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Dettaglio seduta n.135 del 27/07/77 - Legislatura n. II - Sedute dal 16 giugno 1975 al 8 giugno 1980

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Argomento:


PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SANLORENZO


Argomento: Piani pluriennali

Prosecuzione dibattito sul Piano regionale di sviluppo 1977-1980


PRESIDENTE

La seduta è aperta Proseguiamo il dibattito sul Piano regionale di sviluppo con la replica del Presidente della Giunta.



VIGLIONE Aldo, Presidente della Giunta regionale.

Colleghi Consiglieri, il Piano regionale di sviluppo è stato oggetto in questi giorni di un ampio, serrato dibattito nell'ambito del Consiglio, a conclusione di un processo di formazione e di approfondimento assai articolato e partecipato. Non si tratta certo di una procedura nuova, ma di un metodo, di un rapporto con la comunità regionale, considerata in tutte le sue articolazioni, che già abbiamo avviato in occasione delle leggi più significative.
Il Piano regionale di sviluppo per la sua complessità ed importanza ha richiesto in particolare l'adozione di un ampio confronto, che riteniamo sia stato utile e decisivo ai fini di una corretta impostazione del problema.
Del resto fin dalla presentazione del primo testo dicemmo che la proposta iniziale della Giunta era aperta a modifiche ed apporti ulteriori.
Né riteniamo sarebbe stato possibile agire diversamente.
A chi continua a sostenere che sarebbe stato meglio soprassedere alla stesura di un documento di questo tipo, dobbiamo perciò ribadire che è stato invece opportuno formalizzare il Piano, perché solo a questa condizione i contributi offerti hanno potuto collocarsi in modo utile e funzionale alla stesura finale.
La Giunta regionale non ha mai ritenuto di realizzare un'opera in s compiuta, anche in relazione ai limiti ed incertezze che si riscontrano nel quadro di riferimento nazionale per cui si è ritenuto opportuno dare indicazioni coerenti con obiettivi di interesse generale, raggiungibili entro il 1980.
In una congiuntura segnata dal ristagno degli investimenti in economie anche più forti della nostra, caratterizzata dalla possibile contrazione della domanda mondiale per beni di consumo, da un livello di disoccupazione che ha toccato nei Paesi della CEE 5 milioni e 500 mila unità ed ha superato nei primi 25 Paesi industrializzati dell'Occidente i 25 milioni di unità, sarebbe molto complesso e rischioso pensare di realizzare tramite il piano una sorta di "zona bianca" al riparo dalle conseguenze di simili eventi.
E' noto come i contraccolpi della crisi, se hanno investito con particolare violenza i Paesi e le aree più deboli, non hanno certo risparmiato le cosiddette "aree forti" tra cui la nostra Regione, che si va risollevando a fatica dalla caduta del 1975, quando per la prima volta nel secondo dopoguerra si è avuta una flessione del prodotto lordo pari al 3,5 sull'anno precedente, superiore di mezzo punto alla media nazionale.
E' il manifestarsi di un complesso di fattori negativi che se da un lato rilancia la logica della programmazione quale unica via per rimettere in sesto e modificare in positivo l'assetto socio-economico regionale dall'altro impone maggiore prudenza ed elasticità nelle scelte, poich come è risultato dalle giuste osservazioni contenute in diversi interventi le certezze sono poche ed i mutamenti invece probabili.
Senza precisi riferimenti a livello nazionale sarebbe infatti alquanto velleitario puntare su obiettivi che potrebbero rivelarsi solo parzialmente realizzabili.
La riformulazione del Piano ha tenuto conto di questa nuova situazione ed ha puntato sul metodo della partecipazione, sui progetti e sulle azioni programmatiche con l'accompagnamento di interventi di competenza dei singoli Assessorati. Non ci sembra neppure, alla luce del presente dibattito, di rilevare incoerenze gravi tra obiettivi e strumenti, in quanto non ci siamo discostati dall'individuazione di obiettivi e strumenti impiegati in altre situazioni regionali, anche in Paesi più avanzati in materia di programmazione, quali la vicina Francia.
Credo che il riequilibrio del territorio, l'espansione dei consumi sociali, il raggiungimento della massima occupazione compatibile con le risorse a disposizione, e con il vincolo, liberamente assunto, della priorità meridionalista, siano obiettivi condivisibili da tutti, sebbene in relazione alla limitatezza dei mezzi a disposizione.
E' infatti chiaro che l'individuazione di poli di riequilibrio ottimali e la selezione degli investimenti prioritari nel campo dei servizi richiedono studi approfonditi e gli apporti critici di tutte le forze democratiche Riteniamo che i progetti indicati corrispondano tutti a interventi prioritari.
In questo contesto dovremo fare ulteriori scelte; una ancor più rigorosa selezione per i progetti specifici, in sede di bilancio pluriennale, nel prossimo ottobre; bilancio pluriennale che costituisce proprio la traduzione vincolante ed operativa delle scelte di piano unitamente al bilancio 1978.
Tutti gli interventi previsti corrispondono, e ciò è molto significativo, a scelte già individuate nel nostro programma politico amministrativo.
Pur nell'ambito di questo specifico dibattito sul Piano, mi sembra importante sottolineare la realizzazione da parte della Giunta regionale degli impegni assunti in sede programmatica. Impegni nei confronti dei quali abbiamo sempre sollecitato la collaborazione, l'apporto delle forze politiche, ricercando anche in questa direzione un più vasto consenso politico.
L'avv. Oberto nel suo intervento ha parlato di alcune lacune per quanto concerne i rapporti con le Regioni e le aree contermini ed il settore dei trasporti. Non credo che il Piano del Piemonte sottovaluti le complesse problematiche che scaturiscono dalla necessità di allacciare con infrastrutture idonee la nostra Regione con la Liguria e con i suoi porti con la pianura padana, il Centro-Nord Europa e la Francia.
A questo proposito basterà ricordare che, in una situazione di emergenza, occorre puntare sulle opere più utili a favorire l'espansione della base industriale ed il flusso delle esportazioni, evitando però al contempo duplicazioni inutili, sprechi e clientelismi.
Pertanto diciamo sì al Traforo del Frejus ma non mettiamo sullo stesso piano quello del Ciriegia o quello del Colle della Croce, né ci sembra di poter equiparare l'autostrada dei trafori alla Torino-Pinerolo ed al famigerato "buco nel Gran Sasso".
La riqualificazione degli impegni e della spesa passa anche attraverso una più accurata selezione delle compatibilità e l'individuazione dei vantaggi che la collettività regionale ritrae dalle opere realizzate. Non neghiamo affatto che esista una continuità tra le vecchie e nuove proposte in quanto i salti di qualità sono lunghi e faticosi ed in quanto riteniamo sia nostro dovere portare effettivamente a compimento ciò che in altri momenti è rimasto soltanto sulla carta.
Sappiamo bene che non poche resistenze si sono dovute superare per avviare concretamente l'ESAP e la FINPIEMONTE; e del resto queste non sono venute dai partiti della attuale maggioranza; così non riteniamo possa esserci imputata una scarsa sensibilità ai problemi del mercato del lavoro ed alla eventuale messa a punto di un valido modello demografico occupazionale che peraltro non esiste neppure per il Paese. Anzi, a questo proposito, ribadiamo la volontà di un potenziamento dell'Ires per metterlo meglio in grado di rispondere alla nuova e crescente domanda di ricerca che proviene dalla Regione, mentre dobbiamo valutare positivamente l'avvio del Consorzio per il trattamento automatico dell'informazione.
Nonostante l'esistenza di ampi e ricchi studi di varia origine e per i quali non sono certo state sprecate risorse, si impongono nuove e più aggiornate indagini generali e di settore, le quali tuttavia non si vede perché dovrebbero stravolgere le indicazioni del Piano, che è aperto a tutte le "correzioni" valide.
In tutte le sedi si è evidenziata l'opportunità di contenere la spesa pubblica (anche Marchini ha accennato all'abbandono delle grandi strutture: vi sono vari motivi, uno è quello della politica che porta a migliorare altri settori per favorire la ripresa dell'industria e dell'agricoltura) non solo di parte corrente, ma persino in conto capitale, per i suoi effetti inflazionistici e per la necessità di convogliare una maggiore quantità di risorse verso i settori immediatamente produttivi, in primo luogo l'agricoltura e l'industria. Abbiamo dato su questo più volte una risposta al Ministro Stammati, quando veniva sollecitato il versamento da parte della Tesoreria delle somme a noi spettanti e Stammati rilevava l'impossibilità dell'erogazione perché ciò avrebbe creato, in termini generali, un processo inflazionistico che avrebbe poi nuociuto a tutto il Paese.
E' quindi assurdo affermare che il Piano nasce in funzione di mezzi inesistenti, proprio perché non ci si propone di sovradimensionarne i risultati né di perseguire traguardi utopistici. Siamo però ben consci che si possono reperire nuovi fondi di entrata e che si possono recuperare importanti somme per finanziare gli interventi prioritari; d'altronde le risorse individuate ci consentono la copertura di circa il 50% delle spese previste ed esse possono essere incrementate prima del 1980. Pare che il bilancio, quest'anno, tocchi un tetto di 45 mila miliardi di entrata, solo sulle imposte dirette c'è un aumento del 40%. Sarebbe perciò errato imporci dei vincoli anche più stretti del necessario.
Concordiamo pienamente con chi, come l'avv. Paganelli, sostiene che ci vuole chiarezza, ma riteniamo che la chiarezza sia una dura conquista, che si ottiene giorno per giorno nell'impostare correttamente i problemi che dovremo affrontare; altrimenti rischiamo di essere chiari in senso astratto, senza sufficiente aderenza agli sviluppi vari e molteplici della realtà sociale.
Né si può motivatamente sostenere che le scelte del Piano contrastino con le linee generali di una auspicabile politica meridionalista.
Innanzitutto occorre rilevare che, una volta accettato il principio secondo il quale i grandi gruppi ed anche imprese minori debbano convogliare buona parte dei loro investimenti verso le sacche di sottosviluppo del Mezzogiorno, ciò non implica l'arresto dell'espansione riconversione, diversificazione del settore secondario, che resta l'asse portante dell'economia subalpina. Inoltre dovrebbe essere noto che, in assenza di idonee infrastrutture e di adeguata possibilità di approvvigionamento energetico (il Piano nucleare continua a subire ritardi), la localizzazione di un numero cospicuo e crescente di unità produttive al Sud, oltre che antieconomico, è di fatto impossibile.
L'assenza di un tessuto imprenditoriale dinamico e autoriproduttivo non si colma né in due e neppure in cinque anni per quanti sforzi si facciano: non si contesta la necessità di espandere il ramo elettronico caratterizzato da un elevato tasso di occupazione o quello dell'industria alimentaristica connesso con il rilancio dell'agricoltura meridionale.
Tuttavia ciò non sarebbe che in modesta misura sufficiente ad assorbire forza-lavoro ed a ridurre le tensioni presenti tra le popolazioni meridionali, ma non implica affatto l'emarginazione ed il ristagno delle aziende localizzate in Piemonte. Tutte le iniziative del Piemonte verso il Mezzogiorno si inquadrano in questo contesto e sono state non solo preventivamente concordate ma richieste dalle stesse organizzazioni sindacali che hanno direttamente partecipato alla loro elaborazione.
Ricordo, a questo proposito gli incontri avvenuti con la Regione Campania per gli insediamenti industriali Fiat, Olivetti, Indesit la cui espansione quantitativa e qualitativa al Sud ha costituito oggetto di trattativa nelle grandi piattaforme sindacali. A questi incontri hanno dato il loro assenso tutte le forze politiche democratiche delle due Regioni, che hanno valutato l'importanza di questo tipo di collegamento diretto fra le stesse, come momento di un più complessivo coordinamento necessario fra le due Regioni.
Concludendo vorrei ricordare come il metodo della programmazione non si ispira ad una ma a molte "filosofie", ciascuna delle quali finisce per improntare di sé, più o meno compiutamente, le scelte in atto. Noi crediamo di aderire ad una filosofia programmatoria ispirata ad un approccio di tipo sperimentale, ma non per questo priva di valori e di strumenti efficaci acquisiti e perfezionati nella prassi. Anzi, al di là dei risultati che certamente ci saranno, ci sembra fondamentale aver affermato l'esigenza di fondare il Piano regionale su una dialettica capace di coinvolgere tutte le forze sociali e produttive.
Il fatto stesso che nel Piano si ritrovino accolte alcune osservazioni formulate dalla D.C. dagli altri partiti, alla prima stesura, è in sé fatto positivo e testimonia ulteriormente della nostra volontà di tener conto in concreto di quanto di costruttivo emerge dalle forze politiche al di là del loro ruolo specifico.
E' stato detto nel corso del dibattito che il Piano non deve avere pretese di opera onnicomprensiva e che esso è anche il frutto di un confronto culturale di studi ed impostazioni di lavoro già esistenti.
Voglio ricordare qui tutta l'opera del Consigliere Oberto sin da quando era Presidente della Provincia.
Proprio per questo non siamo neppure ora di fronte ad un lavoro conclusivo; anche se quello che la Giunta propone oggi all'approvazione è un documento che ritiene soddisfacente ed idoneo a servire il disegno di crescita del Piemonte.



