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Dettaglio seduta n.2 del 24/07/75 - Legislatura n. II - Sedute dal 16 giugno 1975 al 8 giugno 1980

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Argomento:


PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SANLORENZO



PRESIDENTE

La seduta è aperta Hanno chiesto congedo per la seduta antimeridiana i Consiglieri Bianchi e Gandolfi. La figlia del Consigliere Bianchi è stata coinvolta in un incidente stradale: nel formulare i migliori auguri di pronta guarigione ci auguriamo che il Consigliere Bianchi possa essere presente fra noi sin dalla seduta del pomeriggio.


Argomento:

Approvazione verbali precedenti sedute


PRESIDENTE

Il primo punto all'ordine del giorno reca: Approvazione verbali delle adunanze del 23, 24, 28, 29 e 30 aprile 1975, trasmessi per posta ai Consiglieri della prima legislatura, e il processo verbale dell'adunanza 21 luglio 1975 consegnato ai Consiglieri prima dell'inizio della seduta odierna.
Vi sono delle osservazioni? Faccio comunque presente che c'è sempre la possibilità, per i Consiglieri, che lo desiderano, di modificare il testo del processo verbale in qualsiasi momento.
Non vi sono obiezioni, pertanto i processi verbali si intendono approvati.


Argomento:

Approvazione verbali precedenti sedute

Argomento:

Comunicazioni del Presidente

Argomento: Consiglio, organizzazione e funzioni

a) Decisioni dell'Ufficio di Presidenza circa il proprio funzionamento


PRESIDENTE

Desidero comunicare all'assemblea alcune decisioni prese dall'Ufficio di Presidenza nella sua prima riunione, data la rilevanza delle decisioni prese che influenzeranno (se i Consiglieri saranno consenzienti) i nostri lavori successivi.
Si è riunito ieri l'Ufficio di Presidenza ed ha preso alcune decisioni circa lo svolgimento dei propri lavori ed i criteri che dovranno ispirare il suo funzionamento.
Innanzi tutto, dopo una ricognizione dei compiti che attendono l'Ufficio di Presidenza, è stato deciso: che il Presidente si occuperà direttamente di quei compiti che gli sono propri, inerenti da un lato alla convocazione del Consiglio, all'esame e assegnazione dei documenti e dall'altro ai rapporti con la Giunta, le altre Regioni, gli Enti locali, la comunità regionale che il Vice Presidente Paganelli si occuperà delle questioni più strettamente connesse al funzionamento dell'aula, inoltre seguirà tutti i problemi connessi ad un trasferimento, il più sollecitamente possibile degli uffici a Palazzo Lascaris che il Vice Presidente Bellomo si occuperà delle questioni connesse al funzionamento delle Commissioni per quanto attiene al coordinamento dei lavori ed all'attività di resocontazione che il Consigliere Segretario Benzi curerà i rapporti con i Gruppi e con i Consiglieri, soprattutto in relazione alle leggi sui Gruppi sull'indennità, sui fondi di previdenza che il Consigliere Segretario Fabbris si occuperà dei problemi connessi all'amministrazione del patrimonio del Consiglio che il Consigliere Segretario Petrini seguirà l'amministrazione dei fondi a disposizione del Consiglio Regionale per il proprio funzionamento che il Consigliere Segretario Zanone curerà il problema del personale.
Per quanto attiene più specificatamente allo svolgimento delle sedute si è deciso: che il Vice Presidente Paganelli ed il Consigliere Segretario Zanone seguiranno particolarmente la disciplina delle sedute anche in relazione all'ammissione di estranei in aula. Intenderei precisare che non sono estranei all'aula i Consiglieri, i funzionari della Regione addetti ai lavori, i giornalisti, tutti gli altri non possono accedere all'aula che i Consiglieri Segretari Fabbris e Benzi seguono la verbalizzazione delle sedute, votazioni e tutti i lavori connessi.
Circa il modo di funzionamento si è deciso: che l'Ufficio di Presidenza funzionerà collegialmente, ciò non come pura affermazione teorica, ma come modo concreto di lavoro che vede la responsabilità dei singoli per la preparazione dei provvedimenti e la corresponsabilità collegiale delle decisioni assunte. E' un metodo che si è progressivamente instaurato anche nelle precedenti legislature e intendiamo perfezionarlo anche per il fatto che l'Ufficio di Presidenza adesso è composto di sette membri che l'Ufficio di Presidenza terrà riunione ogni mercoledì mattina alle ore 10. E questa comunicazione può servire ai Gruppi, alle Commissioni, ai Partiti per tenerne conto nell'ordinamento dei propri lavori che tutti i giorni siano presenti, presso la sede del Consiglio (tutti i giorni della settimana lavorativa) il Presidente, uno dei Vice Presidenti e uno dei Segretari che siano applicate rigorosamente le norme della legge sul personale circa l'utilizzazione collegiale del personale di Segreteria dell' Ufficio di Presidenza, escludendo quindi le Segreterie particolari e quelle sull'utilizzo delle autovetture di servizio, che faranno parte di un parco macchine disponibile per le esigenze di servizio e di rappresentanza dell'Ufficio di Presidenza e dei Consiglieri quando rappresentino il Consiglio.
L'Ufficio di Presidenza, in ultima decisione, ha incaricato, con particolare riferimento a Palazzo Lascaris, il Vice Presidente Paganelli di esaminare rapidamente e riferire al prossimo Ufficio di Presidenza mercoledì, circa le possibilità concrete di un rapido trasferimento di almeno una parte degli uffici della nuova sede. Si vogliono, in sostanza accelerare tutti i tempi per mettere in condizione i Gruppi e tutti i Consiglieri di lavorare e di avere gli strumenti a disposizione.


Argomento: Gruppi consiliari

b) Costituzione dei Gruppi Consiliari


PRESIDENTE

Costituzione dei Gruppi Consiliari. Sono pervenute quasi tutte le dichiarazioni scritte che i Consiglieri sono tenuti a fare all'Ufficio di Presidenza, circa il Gruppo Consiliare al quale intendono appartenere.
Sarebbe necessario, per il rispetto dei termini previsti dal regolamento che le dichiarazioni mancanti venissero consegnate, subito, oggi.
Secondo il disposto del regolamento, il Presidente deve, entro quattro giorni dalla prima seduta, convocare i Consiglieri aderenti ai singoli Gruppi, per la costituzione di questi attraverso l'elezione del Presidente ed eventualmente uno o due Vice Presidenti ed un Segretario.
Prego pertanto i Gruppi che ancora non l'hanno fatto, di comunicare entro domani alla Presidenza, la composizione della loro Presidenza. Da tale data verranno applicate le norme della legge 10 novembre 1972 n. 12 sul funzionamento dei Gruppi Consiliari.
Sulla base di quanto concordato in sede di Capigruppo, l'Ufficio di Presidenza ha anche deciso di farsi promotore della modifica del regolamento, per permettere ai Gruppi di costituirsi con due Consiglieri come ovviamente era stato avanzato da alcuni Gruppi minori (minori come numero naturalmente).


Argomento: Consiglio, organizzazione e funzioni

c) Giunta delle elezioni. Commissione regolamento, Commissione nomine Commissioni permanenti


PRESIDENTE

Nella prima seduta dopo la costituzione dei Gruppi, il regolamento prevede altresì che il Presidente comunichi la composizione delle Commissioni per il regolamento e della Giunta delle elezioni. Occorre inoltre procedere anche alla nomina della Commissione consultiva per le nomine e delle otto Commissioni permanenti.
Sono tutti adempimenti che sarebbe opportuno fossero compiuti prima della pausa estiva e occorrerà quindi che i Presidenti dei Gruppi esaminino i problemi connessi alle nomine di queste Commissioni. E' comunque mia intenzione porre la questione all'ordine del giorno della prima riunione dei Capigruppo che si terrà, se possibile, nella stessa giornata di oggi.
Le mie comunicazioni sono terminate. Vi sono delle osservazioni? Nessuno chiede di parlare.


Argomento: Giunta, organizzazione e funzioni

Adempimenti di cui all'art. 32 dello Statuto per l'elezione del Presidente della Giunta e della Giunta Regionale


PRESIDENTE

Passiamo allora al secondo punto all'ordine del giorno "Adempimenti di cui all'art. 32 dello Statuto per l'elezione del Presidente della Giunta e della Giunta Regionale" (mi esimo dal leggere .l'art. 32 che i Consiglieri credo conoscano).
E' stato distribuito ai singoli Consiglieri, nella precedente riunione un documento di proposta al Consiglio Regionale delle linee politiche ed amministrative del Presidente, della lista degli Assessori, ai sensi e per gli effetti dell'art. 32 dello Statuto regionale per l'elezione del Presidente e della Giunta Regionale. Tale documento reca la firma di n. 30 Consiglieri appartenenti al Gruppo del P C.I. e al Gruppo del P.S.I. Viene proposto Presidente l'avv. Aldo Viglione con i seguenti Assessori: Giovanni Astengo, Sante Bajardi, Ezio Enrietti, Bruno Ferraris, Fausto Fiorini Mario Fonio, Lucio Libertini, Domenico Marchesotti, Michele Moretti, Luigi Rivalta, Claudio Simonelli e Mario Vecchione.
Il documento che mi è stato presentato attiene a tutte le caratteristiche previste dallo Statuto, è pertanto valido ed è stato ricevuto e trasmesso.
Detto questo non si tratta che di aprire il dibattito sul secondo punto all'ordine del giorno.
Chiede di parlare il Consigliere Minucci, ne ha facoltà.



