestale: nomina di 5 esperti".
Vi sono delle proposte rispetto a questi punti all'ordine del giorno? Intanto, mi permetto di avanzare una proposta per quanto riguarda la riunione dei Capigruppo che in ogni caso caldeggio vivamente, perché c'è da definire non soltanto i punti all'ordine del giorno della prossima seduta ma c'è da fare il punto sulla programmazione dei lavori dal punto di vista della sessione e vi sono parecchie questioni da sciogliere, calendari da fare, ecc. Suggerisco mercoledì mattina alle ore 10. Parecchi Capigruppo mi hanno fatto sapere che è un'ora che funziona. Vi è qualche opposizione a questa proposta? Negli altri giorni vi sono impegni a Roma, riunioni Giunte, Commissioni, ecc., pertanto non c'è un altro giorno disponibile e questa proposta è l'unica possibile.
Vi sono opposizioni a che si tenga la riunione dei Capigruppo mercoledì alle ore 10?



CALSOLARO Corrado

Mercoledì alle ore 10,30 c'é la riunione della Commissione sulla droga alle ore 10,30 l'VIII Commissione; alle 10 la III Commissione, ed io faccio parte di tutte e tre.



PRESIDENTE

Allora rimediamo così: immediatamente dopo la seduta faremo una riunione dei Capigruppo per fissare la data, perché io ho impiegato circa 45 minuti per stabilire le ore 10 di mercoledì, se la data di mercoledì salta non so non so proprio quando si potrà fare.
Il dibattito sulla sicurezza sociale e sanità mi pare difficile proporlo ora, quindi direi di soprassedere.
"Partecipazione della Regione alla S.p.A. SAMIA". Io pongo la questione: si fa o no questo punto? Non so se i Consiglieri condividono il mio parere, ma quando ci sono delle leggi iscritte all'ordine del giorno sarebbe molto importante che il Consiglio potesse, quando è convocato svolgerle, altrimenti ci assumiamo la responsabilità di rinviare l'approvazione di una legge solo per ragioni di tempo, mentre la legge è un provvedimento di stretta competenza del nostro Consiglio regionale.
La Giunta ed i Consiglieri cosa vogliono fare?



VIGLIONE Aldo, Presidente della Giunta regionale

La Giunta ritiene che nella prima seduta che sarà programmata debba essere collocato al primo posto il disegno di legge per il SAMIA e così gli altri disegni di legge, perché non vorremmo che attraverso i giusti dibattiti che qui avvengono, alla fine poi i disegni di legge non avessero più spazio, mentre alcuni di essi urgono.
Quindi è opportuno che sia per la seduta prossima, sia per le successive, al primo posto vengano collocati i disegni di legge o le proposte di legge, perché in caso diverso giungiamo sempre alla fine della giornata e di leggi non se ne parla. Quindi, facciamo i dibattiti, ma facciamo in modo che all'inizio delle sedute siano collocati i disegni di legge.



PRESIDENTE

Cominciamo a decidere un' altra cosa; giovedì prossimo si convoca il Consiglio. Mi pare che la proposta fatta dal Presidente della Giunta sia corretta e quindi metteremo al primo punto il disegno di legge sul SAMIA ed eventuali altri disegni di legge che siano già licenziati dalle Commissioni, ma sempre ricordando l'impegno richiesto dal Gruppo della D.C.
e dal Consiglio accettato, di inserire il dibattito sulla sanità.
Nella seduta di giovedì prossimo si svolgeranno i punti sul SAMIA, il dibattito sulla sanità e se c'è qualche altra legge pronta si farà anche quella.
La parola al Consigliere Calsolaro.



CALSOLARO Corrado

Bisogna mettere all'ordine del giorno la legge sulle IPAB, che è già stata licenziata dalla VIII Commissione e che riguarda la sostituzione, per le nomine dei prefetti con la Regione. E' la terza volta che la mettiamo.



PRESIDENTE

Va bene.
Devo comunicare che mi è giunta la proposta di mozione dei Consiglieri Bianchi, Cardinali, Robaldo ed altri. Chiedono che la legga oppure è già stata distribuita?



BIANCHI Adriano

I Gruppi ne sono già informati.



PRESIDENTE

Comunico allora al Consiglio che mi è pervenuta questa mozione che sarà discussa e trattata appena i Capigruppo avranno deciso quando e come.
Prego un Segretario di leggere le interrogazioni e le interpellanze pervenute all'Ufficio di Presidenza.


Argomento:

Sul programma dei lavori e sulla conferenza dei Capigruppo

Argomento:

Interrogazioni, interpellanza, mozione e ordini del giorno (annuncio)


FABBRIS Pierina, Consigliere Segretario

Interrogazione dei Consiglieri Martini, Lombardo e Soldano relativa all'insediamento ed all'operatività della Commissione tecnico-consultiva prevista dalla legge n. 42/1975.
Interrogazione dei Consiglieri Vietti, Armella, Beltrami e Lombardi per conoscere i motivi che hanno impedito finora l'approvazione del piano dei contributi ai Comuni per la gestione degli asili nido per l'anno 1975.
Interrogazione dei Consiglieri Chiabrando e Ber- torello relativa alla disastrosa situazione della Ditta Passera di Crescentino.
Interrogazione urgente con richiesta di risposta scritta del Consigliere Franzi sull'iniziativa dell'Enel per la costruzione di una seconda centrale termonucleare in territorio di Trino e per il raddoppio di quella già esistente.
Interpellanza del Consigliere Raschio concernente il passaggio alla competenza della Regione di tutte le strutture ed il personale della Gioventù Italiana (ex G.I.L.).
Mozione dei Consiglieri Bianchi, Paganelli, Alberton, Beltrami, Armella Robaldo, Petrini e Cardinali relativa all'elaborazione del Piano regionale di sviluppo ed ai tempi e modi di discussione e redazione del documento.
Ordine del giorno dei Consiglieri Berti, Calsolaro e Rossotto a conclusione del dibattito sulla situazione urbanistica regionale.
Ordine del giorno dei Consiglieri Picco, Martini, Alberton, Cardinali e Gandolfi a conclusione del dibattito sulla situazione urbanistica regionale.



PRESIDENTE

La seduta è tolta.



(La seduta ha termine alle ore 19,20)



< torna indietro