PRESIDENTE

La parola all'Assessore Rivalta.



RIVALTA Luigi, Assessore alla pianificazione territoriale

Colleghi Consiglieri, pare a me che il dibattito sul documento di Piano abbia fornito ulteriori elementi di contributo sul tema della programmazione dello sviluppo nella nostra Regione; contributi di natura critica e di convalida della proposta della Giunta.
In generale, credo si possa dire che nel loro insieme le stesse argomentazioni critiche si sono espresse in direzione di una evoluzione positiva dei contenuti e di superamento dei limiti della proposta stessa.
Il dibattito in questa assemblea come negli organismi di partecipazione in cui si articola la comunità regionale, che si sono espressi sulla proposta di Piano nel corso di un non breve lavoro, è stato caratterizzato da una intensa attenzione e da una grande responsabilità di confronto (si pensi ad esempio al lavoro di analisi e agli apporti dei Comitati comprensoriali e delle organizzazioni di categoria). Un'attenzione che va al di là delle stesse suggestioni che l'esercizio di programmarsi il futuro suscita; che va al di là dell'interesse degli addetti ai lavori per gli aspetti tecnici e metodologici della pianificazione e della programmazione; che supera la stessa attenzione che è indotta in ogni organismo, categoria o individuo dal timore che una visione logica generale dello sviluppo possa condizionare e limitare i propri interessi specifici.
Un'attenzione e una responsabilità di partecipazione e di confronto che credo discenda dalla coscienza e dall'esigenza di una funzione di governo unitaria e complessiva dei processi economici e sociali. Penso che si possa dire che è questo il frutto di una maturazione non indolore, pagata con esperienze dure quali quelle che la crisi economica ci fa vivere; di esperienze che hanno portato alla constatazione che una linea di sviluppo "spontaneo" a lungo andare non fa gli interessi neppure di chi nel primo periodo può trarne vantaggi, anche non piccoli e alla constatazione che un modo di governare, che lasci le istituzioni democratiche subalterne ai centri di potere di volta in volta emergenti, finisce con non garantire nessuno.
Venuta meno la vitalità di un meccanismo di accumulazione fondato sullo "spontaneismo", che aveva potuto dar vita alla spinta espansiva dell'economia e di alcuni settori della società, nel contempo provocando però sprechi e distorsioni, è venuta meno la possibilità di considerare l'uso delle risorse pubbliche e la funzione di governo, ad ogni livello delle assemblee elettive, come una condizione sussidiaria e strumentale dello sviluppo determinato dal ruolo di libera contrapposizione delle forze imprenditoriali private.
Di qui l'esigenza, e un sempre più diffuso riconoscimento, di un ruolo nuovo dello Stato e dell'intera sua articolazione istituzionale (Regione ed Enti locali), che devono sapere individuare e perseguire una strategia dello sviluppo come frutto di un'azione collettiva di programmazione rispetto alla quale la stessa impresa privata deve rapportarsi, per esserne un soggetto, ma non esclusivo.
Pare a me che si possa dire che il Piano in discussione ha trovato una rispondenza di attenzioni e responsabilità di confronti proprio perch rispetto a questa esigenza di un ruolo e di una funzione di governo dell'Ente pubblico, esso si pone come risposta non marginale, anche se non esaustiva. E proprio in questo tendere a far svolgere alla Regione ruolo di governo e di dare all'istituzione regionale l'autorità che gli deve competere, sta un primo e significativo valore del Piano.
Crediamo, pertanto, come Giunta, di aver con il Piano svolto un ruolo positivo, che dividiamo con tutte quelle forze politiche e sociali che hanno contribuito, e contribuiscono, alla sua formazione e alla sua evoluzione.
Un secondo valore che a questo Piano va attribuito, deriva dal fatto che esso, per certi aspetti, di merito e di metodo, ha anticipato quel processo di responsabilizzazione delle forze democratiche che si è avuto a livello nazionale, e che a livello nazionale ha concluso una sua prima e importante fase nel clima unitario dello schieramento politico che ha portato all'accordo di programma. Resta comunque evidente, al di là degli sbocchi che può avere questa proposta nell'assemblea regionale, la positività del contributo della nostra Regione alla stessa politica nazionale; è testimonianza di ciò la coincidenza temporale della definizione di un programma nazionale e di un Piano regionale, che hanno strette relazioni di contenuto: la questione meridionale, l'agricoltura, lo sviluppo industriale, il riequilibrio regionale, i trasporti collettivi.
Entrambi costituiscono un'occasione di impegno per tutte le forze che vogliono realmente battersi per una svolta, confrontarsi e collaborare per uscire dalla crisi che ci dilania.
Nel corso del dibattito di questi giorni, sul merito di questo Piano e delle sue varie parti, sono state fatte critiche, le più radicali delle quali hanno indicato limiti di genericità e di indeterminazione. Si è detto che il Piano è solo un insieme di intenzioni. Penso che queste critiche anche quelle più drastiche ed esasperate, non derivino da una posizione di mal celata volontà di contrapporsi a qualsivoglia attività di programmazione e di governo, quanto piuttosto da una diversa concezione del significato del Piano e del ruolo delle istituzioni.
A questo proposito vale la pena ribadire che, sin dall'inizio, ci siamo posti l'obiettivo di un Piano che costituisca uno strumento di governo volto al conseguimento di individuate finalità, in direzione delle quali orientare l'intervento pubblico in modo coordinato, allo scopo non solo dell'accrescimento della sua efficacia sociale ed economica complessiva, ma anche della costruzione di un quadro di certezze e di indirizzi per l'intervento privato. Non un disegno finale, quindi, ma un piano di indirizzi sufficientemente definiti, senza rigidezza e astrattismi, senza utopiche proiezioni; un insieme organico, meditato e confrontato, di indirizzi, in direzione dei quali, con una successione di operazioni conseguenzialmente individuate, realizzare situazioni future, tenuto conto delle forze che si possono mettere in gioco e della egemonia esercitabile.
Un Piano non dirigistico, né centralizzatore, dunque; un Piano che lungo il cammino tracciato si specifica e si realizza attraverso la partecipazione delle forze interessate, in un'azione politica permanente.
Il modo stesso con cui è stato elaborato risponde a questi principi e a questa concezione. Elaborato con l'apporto tecnico-scientifico delle strutture apposite di elaborazione, traendo dall''elaborazione del passato la base conoscitiva e culturale di fondo, arricchendosi di nuove elaborazioni interne o esterne, è stato definito in relazione ad un confronto politico il più aperto possibile con la pluralità dei soggetti pubblici e privati che devono essere coinvolti; questo costituisce un fatto nuovo per quanto concerne il metodo e l'azione politica.
Esso si caratterizza anche per l'apporto diretto dei dipartimenti e degli Assessorati, che ha consentito di compiere un primo significativo passo culturale e operativo, dall'interno, in direzione di una modifica del modo d'essere dell'amministrazione pubblica e del suo diretto coinvolgimento ad una concezione programmatoria.
E' un primo passo che trova riflesso nell'impostazione contenuta nel Piano dell'azione di adeguamento di tutte le strutture regionali per la politica di Piano e di programmazione. Sotto questi profili, si distingue dalle esperienze precedenti che vedevano una dicotomia tra elaborazione ed amministrazione, corrispondente a quell'altra pure presente tra elaborazione e funzione di governo. Sotto questo profilo, si distingue dall'esperienza passata in cui, alla voluta disattenzione delle forze di governo verso la politica di Piano, veniva contrapposto un Piano, disegno finale per processi politici inesistenti, con l'aspirazione impotente a svolgere un ruolo demiurgico di direzione e di imposizione di vincoli rigidi.
All'impostazione politica e culturale che abbiamo voluto dare al Piano risponde anche ovviamente il complesso degli aspetti riguardanti l'organizzazione e lo sviluppo territoriale, che negli interventi di vari colleghi sono stati richiamati per il peso che assumono nella nostra Regione e che gli vengono attribuiti nel Piano stesso.
Nel Piano il problema del riequilibrio territoriale è assunto come una questione di fondo. Il punto di partenza non è nuovo e deriva dalla constatazione, acquisita attraverso l'analisi e l'azione rivendicativa, ma non tenuta in conto nell'operatività, degli effetti negativi a cui hanno portato i processi di concentrazione sull'area torinese, sia con riferimento all'area di concentrazione stessa, ove si sono determinate situazioni di congestione, sia alle restanti aree, ove si sono avuti sviluppi inadeguati o addirittura recessioni e abbandoni. Sono indicate come linee di fondo per il riequilibrio, l'agricoltura, l'industria, i trasporti, la politica dei servizi, dell'abitazione e del territorio.
Tutti gli interventi, in aula, e i contributi anche esterni condividono questo punto di partenza e accolgono l'importanza di uno sviluppo spazialmente dislocato in modo diverso, decentrato e diffuso.
Questa adesione generale all'interno e all'esterno dell'aula è il fatto nuovo, se si pensa che sino a poco tempo fa l'area di Torino era considerata l'unica localizzazione possibile per ulteriori sviluppi. Si pensi alla concentrazione di infrastrutture e di interventi pubblici nell'area torinese che sono stati effettuati nel passato, e quelli che ancora nel '74 erano previsti e che soltanto un esteso movimento rivendicativo e la crisi economica ha bloccato. Nel piano sono poi indicate grandi linee di organizzazione territoriale dello sviluppo, che in generale sono state accolte dal dibattito anche se attorno ad esse si sono aperte come è giusto, valutazioni e apporti critici Queste linee partono dall'analisi che attorno alla conurbazione torinese, nella Regione e nello stesso Comprensorio, non siamo in presenza di un'uniforme situazione di sviluppo o di sottosviluppo, ma di un'articolazione e differenziazione territoriale da cui è necessario partire.