MINUCCI Adalberto

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, sottoponendo alla discussione ed al voto del Consiglio il documento contenente le linee programmatiche della Giunta futura ed indicando nel compagno Aldo Viglione il Presidente di tale Giunta e presentando la lista degli Assessori, noi socialisti e comunisti riteniamo non soltanto di potere, con piena legittimità assolvere ai compiti formali previsti dall'art. 32 dello Statuto per la formazione dei nuovi organi di governo regionali, ma siamo anche convinti di avanzare alla Regione Piemonte ed a tutte le forze democratiche che la rappresentano, una proposta politica fondata su un'analisi corretta e realistica della situazione attuale, la sola proposta in grado di rispondere all'attesa, al bisogno di novità così diffuso in tutta l'opinione pubblica piemontese, anche in settori vastissimi di elettori che non hanno votato il 15 giugno per i comunisti e per i socialisti, la sola proposta che sia in grado di dare una soluzione realisticamente possibile oggi, allo stato attuale delle cose, al problema fondamentale della Regione, cioè quello di avere un Governo capace di governare.
Se insisto su questo concetto di una proposta realistica e senza alternativa, è perché penso anzitutto che la soluzione che oggi avanziamo è la sola in grado di riflettere il mutamento radicale, la svolta vera e propria impressa dal voto al quadro dei rapporti politici della nostra regione, L'esito elettorale, in altre parole, è di tale portata da non lasciare alcun margine a chi pensasse di cavarsela rispolverando e magari riverniciando vecchie formule e vecchi schemi.
In secondo luogo, la nostra è la sola soluzione che possa rivendicare una credibilità effettiva per le novità della sua impostazione politica per la qualità delle forze sociali e culturali che rappresenta e che è in grado di associare, di corresponsabilizzare nel Governo regionale di fronte alla drammaticità dei problemi che la crisi della nostra economia pone a tutta la collettività piemontese ed in primo luogo alle istituzioni che la rappresentano.
La sola soluzione, ovviamente, se si tiene conto del dibattito politico avvenuto non soltanto prima, ma anche dopo il 15 giugno e che qui ha trovato del resto un'eco nella prima discussione avvenuta per l'elezione del Presidente dell'assemblea ed in particolare tenendo conto dell'atteggiamento negativo degli altri partiti democratici dinanzi alla proposta comunista e socialista di una maggioranza di tipo nuovo, il rifiuto cioè di una collaborazione fra tutte le forze democratiche antifasciste resa necessaria dalla natura stessa della crisi, dalla sua profondità storica, dall'urgenza di aprire una nuova fase nella direzione della società italiana ed in particolare nella direzione del nostro Piemonte.
Sul senso di quella nostra proposta si è molto discusso sulla stampa nelle dichiarazioni degli esponenti politici e anche dei colleghi del Consiglio. Io credo che la discussione e anche le illazioni che sono intervenute nel corso di questo dibattito non possano offuscare la chiarezza della proposta che abbiamo avanzato. Del resto non abbiamo atteso i risultati del 15 giugno per avanzare la rivendicazione, l'idea di un grande schieramento di forze democratiche, di una convergenza di tutte le forze popolari antifasciste come sola via d'uscita dalla crisi storica della società nazionale. Semmai il voto non ha fatto che sancire clamorosamente la validità di questa proposta, dimostrando che il popolo italiano ritiene ormai completamente superati gli steccati anticomunisti e la rottura dell'unità antifascista non la norma, ma un fenomeno patologico del nostro regime costituzionale e democratico.
Chiarezza quindi di questa linea da cui è scaturita la proposta appunto di una maggioranza di tipo nuovo, chiarezza anche del metodo con cui l'abbiamo perseguita nei vari incontri tra tutte le forze dell'arco costituzionale della nostra Regione. E anche ragionevolezza dei termini concreti a cui l'abbiamo fatta approdare. Voglio ricordare qui che noi non ci siamo limitati a chiedere una verifica delle possibili convergenze di queste forze su un programma concreto e della possibilità della formazione di una maggioranza ampia e solida attorno a queste linee programmatiche, ma abbiamo anche dichiarato formalmente, come comunisti, che ove si formasse una tale maggioranza eravamo disposti a rimanere, per quanto partito di maggioranza relativa, al di fuori della Giunta, per poter consentire un Governo che comunque rispondesse ad una maggioranza vasta e ad un programma prestabilito in comune.
Abbiamo discusso tutto questo alla luce del sole; gli incontri che si sono svolti fra i sei partiti dell'arco costituzionale e molti degli incontri bilaterali a cui abbiamo partecipato, si sono svolti, fra l'altro e questa è stata una novità metodologica rilevante che spero venga confermata in futuro - alla presenza dei giornalisti. Tutti i partiti ci hanno dato atto della chiarezza e della correttezza di questo metodo.
Voglio ricordare che anche in un documento ufficiale sottoscritto da tutti i rappresentanti delle forze politiche democratiche, qui, presso la sede del Consiglio, è stata riconosciuta la correttezza della nostra impostazione ed è stata riconosciuta in alcuni interventi della precedente seduta del Consiglio Regionale.
Ecco perché mi risulta un po' strano, artificioso per non dire peggio il chiasso, il piccolo chiasso che nei giorni scorsi è stato fatto attorno al famoso 31° voto che ha partecipato all'elezione del Consigliere Sanlorenzo. E non parlo del chiasso dei giornali, sappiamo che siamo nella stagione estiva ed i miei colleghi giornalisti mi daranno atto, senza volermene, che questo è proprio il periodo in cui si va alla ricerca del serpente di mare; no, parlo delle reazioni che hanno avuto alcuni esponenti politici, anche alcuni colleghi del nostro Consiglio, che pure conoscevano e conoscono perfettamente tutti i termini della questione, e anche di qualche esponente politico nazionale tuttavia inguaribilmente legato alle pratiche clientelari della provincia più bassa, i quali hanno voluto vedere nell'episodio chissà cosa di insano, di torbido e addirittura hanno voluto individuare, in questo episodio, una conseguenza pressoché logica della nostra proposta politica di allargamento della maggioranza.
Io capisco che una lunga ed inveterata pratica di sottogoverno e talvolta di corruzione, a cui questi colleghi sono abituati nei rispettivi partiti, li porti a non vedere altre possibilità di svolgimento del dibattito politico, capisco anche che quando si è incapaci di portare su un terreno serio il ripensamento e l'autocritica necessari si possa sfogare altrimenti la propria frustrazione ed il proprio malumore, ma ciò non dà diritto a stravolgere la realtà dei fatti.
Io non conosco il collega del 31° voto, penso, che non lo saprò mai e forse non lo saprete mai neppure voi colleghi Consiglieri, so solo che non c'è stato da parte nostra, né da parte dei compagni socialisti nessun patteggiamento. E del resto la posizione del nostro partito su questo problema, cioè sulla possibilità di intesa su un terreno politico chiaro e su un terreno programmatico serio con altre forze, è una posizione che abbiamo affermato a tutte lettere in ogni circostanza; però permettetemi di considerare con viva simpatia questo famoso 31°. Forse il suo voto, proprio perché non è stato contrattato con nessuno, è soltanto il frutto di uno scatto di fantasia, forse, dopo avere partecipato ad interminabili riunioni in cui si consumavano i riti per la riesumazione di una vecchia formula quella di centro-sinistra, preso dalla noia ha trovato un gesto che lo distinguesse e forse, con una ironia intelligente, questo collega ha voluto dimostrare la labilità dei calcoli numerici, di quei calcoli su cui alcuni colleghi, anche in quest'aula, pochi giorni fa, hanno dato l'impressione di voler fondare tutte le prospettive di una riedizione della vecchia formula di centro-sinistra.
Il collega Bianchi (mi spiace che non ci sia oggi, ma non posso fare a meno di discutere con lui) in particolare, in un discorso di cui pure ho apprezzato certi segni di novità, la serietà di uno sforzo di comprensione anche la dignità formale, ha insistito tuttavia su quella somma di seggi che porta al risultato aritmetico di 34, ma non porta al risultato politico del centro-sinistra. La maggioranza della D.C. e la sua linea politica rappresentata fino a poche ore fa dal sen. Fanfani, ha condotto una campagna elettorale all'insegna della più virulenta polemica contro il partito socialista, ha chiesto agli elettori la testa del PSI. Il PSI ha retto, è andato avanti proprio perché ha saputo mantenere bene attaccata al collo la propria testa, cioè ha saputo ragionare con la propria testa e oggi la testa semmai l'ha perduta proprio Fanfani. E oggi, proprio perché i compagni socialisti continuano, come è loro tradizione del resto, a ragionare con la propria testa, fanno i conti (ed ecco i calcoli che contano davvero) con uno spostamento politico che nella nostra Regione vede le sinistre avanzare di circa il 12%, la D.C. a perdere quasi il 5% e altri partiti addirittura dimezzare i propri consensi.
Dove esiste, in questa situazione, il centrosinistra? Dove trova spunto questa religione della formula che qui ci viene riproposta? Non a livello nazionale perché il Governo di centro-sinistra non esiste più e anche le vicende di questi giorni dimostrano la difficoltà di ripristinarlo; non certo nella nostra Regione, forse la Regione italiana dove il voto ha battuto più che in ogni altra questa formula; e non certo nei Comuni maggiori, nelle province, nelle centinaia e centinaia di Comuni minori della nostra Regione che oggi in questi giorni si stanno dando una maggioranza nuova, che ha come fondamento l'unità tra socialisti e comunisti e che vede spesso l'adesione di altre forze politiche.
Si dice: ma il centrosinistra ha i numeri, ha questo famoso 34. Ma io vorrei chiedere al collega Bianchi ed agli altri colleghi, ai colleghi repubblicani che in fatto di fede nella formula non sono secondi a nessuno vorrei sapere perché non ci hanno, saputo dimostrare che il centro-sinistra ha i numeri politici per governare, per corrispondere al bisogno di mutamento espresso dal voto, perché nessuno qui ci ha minimamente edotto su che cosa si intende cambiare nel caso che la formula di centro-sinistra venga ripristinata rispetto al passato, quali sono i nuovi postulati, le nuove indicazioni su cui una formula come quella, battuta appunto dal voto trasformandosi profondamente, in grado di far fronte alla crisi economica e sociale della nostra Regione.
Ecco allora, proprio perché si fanno i numeri, ma non si fanno i conti con la realtà politica, ecco allora perché io ritengo del tutto specioso l'attacco che viene fatto al PSI, l'accusa che gli viene rivolta di non rispettare chissà quali patti, di non tornare alla vecchia maggioranza. E' un vecchio gioco del resto, la D.C. predilige scaricare le proprie crisi e le proprie contraddizioni sugli alleati, si può dire quasi che gli alleati li consideri solo (o li abbia finora considerati) sotto questo profilo. Ma chi è che si fa portatore di questa fede nella formula di centro-sinistra? Chi è abilitato a mettere le formule politiche sugli altari da venerare? Soltanto la D.C.? Io vorrei richiamare qui l'attenzione di tutti i colleghi sul fatto che ancora poco tempo fa, nel corso dell'ultima legislatura, la D.C., quasi dalla sera al mattino, decise un bel giorno di allontanare i socialisti dalla maggioranza, di sostituire il centro-sinistra con il centro-destra di portare i liberali in Giunta, dopo un anno e mezzo o due anni decise ancora di abolire la formula di centrodestra, di tornare alla formula di centrosinistra, di scaricare il PLI. Ma è questa la fede nelle formule a cui vi richiamate? E' questa la religione a cui i compagni socialisti o altri Gruppi politici dovrebbero credere? No, qui c'è soltanto quell'arroganza del potere, che del resto, oggi viene ammessa autocriticamente anche dagli esponenti più illuminati dalla D.C. a cui, mi sembra, molti colleghi non sanno o non vogliono ancora rinunciare.
E dico questo anche se - l'ho già detto - apprezzo i segni di una riflessione autocritica presente nella stessa D.C., non soltanto dal Gruppo dirigente piemontese di questo partito, ma, abbiamo visto, anche al Consiglio nazionale della D.C. vi è una consapevolezza, a mio avviso (lo dico con tutta la modestia necessaria), ancora confusa della necessità di rinnovarsi, di rigenerarsi, qualcuno ha detto addirittura di compiere una rivoluzione culturale. Bene, ma come si va a questa rivoluzione, o, più modestamente, a questo rinnovamento? Davvero si può credere che la D.C.
prendendo atto della lezione del voto e avviando questo processo di rinnovamento che i D.C. stessi avvertono difficile, travagliato, arrivi come traguardo ultimo di questo processo, al ripristino del centro sinistra? Davvero si pensa che questa sia l'attesa, non dico degli elettori, ma degli stessi militanti D.C. oltre che dell'opinione pubblica in generale? Io credo che tutti avvertano ragionevolmente che un reale processo di rinnovamento e di rigenerazione della D.C., la sua definitiva rinuncia ad un sistema di potere rivelatosi nocivo per tutta la società italiana, non può che approdare ad un nuovo rapporto con tutto il movimento operaio, con tutte le forze democratiche, non può che approdare cioè alla fine di quel diritto che dal 1947 la D.C. si arroga ma che non ha e che nessuno le ha dato di discriminare tra le forze popolari e fra le forze democratiche del nostro Paese, cioè non può approdare a questo processo di rinnovamento, se vuole avere la benché minima credibilità, se non ad un nuovo rapporto col PCI.
Noi prendiamo atto che fra i segni di consapevolezza nuova vi è stato in questa settimana e anche qui in quest'aula, il rifiuto di ricorrere a contrapposizioni frontali, il rifiuto di ricorrere diciamo a pratiche che potrebbero passare per ostruzionistiche, rifiuto, questo, davvero importante anche dal punto di vista ideale e del resto è un rifiuto anch'esso nuovo per la fermezza con cui è stato enunciato, in passato sappiamo che non sempre è stato così, il rifiuto di sommare i propri voti (parlo della D C. e di altri partiti democratici) a quelli dei fascisti.
Prendiamo atto di tutto questo, ma da tutto questo non fa che emergere ancora più prepotente, la sensazione e la consapevolezza che stando così le cose la sola soluzione possibile è quella che noi proponiamo oggi, la sola soluzione possibile è quella appunto che scaturisce da un'alleanza di fondo fra comunisti e socialisti, aperta al contributo, al confronto e domani noi speriamo, alla convergenza di altre forze democratiche.
Qualsiasi riflessione sul voto per i colleghi della D.C., ma credo per i colleghi di tutto il partito e del nostro stesso partito, non può non partire dalla consapevolezza che alla base della grande modificazione dei rapporti elettorali non vi è (e questo credo sia quasi banale sottolinearlo) l'esito di uno scontro elettorale; ma vi sono processi di fondo di portata storica, i cui sviluppi più maturi abbracciano un'epoca di 10/15 anni. Vi è stata in questa fase un elevamento della base oggettiva della società nazionale ed in particolare dell'economia e della società piemontese, cioè l'ingresso della società italiana in uno stadio non nuovo dello sviluppo storico. Questo innalzamento si è espresso nei processi produttivi, le nuove e più avanzate forme di industrializzazione, l'avvento di un terziario moderno nei processi sociali, la crescita e l'ascesa di nuovi strati e di nuove professioni nel costume, nel modo di pensare, nelle concezioni morali delle grandi masse; basterebbe qui citare il significato che ha assunto, appena un anno fa, il risultato del referendum sul divorzio, Questo processo sconvolgente, rapido (e del resto è avvenuto in 10/15 anni ciò che in altre società più moderne è avvenuto nel corso di lunghi decenni ed è avvenuto in una società assetata di modernità per il lungo ritardo a cui era stata costretta dal fascismo e anche dai regimi prefascisti) ha reso acuti i bisogni di trasformazione strutturale necessità di razionalizzazione delle strutture produttive e sociali e direi che tutte le lotte, tutti i fenomeni che hanno avuto luogo soprattutto nel corso degli ultimi anni portano il segno di questi bisogni.
Di fronte a questa novità noi possiamo giudicare i grandi fenomeni che si sono riflessi anche nella vita politica del nostro Paese in questi anni: da un lato è riemerso il vecchio limite storico delle classi dominanti italiane, della borghesia industriale e anche delle forze politiche che si riferiscono a queste classi, la loro incapacità di assolvere ad un ruolo reale di egemonia, di direzione, di unificazione della società nazionale a livelli via via sempre più elevati, per cui ogni spinta verso la modernità è stata condannata o ad atrofizzarsi o ha dato luogo a lacerazioni profonde, a malessere, a irrazionalità ancora più gravi di quelle del passato. Sono tutti fenomeni che abbiamo visto sotto i nostri occhi in questi anni; pensate al fatto, ad esempio, che una gestione dello Stato dell'economia fondata in gran parte su una gestione clientelare del potere e parassitaria di molti apparati del potere, ha fatto sì che vecchi strati sociali siano sopravvissuti e si siano sommati appunto come strati parassitari alle nuove formazioni sociali che lo sviluppo via via veniva ampliando e allargando o creando ex novo.
Dall'altro lato, però, noi abbiamo assistito ad una crescita sempre più netta e certo non priva anch'essa di contraddizioni, di problemi drammatici, ad una crescita del ruolo dirigente, della capacità di egemonia della classe operaia e del movimento sindacale e politico a cui la classe operaia si richiama, cioè ad una crescita della capacità di questo movimento di dare una risposta ai bisogni nuovi in termini di direzione di governo E si guardi alle grandi lotte di questi anni, lo abbiamo ricordato tante volte anche in quest'aula, lotte che hanno sempre più consapevolmente posto il problema di un rinnovamento della struttura produttiva a partire dal suo interno, dai problemi dell'organizzazione del lavoro, dei processi tecnologici nella grande industria che hanno posto con sempre maggior consapevolezza problemi di riforma sociale capaci di collocare in una nuova dimensione, in un nuovo rapporto con i grandi fattori economici gli strati sociali del nostro Paese e anche una capacità di individuare i problemi dello sviluppo nel quadro di una nuova unità nazionale. Si pensi al fatto che, proprio mentre facevano fallimento le politiche meridionaliste dei Governi in questi ultimi anni, è stata la classe operaia, è stato il suo movimento rivendicativo e politico a porre in termini nuovi la questione degli investimenti e dello sviluppo delle regioni meridionali, con esigenza prioritaria per risolvere i problemi dell'intera società nazionale.
Un mutamento oggettivo, dunque, è avvenuto e io dò atto all'on. Moro nel suo discorso al Consiglio nazionale della D.C. di essere partito proprio da questo dato, il che non diminuisce il merito soggettivo delle forze politiche che, come dire, hanno beneficiato anche in chiave elettorale di questo mutamento, anzi, forse rende meno brillante la loro capacità elettoralistica, ma rende più di fondo la loro capacità di interpretare i processi della storia, di interpretarli e di guidarli, come hanno fatto i partiti operai in tutti questi anni. E proprio perché il mutamento della base sociale, della base oggettiva (insisto su questo concetto) ha avuto questa portata, io credo che fosse inevitabile la sconfitta di una linea politica e di un uomo come Fanfani, perché in fondo oggi i giornali sono impietosi, non gli riconoscono neppure di avere avuto un disegno politico; io non credo che il sen. Fanfani non abbia avuto un disegno politico, l'ha avuto, anche se non ha avuto la forza di enunciarlo di renderlo pubblico ed il suo disegno politico era appunto quello di rispondere a questa crescita della società tentando un'operazione disperata, quella di aggregare un blocco conservatore e moderato e di utilizzare a questo fine anche le forze reazionarie, di tentare cioè un'operazione gollista-conservatrice e naturalmente è stato travolto non solo dalla capacità di lotta delle forze democratiche, ma in primo luogo da questi bisogni di crescita, di modernità, di progresso dell'intera società nazionale.
Ecco perché io ritengo di poter dire, senza presunzione, agli amici e colleghi della D.C., che sarebbe assurdo, sarebbe perdente un'operazione che tendesse a partire dalle novità del voto, dalla perdita notevole certamente, che la D.C. ha avuto, per dire va bene, il nostro elettorato è sempre più a destra, il nostro ruolo deve essere sempre più di destra.
Questo sarebbe possibile, forse avrebbe una sua logica se non si tenesse conto che lo spostamento non è di frange elettorali, ma è uno spostamento complessivo della società italiana che non dà più spazio a destra, almeno sul terreno del mantenimento della democrazia; per cui chiunque pensasse nella D.C. di risolvere a destra la crisi inevitabile che questo partito attraversa, sarebbe di nuovo destinato alla sconfitta come è stato sconfitto l'uomo più rappresentativo della politica conservatrice della D.C. di questi anni, cioè il sen. Fanfani.
E d'altra parte credo che si debba fare un'altra constatazione. Certo il PCI in primo luogo, e anche i compagni socialisti, sono stati gli interpreti politici di questo processo di rinnovamento e quindi hanno anche raccolto il consenso che ne derivava; ma stiamo attenti a valutare la qualità e la portata di questo consenso. Quando sento dire e leggo sui grandi quotidiani del nostro Paese commenti tendenti a presentare l'avanzata del PCI, il successo del PSI come il prodotto di una protesta indistinta, arrabbiata quasi, contro il malessere, contro la crisi, contro il malgoverno, quasi un voto di disperazione anziché di coscienza, capisco questa tesi, del resto non è nuova, oggi viene ripresentata con più forza perché lo spostamento elettorale è stato più consistente; capisco il senso di questi commenti, si vuol far credere che il processo sia reversibile che siano voti labili, pronti a staccarsi dai partiti a cui sono andati così come rapidamente si sono spostati in passato. Ebbene, io credo che anche questo sia un calcolo sbagliato e chi lo fa e comunque chi punta ad una politica che parta da questa analisi è destinato anch'esso alla sconfitta.
Se fosse davvero, l'avanzata del Partito comunista, il frutto di un gesto disperato, di una protesta, non si capirebbe perché altre formazioni politiche che ormai esistono da 15 anni, i famosi gruppuscoli extra parlamentari di sinistra che questa volta, fra l'altro, si sono presentati quasi su tutta l'area del paese, che questa volta, fra l'altro, hanno potuto parlare alla TV, con gli stessi tempi di un partito come il nostro hanno avuto mezzi, sono stati anche esaltati qualche volta nel loro ruolo di disturbo anticomunista dai grandi giornali di informazione, non si capirebbe perché questi gruppuscoli non abbiano avuto alcun successo elettorale. Direi che il partito liberale si è dimezzato, ma nonostante questo riesce a mantenere un corpo elettorale maggiore di quello dei gruppuscoli extra parlamentari.