Nessuno si illude che un processo di riequilibrio possa, alla lettera conseguire una situazione di equipollenza nella Regione, stante il peso ormai raggiunto dalla concentrazione torinese, che ha avuto un forte incremento negli ultimi due o tre decenni, ma come accelerazione di processi storici. Quando si parla di riequilibrio si intende evidentemente invertire la tendenza, partendo dal ridurre il tasso di crescita del divario fino a giungere a ridurlo.
Se l'obiettivo è quello di promuovere uno sviluppo equilibrato, credo che non si possa pensare ad una gerarchia di priorità nei confronti della struttura comprensoriale di cui si è dotata la Regione. Il problema del riequilibrio - e non è una posizione generica e indifferenziata - si pone con riferimento all'insieme dei Comprensori regionali. E' pur vero che ciascuno di essi o raggruppamenti di essi mostrano situazioni ed opportunità diverse. Sotto questo profilo, forse anche forzando per esigenza di schematizzazione, si evidenziano una serie di Comprensori a corona di quello di Torino da cui proviene una forte pendolarità per lavoro in direzione di Torino, e da cui in questa stessa direzione proviene una forte pendolarità per attività terziarie. Nel rilevamento condotto dall'Ires, in corso di pubblicazione, sulle gerarchie esistenti fra i vari Comuni del Piemonte si rileva infatti una forte compressione di funzioni di questi Comprensori dovuta all'attrazione, all'azione centripeta che Torino esercita.
Non e quindi dimenticanza di altri Comprensori se si individua una corona attorno a Torino che ha sue particolarità e non è un'alternativa allo sviluppo di altri Comprensori se essa viene considerata per la sua specifica situazione e collocazione.
Incominciando a colloquiare sulle questioni che ponevano i Consiglieri Martini e Alberton, voglio ribadire che non si può non riconoscere che esiste una stretta interrelazione fra il Comprensorio biellese ed il Comprensorio di Borgosesia; interrelazioni tanto strette che hanno messo in discussione l'esigenza di costituire due Comprensori in alternativa ad uno solo. La stessa struttura produttiva è strettamente relata.
Non si può disconoscere neppure la presenza di interrelazioni spaziali ed economiche esistenti tra una parte del Comprensorio di Borgosesia e la parte ovest del Comprensorio di Verbania; non si può non riconoscere infine, che all'interno di questi tre Comprensori esiste una struttura imprenditoriale di elevata qualità e capacità, con caratterizzazioni omogenee dal punto di vista della dimensione produttiva e dell'articolazione spaziale che può avere cooperazioni maggiori di quanto non ne abbia avute nel passato.
Sotto questo profilo la schematizzazione fatta, che nasce appunto dalla lettura di situazioni specifiche, di carattere socio-economico e territoriale, ci induce a pensare che si possono costituire politiche di carattere economico e territoriale che colgano le opportunità che questi raggruppamenti di Comprensori offrono al fine di favorire il loro sviluppo.
Non c'é una contrapposizione tra lo sviluppo dei Comprensori di Savigliano, Saluzzo, Fossano, Alba, Bra e lo sviluppo del Cuneese; non è un'alternativa. Semmai, le opportunità di sviluppo che questi Comprensori presentano, possono divenire fattori di sviluppo dello stesso Comprensorio cuneese, il quale per altro, presenta caratteristiche specifiche di sviluppo fortemente ancorate all'agricoltura e, per la città di Cuneo caratteristiche autonome di sviluppo connesse con la sua funzione terziaria e direzionale. Per quanto concerne ancora il Comprensorio di Cuneo, il Piano sottolinea che esistono potenzialità ancorate all'agricoltura, non escludendo possibilità di sviluppo industriale, ed anche terziarie, sia con riferimento alle interrelazioni tra il Piemonte e la Francia, sia in relazione all'opportunità di consolidare la funzione di centralità svolta da Cuneo, come è rilevata dallo studio sulle gerarchie. Sotto questo profilo, nel quadro della dislocazione di una grande attrezzatura quale l'Università, credo debba essere rimeditata la stessa ipotesi di Savigliano, per riconsiderare invece Cuneo, alla luce della funzione di centralità che essa svolge. Nel Comprensorio di Mondovì si rilevano invece difficoltà di sviluppo della stessa struttura produttiva agricola: si rileva infatti una disaggregazione accentuata, una situazione demografica in recessione, mancanza delle condizioni di base per lo sviluppo occupazionale e difficoltà di ripresa. Presenta, all'analisi dei rapporti di gerarchia fra i vari Comuni, una stretta dipendenza da Cuneo. Nella logica del Piano, la sottolineatura della situazione di difficoltà in cui si trova il Monregalese non significa un'intenzione di abbandono ma piuttosto il richiamo ad una attenzione maggiore. La stessa politica delle aree industriali che ha trovato un punto di partenza a Vercelli e che trova oggi un nuovo punto di avvio nel Casalese, deve essere sostenuta nel Comprensorio monregalese. Una via di sbocco per la sua attuazione pu essere trovata in una revisione della legge sulle aree attrezzate, che pu andare bene per Vercelli e per Casale, ma per il Monregalese deve trovare delle modificazioni per aderire alla difficile realtà.
In sostanza il Piano fa riferimento alla situazione geografica e socio economica, per individuare condizioni di sviluppo e di diffusione dello sviluppo industriale. Abbiamo dato delle prime indicazioni che per molti aspetti possono apparire ovvie, ma credo che in questo caso l'ovvietà debba essere intesa come aderenza alla realtà e, quindi, come fatto positivo; ci siamo anche dati degli strumenti, perché questa politica di Piano che in Piemonte non può non essere fortemente ancorata allo sviluppo industriale possa avere qualche possibilità di successo. Faccio riferimento alla convenzione quadro per la rilocalizzazione di industrie obsolete o localizzate in aree inadatte o ad altra destinazione urbanistica, che verrà distribuita questa mattina come allegato al Piano. La convenzione deve consentire di stabilire un corretto rapporto con il mondo industriale e di condurre un'azione di indirizzo da parte della Regione perché le localizzazioni e le rilocalizzazioni industriali avvengano nel quadro delle finalità poste dal Piano di sviluppo regionale. Questo è un altro fatto di notevole importanza che viene avviato: pensate che sino ad oggi gli sviluppi industriali sono avvenuti al di fuori di qualsiasi criterio di pianificazione, rimanendo la possibilità di interlocuzione dell'Ente pubblico connesso alla sola concessione della licenza edilizia da parte del Comune.
Nel Piano si fa riferimento all'organizzazione e allo sviluppo dei trasporti e della viabilità. Senza dilungarmi su questa politica - è recente un convegno sui trasporti che ha visto partecipi tutte le forze politiche e che ha colto nel segno i vari aspetti - mi limito a rispondere alle questioni poste in questi giorni di dibattito da alcuni colleghi relative ad una presente contradditorietà che esisterebbe tra un disegno di tendenziale sviluppo diffuso e alcune delle indicazioni riguardanti i trasporti e la viabilità. Costituisce un equivoco interpretativo pensare che la scelta della Regione, riguardante il miglioramento dei rapporti intercomprensoriali, non consenta uno sviluppo diffuso. Credo debba essere preso in seria attenzione il fatto che tutta la viabilità e l'organizzazione dei trasporti su ferro e orientata in funzione centripeta su Torino. Uno sviluppo diffuso che dia a tutti i Comprensori una propria relativa autonomia richiede il rafforzamento dei rapporti intercomprensoriali. La preoccupazione espressa dal Consigliere Martini sul rischio che in questa prospettiva la corona dei Comprensori che circondano quello di Torino possa fare da barriera allo sviluppo industriale e all'organizzazione dei trasporti dei Comprensori esterni non deve essere presente perché il Piano presuppone la realizzazione di più intensi rapporti interpolari sull'intero sistema comprensoriale piemontese.
In questo quadro si rende necessario rafforzare i rapporti intercomprensoriali dei Comprensori disposti a corona rispetto a Torino, ma non si esclude, anzi si ricerca il potenziamento dei rapporti intercomprensoriali dei Comprensori disposti sulle vie di traffico assiali rispetto a Torino, costituenti parte della rete delle comunicazioni interregionali e internazionali. In questo senso si intende cogliere le opportunità di sviluppo che queste collocazioni possono offrire ad alcuni Comprensori, oggi emarginati, ad esempio, Cuneo, e lo stesso Monregalese per la sua posizione relativa rispetto alla Liguria. In questo quadro assumerebbe rilevanza pure l'asse est-ovest che passa per Torino, che percorre la Valle di Susa e di cui hanno parlato i colleghi Oberto e Marchini.
La Valle di Susa è una componente fondamentale per le relazioni internazionali: è un problema che non possiamo disconoscere, su cui comunque avremmo dovuto meditare di più. Sono convinto con il collega Marchini che l'apertura del Traforo del Frejus porterà una crescita del movimento; saranno 1800 i veicoli che impatteranno ogni giorno con la struttura di viabilità della Val di Susa. E' certo che ne deriveranno ragioni di incentivazione della funzione di centralità di Torino. Dobbiamo dirci chiaramente che se potessimo tornare indietro di qualche anno e potessimo riprendere decisioni, dovremmo ripensare per lo meno ai tempi di attuazione del Traforo del Frejus. Tale traforo, però, è ormai destinato a divenire realtà ravvicinata. Si pone il problema del funzionamento di questo asse viario; nel contempo il miglioramento dei collegamenti pone il problema del controllo dei processi conseguenti di terziarizzazione, che potrebbero rilanciare, in contrapposizione alle linee di Piano, lo sviluppo dell'area torinese, così come negli anni passati questo ruolo è stato svolto dall'industria. Ci sono città che sono cresciute e sono gonfiate sulla base di una forte terziarizzazione.