Che cosa significa tutto questo? Che coloro che hanno votato il 15 giugno non hanno votato per disperazione, non hanno votato per protesta hanno votato anche perché sono convinti che è possibile governare il nostro Paese in modo diverso ed hanno individuato nelle sinistre, nei comunisti e nei socialisti le forze decisive per mutare gli indirizzi di fondo e il modo di governare nel nostro Paese.
Si dice: ma il ragionamento che voi fate non può che aumentare i sospetti che le altre forze democratiche hanno circa il fatto che questo processo porta ineluttabilmente ad una egemonia del Partito comunista sulle altre forze. Me lo sono sentito ripetere in queste settimane anche dai colleghi della D.C. e degli altri Partiti: non possiamo aprire un discorso positivo con voi perché finireste per egemonizzarci, per erodere le nostre posizioni, per porci in una posizione subalterna. Io ritengo che anche questo sia un discorso miope - mi scusino questo giudizio i colleghi a cui mi riferisco - un discorso che non tiene conto cioè della realtà e della profondità dei processi a cui mi riferisco. Per egemonia noi, ma credo tutta la scienza politica moderna, intendiamo appunto capacità di direzione e quando diciamo capacità di direzione è impossibile riferirla, in una società come la nostra, ad un solo partito. Del resto, nella concezione di Marx e di. Gramsci, che ci è cosi vicino anche oggi, l'egemonia si riferisce sempre ad una classe sociale, o meglio ad un blocco storico di classi, mai ad un partito. Quando noi rivendichiamo una funzione di egemonia- non la rivendichiamo al nostro Partito o ad altri partiti, la rivendichiamo per la classe operaia, per le classi lavoratrici del nostro Paese. E questo richiede, semmai, una pluralità di organizzazioni sindacali e politiche capaci di esprimere questa egemonia delle classi e questa egemonia in primo luogo della classe operaia.
E quando noi ci battiamo per un rapporto pluralistico, per un rapporto di collaborazione con gli altri partiti politici, partiamo proprio da questa concezione in base alla quale la costruzione di un nuovo blocco storico, di una società, di una nuova egemonia richiede uno sforzo alla pari di varie forze politiche, di varie tendenze ideali, di varie tradizioni.
Del resto, anche qui mi permettano i colleghi della D.C. di sollevare una questione polemica nei loro confronti perché credo che, se davvero sono impegnati, come io credo, in uno sforzo serio di comprensione, di autocritica, può servire loro anche il suggerimento, il consiglio di chi vive dall'esterno, ma con grande interesse il loro travaglio. Si guardi ai fatti: la D C. parte sempre da questa sua sottolineatura, esaltazione della propria concezione pluralistica della vita politica, ma è condannata dalla storia di questi 30 anni ad una prassi costante, ogni volta che si allea con altri partiti non fa altro che succhiare il sangue a questi partiti ridurne anche la portata elettorale e vorrei chiamare a testimoni gli amici del PSDI, del PRI, anche del Partito socialista per tutto il lungo periodo della loro collaborazione. Ogni volta che la D.C. prende il mazzo in mano al centro di uno schieramento politico così fatto è quasi inevitabile direi è ineluttabile, è provato da qualsiasi esperienza di questi decenni che i partiti alleati subiscono il peso di un'egemonia effettiva, di un dominio quasi assoluto e pagano questo peso anche in termini elettorali.
Ebbene, io sfido i colleghi della D.C. e degli altri partiti ad individuare nelle esperienze di alleanza politica del Partito comunista una prassi analoga; se andate a vedere in tutte le consultazioni elettorali di questo trentennio, ogni volta che comunisti e socialisti sono stati alleati nelle Amministrazioni locali, o in schieramenti nazionali di opposizione, sono andati sempre avanti insieme, non si è mai dato un caso in cui i comunisti abbiano risucchiato i voti dei socialisti; anche in questa occasione sono andati avanti assieme e sono andati avanti assieme con tanta maggiore evidenza proprio là dove erano alleati di Governo, come nei Comuni della cintura, come nelle Regioni rosse, come in tutte le circostanze in cui questa alleanza si è espressa.
E del resto è un fenomeno che andrebbe studiato anche per altre formazioni politiche culturali, dato che ormai nel variegato panorama politico del nostro Paese vi sono anche altri esempi di alleanza politica a sinistra, quindi non solo dei comunisti e dei socialisti, ma in certi casi (a La Spezia, ad esempio, il PRI) vanno avanti tutti gli alleati del Partito comunista. C'è qui una prova di una diversa concezione del pluralismo, di una diversa linea politica. Noi non siamo un partito interessato al dipartitismo, siamo un partito interessato invece alla sopravvivenza di una pluralità ricca di forze politiche, non certo alla dispersione, ma ad un'articolazione reale di forze politiche in grado di corrispondere alla struttura diversificata della società italiana e di esprimerne unitariamente il bisogno di progresso e di trasformazione.
Ed io questo discorso voglio farlo con molta serietà e senza nessun strumentalismo, ai partiti politici che con un termine di comodo - lo ammetto - potrei definire intermedi, perché se il voto del 15 giugno è una grande occasione di riflessione per tutti, ebbene, io credo che proprio questi partiti per primi devono avviare una rimeditazione della loro esperienza e della loro collocazione nella vita politica e sociale del nostro Paese.
Mi consentano gli amici repubblicani di dire, con particolare rammarico, la mia sorpresa per il fatto di aver chiuso le porte ad una collaborazione con le sinistre in questa circostanza, in nome di quella famosa formula magica che citavamo prima, proprio loro che in passato hanno condotto una polemica contro coloro che agitano soltanto le formule ed hanno rivendicato una posizione che invece sottolinea il valore pressoch esclusivo dei contenuti dei programmi, C'è qui una contraddizione che dimostra appunto come questi amici non abbiano superato una prassi ed una concezione subalterna della loro collocazione politica, non abbiamo cioè ancora capito la lezione che viene dal voto del 15 giugno.
E lo stesso discorso, sia pure in altri termini, può valere per gli amici socialdemocratici, non si illudano di potersi collocare, come è stato detto, alla sinistra della D.C. quando poi il loro cammino è segnato dalle cadenze fissate dalla D.C. per cui si fa solo quello che la D.C. vuole anche in questa circostanza, alla Regione Piemonte.
Ecco perché noi rinnoviamo il nostro appello ad un confronto costruttivo, ad una collaborazione fra tutti i partiti democratici in quest'aula e nella nostra Regione, così come ha fatto del resto, nel primo intervento del nostro Partito, nel nuovo Consiglio, il compagno Capogruppo Berti.
Noi siamo consapevoli che soltanto se andiamo a queste nuove forme di collaborazione, ad un allargamento della maggioranza democratica, ad un cambiamento del sistema dei rapporti politici, sarà possibile far fronte alla gravità ed anche alla novità e alla natura nuova della crisi economica e sociale; siamo consapevoli cioè dei problemi difficili, davvero da far tremare le vene e i polsi, che anche sul piano immediato ci prospetta la crisi dell'economia piemontese nel quadro della crisi capitalistica nazionale e mondiale. Problemi urgenti intanto, lo vediamo anche dai segni esteriori che si trovano in questa piazza. Noi ci troviamo oggi a dover fronteggiare un attacco ai livelli di occupazione che può farsi più massiccio e più drammatico nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, la nuova Giunta e tutto il Consiglio dovranno affrontare in termini nuovi e con più decisione e anche con maggiore capacità realizzatrice problemi come quelli che ci pongono i lavoratori della Emanuel che conducono da un anno e mezzo una lotta straordinaria, a difesa di una fabbrica che ha tutte le carte in regola per essere un soggetto importante nello sviluppo industriale ed economico del nostro Paese e che è vittima soltanto di una speculazione dei vecchi padroni; così come la Venchi Unica, un caso pressoché analogo; cosi come altri grandi gruppi industriali, il caso della Montedison, il caso stesso della Fiat, cosi come centinaia di piccole e medie aziende che oggi si trovano con l'acqua alla gola e che possono diventare domani l'elemento dirompente di una caduta dei livelli di occupazione nella nostra Regione. Ma siamo consapevoli che la crisi si pone problemi ancor più generali e nuovi che richiedono davvero fantasia e grande tensione ideale per tutte le forze politiche che sono chiamate a risolverli. Dalla crisi si esce soltanto (lo abbiamo detto più volte) se si opera il passaggio da uno sviluppo di tipo selvaggio ad uno sviluppo di tipo programmato, ma ciò vuol dire una nuova concezione del ruolo dello Stato e di tutte le articolazioni democratiche dello Stato, a cominciare dalla Regione che può diventare davvero il punto di aggregazione di una nuova formazione statale, di un nuovo modo di gestire l'economia.
Io credo che su questo punto davvero la D.C. deve portare avanti la propria riflessione autocritica e credo che il primo punto di partenza di questa riflessione autocritica potrebbe essere proprio una nuova prassi a livello degli Enti locali e della Regione, cioè delle prime fondamentali articolazioni dello Stato democratico: come passare da un rapporto con lo Stato che negli anni si è sempre più fossilizzato come rapporto clientelare, come utilizzazione dello Stato in funzione di una politica di compensi corporativi ai vari strati sociali, ad una visione più moderna che faccia dello Stato non più l'elemento subalterno dello sviluppo, ma il soggetto, il protagonista principale, il coordinatore fondamentale dello sviluppo economico, appunto così come richiede una programmazione democratica dell'economia che sia reale, effettiva.
Ecco un problema di fronte a cui ci troviamo e di fronte al quale davvero il nostro Consiglio, i rapporti che si possono stabilire fra le nostre forze possono avere un effetto positivo per tutti, un effetto risolutore della crisi di certe formazioni politiche nel momento storico attuale. Ma ci troviamo anche di fronte ad altri problemi che dobbiamo fronteggiare. Abbiamo parlato tutti, ormai (ci si lasci l'orgoglio di averne parlato per primi semmai) della crisi non solo di egemonia ma di prospettive dei vecchi gruppi economici dominanti, della grande borghesia industriale e, visto che siamo nella regione che è caratterizzata proprio dalla presenza delle più grandi concentrazioni industriali private, dalla crisi del gruppo dirigente Fiat, di fronte alla novità della situazione economica e politica attuale. Io credo che davvero possiamo prendere atto come di un fatto irreversibile che questi gruppi industriali non potranno più recuperare quel processo che ha portato in altri paesi la borghesia industriale ad essere davvero una classe dirigente oltre che dominante cioè una classe capace di dare soluzione unitaria ai problemi delle rispettive società nazionali. I grandi gruppi del capitalismo privato non ci sono riusciti, in una fase di espansione ed in una fase storica in cui vorrei dire era naturale la loro egemonia, no, anzi, hanno subito questo processo di indebolimento della borghesia come classe dirigente e oggi lo vediamo, oggi se i gruppi dirigenti industriali vogliono prendere atto delle loro difficoltà, vogliono diventare protagonisti del superamento della crisi, noi lo vediamo, rinunciano, sono costretti a rinunciare a certe pretese di dominio unitario della società. Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando la Fiat si poneva come il riflesso meccanico della vita sociale, culturale, politica di Torino e del Piemonte, anzi l'elemento guida, il fattore di dominio di questo processo complessivo.
Oggi i dirigenti della Fiat più avveduti parlano dell'esigenza di un pluralismo reale, di un ruolo diverso che i gruppi industriali devono assumere all'interno di questa pluralità di soggetti (non so se ne parlano con piena cognizione di causa) ma so per certo, da un'analisi dei processi reali che stanno alla base di questi nuovi fenomeni che in ogni caso non riusciranno più ad essere classe dominante proprio perché non hanno saputo in una certa fase storica, essere classe dirigente. E dobbiamo prendere atto di questo, perché bene o male questa vecchia borghesia industriale ha rappresentato un punto di riferimento per oltre un secolo nel nostro Piemonte, ha rappresentato in qualche modo lo sviluppo, il fattore di guida, il motore dei processi di sviluppo economici, sociali e culturali della nostra Regione. Dobbiamo sapere che se oggi non saranno le forze democratiche, non saranno le istituzioni democratiche a rappresentare questo nuovo punto di riferimento dopo che il vecchio è venuto a mancare la nostra Regione non potrà conoscere una nuova fase di espansione e di fulgore, non potrà conoscere una nuova epoca di prosperità proprio perch una società sia regionale che nazionale non può fare a meno di fattori unitari che ne coordinino tutte le espressioni e tutte le componenti sociali, politiche e culturali.
Ecco un altro problema che ci troviamo a fronteggiare e guardate che ha immediate implicazioni anche sul piano operativo, dobbiamo chiederci intanto se saremo in grado, fin da oggi di offrire come Regione, come istituzioni democratiche, come politica di piano delle istituzioni democratiche, di offrire un'alternativa alle migliaia di piccole e medie imprese che oggi vedono venir meno il loro riferimento subordinato alla grande imprese privata, che oggi non hanno nessuna prospettiva per esempio di riconversione e di ammodernamento se rimangono soggiogate, legate al carro della vecchia impresa privata. Ebbene, siamo in grado noi, come Regione, come Enti locali, come Stato articolato e democratico di offrire uno sbocco, un punto di riferimento a queste aziende per consentire loro di convertire la propria produzione, di acquistare un ruolo autonomo in un nuovo tipo di sviluppo della nostra economia? Io credo che a questa domanda il piano regionale che ci accingiamo a varare nei prossimi mesi dovrà dare una risposta esplicita, una risposta efficace.
Ecco l'impegno nostro, dei socialisti e dei comunisti,per realizzare davvero una politica di programmazione e per realizzare gli strumenti necessari alla sua attuazione. Nessuno può illudersi che possa aver luogo una ripresa automatica dalla crisi attuale e dai fenomeni di recessione così gravi; ogni sviluppo settoriale dell'economia piemontese o nazionale che abbia luogo nei prossimi mesi e potrà esservi questo o quel settore che si metterà a tirare di fronte ai processi congiunturali che caratterizzano l'economia nazionale europea, sarà in un contesto che vedrà restringersi ulteriormente la base produttiva complessiva del Paese, se non vi sarà una svolta di indirizzo, se non si imboccherà appunto la via della programmazione economica. E del resto basta dare un'occhiata, sia pure approssimativa, così come in genere danno i commentatori dei quotidiani, ai fenomeni che stiamo vivendo. Ma davvero si pensa - come qualcuno ha scritto anche recentemente - che nei prossimi mesi, grazie alle decisioni del Presidente Ford, l'economia americana supererà la fase acuta della recessione, avrà un rilancio e tutti i paesi occidentali si metteranno a correrle dietro e avranno anch'essi un rilancio della propria economia? Non è possibile, le tendenze di fondo che sono in atto dimostrano che potrà anche avvenire il contrario e che il rilancio dell'economia americana potrà essere proprio fatto a spese di una crisi ulteriore più profonda degli altri paesi capitalistici minori. Guardate come perseguono questa ripresa tendendo a portare avanti una tendenza costante alla svalutazione del dollaro, a spese appunto di tutti gli altri partners, e tendendo ad acutizzare la guerra commerciale sul mercato mondiale. E qui non c'e soltanto un problema di produttività delle nostre imprese per far fronte a questa nuova guerra commerciale, alla competizione che essa comporta, cosi come troppo banalmente, secondo me, certi esponenti dell'economia italiana continuano a chiedere anche per farne un motivo di polemica contro gli scioperi, contro l'iniziativa sindacale e cosi via. Non si potrà elevare il livello di produttività dell'industria italiana di fronte alle esigenze nuove che questa situazione mondiale propone senza una riconversione della stessa struttura dell'industria italiana, senza fare avanzare settori nuovi, senza valutare attentamente il ruolo che i settori vecchi, come quello automobilistico, ad esempio, dovrà assolvere in un contesto per profondamente rinnovato della nostra industria.
Ecco perché reputo fondamentale e valida la scelta che viene fatta nel documento programmatico presentato da comunisti e socialisti sui temi della riconversione industriale, tenendo conto però - e qui davvero vi è un settore di iniziativa immediata della Regione e degli Enti locali - che in ogni caso non dobbiamo illuderci, l'economia italiana, per quanto si ponga in grado di riconvertire il proprio apparato di punta, cioè l'apparato industriale, avrà anni difficili e duri di fronte al mercato internazionale. Non possiamo pensare che con un colpo di bacchetta magica esca pronto un apparato produttivo in grado di affrontare le tempeste del mercato mondiale, avremo un periodo di transizione difficile. E io credo davvero che un progetto, come dire, di "new deal" dell'economia italiana un progetto che punti su un arricchimento qualitativo del mercato interno un progetto ad esempio che dia un valore straordinario, trainante a una politica di sviluppo delle infrastrutture civili, dei servizi sociali non soltanto come risposta ai bisogni della società italiana, ma anche come creazione di una nuova domanda per l'industria e per la produzione nel suo complesso, questo sia davvero un problema decisivo se vogliamo uscire dalla crisi senza uno sconvolgimento del nostro assetto non solo sociale, ma anche politico e democratico.
E se è vero questo, se è vero che il coordinamento, la creazione, lo stimolo di una nuova domanda possono avere oggi un ruolo fondamentale, noi vediamo che allora la funzione della Regione, la funzione degli Enti locali che sono forse, in una società come la nostra, i più abilitati alla creazione di una nuova domanda sociale, può assumere davvero un carattere decisivo, fondamentale ai fini dello sviluppo complessivo della nostra economia, di un rilancio complessivo della nostra economia.
Noi comunque ci batteremo perché la Regione, e la Regione Piemonte in particolare, assuma una funzione anticipatrice di questa politica di programmazione, di coordinamento della domanda, di riconversione delle strutture produttive. Non siamo disposti a dare alcun credito a coloro (e in passato ce li siamo trovati spesso di fronte) i quali dicono: finché da Roma non decideranno un piano non ci possiamo muovere; no, dobbiamo muoverci e dobbiamo fare proprio della Regione Piemonte, una Regione che nel ventennio passato ha avuto un ruolo chiave, cruciale nel modellare l'economia italiana, fare della Regione Piemonte una Regione pilota nel portare avanti un nuovo tipo di sviluppo economico per tutta l'economia nazionale.
Comprendiamo (concludo e chiedo scusa per essere stato così lungo) che si tratta di compiti immensi e di compiti che dobbiamo rapportare poi con grande serietà al ruolo specifico ed anche alla modestia dei mezzi di una Regione come la nostra. Ma è giusto che nel momento in cui ci accingiamo ad un'opera così difficile, abbiamo presente (io ne ho accennati solo alcuni) il passo che ciascuno di noi è chiamato a compiere in questa direzione.
Dobbiamo sapere che un mutamento, pur graduale, delle strutture economiche quale per esempio può derivare anche da un'iniziativa programmatrice della Regione, renderà necessaria, inevitabile una trasformazione degli.stessi rapporti sociali, una nuova collocazione degli strati sociali, per esempio una progressiva trasformazione di molti ceti medi da ceti parassitari a ceti produttivi e che tutto questo potrà davvero avvenire con lacerazioni e con sofferenze se manca un potere pubblico democratico capace di programmare questo colossale progetto di trasformazione e di renderlo graduale, ma incisivo.
Ecco perché noi riteniamo che sia importante - e direi che questa è una delle matrici della nostra proposta - che le forze politiche democratiche rappresentative di questi vari strati sociali che oggi sono chiamati a mutare sé stessi e ad acquisire una nuova collocazione nel complesso della società italiana, queste forze politiche stringano davvero un patto nuovo perché se le forze politiche saranno divise, obbediranno ad una logica di lacerazione, saranno divisi e lacerati anche i rapporti, il tessuto sociale che in fondo esse stesse esprimono e che invece sono incaricate di guidare.
Ecco perché noi rinnoviamo con tanta insistenza il nostro appello ad un'unità democratica più larga, anche in sede di governo regionale, anche in sede di costruzione di un nuovo modo di governare il nostro Paese. Noi siamo convinti che questa collaborazione è possibile e necessaria e che gli ostacoli, al definirsi di schieramenti più vasti che abbraccino davvero tutte le forze vive e sane della società piemontese e nazionale, siano ostacoli che obbediscono, come dire che hanno la loro radice nel passato in un passato che va rapidamente superato se vogliamo fronteggiare questi compiti nuovi che ci stanno di fronte. Collaboriamo assieme, andiamo avanti assieme in un lavoro di direzione della Regione che abbia presenti i grandi rapporti internazionali e nazionali in cui ci collochiamo, che abbia presente questa esigenza di razionalizzazione, di ammodernamento, di democratizzazione della società nazionale e dello Stato e che proprio nella grandiosità di questi compiti possono ritrovare, come trovarono trent'anni fa, la possibilità di unirsi e di collaborare.
Io penso che non soltanto alle forze politiche dobbiamo rivolgere questo appello alla collaborazione, alla convergenza, allo sforzo comune ma a tutte le forze sociali culturali della nostra Regione; proprio perch il compito che ci poniamo è così gravoso, ma anche così ricco di fascino e di prospettive, io penso che tutto il mondo della cultura, del lavoro intellettuale, della tecnica potrà associarsi ad un'impresa come questa potrà essere chiamato ad assolvere un compito non soltanto di consulenza o di consultazione, ma di partecipazione a nuove forme di autogoverno vere e proprie.
E' questo il discorso che vogliamo portare avanti con l'Università, con i giovani, con le forze nuove, con le energie intellettuali nuove che vengono da questa scuola così drammaticamente sconvolta da un bisogno di ammodernamento e di trasformazione. A tutti costoro noi rivolgeremo un appello a unirsi, a partecipare, a dare un contributo effettivo e a rendere in questo modo ancora più urgente e necessario l'incontro tra le forze politiche che intenderanno rappresentare questo bisogno di rinnovamento.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Rossotto, ma prima di dargli la parola vedo con una certa sofferenza mia, che alcuni Consiglieri hanno trovato una sistemazione assai inadatta in questa prima fase, questo deriva dal fatto che abbiamo 60 posti e non 72. Se qualche collega della Giunta che dal punto di vista giuridico è in carica fino a quando non sarà costituita da un'altra, volesse prendere posto al banco della Giunta, lo può fare. Io apprezzo la sensibilità di chi ha voluto, nel momento in cui si discute la formazione di una nuova Giunta, non apparire in una collocazione che non gli fosse consona, però questa sensibilità superiamola per fare in modo che tutti stiano comodi, altrimenti vedo dei Consiglieri che sono costretti a stare in piedi.



OBERTO Gianni

Considerando l'invito non come una nuova investitura, lo accolgo.



PRESIDENTE

Presidente, lei ha la solita sensibilità per risolvere i problemi concreti.
La parola al Consigliere Rossotto.



ROSSOTTO Carlo Felice

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, l'esame del documento di proposta delle linee politiche amministrative della costituenda Giunta di sinistra che comprende il PCI e il PSI non può iniziare senza una valutazione di ciò che è avvenuto il 15 giugno.
E' avvenuto ciò che la mia forza politica da 13/14 anni aveva previsto dicendo che la formula di centro-sinistra non avrebbe fatto altro, formula di centro-sinistra che era nata con il chiaro intento di isolare il PCI e di riuscire poi, attraverso tutta un'azione di Governo, detto Governo di ampie capacità di riforme, di assorbire i consensi notevoli già in quella epoca che il PCI aveva, formula di centro-sinistra a cui noi non riconoscemmo mai la capacità di assolvere a questa funzione e quindi il 15 giugno è stata la conseguenza logica, in un paese in cui si parla di democrazia, in cui la gente esprime con il suo voto le sue denunce, è stata la conseguenza logica di quello che noi avevamo intuito.
Che poi le nostre intuizioni si trasformassero in denunce di grave preoccupazione per ciò che sarebbe avvenuto nel momento in cui il PCI avrebbe preso il potere, questo è un fatto che riguarda il passato, oggi uscito dal gioco democratico, mi pare indispensabile valutare quanto è avvenuto in termini di giusta contrapposizione politica e per prima cosa non trovo giuste ed esatte le argomentazioni in termini aritmetici che si sono volute fare per volere ancora mantenere in vita una formula che ha meritato la punizione elettorale. Una Giunta, si dice, che ha 30 voti in quest'aula, la metà esatta e che raggiungerà, o dovrebbe raggiungere, la possibilità di governare la Regione attraverso l'iter abbastanza complicato che il nostro Statuto ha previsto non è pubblicamente valida espressione delle volontà elettorali.
Ma se si vuole realmente che il gioco democratico in Italia permanga se si vuole che la gente, l'elettorato, noi stessi, assolviamo in pienezza di responsabilità le funzioni per attuare ciò in cui abbiamo detto che crediamo e in cui crediamo realmente, non dobbiamo basarci su una interpretazione soltanto aritmetica dei fatti, ma sulla realtà che abbiamo di fronte ed io ritengo corretto che là Regione Piemonte oggi, visto il risultato elettorale, abbia una Giunta di sinistra (e questo sovente era sollecitato dalle precedenti amministrazioni di centrosinistra di cui vedo ancora l'amico Presidente Oberto di fronte a me come nei tempi in cui venivano dati gli ammonimenti). Giunta di sinistra che già si imponeva perché sovente notammo nell'attività legislativa amministrativa compiuta sotto il nome del centrosinistra, la continua volontà di ricerca di consensi e di cedimenti anche nei confronti delle istanze che venivano portate avanti dal P.C.I.
Né d'altra parte mi pare che queste argomentazioni aritmetiche possano valere quando si nota che per far rimanere in piedi la formula di centro sinistra nella Regione lombarda, il discorso è completamente aperto al PCI purché questo rimanga fuori dalla stanza delle poltrone assessorili e dalle possibilità decisionali. Dopo i lunghissimi anni di gestione di potere (e noi sentiamo onore e vanto di ciò che facemmo) passando all'opposizione abbiamo assunto una capacità d'interpretazione e ci pare che non sia assolutamente tragico il passaggio da una posizione ad un'altra, in ogni caso non ci si può salvare così, sulle piccole formule aritmetiche.
La realtà di questa proposta di Giunta, come dicevo in precedenza, è la conseguenza di impostazioni errate compiute dalla D.C., dai socialdemocratici, dal PRI, i quali ovviamente oggi non si possono lamentare dell'atteggiamento del PSI di cui, non per un viscerale antisocialismo, denunciammo sempre il grave equivoco mantenuto nei governi di centro-sinistra in cui molte volte a parole venivano affermati principi e fedeltà agli stessi e poi riportavano continuamente, in modo equivoco altre esigenze che il Paese poneva e che andavano affrontate, a mio parere visti gli impegni di Governo, in un'altra maniera. Non avendole affrontate in quel modo, oggi mi pare molto serio prendere atto di una realtà che iniziando da questa proposta di documento, si pone alla nostra attenzione.
Leggendo queste pagine non ci spaventiamo, non terrorizzano nessuno anzi, da parte mia e della mia componente politica ritroviamo in esse molti di quei temi che in Consiglio Regionale proponemmo alla Giunta successivamente esamineremo rapidamente il tutto, rimandando al momento di gestione del potere, interventi specifici e analitici o correttivi, o di incitamento perché certe soluzioni vengano affrontate Ma è credibile tutto ciò? Sul credo corrispondono atti di speranza, o atti di fede, il terrore di fondo è che non debbano diventare atti di dolore.
La mia componente politica proprio per un concetto storicistico e di pragmatico esame delle soluzioni, nel rispetto dei principi fondamentali di dignità e di libertà dell'individuo che possa agire in una società di cui le norme di uno stato di diritto pongono in chiari limiti queste possibilità assolute di libertà (non limiti alla dignità perché questa deve essere invece esaltata in maniera veramente assoluta) pensa che di fronte a tutto ciò si debba parlare non in funzione di atti di fede o di speranza ma con un freddo ragionamento. E' indubbio che il PCI oggi si presenta nei nostri confronti come portatore di un grosso equivoco. Tutti i partiti hanno i loro equivoci e i Partiti così detti borghesi o che si riallacciano ad altre strutture, lo manifestano con le loro correnti, con i loro dissidi interni quando sono motivati, questi dissidi, queste correnti, da valutazioni prettamente politiche di soluzioni che si vogliono affermare e che possono essere alternative. Ma questo equivoco esiste, a mio modesto modo di vedere, per quelle che sono le dichiarazioni che, quale sintesi di azione politica, il vertice compie, perché quando sentiamo l'on. Beggio parlare di pluralismo economico, di mobilità internazionale, di creatività intellettiva e poi sentiamo esponenti di vertici, di espressioni di fatto di questa stessa realtà che ha costituito la vittoria elettorale del PCI che parlano invece in termini per cui possono sussistere fondati dubbi su questo pluralismo economico, o questa mobilità internazionale con tutto ci che implica.
Il problema in termini corretti democratici non è quello di ricorrere in un momento così denso di grossi pericoli, pericoli che partendo dalla drammatica situazione economica possono diventare veri per l'ordinamento democratico (e sappiamo che la democrazia, proprio di fronte alle crisi economiche, crolla e cede se non ha la capacità di dare risposte serie precise, con scelte nette quale la situazione all'emotività, cercando di creare situazioni che possono portare a confronti soltanto su temi ideologici ampi);oggi è necessario che chi ha il governo della cosa pubblica si assuma la chiara e corretta responsabilità di confronti e di soluzioni, evitando il pericolo dello scontro frontale. Sia chiaro, lo scontro frontale non è nulla di drammatico quando è in termini elettorali ma occorre che avvenga su chiare e nette individuazioni di temi, non si pu cioè contrapporre ad un disegno politico che oggi si sta con tutta chiarezza manifestando nella realtà politica italiana, un discorso aritmetico, di numeri, come ho sentito fare, relativo ai voti del PLI, del PSDI, del PRI, della DC quando queste forze di opposizione (come noi oggi in realtà siamo) continuano a ragionare in termini di opposizione verso gli orfani, o i vedovi del centro-sinistra, perché allora esistono delle volontà numeriche, limitate, ma esistono e se si dà qualche cosa in prestito che è nostro non siamo disposti a darlo se non attraverso un chiaro e preciso discorso di volontà politica, di attuazione politica. E se questo modo disorganico di riunire le forze fu una delle cause del fallimento del centro-sinistra che più volte dimostrò la sua carenza di volontà politica, non si può ulteriormente portare confusione riunendo, a queste già non uniformi volontà, un'altra volontà che vuole giocare seriamente il suo ruolo di opposizione fino a che è possibile, e noi siamo perfettamente convinti che esista la buona volontà in coloro che oggi si assumono la responsabilità di giocare le carte in termini democratici perché se così non fosse sarebbe ben drammatica la situazione.
Parlavo prima di equivoco e da questa analisi generale, ciò che rappresenta, a mio modesto avviso, il lato più caratteristico di questa Giunta di sinistra, è che si trasferiscono questi equivoci negli atti concreti del documento presentato. Infatti a pag. 26 si ricorda la limitazione della nostra possibilità di intervento collegata alle ristrettezze finanziarie a cui la Regione, per volontà del potere centrale è costretta e si parla di una revisione della legge 281, mentre non si accenna in nessuna parte di questo documento ad un fatto molto concreto e preciso che sta creando condizioni di assoluta inoperatività all'Ente Regione e che fu la conseguenza di battaglie nel mese di dicembre quando il PCI, all'opposizione come noi liberali, valutò la gravità dell'atteggiamento del Governo centrale il quale trasferì tutte le competenze e le responsabilità in materia ospedaliera, alle Regioni. Noi sappiamo che l'onere totale era di 250 miliardi, che lo Stato ne mise a disposizione 198 e che esisteva già la necessità di recuperarne 52.
Indipendentemente dalla necessità di sollecitare il trasferimento delle competenze alle Regioni, esiste un problema che a livello regionale ci si deve porre: come coprire questi 52 miliardi di deficit sicuro che esistono? E' indubbio che una forza politica quale il PCI, che si pone oggi responsabilmente di fronte ai problemi di una collettività regionale che per colpa delle passate amministrazioni ha conosciuto fenomeni di clientelismo, di eccessivo corporativismo, di richieste di rivendicazioni e di vittorie non pagate, come duramente furono pagate da altre categorie sociali (proprio sulle vittorie dei metalmeccanici ottennero gli stessi vantaggi senza le stesse fatiche, e senza gli stessi sacrifici i dipendenti del terziario pubblico) deve porsi il problema in termini concreti e di assoluta serietà. Da parte della mia forza politica non c'è il gusto di creare gli ostacoli o di determinare l'esplosione di equivoci, ma dobbiamo valutare (e questo deve essere argomento di discussione) una diversa responsabilizzazione di coloro che, a quanto risulta dalle statistiche lavorando nelle industrie metalmeccaniche oggi hanno un assenteismo del 4 e lavorando alle dipendenze degli Enti pubblici, negli ospedali o nelle aziende municipalizzate, hanno un assenteismo che oscilla dal 35 al 40%, in condizioni di affaticamento fisiologico e psichico ben inferiore a quello dei nostri amici, dei nostri compagni di realtà regionale che operano e lavorano in ambienti ben più stressanti. E' indubbio che la crisi economica, collega Minucci, impone e deve imporre una meditazione da parte di tutti; è vero che il Paese esige che le forze politiche imprenditoriali, sociali sappiano meditare su che cosa è avvenuto negli anni passati, ma è giusto che questo sia un discorso generalizzato ed è indubbio che il PCI, nonostante questo equivoco, queste possibilità le ha e se le ha deve dimostrare innanzi tutto, per uscire dall'equivoco, la capacità di affrontarlo, e nessuno speculerà sul fatto che un conto è il discorso all'opposizione e un conto e il discorso al Governo, per il rispetto delle regole democratiche.
D'altra parte - e qui il discorso prosegue - al capitolo 10 si legge "scuola e formazione professionale", a pag. 23 si parla di radicale riorganizzazione del sistema di formazione professionale. Su questo punto noi vorremmo un ulteriore impegno, anche perché la Regione Piemonte destina nove miliardi per dei corsi che tutti sappiamo quanto diseducativi professionalmente siano, che elargiscono rendite parassitarie a favore di personaggi o di piccole associazioni e che non contribuiscono alla formazione di individui che possano realmente consentire quei processo di trasformazione, di diversificazione industriale, di nuova società che si vuole imporre. Pensiamo alla carenza che esiste in quella che è la specializzazione nel mondo ospedaliero, pensiamo che le nostre stesse leggi regionali, quella degli asili nido ad esempio è inoperante in parte, come più volte fu detto ed io so che la collega Vietti oggi, passando all'opposizione, non vorrà riconoscerlo, ma credo che i dati di fatto di quanto abbiamo realizzato, proprio per tutti i fattori negativi che giocavano in quel particolare momento, non siano positivi. Ma di questo parlerò in un secondo tempo.
E' opportuno che per quanto riguarda la formazione professionale proprio per i notevoli mezzi che in questo settore la Regione ha a disposizione, si crei qualche cosa di completamente nuovo che possa costituire la base per avvicinarsi al mercato di lavoro perché di ricamatrici, di saldatori, di tubisti, di falegnami e di carpentieri non c'è forse bisogno ricorrendo all'impegno finanziario di cui stavo parlando in precedenza, mentre in realtà esiste la necessità, proprio anche per una diversa dignità di vita, di dare occupazioni che siano realmente utili.
Anche perché se è vero che i primi del gennaio 1976, nei confronti dell'amministrazione ospedaliera si realizzeranno quelle norme della seconda fase della riforma sanitaria che faranno sì che gran parte dei sanitari occupati oggi negli ospedali escano dall'organizzazione ospedaliera per rivolgersi a quella, ben più remuneratrice, mutualistica avremo - proprio per mancanza anche di personale specializzato intermedio che è compito della Regione aiutare nella sua formazione - un'ulteriore grave crisi degli Enti essenziali per la vita sociale della Regione e della collettività.
Ma dove ritengo opportuno che la Giunta puntualizzi alcuni termini operativi è quando parla di pianificazione e gestione del territorio. E' indubbio, qui ci sono alcune petizioni di principio di legislazione nazionale, si parla anche di una legge urbanistica regionale ma, pur valutando l'estrema importanza di questo strumento legislativo, vorrei sottolineare il pericolo di un'eccessiva proliferazione di leggi urbanistiche regionali senza che il Governo centrale abbia realizzato una legge quadro nel settore, perché potremmo creare situazioni di totale difformità da Regione a Regione.
Si parla di presentare il piano di sviluppo entro il 1975. Questo piano di sviluppo è fermo dal settembre 1973 a causa del totale mutamento delle previsioni fatte (non per errore nostro): la I^ Commissione, parlando coi grandi operatori economici, si sentì dire dal Vice Presidente dell'Ente di Stato degli idrocarburi il 24 luglio del 1973 che non esisteva alcun problema circa il futuro approvvigionamento petrolifero per l'Italia perch grazie alla politica dell'ENI ogni possibilità di crisi era stata evitata ma a metà del mese di settembre tutto ciò che era stato detto subì un totale ribaltamento, con tutte le implicazioni che ebbe. Un piano di sviluppo indubbiamente è possibile realizzarlo entro il 1975, ma per la trasformazione del piano stesso nello strumento urbanistico regionale e nei piani comprensoriali (che sarà la parte più fine dell'urbanistica regionale di programmazione, di assetto del territorio) occorreranno tempi medi nonostante tutta la nostra volontà e capacità di lavorare seriamente. Ma nel frattempo come lo governiamo il transitorio, da adesso al momento in cui avremo questi strumenti? Occorre che la Giunta dica in maniera chiara e precisa che cosa intende fare.
Si accenna al sistema dei parchi naturali: questo è un chiaro riferimento ad un qualche cosa di competenza della Giunta la quale pu incominciare a fare qualche cosa in attesa che al piano di sviluppo possa corrispondere un piano territoriale. Ma i problemi della compromissione del territorio esistono e in maniera estremamente preoccupante. I finanziamenti di cui alla legge 166 per tutta la Regione Piemonte ammontano all'incirca a 140/150 miliardi, vista anche la prontezza con cui gli Enti locali hanno risposto alle strette scadenze che la legge imponeva loro e c'è la possibilità che entro ottobre si possa avviare questo processo, ma esistono dei dubbi su alcune compromissioni che possono avvenire. La Regione di queste cose deve parlare: è soddisfacente e positivo il fatto che potrà iniziare a dare risposta alle pressanti domande di abitazione che esistono nella nostra regione, il che vorrà dire momento di parziale rilancio di un'economia per tutto quello che è connesso all'attività edilizia, però è preoccupante sapere che nelle misure congiunturali che il Governo sta presentando è previsto uno stanziamento pari e non raddoppiato di quello che era stato preventivato per la 166, ossia altri 150/200 miliardi che forse potevano collocarsi nel territorio. Tutto ciò indubbiamente avverrà prima che questi strumenti a cui la Giunta fa cenno e sui quali siamo pienamente d'accordo, possano operare.
Un altro dato di fatto che sottopongo con estrema immodestia all'esame della Giunta è che noi a fine novembre-dicembre sostenemmo che la Regione doveva impegnarsi pesantemente (e il disegno di legge in alternativa a quello presentato dalla Giunta, che era molto limitativo, parlava di un investimento di circa un miliardo) e noi, forze d'opposizione, chiedemmo che la Giunta facesse il massimo sforzo recuperando in tutte le pieghe del bilancio per poter finanziare gli interventi nel settore edilizio, in misura congiunturale, in attesa di quanto poteva compiere lo Stato. Oltre al massiccio investimento attraverso la 166 e con il piano congiunturale all'esame prima dei sindacati, poi del Governo, sta predisponendo, vi saranno ulteriori possibilità di intervento, ma io ritengo che la soluzione prevista nella legge non approvata dal Governo sia oggi aggiungere un qualche cosa ad un problema che è in via di soluzione, creando infiniti altri tipi di Governo e fa pensare che queste disponibilità non ingenti la Regione invece le utilizzi in qualche cosa d'altro. Io sottopongo all'esame una proposta - visto che gli interventi della 166 non possono oggi essere operanti nei centri storici - affinché siano studiati interventi pilota nell'ambito dei centri storici. Esistono possibilità concrete e non per premiare ancora una volta il PCI che se ne farebbe ulteriore vanto, ma quanto è avvenuto a Bologna può essere motivo di attenta valutazione da parte della Giunta. Questa soluzione trova ed ha trovato sia nella fase ante, sia nella fase di realizzazione, sia nella fase post, pienamente d'accordo la mia componente politica.
In questo quadro si pone indubbiamente un fatto nuovo nella realtà politica che ha determinato per la prima volta nel nostro Paese, in modo concreto, il discorso di un'alternativa, alternativa che si è realizzata a favore di una componente che abbiamo sempre duramente ed in modo molto convinto contrastato e combattuto, ma è nel gioco democratico ed è positivo, almeno sotto questo aspetto, che un'alternativa si sia creata. Il problema dell'irreversibilità non può esistere in chi è convinto del discorso democratico. Il collega Minucci diceva che i voti non sono di protesta, sono voti che rimangono: io non so per quale motivo la gente ha votato così, posso intuirlo, ma questo non interessa in sede di dibattito il convincimento della mia componente politica è che in democrazia nulla è irreversibile, in democrazia l'irreversibilità è dimostrazione dell'incapacità di potersi contrapporre in maniera chiara (e non soltanto emotiva, emozionale) in maniera precisa, per far sì che il cittadino possa capire ciò che poteva essere fatto in modo migliore.
E' stato detto che attorno all'area del Governo si può creare un'area di consenso: sarebbe realmente la fine del discorso democratico perch allora io, attraverso questo consenso che si verrebbe a creare attorno a coloro che devono gestire il potere con le responsabilità connesse a questo tipo di gestione, con le responsabilità che vogliono dire anche confronto e scontro con coloro che non sono pienamente d'accordo, vorrei parlare di un consenso nella libertà che ci deve unire, di un consenso nella democrazia perché proprio da questo consenso nasce la capacità non di sudditanza (indipendentemente dal peso politico numerico che si può avere) bensì in funzione di quello che è un peso politico per interesse, per intuizione per tradizione, per volontà) ma di rappresentare un qualche cosa di alternativo, con estrema serenità, pur non pronunciandoci in maniera netta e categorica in modo contrario a questa formazione di Giunta che si sta apprestando a governare la nostra Regione, non giocando sull'emotività, ma aspettando il confronto sui singoli punti, lieti se il PCI che presenta oggi un programma sul quale esistono dei consensi, esistono delle intuizioni precise sulle quali nulla vi è da eccepire, potrà con serenità e con grosse responsabilità, anche con coraggio, dissipare quegli equivoci che ho voluto correttamente sottolineare, nel momento in cui si sta apprestando ad assumere la gestione politica del potere nella Regione Piemonte.