Sotto questo profilo diventa indispensabile una politica rigorosa di vincoli che, pur non disconoscendo la presenza del Frejus, condizioni gli effetti negativi di ulteriori concentrazioni su Torino di attività che possono derivarne. C'é ormai una realtà presente che va individuata e constatata. Non c'è un'alternativa valida ed immediata alla Valle di Susa.
A questo punto, affinché il traforo e la viabilità stradale migliorata che dovremmo realizzare non abbiano ad assorbire ulteriori aliquote di trasporto pubblico, rivendichiamo il completamento del doppio binario da parte delle ferrovie. Credo che sia questo uno degli elementi fondamentali di una politica nazionale e regionale che dobbiamo conseguire: privilegiare il trasporto pubblico, sia per ragioni di economicità, sia di sicurezza come recenti incidenti in Valle richiedono.
Mi chiedo se è possibile accettare che una ferrovia che ha cent'anni di vita, nel corso dei quali, dopo aver conseguito la prima linea, si è avviata la costruzione della seconda, per il completamento della quale mancano solo sei chilometri di percorso, da Bussoleno a Salbertrand certamente i più duri, ma comunque corrispondenti a solo la metà del traforo del Frejus, non venga completata. Proprio per il significato che assume nella politica nazionale il trasporto su ferro dobbiamo sostenere ed esigere, come fa il nostro Piano di sviluppo, che questi sei chilometri vengano completati, prima che entri in funzione il traforo del Frejus, in modo che possa assumere il ruolo principale nei trasporti tra il Piemonte e la Francia.
Questa indicazione non è in alternativa alla Cuneo-Nizza. Intanto dobbiamo avere coscienza che questa linea in corso di ricostruzione stabilirà rapporti tra il Cuneese e Nizza di natura sociale e culturale più che di natura economica, stante il fatto che la ferrovia costruita sul vecchio tracciato imporrà forti limitazioni al transito. D'altra parte solo la costruzione di un intero sistema regionale di trasporto ferroviario potrà consentire di utilizzare la Cuneo-Nizza al di là della sola funzione culturale. Solo se il sistema ferroviario della Valle di Susa e della litoranea lungo la Riviera funzionerà come parte di un sistema unitario, la Cuneo-Nizza potrà caricarsi di un trasporto anche di carattere economico almeno nell'andata da Cuneo verso Nizza, con il ritorno sulla linea litoranea. In questo caso la ferrovia Cuneo-Nizza potrà essere utilizzata come alleggerimento di un senso di marcia della litoranea ligure e potrà costituire elemento di incentivazione per sviluppi terziari, e forse anche di carattere industriale, nel Cuneese.
Un sistema di questo tipo prende in mezzo la stessa zona di Mondovì per le interrelazioni dalla Liguria verso il Cuneese.
Le preoccupazioni sollevate da Martini sui trasporti sono giuste. Esse a questo punto, devono però essere orientate a far sì che una serie di interventi che l'Amministrazione statale ormai ha avviato, vengano piegati al fine della costruzione di un sistema di mobilità unitario, che converga su altri Comprensori e non soltanto su quello di Torino.
I problemi aperti dal traforo del Frejus e dalla viabilità della Valle di Susa richiedono rigore nella politica di pianificazione regionale proprio per evitare che fatti di così grande rilievo non abbiano a incentivare l'area torinese a scapito del resto della Regione.
Il rigore nella politica di attuazione del Piano deve essere norma generale, altrimenti non riusciremo a modificare gli effetti di 20 anni di sviluppo intenso, con grande impiego di risorse concentrate su Torino rispetto agli anni futuri in cui, per la crisi che stiamo attraversando, le risorse da mettere in gioco per una politica di riequilibrio saranno limitate. Nel Piano non è ancora verificata la disarticolazione comprensoriale delle risorse regionali e statali che si impiegheranno.
Dovremo fare in modo che ci sia un rapporto equilibrato, anche se diversificato: in qualche Comprensorio prevarrà l'intervento a favore dell'industria, in altri quello a favore dell'agricoltura, o del turismo ma globalmente dovremo valutare l'intero quadro degli interventi e degli investimenti per Comprensorio, facendo in modo che tutti ne siano investiti.
Le difficoltà sono grandi. Si pensi alla difficoltà di definire un bilancio consolidato delle finanze interne alla Regione che tenga conto delle finanze nazionali e di quelle comunali. Atteggiamenti in questa direzione sono già stati assunti. E' stato avviato per l'edilizia residenziale pubblica negli ultimi atti dell'Amministrazione passata quando abbiamo cercato di definire le ripartizioni non avendo all'occhio solo una scala generale di priorità regionali che fatalmente ci porterebbe a orientare le risorse soltanto su Torino e sui Comuni della cintura, ma assumendo criteri di riparto e di localizzazione che considerano anche gli altri Comprensori.
La politica della casa, come richiamava ieri il collega Petrini, non si risolve soltanto con gli interventi pubblici anche se, come rileva lo stesso dibattito che in questi giorni è in corso alla Camera e al Senato soltanto una politica di interventi pubblici può consentire una forte ripresa edilizia; e non solo dell'edilizia sovvenzionata, ma anche di quella convenzionata che coinvolge il risparmio privato e il capitale delle imprese.
Sono convinto anch'io che questo non è ancora sufficiente. Si dovrà coinvolgete l'iniziativa privata, oggi assente per ragioni economiche.
Nel Piano abbiamo voluto richiamare - lo diceva il Consigliere Petrini con spunto critico - i programmi già fatti e quelli che dovremo fare. Anche quelli che dovremo fare, sulla base della legge n. 1000, che è in discussione alla Camera, proprio per ribadire che la ripartizione delle risorse, anche quelle dello Stato, devono essere distribuite nell'ottica del Piano di sviluppo regionale. Il collega Petrini chiedeva un maggior intervento da parte della Regione. Credo che non si possa considerare la Regione una struttura sostitutiva degli interventi statali. Non dobbiamo avere l'illusione di risolvere ogni problema nell'ambito regionale; la Regione è nello Stato e deve operare in modo integrato agli interventi statali, cercando peraltro di fare in maniera che questi ultimi siano anch'essi indirizzati secondo le linee di piano che la Regione si dà. Per quanto riguarda l'edilizia c'e intanto una contraddizione a questo principio: l'applicazione dell'art. 72 della legge 865 che viene fatta direttamente dal Ministero. Sono 40 i miliardi distribuiti in questi ultimi anni in Piemonte dal Ministero al di fuori di qualsiasi rapporto con la Regione.
Ultimamente è stato dato un finanziamento di un miliardo e mezzo per un Comune che ha seicento abitanti.
Infine, come è stato detto da alcuni colleghi, il quadro territoriale è da approfondire. Nessuno lo mette in dubbio. Credo sia stato giusto porre in discussione all'interno del Piano alcuni elementi nodali di un quadro di riferimento territoriale regionale. Da quelli, e costituisce un fatto nuovo la loro approvazione all'interno di un Piano di sviluppo socio-economico la comunità regionale nel suo complesso può partire per trarre elementi di ulteriore specificazione e di operatività. Si apre un fronte largo di lavoro per l'approfondimento di questo quadro regionale. Non è possibile pensare che la Regione possa stabilire un rapporto operativo fattivo con i Comprensori e con gli Enti locali se essa stessa non approfondisce, non migliora, non specifica ulteriormente questo quadro, arrivando anche a quantificazioni maggiori.
Nel Piano vi è appunto una parte programmatica per ulteriori ricerche sul piano dell'analisi spaziale che devono collegarsi con gli approfondimenti dell'analisi socio-economica che è da condurre. Questo lavoro dovrà arricchire il patrimonio di conoscenze della Regione e degli stessi Comprensori. C'è un lavoro da avviare nei Comprensori che non direi in conflitto e in contrapposizione con quello della Regione, ma direi in collaborazione. Ci sono Comprensori che costituiscono certamente dei punti di partenza più immediati perché alle spalle abbiamo un lavoro. Alberton richiamava l'elaborazione per il Piano territoriale del Comprensorio di Torino, avviata e portata ad una prima fase nella passata legislatura arricchita successivamente dall'Assessorato di una seconda fase. Da un anno è in discussione in Commissione (discussione che è stata paralizzata da altro lavoro). Altro punto avanzato è rappresentato dal Comprensorio di Biella dove esiste un lavoro riguardante il Piano di sviluppo, e per il quale l'Assessorato ha elaborato alcune proiezioni di carattere territoriale. Sono esempi che ci consentiranno di verificare immediatamente la possibilità di stabilire giusti rapporti tra Regione e Comprensorio, per passare poi ad una fase di estensione del lavoro con tutti i Comprensori.
Nel contempo alla pianificazione territoriale regionale e comprensoriale dovrà affiancarsi il lavoro di pianificazione urbanistica locale. In questo senso è importante arrivare alla rapida conclusione del disegno di legge n.
117 per dare certezza operativa e contenuti nuovi anche alla pianificazione locale.
Credo sia corretto e giustificato da parte nostra dire che il Piano ha avuto un significato positivo all'interno della comunità regionale per le forze culturali e politiche che ha messo in moto, per il tipo di dialettica che ha aperto; che abbia conseguito un successo proprio sul piano della politica culturale oltre che dell'iniziativa politica in senso stretto. La proposta avanzata dalla Giunta è positiva poiché supera l'idea di programmazione come tecnica e propone la politica di pianificazione economica e territoriale come terreno permanente di confronto tra le istituzioni e la società. Credo che questo sia il dato di maggiore positività che può informare il lavoro con i Comprensori e con le comunità locali. Terreno di confronto attraverso al quale formulare i piani comprensoriali ed incanalare spinte vitali, anche private, che devono essere tenute in conto se si vuole passare da una fase di definizione di indirizzi ad una fase effettiva di attuazione del Piano.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare l'Assessore Simonelli. Ne ha facoltà.



SIMONELLI Claudio, Assessore al bilancio e programmazione

Signor Presidente, colleghi, a chiusura di questo dibattito credo che la nostra legittima soddisfazione possa basarsi sul riconoscimento del notevole arricchimento che è stato portato a questa fase finale del nostro lavoro sulla programmazione regionale, che segue il rilevante contributo venuto durante le consultazioni. Sono state dette cose nuove rispetto al dibattito del febbraio scorso. Come riconosceva il Presidente Viglione crediamo che sia stato assai opportuno presentare un documento formalizzato di piano, perché il contributo che è stato dato non sarebbe stato altrimenti di pari livello, di pari dignità, di pari concretezza. E' stata dunque una scelta giusta quella di fare un documento di piano, una scelta per certi versi sollecitata, ma non obbligata, dalla legislazione nazionale perché la legge 335 consente in pratica di vincolare i bilanci pluriennali non solo a veri e propri Piani di sviluppo, ma anche a semplici documenti programmatici. Riteniamo anche che quello che presentiamo al voto del Consiglio regionale sia un buon Piano; certo non il migliore, ma un documento accettabile, soprattutto per due considerazioni. Innanzitutto perché è un documento calibrato sulle nostre conoscenze e sulle nostre capacità di azione oggi; in secondo luogo, perché non rappresenta la fine ma l'inizio del processo programmatorio che coinvolge la nostra Regione.
E' dunque un documento calibrato su ciò che oggi sappiamo e possiamo fare. Dicendo questo, scontiamo anche quei ritardi di conoscenza e di informazione che qualche Consigliere ha indicato. Certo, scontiamo ciò che più volte abbiamo detto anche noi, cioè la necessità di avere a disposizione altro materiale di elaborazione, di ricerca e di studio scontiamo i ritardi nel perfezionamento della macchina amministrativa scontiamo i ritardi nella partenza delle strutture decentrate e del funzionamento delle deleghe. Proprio sul terreno dell'organizzazione della macchina amministrativa, sul terreno istituzionale ed organizzativo non a caso il Piano individua uno specifico programma di intervento. Anzi, questa è forse la sfida più impegnativa sul terreno della programmazione.
Nel suo "Rapporto sulla programmazione" di qualche anno fa, Giorgio Ruffolo sostiene che il nodo vero, più duro, da affrontare per il programmatore non è tanto rappresentato dalla capacità di orientare il sistema economico sulla via dell'espansione, né dalla capacità di modificare la ripartizione delle risorse e neppure dalla capacità di promuovere un'industria efficiente e competitiva, ma è proprio rappresentato dalla capacita di affrontare e risolvere il problema della incompatibilità tra l'attuale struttura dell'amministrazione pubblica e i bisogni della collettività. E' su questo terreno che si è sempre giocata la capacità concreta della politica di Piano e finora il gioco non ha dato risultati apprezzabili. Citerò ancora un altro studioso (mi si perdonerà la civetteria di citare tutti studiosi dell'area socialista), Giuliano Amato che nel suo recente saggio "Economia, politica e istituzioni in Italia" ricorda quanto abbia pesato sul fallimento del disegno programmatorio l'incapacità della programmazione degli anni '60 di incidere sulle strutture della pubblica amministrazione. E' questa una lezione che dobbiamo meditare attentamente. In secondo luogo, il Piano non rappresenta ancora il momento magico al di là del quale nulla si può più discutere nulla si può più fare. E' l'avvio di un discorso, è un momento al quale seguiranno impegnative scadenze a tempi brevi; e perché questo discorso non resti pura enunciazione verbale, la Giunta ha inserito, nella proposta di deliberazione, tutta una serie di scadenze, di adempimenti e di impegni che si assume per i prossimi mesi, per dare concretezza a questo disegno.
In questo dibattito, già altri interventi hanno sottolineato che cosa deve essere un Piano regionale di sviluppo. Mi riferisco all'intervento molto lucido svolto dal Consigliere Ferrero e alle considerazioni che poc'anzi ha svolto l'Assessore Rivalta. Non pretendiamo di offrire un'immagine ottimale di piano, ma, fra i documenti regionali che hanno visto la luce in questi giorni, il Piano del Piemonte non sfigura certamente. Le critiche di fondo che vedono tutto negativo, come quella che ha fatto il Consigliere Alberton, a nostro avviso partono da una concezione astratta di un piano ottimale, non calato in una realtà, ma visto per ci che potrebbe essere e sottolineano ciò che manca rispetto a questa astratta tipologia ottimale. Si finisce quindi di indicare ciò che si discosta rispetto al documento ottimale e di fare l'elenco delle cose che non ci sono. Credo che questo elenco, che pure il Consigliere Alberton ha fatto in modo ampio e diligente, non sia esauriente: potremmo continuare ed indicare altre carenze. Questa esercitazione non ci aiuta però a procedere sulla strada della programmazione; occorre valutare in concreto se questo documento rappresenta un materiale utile per avviare un lavoro nuovo, qui e ora, se fa mutare qualcosa di significativo nel modo di essere e nelle capacità di governo della Regione Piemonte. La risposta a questa domanda non può che essere positiva: il Piano non è un fatto miracoloso, ma certo con esso qualcosa cambia nel modo di essere della Regione Piemonte.
Intanto, il Piano sancisce un rapporto con la programmazione nazionale e più in generale con il quadro complessivo della politica economica nazionale. Certo, è possibile un approfondimento ulteriore.
Il Consigliere Alberton sollecitava nel dibattito di febbraio, e l'ha ripetuto ancor oggi, l'approfondimento delle indagini di settore. Credo che avremo un terreno di confronto serio in relazione all'attuazione della legge sulla riconversione industriale, che prevede la formazione dei piani di settore. Oggi abbiamo un terreno sul quale confrontarci, che è l'unico dal quale possiamo partire per fare i piani. E' una vecchia polemica che ritorna: noi continuiamo ad essere convinti che senza un riferimento al quadro nazionale il disegno dei piani di settore regionali rischia di essere asfittico e astratto. Avremo ora occasione di proseguire il confronto in modo più adeguato.
Abbiamo messo a fuoco, discutendo il Piano, alcuni punti nodali del rapporto Regioni-Stato. Mi riferisco innanzitutto al problema degli interventi sostitutivi delle Regioni rispetto a quelli che lo Stato non fa che è uno degli elementi che caratterizza la spesa delle Regioni nella prima legislatura.
In secondo luogo abbiamo affrontato il problema del coordinamento tra risorse della Regione e risorse delegate dallo Stato, per intervenire in modo combinato. Un terzo nodo riguarda la richiesta della sollecita attivazione dei canali di finanziamento rappresentati dagli articoli 9 e 12 della legge 281, cioè dalla messa in moto di un processo di finanziamento che il legislatore aveva previsto come direttamente rivolto a finanziare i Piani regionali di sviluppo e a finanziare i progetti speciali delle Regioni, con una previsione normativa che non è stata ancora seguita in realtà da erogazioni corrispondenti.
Attraverso un documento di piano di questo tipo - e gli altri che le altre Regioni stanno elaborando - si innesca un processo di partecipazione delle Regioni alle scelte del livello centrale. Con piani di questo tipo sarà sempre più difficile, forse impossibile, impedire alle Regioni una partecipazione attiva e reale ai processi decisionali relativi ai momenti cruciali dell'attività politica, economica, finanziaria dello Stato, a cominciare dalla formazione del bilancio, dal quadro di riferimento a medio termine, dalle indicazioni contenute nella relazione previsionale e programmatica del Governo, dalle scelte di merito che investono i grandi settori dell'economia. Se a questo aggiungiamo lo spostamento di poteri determinato dall'attuazione della legge 382, abbiamo un quadro complessivo che mette di fronte le Regioni a compiti certamente più impegnativi che nel passato. Dirò per inciso che dobbiamo considerare la legge 382 una grossa innovazione, anche se non completamente soddisfacente. Si è perduta l'occasione per completare in modo organico il quadro delle competenze regionali. Tuttavia la 382 rappresenta un momento di rottura e di mutamento molto significativo. Un'interpretazione di questo tipo l'ho colta, e la condivido, sulle pagine de "L'Unità". Con la 382 le Regioni hanno avuto e avranno in modo massiccio poteri nuovi. Ora il problema e di guadagnare sul campo i galloni e dimostrare di sapere gestire i nuovi poteri. Mi pare che la scelta della politica di piano sia l'unica possibile perché le Regioni dimostrino nei fatti la loro capacità di essere Enti di governo, di poter gestire la mole rilevante di compiti che ad esse sono attribuiti. Fuori di questa politica non vi è spazio per una reale conquista della dignità di organo di governo: c'è soltanto la politica del giorno per giorno, delle gestioni che faticosamente rincorrono i bisogni senza riuscire mai a soddisfarli.
Ad un recente convegno della Fondazione Agnelli, da parte dei giuristi si sono contrapposte due tesi sul ruolo preminente delle Regioni: da un lato sottolineando il ruolo delle Regioni come Enti di organizzazione del territorio e di fornitura dei servizi, dall'altro mettendo in rilievo il ruolo delle Regioni come Enti che partecipano al governo dell'economia. Con la legge 382 e con l'avvio dei Piani regionali di sviluppo le Regioni debbono essere l'una e l'altra cosa, debbono essere Enti che partecipano al governo dell'economia e debbono essere Enti attenti ad organizzare e disciplinare l'uso del territorio e a distribuire nel modo ottimale su di esso i servizi collettivi. Ma debbono essere anche qualche cosa di più debbono partecipare al governo della congiuntura del Paese. Non possiamo accettare il ruolo sostanzialmente subalterno - ai limiti della legittimità che l'attuale politica di cassa del Tesoro impone alle Regioni. Con questo non diciamo che la politica seguita, di controllo e apertura dei "rubinetti" finanziari, sia di per sè una politica da respingere, anzi, ci vogliamo fare carico delle necessità di una politica adeguata di cassa come momento centrale di controllo della spesa pubblica, di lotta all'inflazione e di risanamento della spesa pubblica. Vogliamo dire che questa politica non si può fare considerando le Regioni come oggetti passivi, come sportelli pagatori, come sudditi e destinatari di scelte che passano sulla loro testa e che neppure il governo nella sua intierezza, ma solo il Tesoro, compie, fuori da ogni confronto dialettico.