PAGANELLI ETTORE



PRESIDENZA DEL VICE PRESIDENTE PAGANELLI

Ha chiesto di parlare il Consigliere Alberton, ne ha facoltà.



ALBERTON Ezio

Signor Presidente, signori Consiglieri, la mia è una generazione che si è formata sui testi degli spiriti liberi dell'antifascismo: Sturzo Gobetti, Gramsci, Donati.
Attraverso le esperienze dell'associazionismo universitario, cattolico e non, ha ricavato un profondo attaccamento alle espressioni istituzionali determinanti anche negli aspetti formali quando frutto di un reale collegamento con i movimenti della società. Una partecipazione, quindi attenta alle inquietudini sociali, ma contemporaneamente un vigile rispetto per le forme rappresentative, istituzioni o partiti.
Con questo spirito presento, a nome della D.C., alcune considerazioni di fondo sull'intesa per la formazione della Giunta che ci è stata illustrata dal Consigliere Minucci.
Sappiamo che il significato politico del voto del 15 giugno impone una riflessione di fondo sui contenuti della domanda di libertà, di cambiamento, di autentica governabilità democratica contro le impotenze e antistoricità delle arroganze del potere e degli integralismi; una riflessione che pretende da tutti i partiti un'attenta analisi delle proprie strategie, se si vuole evitare un ulteriore aggravamento del quadro politico complessivo.
Partiamo dalla considerazione che il risultato del 15 giugno ha battuto tutti gli integralismi: quello di potere di una parte della D.C. "capace di fare da sola"; quello radicale di una pretesa alternativa laica che ha animato parte del PSI contro la D.C.; quello rivoluzionario presente in parte nel PCI e nella sinistra extra parlamentare. In questo senso si pu dire che la spinta a sinistra dell'elettorato, la stessa ricerca dell'alternativa sono state moderate da una consapevolezza politica di cui va ricercato il significato più profondo e costruttivo e chi prima e durante la campagna elettorale ha perseguito questi obiettivi, può ben con diritto permettersi di interpretare il fenomeno.
Ora, fino a che la scelta dell'elettore rimane politica e non si trasforma in ideologica, il ricupero di questo elettorato perduto è per la D.C. non solo un diritto, ma un dovere, difficile, ma non impossibile, a patto che la D.C. costruisca quella linea politica alternativa che una parte dell'elettorato è andata a richiedere al PCI.
Tanto che distorta appare anche l'interpretazione di chi vede premiata nei risultati elettorali la linea del bipartitismo, sia nella sua accezione di destra che di sinistra. La prima, presente nella logica di potere di un rapporto D.C.-PCI divergenti e paralleli condurrebbe comunque ad uno scontro frontale, snaturando la D.C. e trasformandola nel ruolo di partito conservatore; la seconda, pur nel nobile intento di un confronto diretto D.C.-PCI a livello delle istituzioni, al fine della trasformazione dello Stato democratico, ripiegherebbe poi inevitabilmente sulla prima.
Di fronte al rischio di un'ulteriore disgregazione dello schieramento democratico, che riesalterebbe la minaccia di destra, sta la complessa varietà delle situazioni locali, che si incaricano già da sole di rendere insufficienti sia la riproposizione meccanica del centro-sinistra, sia le soluzioni di sinistra. Di tale complessa varietà, che in alcuni determina sconforto e disorientamento, noi vogliamo esaltare il significato di riprova della validità di una concezione sturziana moderna e democratica dello Stato, nella sua vitalità di democrazia pluralista fondata sulle autonomie. Per questo la diversità delle scelte emergenti a livello locale non ci spaventa, purché essa non annulli il significato politico dell'aggregazione e la natura nazionale dei partiti, che risottolineiamo come conquista storica rispetto ai collegi uninominali giolittiani.
Se allora la semplice riproposizione del centro-sinistra appare carente di autocritica ed insufficiente a comprendere il "nuovo" che è emerso anche la tendenza del PSI a costituire Giunte di sinistra, aperte ad apporti aggiuntivi e di fatto subordinati, come la parola d'ordine del PCI di puntare alle "grandi coalizioni" ispirate ad un generico modo diverso di governare, appaiano proposte negatrici dell'articolazione e del pluralismo.
Il significato di sfida che il risultato elettorale ha anche contro la pretesa di copiare con la carta carbone le formule di governo, e che noi accettiamo, viene contraddetta anche dalle formule di grande coalizione o di alternativa di sinistra.
La ricerca di nuovi rapporti avrebbe dovuto e dovrebbe comunque puntare all'esaltazione di autonomia e di vita democratica, in modo che il gioco degli schieramenti non sacrifichi il contenuto dello scontro o dell'incontro, ma accresca, attraverso la dialettica costruttiva tra i partiti dell'arco costituzionale, la fiducia popolare verso le istituzioni.
Consapevoli e convinti della necessaria solidarietà con i partiti laici minori ed in particolare col PSI, la D.C. piemontese ha proposto che con essi venisse avviato un confronto aperto col PCI, capace di proteggere e di esaltare contemporaneamente la dialettica istituzionale ed il ruolo delle forze politiche, in una mobilitazione straordinaria verso tutta la società piemontese, attenti alle difficoltà della situazione nazionale.
Non ci interessa una qualunque maggioranza anticomunista, accettiamo come unica la discriminante costituzionale antifascista, ma diversa è l'unità antifascista dalla solidarietà di governo. Non possiamo e non vogliamo annullare con un colpo di spugna 30 anni di confronti e scontri politici: ci vogliamo far carico delle loro carenze e contraddizioni, ma anche delle loro positive potenzialità, Ciò ha a nostro avviso una conseguenza: non possono essere esorcizzate a priori le maggioranze di solidarietà tra i Partiti di centro-sinistra come pregiudizialmente contrarie al responso del 15 giugno. Nel processo politico che si è aperto e nel quale legittimamente il PCI intende esercitare tutto il suo peso, non possono non esservi dei "passaggi obbligati" se il vero problema è quello del mutamento della qualità della politica.
La pregiudiziale, implicita ed esplicita, dell'unità delle sinistre che poi per concessione, si allarga agli altri partiti democratici, ha bloccato e blocca lo sforzo di intesa programmatica.
Riemerge la problematicità degli sbocchi della proposta di compromesso storico e la insopprimibilità di un disegno egemonico (tendenzialmente frontista); pesa ancora lo stretto e contradditorio intreccio tra domanda riformista e domanda radical-rivoluzionaria.
La D.C., per quanto difficile sia, vuole operare fuori e contro la schematica alternativa che contrappone, al di là anche delle intenzioni, il "fronte popolare" ad un "blocco nazionale". La D.C., proprio perch rappresenta un movimento popolare intimamente legato all'antifascismo, alle lotte che hanno portato alla nascita della Repubblica, non può e non vuole utilizzare a proprio vantaggio un processo di deterioramento del quadro istituzionale. Abbiamo non il diritto, ma il dovere di svolgere, come cattolici democratici, una funzione nazionale. La D.C. ha garantito nel passato i dati essenziali di un disegno democratico, operando contro ogni sgretolamento qualunquistico delle istituzioni repubblicane, evitando, in una scelta di collegamento con altre correnti politiche, un blocco integralistico e di destra della borghesia, del ceto medio, del mondo rurale, del proletariato meridionale.
Oggi qualcuno, di fronte ai rischi anche solo di immagine di un'alternativa radicale e ideologicizzata, chiede alla D.C. di partecipare attraverso le formule delle maggioranze aperte a livello locale, alla gestione del sistema che consenta la ricerca di un diverso modello senza passare attraverso collassi dell'assetto politico: alla D.C. si chiederebbe di restare garante dell'alternativa, della sua reversibilità, cioè di ci che resta essenziale in un sistema di effettivo pluralismo. La D.C. non pu svolgere questo ruolo di copertura: lascia all'eventuale maggioranza, al suo senso e capacità di responsabilità e di guida questo compito.
Altrimenti delle due una: o si instaurerebbe la logica del trasformismo, o sarebbe l'avvio di un processo destinato a sboccare nella logica del partito unico.
La D.C. piemontese si è mossa e si muove nella convinzione che sia ormai giunto il tempo di una verifica politica seria della reale capacità e credibilità del PCI come forza di alternativa e quindi della sua capacità di essere forza reale di opposizione democratica e forza reale, sia pur potenziale, di governo.
Ma è proprio tale processo di verifica che rende la collaborazione della D.C. con il PSI, PRI e PSDI attuale e contemporaneamente diversa qualitativamente del vecchio centro-sinistra. Perché il dialogo di verifica costringerebbe le forze di Governo al cambiamento. Ciò che abbiamo proposto e proponiamo è molto di più dei così detti corretti rapporti tra maggioranza ed opposizione; è ancora più della stessa proposta dell'incontro con i comunisti sulle istituzioni. Questo, collega Minucci, è il significato delle nostre proposte. Ho presente il tuo articolo "Il caso Piemonte" sull'Unità del 6 luglio, da cui appare la comprensione della proposta, quando dicevi "nella nuova situazione, hanno detto gli esponenti D.C., la formula di corretti rapporti tra maggioranza e opposizione non appare più in grado di esprimere le esigenze poste da un quadro politico profondamente modificato e di corrispondere alla domanda cruciale di un nuovo modo di governare. Si rende necessario, secondo i D.C., elaborare un nuovo sistema di relazioni che, senza annullare la distinzione di competenze tra maggioranza e opposizione, consenta tuttavia una crescente assunzione di responsabilità delle maggiori forze popolari". Se volete che vi sia accreditata la volontà di una non riproposizione del frontismo storico attraverso l'alleanza PCI-PSI, non potete liquidare il diritto dovere di preservare la solidarietà tra i partiti di Governo che voi stessi premurosamente poi ricercate singolarmente come un semplice ed immotivato ritorno al vecchio centro-sinistra.
E' in realtà l'accoglimento di una sfida, l'inizio di un processo al termine del quale sta o la scoperta della mistificazione comunista, o il riconoscimento che lo spazio democratico nel Paese si è allargato positivamente sino a comprendervi la rappresentanza più cospicua della classe operaia.
E' comunque processo che, di per sé, sollecita e pretende il cambiamento attraverso il confronto della maggioranza con l'opposizione cambiamento non solo della o nella D.C. Ma è anche un processo che, sino a che non sia esaurito, comporta il mantenimento dei ruoli distinti della maggioranza e dell'opposizione. Certo, nel dialogo di verifica l'opposizione aumenta i suoi poteri di controllo sul Governo e sul sottogoverno, ma anche la maggioranza è costretta ad una maggiore pulizia ed efficienza, acquisendo maggiore credibilità. Ciò che non deve diventare in ogni caso possibile è la pura confusione assembleare, il pasticcio della divisione del potere passa sotto banco, il corrompimento dell'aperto confronto tra le forze politiche per dare puntello a maggioranze deboli politicamente e inesistenti numericamente, lo sbocco a cui si perverrebbe a cui si è iniziato a pervenire, è quella dell'esaltazione del voto difforme del singolo, espresso segretamente. Questi comportamenti rimangono, da chiunque espressi, siano frutto di preventivi accordi pretestuosamente politici o di una sorta di irresponsabile burloneria gogliardica, esempi di malcostume che offendono le istituzioni e le forze politiche. E il Presidente Sanlorenzo, per la stima che tutti gli hanno manifestato ed a cui mi associo, non meritava questa aggiunta di N.N. nella sua paternità politica.
Il discorso di verifica delle forze democratiche della maggioranza di Governo con il PCI è troppo importante ed impegnativo perché lo si possa avvilire o frammentare nelle singole realtà locali: fuori di questo quadro di riferimento globale assisteremmo soltanto agli episodi, crediamo obiettivamente per tutti avvilenti, della caccia all'unesimo in più (e vediamo Chivasso, Tortona, Ivrea): E non credo che sia necessario citarne i metodi.
Questi episodi evidenziano l'insufficienza politica della formula di sinistra e il disagio psicologico di una consapevole non maggioranza: ricordiamo che la novità pur travagliata della collaborazione tra cattolici democratici e socialisti nell'esperienza di centro-sinistra degli anni '60 non sorse attraverso questi "pasticci".
Chiediamo allora soprattutto al PSI, che attraverso il suo segretario nazionale esprime la consapevolezza dell'insufficienza di una ristretta maggioranza di sinistra (condizione neppure questa esistente nella Regione Piemonte) per una trasformazione democratica della società, se è veramente convinto, nel massimo rispetto della sua autonomia, di contribuire realmente nel migliore dei modi attraverso a queste scelte ad una crescita democratica che coinvolga le forze politiche storiche del nostro Paese. Se siamo veramente convinti che tutto debba avvenire alla luce del sole, e in questo senso siamo anche noi impegnati a che le nostre proposte risultino chiare, se siamo veramente disposti a concedere un minimo di spazio all'autonomo confronto tra i partiti nelle sedi locali fuori di schematismi preconcetti, il PSI non può di fatto interrompere una collaborazione con gli altri partiti all'insegna del "però dobbiamo riconoscere che nell'ultimo periodo di centro-sinistra regionale abbiamo lavorato bene" (e nel primo periodo, aggiungo io, fors'anche meglio). Altrimenti, se si è veramente portatori di una profonda volontà di cambiamento a lungo da altri repressa, si ha il dovere di sostanziarla in termini immediatamente e sostanzialmente propositivi che però francamente dal documento di proposta non appaiono. Ed è ancor più, proprio dalla consapevolezza della gravità dei problemi che investono la Regione Piemonte, che deriviamo la convinzione sulla proficuità del metodo proposto dalla D.C., affinch attraverso la solidarietà anche a livello regionale dei partiti di Governo in un aperto confronto col PCI, avanzassero anche le proposte di soluzione dei tanti e gravi problemi regionali peri quali sappiamo necessario l'intervento nazionale ed internazionale, in un corretto rapporto nel pluralismo istituzionale.
Può davvero pretendere, la Giunta proposta, che già forza il corretto rapporto democratico istituzionale, presentandosi senza una maggioranza, di vedersi riconoscere dal Consiglio regionale e più ancora dall'intera comunità regionale la leadership politica necessaria in questo difficilissimo momento? O non rischia di rendere velleitario, ancor più di quanto non lo sia già a causa di una non corretta visione responsabilistica delle istituzioni e delle funzioni programmatorie dello Stato, il proposito della ripresa economica, del rinnovo dell'apparato produttivo dell'eliminazione di ogni spreco, del superamento del divario Nord-Sud? O pretende di far svolgere alla Regione un ruolo di mero sollecitatore verso gli organi superiori, che può degnamente essere proprio di forze politiche soprattutto di opposizione, ma non di un'istituzione regionale di cui vorremmo veder meglio definiti compiti e impegni? Ci sia consentito citare l'esempio dell'informatica, certamente uno dei settori che meriterà maggiore attenzione per i suoi riflessi economici tecnologici, di organizzazione della società e anche di partecipazione democratica: da un lato vi è il rinvio alla programmazione nazionale, nei confronti della quale nulla viene detto sul ruolo dell'imprenditoria privata, né sulle necessarie integrazioni internazionali e contemporaneamente, citata la legge sul centro di calcolo opportunamente corretta, nulla si dice sulla volontà e capacità e possibilità della Regione di operare per un proprio autonomo contributo in materia.
Signor Presidente, signori Consiglieri, ringrazio dell'attenzione. Ci animi l'impegno a non bruciare sull'altare del successo di parte le potenzialità di questo difficile e contemporaneamente positivo momento e soprattutto le attese della società piemontese in tutte le sue aggregazioni sociali e geografiche.



PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SANLORENZO



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Robaldo, ne ha facoltà.



ROBALDO Vitale

Il PRI ha già avuto modo di precisare le proprie valutazioni in merito alla soluzione politica che si è voluta proporre per la Giunta Regionale esprimendo dissenso e preoccupazione per una prospettiva che rischia di esprimere un esecutivo regionale debole e di innescare fra le forze politiche di centro-sinistra un processo di lacerazione e di contrasto difficilmente recuperabile.
La soluzione di Giunta proposta sembra rispondere alla logica di cercare di far saltare schieramenti politici per delinearne nuovi, con conseguenze di ulteriore indebolimento del quadro politico nazionale pur oggi senza alternative, senza con questo recare nessun positivo contributo ad una soluzione più corretta del problema del funzionamento degli Enti locali ed a quello di un nuovo rapporto tra sistema periferico e sistema centrale.
Ma il dato più paradossale di questo orientamento, sta proprio nel fatto che esso consegue obiettivi del tutto estranei, anzi, in contraddizione con la strategia che i comunisti affermano di voler perseguire. Non so se essi se ne rendano conto, ma è evidente che procedendo su questa strada, l'indicazione che ne scaturirà sarà non già quella nella direzione della collaborazione tra comunisti e cattolici, che si dice di voler assicurare, ma quella di un anacronistico neo- frontismo e di non auspicate alternative di sinistra, ipotesi queste che socialisti e comunisti dicono di voler con fermezza escludere.
Altre ancora sono poi le conseguenze negative di tale operazione basterà indicarne alcune: accresciuti contrasti tra comunisti e partiti minori, che per le pressioni esercitate in periferia potranno qua e là perdere qualche transfuga, ma non essere certo indotti a cambiare orientamenti autonomamente valutati; enfatizzazione, ancora una volta, dei tempi di puro schieramento, Giunte aperte ed unitarie e conseguente svilimento dell'impegno sui contenuti del coordinamento programmatico ai vari livelli, di un rapporto realmente nuovo tra tutte le forze politiche acuirsi, infine, della tensione a livello nazionale in un momento in cui di tutto sembra esserci bisogno, fuor che di vedere ulteriormente deteriorarsi i rapporti tra le forze politiche, mentre persiste una crisi di gravità crescente che esige, per il suo superamento, una verifica assidua e continua delle possibilità del concorso di tutte le forze politiche economiche e sociali del Paese e della loro massima corresponsabilizzazione.
E' questo che si vuole? E' sul quadro politico nazionale che si intende spingere con questa marcia della periferia contro il centro? Si valutano responsabilmente gli sbocchi possibili di questa strategia? Sono domande impegnative che noi rivolgiamo alle forze democratiche di questo Consiglio Regionale nella speranza che non sia troppo tardi per far prevalere in tutti, su ogni considerazione particolaristica, il necessario senso di responsabilità.
Stamane il collega Minucci ha parlato, rivolgendosi ai partiti minori in particolare, della contraddizione di fondo che, a suo avviso, sarebbe più marcata nella presenza e nell'atteggiamento del PRI perché, dice questo partito, che ha sbandierato sempre, come sua ragion d'essere all'interno del centro-sinistra, una proposta di contenuti, è venuto meno a questa sua enunciazione per accettare una formulazione di puro schieramento nell'atteggiamento che assume di contrasto alla proposta di formazione di Giunta, che era una proposta aperta sui contenuti, che era una proposta aperta alla collaborazione di tutte le forze politiche.
Ebbene, noi diciamo con estrema fermezza che il quadro politico nazionale, che le perplessità che il PRI ha sollevato nel suo congresso di Genova nel febbraio scorso in ordine a problemi di politica internazionale alla delicatezza di un quadro nazionale ed istituzionale in questo momento maggiormente aggravato da una crisi economica di cui non vediamo lo sbocco comportano responsabilmente delle convinzioni politiche che il PRI deve far prevalere su quelle che possono essere anche delle impostazioni programmatiche accettabili.
Noi abbiamo fatto una scelta che privilegia indubbiamente un quadro politico perché la riteniamo essenziale ed indispensabile in questo momento, però non ci siamo assolutamente sottratti e assolutamente non intendiamo sfuggire a quello che è un confronto programmatico aperto e a dare un contributo di idee, di iniziative, di proposte - per quelle che sono le nostre modeste possibilità - alla proposta che la Giunta ci è venuta a fare.
Quindi, dopo avere con fermezza ancora una volta ribadito il nostro punto di vista politico, intendiamo comunque portare in questo dibattito un contributo costruttivo di indicazioni e di idee, nella convinzione che il momento molto grave della vita piemontese sia superabile attraverso un confronto franco ed approfondito tra le forze politiche e sociali ed uno sforzo di pianificazione che, su una base contrattata, veda convergere sforzi e comportamenti concordi degli imprenditori, delle organizzazioni sindacali e degli Enti territoriali.
La crisi dell'apparato produttivo piemontese, che sta portando ogni giorno nuovi colpi ai livelli occupazionali, è infatti crisi strutturale profonda; sono venuti esaltandosi in Piemonte, in maniera più acuta che in altre regioni, alcuni convergenti elementi di indebolimento della struttura industriale, indebolimento che significa riduzione della competitività sui mercati, debole capacità di rinnovamento nelle mutate condizioni economiche nazionali ed internazionali, rischi di emarginazione dall'Europa.
Il compito prioritario della classe politica regionale è oggi quello di rendersi conto di questa situazione e di mettere in atto una strategia ed un'iniziativa politica adeguata. Guai se la classe politica regionale interpretasse oggi il suo ruolo solo come risposta alla richiesta di un nuovo modo di governare, o alla richiesta di socialità che nascono dal tessuto piemontese. Amministrare bene e con onestà è condizione preliminare necessaria, l'impegno sociale potrà essere parte preminente di un programma di emergenza che aiuti ad uscire dalla depressione, ma l'obiettivo prioritario per la nostra Regione resta quello di ridefinire e di ritrovare un ruolo nazionale ed internazionale per la nostra industria, avviare la ripresa industriale in condizioni strutturalmente più forti, più sicure compatibili con gli obiettivi della programmazione economica.
I repubblicani hanno già avuto modo di affermare che per raggiungere questo obiettivo mancano ancora molti elementi conoscitivi: la SORIS ha già indicato quali sono i settori produttivi suscettibili di rilancio ai fini dell'auspicata diversificazione che è la condizione per trovare nuovi settori traenti e nuove capacità concorrenziali, Ma occorre andare più a fondo e vedere, settore per settore, quali sono le condizioni che oggi emarginano molte aziende, quali sono le azioni di supporto per un rilancio quali sono i fattori strutturali sui quali occorre incidere.
Occorre sapere, in sostanza, quali sono i volumi di investimento necessari, quali sono i tassi di interesse sopportabili, quali sono le compatibilità salariali e ancora se certi settori abbisognano di finanziamenti per la ricerca tecnologica, di un supporto tecnico per le scelte produttive e di mercato, di incentivazioni nel campo delle infrastrutture, di azione di sostegno nel campo dell'istruzione professionale. Da tutto questo, solo da questo può nascere un piano che abbia credibilità e capacità di incidenza, che porti le parti sociali ad assumersi impegni precisi, che permetta di fare verifiche di compatibilità con la programmazione nazionale ed al tempo stesso avanzare richieste concrete di politica industriale al Governo, che permetta di chiedere nuovi comportamenti agli operatori finanziari ed alle organizzazioni sindacali che permetta infine alla Regione di fare il suo dovere di centro di direzione degli interventi sul territorio con la politica urbanistica delle infrastrutture, dei servizi, dell'istruzione professionale.
Da questo punto di vista le indicazioni contenute nel programma PCI-PSI ci lasciano alquanto perplessi per la loro genericità: esatta l'elencazione della situazione economica, che però sfuma in parte ed in pure affermazioni di principio. Ne è un esempio la pag. 10, dove ad un certo punto parlando delle aziende a partecipazione statale si dice che sono troppe e che non devono essere aumentate, però non si dice come ed in che modo si vogliono modificare e gestire.
La conferenza sull'occupazione ed investimenti sarà un momento importante dell'avvio della politica regionale, ma se non avrà come premessa, come risultato, come sviluppo questi quadri settoriali, non porterà certo alla formulazione di un piano; ed il piano economico sociale annunciato per la fine del 1975, se non si baserà su elementi quantitativi sicuri, su comportamenti contrattati, cosa potrà essere? Non vorremmo (lo abbiamo già detto) vedere documenti quali quelli cui ci ha abituati la programmazione nazionale, onnicomprensivi ed astratti, magnifici libri dei sogni destinati ad essere disattesi.
Il PRI chiede pertanto la redazione di un piano per progetti che dalle risultanze di valutazione di politica economica ed industriale, faccia discendere un quadro di azioni politiche legislative ed amministrative, da mettere in atto nel breve e medio termine nei settori dell'assetto del territorio delle infrastrutture dell'istruzione professionale e dei servizi.
E' chiaro poi che il Piemonte non può, nell'affrontare i propri problemi, prescindere dal contesto dei problemi nazionali e da quelli più specificatamente attinenti allo sviluppo industriale del Mezzogiorno. Nel documento presentato non sono coordinati i due momenti e le due esigenze non si tratta, per carità, di svestire un altare, cioè togliere delle industrie dove ci sono per vestirne un altro e portarle dove non ci sono ma se il problema va approfondito intanto in quanto inquadrato in una metodologia nuova, noi riteniamo che sia corretto collocare il problema del Mezzogiorno non al punto 15°, come ha fatto nella proposta il PCI-PSI, ma collocato al capo terzo, dove si parla dello sviluppo industriale e della difesa attiva dell'occupazione.
E' pertanto necessario procedere, una volta elaborato un piano regionale, ad un confronto con gli organi centrali della programmazione per valutare il quadro di compatibilità di tale programma sia per quanto attiene agli investimenti, sia per quanto attiene agli impegni della finanza pubblica.
Per quanto riguarda quest'ultimo punto, va subito detto che non esiste una programmazione della spesa regionale se non c'è anche la utilizzazione della finanza locale. E' quindi necessario conoscere le condizioni della finanza locale in Piemonte, perciò la nuova Giunta dovrà assumere delle iniziative per rendere coerenti tra di loro le politiche finanziarie dei Comuni; e questo potrà ottenerlo in che modo? Accorpando i Comuni in comprensori di finanza locale, o rivedendo i confini territoriali in base a dati oggettivi quali possono essere la popolazione, la superficie, ecc..
Sappiamo che sono problemi difficili e sappiamo anche che l'esperienza dell'Emilia in proposito non è molto positiva, ma dobbiamo anche dirci francamente che è su questi problemi e sulla loro soluzione che si misura la capacità concreta di fare della programmazione.
Vi sono poi certamente - non possiamo ignorarlo - delle situazioni obiettive di carattere settoriale che abbisognano di revisione o di riforme profonde, ma la nostra concezione operativa ci porta a dare rilievo alle scelte prioritarie (il rilancio produttivo) ed a farne discendere i comportamenti necessari, coerenti e compatibili.
Visto che siamo arrivati ai problemi settoriali, vorrei esporre su questi alcune considerazioni.
La pianificazione territoriale ha bisogno di alcuni passi in avanti: il completamento del piano territoriale di coordinamento permetterà di chiudere il discorso del contenimento dei fenomeni di accentramento dell'area torinese, ma che cosa propone la nuova maggioranza per le altre aree? Che concezione ha dei rapporti tra il Piemonte, i porti liguri, e con quali scelte? E la connessione tra la presenza europea del Piemonte, che pure è sottolineata nel documento e gli interventi infrastrutturali viari ferroviari, scali merci come è concepita e come sarà inquadrata, con quali scelte? Che saldatura vi sarà tra la destinazione del suolo e la proposta già formulata, per il sistema ferroviario piemontese? E il problema dell'accordo tra politica urbanistica regionale e politica comprensoriale come verrà risolto? Cosa conterrà esattamente il piano regionale? Il PRI ha più volte sottolineato l'esigenza che la comprensorializzazione, per essere produttiva, deve vedere linee chiare di cornice nelle quali collocare i piani dei singoli comprensori. E' un problema che sottolineiamo e sottoponiamo alla nuova Giunta.
La Regione dovrà avere pronte le linee direttrici nel momento in cui i comprensori cominceranno ad operare; a meno che non si concepisca la programmazione come la sommatoria dei piani di comprensorio, cosa che secondo noi significherebbe spazio allo spontaneismo e rinuncia a qualsiasi seria azione di pianificazione e di riequilibramento. Occorrono, in sostanza, tre o quattro piani di coordinamento territoriale nei quali collocare poi l'azione dei comprensori.
Anche nel campo dell'agricoltura dobbiamo lamentare la schematicità del documento propostoci, siamo d'accordo sullo sviluppo dell'associazionismo e della cooperazione, ma come miglioriamo la produttività dell'azienda che dovrebbe diventare il parametro di misura dell'azione regionale? Come sarà utilizzato l'Ente di sviluppo? Vi sono nuove direttive CEE in arrivo in materia socio-strutturale che metteranno alla prova la capacità della Regione. Qual'è la risposta che intendono dare a queste? E il rapporto agricoltura-industria di trasformazione va approfondito proprio ai fini della politica occupazionale.
Per il settore dei trasporti non si dice nulla sui progetti già elaborati dalla Regione, si parla di pubblicizzazioni graduali, senza parlare di obiettivi, scadenze e costi. E' troppo poco per dare un giudizio.
Potremmo continuare così per molti altri settori, ma preferiamo arrestarci ed accettare il taglio complessivo del documento che è di indicazione di massima e sostanzialmente di invito al confronto. Questa di oggi è certamente una prima occasione di discussione, chiediamo alla Giunta che si costituirà, di presentare un programma più operativo ed analitico entro un mese, solo un confronto più approfondito permetterà infatti di arrivare a definire motivi chiari di convergenza o di divergenza.