Abbiamo calcolato la dinamica delle entrate e delle uscite degli anni '76 e '77 e abbiamo rilevato una accelerazione notevolissima nella capacità di pagamenti. Per dare soltanto i dati conclusivi, nel 1976, abbiamo avuto entrate di cassa di 183 miliardi 831 milioni (escluso il fondo ospedaliero) e uscite per 186 miliardi 337 dei quali 96 miliardi riguardano pagamenti in conto residui. Nei primi sei mesi del '77 le entrate ammontano già a 139 miliardi 466 milioni e le uscite sono praticamente corrispondenti. Ci significa che la macchina della Regione ha ormai dimostrato un livello di efficienza assai elevato nell'erogazione delle somme e questo fatto da solo fa ragione di certe polemiche consuete a proposito della nostra capacità di spesa. La spesa della Regione non solo non è bloccata, ma conosce ritmi di erogazione impensabili, con una rapidità crescente che però comincia ad avere un limite nella disponibilità di risorse di cassa, a seguito della politica seguita dal Tesoro.
Ad una richiesta recente del Presidente della Giunta di poter prelevare 20 miliardi per sopperire alle necessità derivanti da interventi urgenti per le calamità atmosferiche, il Ministro del Tesoro ha risposto sostenendo che non poteva erogare più di 15 miliardi mensili. Si tratta di somme di spettanza della Regione che affluiscono su un conto corrente intestato alla Regione Piemonte, sul quale vengono corrisposti interessi del 5%: giuridicamente sono quindi somme della Regione. Il Ministro del Tesoro dice che il Governo è impegnato a trasferire fondi alle Regioni sulla base di un flusso mensile calcolato attorno ai 130/150 miliardi, compatibile con il fabbisogno globale di 9800 miliardi derivante dagli impegni assunti con la lettera di intenti.
Non diciamo che questo sia un discorso inaccettabile: diciamo soltanto che vogliamo partecipare alla definizione della politica, da cui scaturisce questo discorso. Le Regioni si fanno carico della responsabilità che deriva dal fatto di essere parte importante nel controllo dei flussi finanziari ma non vogliono soltanto subire le scelte decise dal Tesoro.
Il Ministro dice inoltre che qualsiasi aumento dell'erogazione, oltre i limiti in cui viene effettuata, altererebbe l'equilibrio della gestione di Tesoreria e rischierebbe di compromettere il rispetto del vincolo sull'ammontare del fabbisogno che è stato determinato in relazione alle risorse disponibili e in relazione agli impegni assunti nei confronti del Fondo monetario internazionale. L'accettazione di questo vincolo può anche comportare da parte nostra un ulteriore freno. Arrivo a dire che, avendo messo la macchina regionale in grado di effettuare i pagamenti in tempi rapidissimi, se la politica complessiva del Paese richiede un rallentamento della spesa noi siamo disponibili anche a procedere a questo, ma dobbiamo concordare le linee della gestione della politica congiunturale. Non basta il tipo di controllo, assai fiscale e rigoroso, svolto oggi dal Tesoro senza la nostra partecipazione.
Nel recente saggio "Spesa pubblica ed economia italiana", Franco Reviglio sottolinea che la politica di risanamento della spesa pubblica e le misure di contenimento da assumere in relazione agli impegni sottoscritti con il Fondo monetario internazionale postulano un controllo della spesa di cassa che non può essere soltanto quella dell'erogazione dei flussi di competenza ma deve essere anche quella della gestione dei residui.
La mole consistente dei residui passivi significa in realtà che c'è un iceberg di risorse non controllabile dal Tesoro che può venire improvvisamente a galla, nel senso che la massa dei residui passivi pu essere praticamente attivata senza più il controllo del Tesoro, in qualsiasi momento, e può così far saltare tutti i vincoli e i limiti fissati all'espansione della base monetaria. Poiché gran parte dei residui passivi per investimenti corrispondono ad impegni delle Regioni, è chiaro che senza un controllo sull'uso di questi residui passivi tutta la politica di controllo della spesa pubblica rischia di vanificarsi. Se l'impegno deve essere anche quello di regolare il modo con cui le Regioni e gli altri Enti locali destinano le loro risorse già impegnate, se anche questo deve essere sottoposto a verifiche e controllo, a maggior ragione si impone la partecipazione attiva delle Regioni alle scelte di politica economica e finanziaria complessiva del Paese.
In secondo luogo, il nostro documento rappresenta un tentativo di organizzare l'attività della Regione come Ente operatore; non voglio più soffermarmi sulle cose che in questi mesi ci siamo dette in ordine alle azioni programmatiche e ai progetti. Certo è ancora tutto imperfetto. La dottoressa Castagnone Vaccarino diceva che sono ancora interventi assessorili e non un quadro organico di piano. Aggiungo che sono ancora troppe le spese raggruppate sotto la voce "altri interventi", spese che devono essere ricondotte nell'ambito delle azioni programmatiche e dei progetti. Dicendo questo, facciamo noi una critica al Piano, che non è venuta da parte del Consiglio.
Nella deliberazione che proponiamo chiediamo che il Consiglio impegni la Giunta a operare per ridurre l'area di spesa contenuta sotto la voce "altri interventi" e a portarla nell'ambito dei programmi e dei progetti.
Colleghi del Consiglio, non è vero che il Piano comprende tutto.
Intanto è esplicitato il rifiuto agli interventi a pioggia, il che vuol dire rifiuto della legislazione di spesa tradizionale che tutte le Regioni e anche la nostra - hanno seguito fino a ieri; c'è il rifiuto di proseguire gli interventi sostitutivi rispetto a quelli che non fa lo Stato; c'é il rifiuto degli interventi "rituali" che erano gran parte del contenuto dei documenti della programmazione anni '60; c'é il rifiuto delle idrovie, dei trafori, delle autostrade, di quelle cose cioè che nel Piano non esistono, e non esistono non perché ce ne siamo dimenticati o perché in assoluto pensiamo che queste cose non serviranno mai, ma perché non le abbiamo volute mettere, ritenendole cose non realisticamente proponibili nell'arco di medio o breve termine al quale ci riferiamo. Non è pensabile che nell'arco di breve e medio termine, al quale il Piano si riferisce possano avere inizio altri trafori, altre autostrade, altre idrovie o comunque opere pubbliche che sono il retaggio dei documenti di programmazione degli anni '60. Certo occorrerà affrontare in modo più compiuto e più soddisfacente il problema degli interventi integrati, degli interventi interdisciplinari e interassessorili. Il caso classico è quello delle aree industriali attrezzate, in merito al quale qualcuno ha sottolineato l'opportunità che sia collegato con interventi di formazione professionale.
C'é un discorso di assetto del territorio che, pur nella sinteticità complessiva del documento, stabilisce delle scelte e delle indicazioni precise.
Soprattutto, questo documento offre un quadro di certezze e di conoscenze agli altri soggetti: agli Enti locali, innanzitutto, che trovano evidenziato il ventaglio degli interventi prioritari a cui collegarsi, con l'indicazione degli impegni di spesa della Regione, e la proposta di un metodo, attraverso i Comprensori, per ribadire la loro partecipazione attiva alla politica di programmazione. Il quadro di conoscenze offerto anche ai soggetti economici, che da questo documento ricavano delle indicazioni precise di assetto territoriale e di politica dello sviluppo.
Il discorso torna necessariamente alle aree industriali e artigianali. Il fatto di scegliere queste aree come momento centrale di una politica di promozione e di qualificazione dello sviluppo è una scelta precisa fondamentale Il rinvio alle leggi da farsi, che anche Alberton lamentava non deve essere inteso come la volontà di non indicare qui, ora e subito, i caratteri e i connotati di queste leggi.
Noi diciamo che per le aree industriali attrezzate e per le aree artigianali occorre superare la legge 21 predisponendo disegni di legge adeguati, non attuando più soltanto alcuni esperimenti pilota, ma promuovendo una politica generale che regoli e disciplini questi fenomeni.
Come sappiamo tutti per esperienza, e come sanno gli amministratori dei Comuni, non basta disegnare nei piani regolatori al posto delle fabbriche inserite nel tessuto urbano delle zone a "verde pubblico" perché il fenomeno del trasferimento degli impianti produttivi si realizzi con un colpo di bacchetta magica. L'impresa che non è obbligata a trasferirsi non si trasferisce se non trova almeno alcune convenienze elementari; inoltre il Comune, che potrebbe espropriare, non ha le risorse per farlo. Allora il discorso resta astratto, velleitario, non dà risultati né sul fronte dei servizi collettivi né sul fronte della efficiente collocazione delle unità produttive. Il tentativo di superare queste antiche difficoltà deve essere perseguito in modo appropriato, prevedendo adeguati meccanismi, società miste di gestione per le aree lasciate libere, politica delle aree industriali attrezzate per localizzare le nuove imprese: questa è la via lungo la quale ci incamminiamo e ci pare sia una scelta corretta. Queste scelte verranno, del resto, ancora in discussione in Consiglio, anche perché le prescrizioni contenute nelle linee della convenzione-quadro sono tradotte in norme corrispondenti nel disegno di legge 117 sull'uso e sulla tutela del suolo; in questo modo, con l'attuazione di quella legge, si renderà concretamente possibile l'effettuazione delle operazioni indicate nella convenzione quadro.
La Giunta ha inserito nell'area d'intervento due, come uno degli allegati al Piano, le linee della convenzione-quadro. Attraverso quelle linee emerge il disegno chiaro di sottoporre a guida, a controllo ed a indirizzo tutto il processo che riguarda le ristrutturazioni, gli ampliamenti e i trasferimenti d'impianti industriali. Sottoponendo questi processi decisionali ad una azione articolata, che vede impegnati la Regione, gli Enti locali e le aziende, si mira a stroncare ogni possibilità di speculazione fondiaria sulle aree lasciate libere, senza contemporaneamente infliggere inutili penalizzazioni alle imprese.
Con ciò, superando i limiti che hanno fin qui impedito di attivare una politica di mobilità delle imprese, necessaria al sistema industriale che deve qualificarsi, rinnovarsi, per fare salti dimensionali salti tecnologici, salti qualitativi, ma che è anche indispensabile per recuperare spazi ai servizi collettivi nei centri urbani. In questo discorso si apre anche un ruolo per la Finpiemonte: uno dei suoi progetti riguarda proprio la politica delle aree industriali attrezzate. Qui si è detto che dovevamo discutere anche dei progetti della Finpiemonte.
Discuteremo anche di quei progetti, ma intanto lasciamoglieli fare.