LIBERTINI Lucio

Scusi Consigliere Robaldo, ma questi programmi li faremo insieme a lei perché nel programma è detto che faremo una conferenza.



ROBALDO Vitale

Ne prendo atto.
Dovremo anche avere, in quell'occasione, un quadro più preciso delle compatibilità di bilancio, del rapporto tra i programmi e la ormai ingente rigidità del bilancio.
Ci auguriamo che la maggioranza voglia accettare il confronto più approfondito che richiediamo, confronto che appare nelle intenzioni espresse nel documento PCI-PSI e che verificheremo strada facendo.
I repubblicani hanno già chiarito in questa settimana la loro posizione politica sul problema della Giunta Regionale, precisando e motivando perch non intendono entrare a far parte di essa, né della maggioranza che la sostiene, ma sono ugualmente impegnati a condurre, con una propria iniziativa, uno sforzo di approfondimento, dei temi elencati nel programma proposto dal PCI e dal PSI, per accertare un comune terreno di incontro tra le forze economico-sociali e gli organismi politici della Regione su questo programma e sull'accordo politico che lo renda realizzabile.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Cardinali, ne ha facoltà Se i Consiglieri non avessero obiezioni, dopo l'intervento dei Consiglieri Cardinali e Paganelli, chiuderemmo la seduta del mattino questo per ordinare i lavori e per garantire l'attenzione che il Consiglio finora ha avuto per tutti gli interventi.
La parola al Consigliere Cardinali.



CARDINALI Giulio

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, ho già avuto in altra occasione la possibilità di mettere in risalto come nel documento presentato dal P.S.I. e dal P.C.I. per la costituzione della Giunta vi sia una marcata continuità con i programmi del centro-sinistra e della Giunta passata; questa coincidenza finisce, in sostanza, con il qualificare la vecchia Giunta come obiettivamente una Giunta aperta, pur nel rispetto del corretto funzionamento istituzionale democratico e con la separazione delle responsabilità e delle fisionomie politiche.
Tale constatazione è uno dei primi motivi per cui noi riproponiamo lo stesso tipo di coalizione, lo stesso tipo di forze politiche, pur riconoscendo la necessità di rinnovarla nei metodi e negli uomini e pur riconoscendo che la massima carica dell'esecutivo non necessariamente potrebbe privilegiare venti Consiglieri nei confronti di 14.
Ma dove il documento non ribadisce queste prese di posizione già acquisite, procede ovviamente con molta cautela, su linee di indirizzo generale e più approfonditamente (lo riconosciamo) negli aspetti di razionalizzazione che in gran parte condividiamo.
Vi è la diagnosi sulla situazione economica la quale mi pare, nel giudizio, coinvolge essenzialmente il riconoscimento dell'assenza di una programmazione nazionale. Che cosa propone il documento a questo proposito? Mi pare che proponga tutti i termini largamente acquisiti dalle indicazioni che tutti i Partiti fecero prima della chiusura della legislatura, sia la sinistra che le forze del centro-sinistra. Anche con la contrattazione con i grandi Gruppi privati e pubblici, per i nuovi spazi produttivi, non è un fatto nuovo, così come il sostegno alla media e piccola industria. Qui tuttavia è doveroso verificare sul piano dei principi e delle attuazioni concrete, che cosa realmente si pensa e io credo che il caso della Fiat rappresenti, a questo proposito, un terreno di prova che merita notevoli osservazioni. Il fatto che i sindacati abbiano accolto la così detta gestione comune della crisi e che le forze politiche si siano affiancate a questo tipo di incontro con la società, ha in realtà lasciato mano libera alla Fiat di fare ciò che credeva e oggi la Fiat dice (sono parole sue che emergono dal suo ultimo bilancio) che è andata a ricercare una ripartizione di rischi in settori al di fuori del nostro Paese e che lasciano l'Italia come il settore più fragile, quel settore dove, tutto sommato, forse potrebbe essere più rapida la fuga che coinvolgerebbe però l'avvenire e la posizione di centinaia di migliaia di lavoratori.
Un fatto di questo genere deve meritare una risposta più approfondita quando si parla di contrattazione con la grande impresa, contrattazione che non può prescindere da scalate generali politiche a livello nazionale sulle quali, si, sono d'accordo, la Regione Piemonte deve farsi promotrice a sua volta di indicazioni concrete, e precise, perché quello che mi pare più essenziale oggi come base di fondo anche per il rilancio economico del nostro Paese e per il superamento della crisi che attraversa (e lo attingo alle parole che mi auguro sincere, dette dal Segretario del PCI all'indomani delle elezioni) è il quadro delle certezze che deve essere costituito, quadro entro cui si possa operare in un'economia come quella italiana, che rimane pur sempre un'economia di carattere misto e che non può oggi, in modo surrettizio, vedere negato lo spazio e alla libera iniziativa privata e al collegamento fra iniziativa privata e iniziativa pubblica.
Non vi è dubbio che chi ha detenuto il potere fino ad oggi ha effettuato errori colossali, errori che vanno ripartiti fra tutti coloro che hanno avuto responsabilità di governo in questi ultimi anni, errori che, a mio modo di vedere (ed è un concetto che non riprendo solo oggi) mettono in dubbio le possibilità di una reale capacità di risolverli. Ma questa capacità di risoluzione dei problemi non emerge dal documento presentato dalla costituente Giunta di sinistra, dal momento che le proposte sono molto generiche e gli indirizzi sono molto sfumati e non lasciano supporre che possa scaturire, da questa Giunta, la risoluzione o l'avvio alla risoluzione, in termini concreti. E non a caso, credo, la proposta politica di estensione delle responsabilità tende a dimostrare la gravità di una situazione che ci coinvolge tutti e che probabilmente richiederà l'impegno di tutti.
Ma il timore che emerge dalla lettura del documento è che prevalga, nel concetto della sinistra, più la tendenza ad acquisire i colloqui per avere consensi e neutralità, accantonando anche tendenze ideologicamente e programmaticamente sostenute altrove ed è qui che il problema diventa essenzialmente politico e investe le scelte per il nostro futuro.
Il documento fa degli approfondimenti a livello di pianificazione e gestione del territorio e ci trovano largamente consenzienti, anche per quello che riguarda la legge urbanistica regionale. Noi non crediamo che si possa attendere a lungo una legge quadro e crediamo che nell'ambito delle leggi vigenti e soprattutto delle normative che già sono state messe in moto a livello di indicazioni o di circolari, possa costituirsi una legge urbanistica che regolamenti il settore così importante per l'assetto del territorio.
Per quel che riguarda l'edilizia abbiamo delle indicazioni alle quali abbiamo sempre aggiunto e intendiamo aggiungere la linea che tenda, proprio per ragioni di immediatezza per risolvere i problemi della grave crisi economica, a rilanciare l'iniziativa privata attraverso l'edilizia sovvenzionata, agevolata che si accompagni all' edilizia di tipo pubblico ma che metta in moto un volano che attende soltanto possibilità creditizie per potersi sviluppare. Abbiamo anche sostenuto che tutto ciò deve verificarsi nel rigoroso rispetto delle linee di indirizzo di carattere urbanistico, ad evitare qualsiasi forma di scomposta crescita delle nostre città, ad eliminare qualsiasi forma di speculazione arbitraria.
Per quel che riguarda l'agricoltura l'approfondimento è consistente e credo che possano esservi molti punti di convergenza, così come anche sul problema dei trasporti per quel che riguarda la tendenza alla pubblicizzazione: evidentemente questo è un argomento che non contraddice al programma della passata amministrazione nel momento in cui la passata amministrazione si è trovata nella necessità impellente non tanto di programmare in un passaggio dal privato al pubblico, quanto di mantenere in vita settori destinati al decadimento e quindi a togliere ai lavoratori la possibilità di usufruire del mezzo pubblico.
Per l'agricoltura io credo che si debba porre in termini molto concreti, per questa Regione, un rapporto con la Commissione della CEE. Noi non siamo in grado di legiferare in questa materia se non abbiamo preventivamente concordato, a livello di Commissione CEE, la possibilità di attuare provvedimenti che in qualche modo portino a valorizzare la nostra agricoltura.
Per quanto concerne l'istruzione professionale è molto generico quel che è detto nel documento e dovrà essere approfondito in maniera concreta.
Queste sono dunque un poco le luci e le ombre del documento che sono inquadrate nella proposta della Giunta e di un Presidente che implica un giudizio di carattere politico.
La posizione del PSDI che si fa carico, e dovrà farsene di più nel futuro, degli errori commessi, dei metodi seguiti che non hanno mai prodotto anche degli offuscamenti ideologici che talora hanno influenzato la vita del Partito, non può però non riconoscere che si è sempre cercato di operare verso una linea di alternativa di tipo socialista e democratico che nell'unificazione socialista aveva raggiunto ed ottenuto il solo unico punto di riferimento concreto che i trent'anni tormentati dalla liberazione hanno fatto vivere al nostro Paese.
Da tutte queste considerazioni però scaturisce il no alla Giunta di sinistra, è un no fermo, il nostro, indipendentemente dall'azione di un Consigliere o di più Consiglieri (il futuro ce lo dirà) che intendessero presentarsi così come si è presentato il personaggio reso famoso dal film di Clouzot "Il corvo". Noi non siamo affetti da "petenismo", ma intendiamo avere presenti gli interessi dei lavoratori. Il centro-sinistra che proponiamo pertanto lo configuriamo come una coalizione di forze che devono tendere alla risoluzione di questi problemi. Sappiamo che non possiamo prospettarci, né in un senso né nell'altro, il ruolo di mosche cocchiere che non intendiamo neanche assumere; intendiamo però incidere, e sempre di più, una realtà che vogliamo interpretare non diretta ad un assetto di regime - questo sia chiaro - ma che tenda a portare avanti il soddisfacimento delle grandi aspirazioni del mondo del lavoro e l'appagamento delle ansie del nostro Paese che ha voluto, con il voto del 15 giugno, esprimere soprattutto la sua grande volontà di lavorare nell'ordine, nel rispetto delle libertà e senza le preoccupazioni e le angosce per il futuro



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Paganelli, ultimo oratore della mattinata, ne ha facoltà.



PAGANELLI Ettore

Signor Presidente, signori Consiglieri, il dibattito per la formazione della Giunta porta nella sua sede istituzionale il confronto fra i Partiti consentendo anche ai Consiglieri regionali di interloquire sulla vicenda del costituendo Governo regionale.
Cerchiamo di farlo molto sommessamente anche perché nelle scorse settimane politici di autorevolezza nazionale qui a Torino con parecchia sufficienza hanno già deciso per tutti, interpretato il significato di un voto ed i ruoli da assumere distribuendo consigli ed indicazioni a piene mani.
Non che il mio Partito voglia in questo travagliato momento rifiutare suggerimenti e consigli.
La Democrazia Cristiana sa benissimo quale tempo di meditazioni e di ripensamenti sia questo e non soltanto sul suo indirizzo generale: noi dobbiamo doverosamente aggiungere anche riflessioni di ordine regionale che d'altra parte non avanziamo solo ora per la prima volta, ma che servono per maggiormente comprendere le ragioni di un mancato successo che trae origine dalle due componenti e per chiaramente determinare una linea diversa, un coraggio diverso, una visione nuova.
E pertanto con la consapevolezza che gli uomini coscienti debbono sempre avere (e particolarmente coloro che debbono tradurre in atti una rappresentanza che trae origine dal suffragio popolare) pensiamo di poter dire che in questi giorni motivi di meditazione ve ne sono certo per la Democrazia Cristiana, ma non solo per essa e che d'altra parte la D.C. non ha bisogno che altre forze politiche si assumano la sua tutela o la sua rappresentanza.
La Democrazia Cristiana per la forza che rappresenta, per la sua vocazione e tradizione popolare, per la vivacità di spinta e di rinnovo che l'alimenta al suo interno è certamente in grado di superare il difficile momento di rappresentarsi da sola e di portare avanti i necessari confronti con altre forze popolari.
Viene proposta per il Piemonte la costituzione di una Giunta P.C.I.
P.S.I.
La proposta avanzata all'indomani delle elezioni è stata portata avanti per oltre un mese sia pure con il correttivo di una Giunta aperta ad altre forze ed arriva in questa sede fino a questo momento senza la prospettiva della maggioranza assoluta.
Che il Partito comunista, certo vincitore delle elezioni particolarmente in questa Regione, si facesse promotore di iniziative per la costituzione della Giunta era ed è del tutto naturale. E' un ruolo che gli spetta come Gruppo di maggioranza relativa.
Che l'iniziativa sia precipitosamente venuta invece in una certa direzione del P.S.I. non può non lasciare parecchie perplessità e non indurre a severe riflessioni.
Nessuno contesta che il Partito socialista in altre realtà locali anche nella nostra Regione dovesse muoversi diversamente dall'area del centro sinistra: riteniamo compito primario delle forze politiche garantire agli Enti locali amministrazioni democratiche che trovano sostegno in maggioranze stabili.
Ma la forzatura che si vuol fare in Regione non risponde alla logica dei numeri, del risultato elettorale, dei fini che si vogliono raggiungere delle cose dette in campagna elettorale.
Voleva prima del voto il Partito socialista italiano un rapporto nuovo con la Democrazia Cristiana? Ebbene in una Regione dove il centro-sinistra è stato ampiamente confermato, questo Partito ha fatto subito trovare la D.C. e gli altri alleati di fronte ad una scelta già compiuta in altra direzione preferenziale.
Voleva dopo il voto il P.S.I. attivare un migliore confronto tra i grandi Partiti a matrice popolare? Ebbene si assume una grossa responsabilità il P.S.I. nel non consentire in Piemonte un raccordo fra rilevanti Enti locali con maggioranze sì diverse, ma rispondenti al voto e certo capaci di sviluppare quel discorso nuovo ed aperto tra le varie forze che il Paese attende.
Né vale per avallare l'operazione che si tenta baldanzosamente affermare che a fronte in aula dei trenta voti dello schieramento di sinistra ve ne sono dall'altra parte solo 28.
E' questo un argomento che suona solo a favore dei Gruppi che si vorrebbero collocati all'opposizione.
Poiché da un lato dimostra la coerenza democratica ed antifascista della D C. e degli altri Partiti costituzionali che non hanno avanzato iniziative che avrebbero visto inserirsi in positivo i voti del M.S.I. e dall'altro lato consente di ricordare ancora una volta che a sostegno dei 28 seggi democratici vi sono più voti (1.463.858) che non dietro i 30 seggi delle sinistre (1 427.099).
Queste brevi considerazioni si fanno non per dimenticare quale successo ha avuto, quale forza è il Partito comunista nella nostra Regione, non per rivendicare ad ogni costo un ruolo di governo della D.C. (la cui tanto criticata arroganza del potere impallidisce di fronte alla pressoché totale collocazione dei Consiglieri PSI in Giunta o in rilevanti incarichi consiliari) ma per puntualizzare aspetti che hanno finito per essere dimenticati anche su organi di stampa all'insegna della emergente teoria della maggioranza paritaria.
La D.C. con coerenza si appresta ad esercitare il suo ruolo nel posto che la vicenda regionale le riserverà.
Si appresta a misurarsi, a confrontarsi - come ha sempre d'altra parte fatto in quest'aula - e lo fa anche ora con valutazioni sul documento in un dibattito che la vede contrapposta alle forze di sinistra aspiranti ad assumere il governo regionale.
Dobbiamo subito dire che il documento presentato, quale piattaforma politico-programmatica della nuova Giunta, rappresenta più una indicazione di esigenze e di problemi che non la prospettazione di una strategia propriamente regionale per affrontare le questioni che vengono poste.
Questa prima osservazione di fondo, che vale per tutti gli argomenti trattati, ha un particolare peso per la parte economica che ha un rilievo di primo piano nel documento.
A determinare la genericità delle proposte concorre anzitutto la mancata individuazione del ruolo specifico della Regione e di conseguenza una certa confusione nell'affrontare il tema, che pure è nodale, dei rapporti tra Stato e Regione.
Si oscilla in questo campo tra un mero rivendicazionismo di maggiori compiti e funzioni alle Regioni - e non neghiamo che anche ciò sia necessario, ma deve essere specificato nei suoi contenuti - ed il porre le Regioni come forza di pressione esterna allo Stato senza riuscire a cogliere i tratti di quella dialettica di pluralismo istituzionale che è alla base dell'ordinamento regionale e che deve portare ad un convergere di impegni e di iniziative come sviluppo di una partecipazione e di una associazione delle Regioni al processo decisionale a livello statuale.
Questa seconda impostazione consente di distinguere (e ciò ha un evidente rilievo in campo economico) nell'ambito delle funzioni della Regione, tra il momento della proposta da portare sul piano nazionale e quello della più diretta operatività di immediata e propria competenza regionale.
Mancando questa distinzione tra iniziativa e gestione politica si cade in un dispersivo velleitarismo, in un volontarismo affatto inadeguato alla portata ed alla dimensione dei problemi con cui ci si confronta.
Ripetutamente, del resto, si dice .nel documento - in riferimento alla politica economica ed in specie alla politica industriale - che le competenze della Regione sono troppo limitate per consentirle di sciogliere i nodi che sono all'origine della grave situazione che stiamo attraversando. Questo ostacolo non viene però superato, ma con troppo semplicismo aggirato, dichiarando che "nonostante ciò la Regione dichiara il suo impegno per la ripresa economica", senza approfondire minimamente come ciò si renda possibile.
E' un atto di fede che le sinistre recitano a se stesse, ma che non possono pretendere venga pronunciato da altri.
Per parte nostra, non solo non neghiamo che la Regione debba farsi carico dei complessi problemi sociali ed economici che la recessione in atto e più ancora la crisi del meccanismo di accumulazione pongono oggi all'Italia ed al Piemonte, ma riteniamo anzi che proprio questa crisi rappresenti un banco di prova fondamentale per l'esperienza regionale, per consolidare e maturare la Regione come organo fondamentale di autogoverno della comunità locale e di articolazione democratica dello Stato.
La differenza fra la nostra impostazione e quella che è invece assunta dal P.C.I. e dal P.S.I. è che noi vediamo non solo il livello regionale, ma insieme quello statale e le esigenze di convergenza tra la funzione di proposta della Regione e quella di intervento dello Stato laddove la Regione non ha competenze proprie - mentre le sinistre vedono lo Stato in termini di pura contrapposizione di controparte, rispetto alle Regioni.
Ciò è comprensibile in ragione delle posizioni di partito, assai meno in ragione di una logica istituzionale.
Non affrontando i problemi del rapporto tra Stato e Regioni nella definizione e nella gestione della politica economica (e questo vorrebbe dire riesaminare anzitutto il ruolo della Commissione Interregionale per la programmazione e del CIPE) ci si riduce allora a quel volontarismo di cui e ridondante il documento che ci è proposto come insieme di buone intenzioni.
Altrettanto evasivo appare il documento nelle indicazioni di politica economica che vengono avanzate per uscire dalla recessione. Colpisce anzitutto la sproporzione tra la natura della crisi quale viene enunciata nell'analisi svolta, come crisi del sistema capitalistico a livello internazionale, ed i rimedi che vengono proposti, i quali possono essere definiti strutturali quanto si vuole, ma non modificano, stando a quanto vien detto, gli elementi costitutivi di una economia di mercato di tipo occidentale.
D'altra parte tutta la proposta di politica economica del P.C.I. quale si è espressa negli- ultimi anni (per non dire quella del P.S.I.), è volta a tranquillizzare i ceti medi, le forze imprenditoriali dell'accettazione da parte del P.C.I. delle regole di una economia di mercato e non a caso l'accento viene posto sull'efficienza, sul buon governo, sulla corretta amministrazione delle risorse.
Nell'analisi si assume insomma quell'ipotesi catastrofica del capitalismo che è propria di tutta una corrente del pensiero marxista quella a cui si rifà il PCI ma nella proposta questa assunzione è del tutto dimenticata, dal "crollo" passiamo allo "sviluppo", sia pure uno sviluppo orientato, come dice il documento da un uso degli strumenti pubblici "in modo democratico, efficiente e coordinato".
La dicotomia che ho indicato prima tra analisi e proposta in materia economica, porta poi ad eludere la vera questione dirimente che si pone oggi per una ripresa di sviluppo dell'economia italiana, e che può essere ristretta nell'alternativa tra una economia che recupera efficienza e competitività ed un'economia assistita da crescenti interventi pubblici e quindi inevitabilmente protezionistica, in una autarchia più o meno limitata.
A questo interrogativo di fondo non si dà alcuna risposta e non servono allora le elencazioni merceologiche dei possibili settori di diversificazione del sistema industriale, che oltre tutto pongono non irrilevanti problemi di compatibilità con la politica di sviluppo del Mezzogiorno.
Pure, senza sciogliere questo nodo, non si comprende come sia possibile un rilancio economico senza cadere nuovamente nei limiti posti dai conti con l'estero e dal processo inflazionistico: certo occorre una diversa qualificazione della domanda, ma una ripresa della domanda interna oggi o è bilanciata da una forte ripresa delle esportazioni o non riesce a sottrarsi, senza una pratica protezionistica ai vincoli della bilancia dei pagamenti.
Non si può dunque evitare una scelta su questo terreno, che è certo difficile nella misura in cui impedisce di soddisfare tutte le richieste che vengono oggi da tutte le forze sociali ed economiche: prospettare agli imprenditori una ripresa di produttività - come si è fatto al recente convegno del CESPE - e non scontrarsi con quelle componenti sindacali che ritengono la produttività un vieto concetto aziendalistico, sinonimo sempre e comunque di sfruttamento. La scelta è difficile, ma chi si vuole porre come forza di governo, come fa oggi il P.C.I. queste scelte deve saperle fare e non può pretendere di ripetere quella "statica mediazione degli interessi" che tante volte, ed anche a ragione, è stata a noi rimproverata in passato.
Non si può pretendere che noi si compia questa doverosa autocritica e ripetere impunemente gli errori che noi riconosciamo senza che un'ombra di trasformismo inquini le operazioni politiche che si definiscono nuove.
Il genericismo di una proposta politica che vuole recuperare un unanimismo indifferenziato pesa dunque non poco sulle proposte di politica economica.
Parimenti generiche sono le indicazioni in ordine all'indirizzo che si vuole seguire in materia di politica industriale; in questo campo inoltre le linee abbozzate non tengono in sufficiente conto il problema della compatibilità con il processo di industrializzazione da sostenere nel Mezzogiorno.
Come si può infatti proporre per il Piemonte l'espansione della produzione di mezzi di trasporto collettivo, senza contraddire una scelta compiuta a livello nazionale in sede politica, sindacale ed imprenditoriale per localizzare nel Mezzogiorno, a Grottaminarda, Matera e Reggio Calabria in particolare, queste produzioni? E come si può ignorare che per quanto riguarda le fibre chimiche il baricentro di queste produzioni viene anch'esso a spostarsi nel Sud con i nuovi insediamenti di Acerra e della Valle del Tirso? O si rifiuta nei fatti quella scelta meridionalistica che si afferma a parole o si deve riconoscere che queste linee di diversificazione indicate nel documento programmatico in realtà hanno scarsa consistenza.
Affrontando questa problematica non si debbono dimenticare i due aspetti fondamentali che la caratterizzano: il primo è dato dal riferimento al mercato nazionale e ad ancor più internazionale nel definire le scelte di settore per una reale diversificazione; il secondo dallo stretto intreccio che si determina oggi tra ogni ipotesi di sviluppo e la crisi in atto, la quale porta anzitutto a difendere l'assetto produttivo esistente.
Non pare invero che nel documento vi sia sufficiente consapevolezza di questi due momenti che condizionano il sistema economico piemontese: il quadro internazionale e la collocazione europea della nostra Regione e del nostro Paese vengono liquidati alquanto sommariamente, senza vedere che l'uscita dell'Italia dalla subordinazione tecnologica passa anzitutto attraverso l'integrazione dell'economia europea e che lo stesso problema meridionale o diviene un problema europeo o la sua soluzione comporta tempi storici non determinabili.
Anche in ordine agli sbocchi commerciali non si può appiattire il mercato europeo allo stesso livello dei Paesi socialisti e dell'area del sottosviluppo; occorre certo sviluppare l'interscambio con l'Est e con il Terzo Mondo, ricordando però che oggi la CEE rappresenta il 70% del mercato estero italiano ed una maggiore articolazione territoriale della nostra esportazione, che anche noi riteniamo necessaria, non capovolge questi rapporti.
Nella misura in cui l'esportazione rappresenta in questo momento la componente della domanda che più deve essere sollecitata - perché una sua espansione ha effetti positivi sulla bilancia dei pagamenti e non ha ripercussioni inflazionistiche - e consente una ripresa della stessa domanda interna, cogliere con una corretta valutazione i problemi del quadro internazionale diviene essenziale per una politica antirecessiva e quindi, come dicevo, è questo un parametro indicativo anche per una scelta di diversificazione.
Se poi vogliamo uscire dalla pura enunciazione di esigenze occorre una iniziativa politica della Regione la quale dovrebbe lanciare una proposta di collaborazione con le altre Regioni che hanno analoghi problemi di riconversione dell'apparato industriale e soprattutto con gli organi nazionali della politica industriale e della programmazione, per varare a tempi brevi dei piani nazionali di promozione, articolati per settori produttivi.
Alle singole Regioni spetta poi definire il contesto di strutture ed infrastrutture sociali e territoriali a supporto di questi piani di settore, per guidare le scelte di localizzazione e più in generale i loro riflessi sul tessuto sociale e territoriale Solo se si compie il salto dalla dimensione regionale a quella nazionale, con una partecipazione ed una corresponsabilizzazione della Regione, è possibile porre sul tappeto, in modo concreto, la prospettiva della diversificazione del consolidamento e della ripresa dello sviluppo in relazione al quadro internazionale e con un effettivo sostegno al decollo del Mezzogiorno.
Di tutto ciò non vi è praticamente traccia nel documento che ci è stato presentato; le uniche leve indicate per guidare la ripresa ed il processo di cambiamento che è necessario attivare nel sistema industriale piemontese sono il coordinamento della domanda pubblica che si esprime nella Regione e la finanziaria regionale.
Che anche questi strumenti debbano essere utilizzati è fuori discussione, ma essi appaiono del tutto insufficienti alla gravità dei problemi che dovrebbero smuovere.
Intanto il coordinamento della domanda pubblica, non solo quella della Regione, ma quella degli altri poteri locali e della stessa amministrazione centrale, pone non lievi questioni politico-istituzionali, di reciproca autonomia e deve quindi meglio chiarirsi cosa si intenda per coordinamento: un consenso da maturare nella formazione del piano regionale, un uso discriminatorio della spesa regionale per trasferimenti, un mero consolidamento contabile? In secondo luogo la domanda pubblica a livello regionale, quand'anche razionalizzata e coordinata, non è in grado di offrire un mercato di dimensioni adeguate a promuovere nuove attività industriali e ad orientare quelle esistenti.
Soltanto unendo la politica di spesa di tutte le Regioni è possibile creare mercati nuovi in settori nuovi (dalle ecomacchine alla meccanica sanitaria) e ritorna allora ancora una volta il tema del rapporto delle Regioni tra loro e delle Regioni con lo Stato.
Quanto alla finanziaria ritroviamo nel documento, nei suoi tratti essenziali, uno strumento che da parte nostra era già stato delineato e tradotto in un preciso disegno di legge che non certo da parte nostra non si è voluto discutere nelle ultime sedute di Consiglio.
Si sono così persi alcuni mesi, per riproporre oggi le stesse soluzioni, con l'unica diversità di assegnare alla finanziaria anche dei compiti di finanziamento all'esportazione che non possono non suscitare una forte perplessità. Cosa sarebbe infatti questo se non uno di quei compiti schiettamente creditizi che pure si dice di non volere? E come si pensa possibile gestire una manovra di credito agevolato che nell'attuale ordinamento bancario spetta agli istituti speciali? Sarebbe questo un contributo a fondo perduto o altrimenti come si pensa di riciclare questo flusso finanziario? Francamente si ha l'impressione di una aggiunta estemporanea, nel tentativo di differenziare almeno in un punto, questa proposta da quella avanzata dalla Giunta di centro-sinistra, ma il tentativo non risulta invero molto felice.
Vi è dunque una netta sproporzione tra la svolta politica che si vuole compiere, il nuovo di cui ci si dice portatori e la linea, le indicazioni i programmi che vengono avanzati.
I maggiori problemi che oggi si pongono alla Regione, come organizzare se stessa, quali moduli operativi assumere, quali rapporti stabilire con le altre Regioni e con lo Stato, quali raccordi stabilire con i poteri locali come definire e gestire una programmazione democratica, quale programma di politica economica impostare, tutti questi temi sono evasi o ridotti a formule generiche.
La consapevolezza di quanto sia debole ed inadeguata la piattaforma di proposte su cui si presenta questa Giunta è del resto evidenziata dal rimandare all'esito della Conferenza di settembre una più precisa delineazione programmatica, attendendo da quell'incontro un respiro ed una robustezza di discorso che oggi manca.
Ora noi giudichiamo positivamente ogni momento di confronto tra le istituzioni e le forze che animano la società civile, ma riteniamo insieme che le istituzioni debbano sapersi fare carico delle proprie funzioni e responsabilità e che la Regione debba allora andare a questa Conferenza con una propria posizione ed una propria autonoma proposta, senza delegare ad altri il compito di esprimere un programma, per poi limitarsi ad un ruolo notarile di registrazione e di rappresentazione.
E ritroviamo così, in questo diverso rapporto tra istituzioni e società, o se si preferisce tra le istituzioni ed il "movimento", che noi vediamo in termini dialettici, di reale pluralismo, ed i comunisti di univoca organizzazione del consenso, un altro momento di netta distinzione tra la concezione della democrazia che è propria dell' esperienza storica dei cattolici democratici e quella dell'esperienza comunista.
Quanto sia dirimente tale diversità a tutt' oggi credo sia evidente ed essa si riflette sui vari terreni, da quello istituzionale a quello economico, non tanto e non solo in termini di formulazioni programmatiche ma soprattutto nei modi in cui si esprime e si realizza la gestione politica e nella finalità che si attribuisce quindi all'esercizio del governo.
Ecco, colleghi Consiglieri, alcune prime considerazioni sul documento non certo operativamente esaltante su cui vuol poggiare le sue basi la cosiddetta maggioranza paritaria.
E' l'inizio di un confronto che la D.C. sempre responsabilmente farà senza mai sottrarsi al mandato che circa 1/3 dell'elettorato le ha affidato nella Regione non solo inserendosi come è costretta (costretta come ho già spiegato per la sua dirittura democratica ed antifascista) a fare oggi su proposte altrui ma attivandosi autonomamente non appena ciò sarà possibile nella dialettica consiliare.
E' un confronto che si svilupperà sul piano legislativo, sul piano più propriamente amministrativo senza preconcetti, con l'intento di servire per il meglio la comunità regionale.
Ma vi saranno nodi legislativi che assumeranno aspetti politici.
Su questo la maggioranza paritaria e perciò stesso non maggioranza deve sapere sin d'ora che non può trovare né copertura né remissività del nostro Gruppo.
E' principio basilare di ogni democrazia che debba governare chi rappresenta una maggioranza.
La Giunta che si vuol formare - lo ricordiamo e lo ricorderemo ancora non ha maggioranza in aula e tanto meno nel suffragio popolare.



PRESIDENTE

Abbiamo concluso i lavori della mattinata, ma prima di togliere la seduta vorrei invitare i Consiglieri che avessero intenzione di iscriversi a parlare di volerlo comunicare alla Presidenza, non per chiudere le iscrizioni, ma per avere il quadro di riferimento per l'ordinamento dei lavori.
La seduta viene riconvocata per le ore 15, come da ordine del giorno e pregherei tutti i Consiglieri di osservare per oggi pomeriggio la stessa puntualità che stamani è stata assicurata al funzionamento dei lavori.
La seduta è tolta.



(La seduta ha termine alle ore 13)



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