BIANCHI Adriano

Dovremmo trovarvi un riferimento.



SIMONELLI Claudio, Assessore al bilancio e programmazione

Lo trovano, sia perché le nostre indicazioni sono note e discusse da tempo, sia perché i progetti della Finpiemonte dovranno essere discussi alle scadenze che la legge istitutiva postula. Per quanto ne so, hanno trovato riferimento e corrispondono a filoni che sono indicati, tra l'altro, anche nel documento di massima che il Consiglio regionale conosce perché è stato illustrato e discusso in aula.
La politica di piano non è fatta di documenti rituali, ma di una serie di atti, di comportamenti, di leggi, di deliberazioni, di iniziative degli Enti strumentali. C'è, per esempio, l'attuazione della legge 902 in materia di Credito agevolato all'industria, altro punto di grandissimo interesse sul quale le Regioni hanno unitamente convenuto una linea nei confronti del Governo intesa a superare l'automatismo dei meccanismi previsti per individuare le aree insufficientemente sviluppate - nelle quali concentrare l'intervento del credito agevolato - sostituendo ai parametri rigidi dei criteri più elastici, che facciano riferimento al Piano di sviluppo e al Piano territoriale regionale.
In un recente convegno a Bologna, su iniziativa del Piemonte è stato messo a punto un documento unitario di tutte le Regioni con il quale si chiede al Governo e al Cipe di dare delle indicazioni definitive e di collegare l'erogazione del credito agevolato alle linee dei Piani regionali di sviluppo e dei piani territoriali, in maniera tale da non avviare interventi casuali che, come è accaduto in passato per le agevolazioni nelle cosiddette aree depresse, disarticolino le capacità programmatorie a livello locale, ma da farne invece uno degli elementi di sostegno di una politica di programmazione. Credo che di questo discuteremo nel mese di settembre, prima che le indicazioni della Regione siano fornite al Governo e al Cipe. Noi attribuiamo una grossa importanza ai processi di localizzazione degli impianti industriali, ma dobbiamo sapere che sono finiti i tempi in cui si pensava che il toccasana per risolvere le situazioni di sottosviluppo fosse la ciminiera accanto ad ogni campanile.
Quando il Consigliere Martini, nel contesto di un intervento interessante lamentava il parere negativo che la Giunta ha dato sul Piano di sviluppo della Comunità montana della Valle Stura in ordine ad un incentivo previsto per le industrie che intendono localizzarsi nella valle, credo non abbia colto fino in fondo il carattere distorcente, ed anche illegittimo solo il profilo giuridico, di incentivi all'insediamento industriale concessi da parte di un Ente locale qualsiasi e quindi anche di una Comunità montana.
Io credo che né la Comunità montana né la Regione possono dare incentivi finanziari alle imprese; anzi, penso che questo sarebbe addirittura in contrasto con la legislazione nazionale, anche perché la materia del credito agevolato è disciplinata dalle leggi 183 e 902. Al di là dell'aspetto giuridico, mi pare comunque ci sia una contraddizione sostanziale, nel destinare le scarse risorse a disposizione delle Comunità montane verso una improbabile politica di incentivazione degli insediamenti industriali, slegata dalla politica delle aree attrezzate che la Regione manda avanti. Voglio riprendere soltanto uno degli spunti offerti dal Consigliere Martini. La Giunta regionale ha dichiarato che gli stanziamenti previsti dalla legge 21 saranno erogati per le destinazioni che la legge ha fissato e che non una lira verrà sottratta ai 4 Comprensori in cui si devono insediare le aree industriali attrezzate. Ma nella situazione di Mondovì, come per altri versi in quella di Borgosesia, la Giunta ha ravvisato una difficoltà a realizzare le aree attrezzate nelle dimensioni e con le caratteristiche previste dalla legge 21: intanto perché non c'è disponibilità di manodopera, e poi perché manca la disponibilità delle categorie imprenditoriali ad avviare insediamenti di certe dimensioni. Il discorso per Mondovì è stato questo: "vediamo quali sono gli interventi che più si plasmano sulla realtà della zona, senza rischiare, per esempio, con aree industriali 'pesanti' di sottrarre la residua manodopera all'agricoltura e quindi di squilibrare definitivamente le capacità di ripresa dell'agricoltura nella zona; puntiamo intanto su un potenziamento dell'area comunale di Mondovì che già esiste, che può essere ulteriormente destinata alla riallocazione di impianti che nella zona devono trasferirsi a breve raggio. Valutiamo, poi, nel quadro della revisione della legge 21 l'opportunità di promuovere interventi più diffusi sul territorio, più articolati, che tocchino le realtà industriali e artigianali esistenti, in modo da sopperire a quelle che sono le reali esigenze riscontrate". Questi sono i termini corretti nei quali si è posto il discorso. Non si tratta dunque, in nessun modo, di rinuncia agli interventi annunciati.
Infine, con il documento di Piano si è iniziata una quantificazione degli interventi e si è perfezionata, con una metodologia diversa rispetto al progetto presentato l'anno scorso, l'ipotesi di bilancio pluriennale. E' stato consegnato ai Consiglieri un documento che contiene appunto le tabelle da sostituire in questo contesto. Dall'andamento del dibattito la Giunta può raccogliere le indicazioni che sono pervenute, e che suggeriscono di non fare del documento denominato "schema di bilancio pluriennale" un oggetto di approvazione in questa sede Il Consiglio esprimerà a suo tempo il proprio voto sul bilancio pluriennale vero e proprio, quello presentato ora ha rappresentato un approccio al documento lo abbiamo considerato un allegato, non diventa oggetto di voto in questa sede. Ciò non di meno vale la pena di discutere una serie di problemi che questo documento ha sollevato e che sono stati indicati in modo completo nell'intervento del Consigliere Paganelli, come sempre attento a cogliere tutte le implicazioni del problema sotto il profilo degli aspetti finanziari.
Le critiche sollevate dall'intervento di Paganelli hanno toccato tutti i punti di questo documento che meritano di essere toccati e, seppure brevemente, vorrei rispondere ad alcune questioni, Intanto, c'é stato un errore nella previsione dei mutui contraibili; questi ammontano effettivamente ad 86 miliardi. Ad una cifra diversa si era pervenuti perché si erano sommati nella colonna finale anche i mutui contratti negli anni precedenti, erroneamente conteggiandoli due volte. E' opportuno valutare - come Paganelli suggerisce - una previsione di tassi più adeguata ai tassi di mercato; accanto all'ipotesi del 13% per trent'anni che c'era nel vecchio documento, abbiamo introdotto una seconda ipotesi del 15% per 15 anni, ritenendo la prima ottima e la seconda forse un po' pessimistica.
Credo invece di non poter concordare con le critiche fatte dai Consiglieri Paganelli e Castagnone Vaccarino circa le previsioni dell'entrata per quanto riguarda il fondo globale ex articolo 8. Noi abbiamo previsto che questo fondo si incrementi del 20% all'anno tra il '77 e l'80, Teniamo conto che nel '77 l'incremento è stato dell'ordine del 39%.
Abbiamo previsto questo possibile aumento tenendo conto dei dati rilevati da uno studio condotto dall'Istituto di ricerche della Toscana e fatto proprio dalle Regioni; questa ricerca ha calcolato il trend possibile del fondo ex art. 8 fino all'80 valutando un incremento del 35,7% nel '77 (ed è stato del 39% ), del 19,6 nel '78, del 19,6 nel '79, del 18,8 nell'80 partendo da una ipotesi di dimensioni globali del fondo '77 inferiore a quello che realmente si è registrato: 1041 miliardi anziché 1069. La Regione Toscana per il suo bilancio pluriennale ha calcolato come ipotesi di crescita del fondo ex art. 8 il tasso medio annuo del 20%, la Lombardia ha calcolato un incremento del 19,2%, le Marche e l'Umbria hanno calcolato dei tassi molto inferiori ma mi paiono previsioni molto meno attendibili.
Potremo anche sbagliarci. Teniamo conto però dell'ulteriore incremento dell'entrata che si è registrato nel '77 perché, al di là del fatto che il fondo del '77 è aumentato notevolmente per l'incremento delle entrate tributarie, a seguito della variazione di bilancio intervenuta a metà anno le entrate tributarie dello Stato sono aumentate ancora, passando dalla previsione iniziale di 32 mila miliardi a una previsione finale di 37.987 mila miliardi. Sono aumentate quindi di 5.242 miliardi, come previsione di aumento di entrate, più 615 miliardi come ritocco. Questo vuol dire che per il fondo regionale si parte da un plafond più alto; il che può anche consentire il mantenimento dei valori previsti su base pluriennale, anche in presenza di un tasso medio di incremento leggermente più basso compensato da una base di partenza più alta.
Rispetto alle altre Regioni, l'incremento del fondo ex art. 9 per i Piani regionali di sviluppo nel nostro schema di bilancio pluriennale è stato stimato in misura più ridotta: per il Piemonte aumenta a un tasso medio del 10,3% per anno, per la Lombardia del 17% e per la Toscana del 15,8%.
Per il fondo ospedaliero abbiamo riportato le cifre che corrispondono ai fabbisogni calcolati in sede Cipe e quindi scontando l'aumento per i prossimi anni. A dire il vero, dal '77 in poi l'aumento non è giuridicamente fissato da un provvedimento di legge, però il Governo ha presentato un disegno di legge con il quale adegua il fondo per gli anni '75 e '76 in base alle indicazioni date dal Cipe, il che lascia presumere che per prossimi anni queste indicazioni saranno seguite e quindi le previsioni che saranno contenute nella nota del Ministero della Sanità saranno rispettate. Ci paiono quindi attendibili le previsioni contenute nello schema di bilancio.
Un'altra critica che invece ci pare abbia colto nel segno riguarda le spese per il personale. In effetti non ha molto senso calibrare le ipotesi di crescita delle spese per il personale su quello che può essere il tasso medio di aumento dei prezzi (8%, che abbiamo ricavato dalla lettera di intenti), anche perché i fattori che determinano le spese per il personale sono difficilmente controllabili dall'operatore Regione: dipendono, per esempio, dai contratti collettivi di lavoro e dalle attribuzioni di personale fatte anche in attuazione della legge 382; quindi abbiamo un quadro che, in realtà, non si presta a previsioni troppo certe. In sede di bilancio del '78 vedremo di definire meglio questa parte della spesa.
Il Consigliere Bellomo chiede di indicare delle priorità per il bilancio '77. Le priorità sono state indicate e le indicheremo anche nella deliberazione che viene sottoposta al Consiglio. Per quanto riguarda le previsioni sul bilancio '77 non vi è dubbio che occorrerà mettere mano ad una azione di riduzione rispetto alle previsioni del Piano.
Abbiamo detto che in questa sede non sarebbe stato realistico né utile procedere a tagli rispetto alle ipotesi contenute nei progetti e nei programmi perché il punto di riferimento di questi ultimi non era un bilancio pluriennale, ma uno schema suscettibile di variazioni. A questo punto l'esercitazione sarebbe stata poco più che accademica. Questo non esclude che i tagli debbano essere operati in sede di elaborazione del bilancio pluriennale, del bilancio preventivo per il 1978. La Giunta ha iniziato anche una prima verifica degli impegni che possono essere finanziati sul bilancio '77, ispirandosi a due criteri fondamentali: fare slittare al '78 tutte le iniziative contenute nei progetti e nei programmi che tecnicamente non possono avere corso nel '77 e quindi ricondurre le previsioni programmatiche a ciò che realisticamente è fattibile.
Questo significa ricondurre gli interventi di Piano che prevedono un arco di tempo di 4/5 anni ad un arco temporale che va al di là dell'80 destinare con priorità gli interventi regionali ad integrazione dei fondi statali per le calamità atmosferiche, concentrando l'intervento in opere pubbliche, non con il rifinanziamento della legge 28, ma con interventi integrativi rispetto al Fondo nazionale che copre, come i Consiglieri sanno, circa il 50% delle spese necessarie; semmai intervenendo ad integrare i fondi già concessi agli Enti locali sui quali questi ultimi non potranno accendere mutui con la Cassa depositi e prestiti per l'entrata in vigore del decreto Stammati.
Questo significa, in pratica, rinunciare, per il '77 almeno, a interventi tradizionali nell'ambito della legge 28, salvo gli interventi per le opere di edilizia ospedaliera collegate ai dipartimenti di emergenza, che invece devono essere finanziati.
Non vorrei soffermarmi molto sui contenuti analitici del Piano di sviluppo, anche se ci sarebbero molte cose da dire circa le indicazioni pervenute per l'agricoltura e per la formazione professionale. Il Consigliere Rossi propone una conferenza del credito e mi pare valga la pena di accogliere la proposta, in relazione alle implicazioni finanziarie dell'attuazione del Piano di sviluppo. Il Consigliere Petrini sollecita l'avvio dei piani comprensoriali. Credo sia giusto avviare tutti i piani comprensoriali, ma intanto non frenare quei Comprensori che sono già in grado di attivare i loro strumenti di programmazione.
Questo è il documento di Piano che presentiamo al giudizio e al voto del Consiglio regionale. Si potranno fare più utili discussioni di merito quando verranno all'esame del Consiglio gli altri documenti e le leggi di finanziamento. I discorsi sull'agricoltura, per esempio, non hanno fatto emergere indicazioni alternative, ma una serie di proposte aggiuntive, di stimoli e di sollecitazioni. Quella compiuta dal Piano non è una "non scelta": quando si parla di concentrare le risorse e gli impegni verso l'irrigazione, la zootecnia, le coltivazioni pregiate, la forestazione e lo sviluppo dell'assistenza tecnica, si danno indicazioni prioritarie molto precise. Ci potranno essere degli interventi ulteriori e i Consiglieri Gastaldi, Borando, Lombardi hanno fornito una serie di indicazioni interessanti. E' però difficile chiedere alla Regione di dare priorità ad uno solo tra questi interventi, perché in realtà sono tutti prioritari. E' semmai all'interno dei diversi interventi che occorrerà scegliere quelle che si possono chiamare le "priorità delle priorità" (come nel settore dell'irrigazione, in cui è chiaro che bisognerà fare delle scelte prioritarie, coinvolgendo anche le responsabilità finanziarie del Governo).
Il Consigliere Lombardi lamentava la mancanza di un programma specifico dei servizi civili dell'agricoltura. Posso rispondere che gli interventi per l'elettrificazione e per i servizi civili sono contenuti negli "altri interventi" finanziati in bilancio a parte, fuori dai programmi e progetti concorda peraltro sull'opportunità di riportare in appositi programmi e progetti anche queste spese, e, più in generale, le spese tradizionali che la Regione compie nel quadro degli "altri interventi". Per quanto si riferisce alla formazione professionale, possono essere fatte molte critiche. Consideriamo però il punto da cui siamo partiti: caos inefficienza, inadeguatezza tradizionale del settore rispetto ai bisogni di una società industriale avanzata. Una certa opera di selezione e di indicazione di priorità, su basi culturali e scientifiche nuove, è stata fatta, come gli interventi per la qualificazione degli insegnanti, per la selezione dei corsi, per l'aggiornamento delle qualifiche. L'opera non è facile. Non si possono minimizzare le nuove iniziative avviate dalla Giunta, come il centro per il settore tessile, il centro di Orbassano, il centro per l'automazione industriale istituto presso il BIT. E' difficile innovare settori che si sono ampiamente ramificati in passato, creando situazioni che si sono sedimentate in modo tradizionale. Invito il Consiglio a rilevare la grande importanza che - in questo contesto assumono i primi interventi innovativi.
Al Consigliere Oberto faccio osservare che è in fase di elaborazione lo studio per l'assetto idrogeologico della Valle di Susa. Dal dibattito e emersa una serie di richieste puntuali, per rispondere alle quali occorrerebbe forse una settimana; ma avremo modo di confrontarci di volta in volta, perché ora comincia la fase di attuazione, con la presentazione dei progetti di legge, la discussione dei documenti finanziari, ecc.
L'approvazione del Piano rappresenta il punto di svolta, l'inizio di un processo che dovrà comportare innovazioni e nuovi equilibri, anche faticosi, nel nostro modo di lavorare.
A conclusione di questo lungo lavoro che ci ha impegnati per due anni vorrei rivolgere un ringraziamento prima di tutto ai colleghi della Giunta ai Consiglieri, e in particolare ai membri della I Commissione, a cominciare dal suo Presidente; tra tutti, questi sono stati i più impegnati nell'elaborazione del Piano che deve molto al loro apporto prezioso. Vorrei anche ringraziare il personale della Regione che in questa circostanza ha lavorato non solo bene, ma anche in modo nuovo, anche con un intenso lavoro di gruppo, specie per la stesura dei progetti e dello schema di bilancio pluriennale; ringrazio i consulenti della Regione, a cominciare dal dr.
Mossetto che ha coordinato i lavori della Commissione tecnica, il cui apporto è stato rilevante non solo qualitativamente, ma anche quantitativamente per il numero di ore di lavoro impegnate. Ringrazio i Gruppi e le forze politiche che hanno avuto nella vicenda del Piano un ruolo importante, anche se diverso e, per certi aspetti, anche contradditorio. Abbiamo avuto delle critiche radicali e documentate da parte del Consigliere Carazzoni, critiche forse ancora più aspre da parte del Consigliere Marchini che ha ispirato il suo intervento ad una posizione che, se non temessi di offenderlo, chiamerei "malagodiana" e che forse non meritavamo fino al punto in cui è stata espressa.
Abbiamo avuto un contributo positivo ed importante dai Consiglieri di maggioranza, a cominciare dal Presidente della I Commissione, a cui si deve una relazione introduttiva così ampia e dettagliata che ha consentito alla Giunta, in sede di replica, di rinunciare a dire molte cose, per evitare inutili ripetizioni.
Il Consigliere Bontempi, nel suo intervento di ieri, ha colto le grandi implicazioni di carattere culturale, e non solo legate ad una scelta momentanea, contenute nell'avvio della politica di programmazione ringrazio anche i Consiglieri Rossi, Ferrero, Besate, Bono, Bellomo. Dai Gruppi socialdemocratico e repubblicano e venuto un positivo contributo da parte dei Consiglieri Cardinali, Benzi, Gastaldi e Castagnone Vaccarino, il cui apporto ha pesato sul risultato finale, proprio perché da questa parte politica sono arrivate critiche severe, ma non aprioristiche e non astratte, che hanno consentito senza confusione di ruoli di recepire una serie di indicazioni puntuali.
Diverso il peso e il ruolo del Gruppo della D.C. Voglio dire queste cose sgombrando il campo da un equivoco, che sarebbe quello di pensare che io mi possa rammaricare per la dichiarazione di voto contrario che la D.C.
ha anticipato prima ancora della fase finale del dibattito. Non credo di poter essere scambiato per un "unitario" a tutti i costi: ho ribadito altre volte e ribadisco ancora oggi che sul problema delle maggioranze che reggono le Regioni e gli Enti locali, io ed il mio partito non condividiamo le posizioni del Partito comunista. Ho ribadito l'altra volta e ribadisco oggi il valore del dissenso. Concordo con la rigida indicazione del Consigliere Alberton sul ruolo distinto che ogni forza politica deve avere sul gioco dei ruoli, sul fatto che ognuno deve essere se stesso. Concordo anche sulla necessità che non ci debba essere una trasposizione automatica in periferia delle intese intervenute a livello nazionale fra i 6 partiti dell'arco costituzionale, ma, vivaddio, non ci può essere neppure la trasposizione meccanica in senso opposto, non possiamo neppure dimostrare a tutti i costi che non siamo d'accordo anche quando potremmo esserlo. Va bene rifiutare l'accordo automatico, ma è assurdo inventare il disaccordo automatico.
Credo di avere ascoltato e di avere anche apprezzato, con l'attenzione dovuta, il Gruppo democristiano, per il grande apporto che ha dato. Mi ha stupito la conferenza stampa con la quale è stato annunciato - prima del dibattito, ma dopo mesi di discussione e di confronto in Commissione e in aula - che comunque la D.C. aveva deciso di dare voto contrario. Questa posizione preconcetta, senz'altro legittima, è stata per me sorprendente perché non corrisponde al rapporto reale che si era stabilito tra i Gruppi e tra le forze politiche in Commissione; infatti ha avuto difficoltà ad essere tradotta nel dibattito consiliare, con l'eccezione di Alberton, che ha svolto un intervento ispirato ad una lucida determinazione e ad un rigore intellettuale che gli riconosco, ma che è stato "fuori fuoco" rispetto alla realtà del dibattito e allo stato di maturazione dei rapporti tra i Gruppi.
Tutte le forze politiche auspicano un rinnovamento della D.C., ma non è detto che questo rinnovamento debba necessariamente assumere i colori cupi dell'armatura dei cavalieri Teutonici, perché, come ci insegna chi conosce la storia del cinema, nonostante le loro armature pesanti, essi sono poi caduti nel lago gelato, battuti dai contadini di Alexander Nevskij. Tutti gli interventi che sono venuti da parte del Gruppo democristiano sono stati ispirati alla logica del confronto seguita in Commissione, che ha comportato critiche anche severe, ma contributi e stimoli che sono stati raccolti nell'indicazione finale; non solo l'intervento del Consigliere Paganelli, per il quale dobbiamo prendere atto ancora una volta della puntualità dei rilievi, ma gli interventi della dott. Soldano, di Oberto Lombardi, Petrini, Martini, Beltrami, Borando, sono stati tutti centrati su quella logica del confronto che può anche essere, forse deve essere, di opposizione, ma che non è aprioristica e preconcetta. Queste sono impressioni che abbiamo ricavato dal dibattito e le offriamo alla meditazione delle forze politiche. Mi sono lasciato andare più di quanto non mi fossi ripromesso nell'analisi dell'atteggiamento della D.C. perch mi pareva che su altri aspetti poco rimanesse da aggiungere a quanto ieri aveva detto il Consigliere Bontempi.
Certo è che l'accordo a livello nazionale consente, al di là dei ruoli un confronto più aperto, meno legato a pregiudiziali di tipo ideologico più sereno, più articolato, più ampio e credo che anche l'avvio della programmazione possa aiutare ad andare nella stessa direzione. Si tratta di una programmazione senza miti, di cui noi per primi siamo privi, alla quale non attribuiamo valore taumaturgico, alla quale non riconosciamo il valore sacrale di testi intoccabili - e lo abbiamo dimostrato -, alla quale non attribuiamo la capacità di regolare e disciplinare minutamente la vita di una società articolata e ricca come la società piemontese, ma alla quale riconosciamo la capacità di aumentare le nostre conoscenze e le nostre consapevolezze, di arricchire il patrimonio di ciò che sappiamo e di consentirci così di confrontare le nostre posizioni ideali, i nostri programmi, ad un livello sempre più alto, perché è un livello più consapevole, più informato, più razionale.



PRESIDENTE

Signori Consiglieri, si è conclusa la fase della discussione generale e delle repliche. Possiamo quindi passare all'esame del progetto di deliberazione e alle dichiarazioni di voto conseguenti. La parola al Consigliere Paganelli.



PAGANELLI Ettore

Il progetto di deliberazione non è ancora stato distribuito, ragion per cui ci vorrà il tempo necessario per poter esaminare anche il progetto di deliberazione. Chiedo pertanto un quarto d'ora di sospensione.



PRESIDENTE

La parola alla dottoressa Castagnone Vaccarino.



CASTAGNONE VACCARINO Aurelia

Dato che c'è da esaminare non solo lo schema di deliberazione ma anche lo schema dell'accordo con gli imprenditori, come c'é stato detto dall'Assessore, mi sembra che un quarto d'ora per leggere, valutare ciò che contiene e fare le dichiarazioni di voto sia insufficiente. Propongo di aggiornare la seduta al pomeriggio.



PRESIDENTE

D'accordo, allora sospendiamo la seduta. I lavori riprendono oggi pomeriggio alle ore 15 in punto.



(La seduta ha termine alle ore 12,30)



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