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Dettaglio seduta n.133 del 26/07/77 - Legislatura n. II - Sedute dal 16 giugno 1975 al 8 giugno 1980

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Argomento:


PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SANLORENZO


Argomento: Piani pluriennali

Prosecuzione dibattito sul Piano regionale di sviluppo 1977-1980


PRESIDENTE

La seduta è aperta.
Proseguiamo il dibattito sul Piano regionale di sviluppo 1977-1980. Il primo Consigliere iscritto a parlare è l'avv. Marchini. Ne ha facoltà.



MARCHINI Sergio

Signor Presidente, colleghi, la relazione introduttiva al Piano di sviluppo rispetto alla prima versione del Piano '76-80 ed alle successive rielaborazioni presenta ovviamente alcuni miglioramenti che non sono considerati sostanziali. E' significativo a questo riguardo l'approfondimento fatto sull'andamento della popolazione e, soprattutto sui flussi quantitativi e qualitativi della domanda e dell'offerta di forza lavoro, determinanti in condizioni di stazionarietà dei livelli occupazionali, dell'attuale struttura produttiva esistente all'interno della Regione. Risulta così da questo approfondimento (frutto peraltro non di studi degli uffici o dell'IRES, ma di un contributo esterno) come anche solo per le necessità determinate dal turnover si creerà una carenza di offerta di lavoro di operai e manovali che al 1980 raggiungerà le 50.000 unità, mentre l'eccedenza di offerta rispetto alla domanda di diplomati e laureati si aggirerà sulle 37.500 unità. Mentre gli ultimi andranno ad ingrossare la fila dell'esercito dei disoccupati intellettuali, per coprire la necessità di operai e manovali si potrà contare solo in misura limitata sul recupero degli attuali disoccupati e si dovranno quindi riaprire flussi immigratori di personale generico dalle altre regioni italiane ed in particolare dal Mezzogiorno. Questo senza considerare ipotetiche necessità di manodopera aggiuntiva determinata da tassi di sviluppo più rapidi che evidentemente dobbiamo pensare che si possano verificare.
A questo primo squilibrio tra disoccupazione intellettuale da un lato e necessità di immigrazione dall'altro, se ne aggiungerebbe un secondo, dato dall'ulteriore aumento del peso dell'area metropolitana torinese, sia in termini di popolazione che di occupazione, in funzione sia della struttura produttiva e del conseguente indirizzo dei flussi migratori sia dello stato della popolazione, relativamente più giovane di Torino, con le prevedibili implicazioni sul movimento naturale.
A questi problemi la cui soluzione è indispensabile per la ripresa dello sviluppo e per affrontare in termini corretti il riequilibrio della Regione si deve aggiungere l'esigenza, non immediata ma nemmeno troppo lontana, di immettere forze giovanili nel settore agricolo. Pur se nella relazione introduttiva si sottolinea il ruolo che il settore agricolo pu assumere in termini di riequilibrio, oltre che di crescita economica della regione, non si tenta poi nel progetto che abbiamo qui davanti agli occhi una quantificazione di medio e lungo periodo sulle forze lavoro da immettere in agricoltura, tenuto conto che circa i due terzi degli attuali addetti superano i 45 anni di età. Inoltre, si sottostimano le negative conseguenze che sul settore potrebbe avere, in termini di addetti giovani una politica di rilocalizzazione industriale verso alcune aree periferiche della regione. Siamo quindi di fronte a problemi notevoli: questi soli, pur non essendo gli unici, basterebbero ad impegnare l'azione dell'Amministrazione regionale nei prossimi anni.
E' quindi indispensabile che le necessarie azioni programmatiche affrontino con un approfondito livello di conoscenza i grandi temi della politica economica nazionale e regionale ed i nodi che ostacolano un regolare sviluppo economico: questo in base al sempre valido principio einaudiano del conoscere per deliberare.
Purtroppo è proprio questo il campo in cui la realizzazione lascia a desiderare e mette in evidenza le maggiori carenze oltre a deprecabili distorsioni culturali nell'affrontare i grandi temi economici. Se un'analisi del quadro generale è necessaria, in questo caso si è per voluto affrontare tutto lo scibile economico con il risultato di un approfondimento superficiale dei problemi, misto ad una loro trattazione in chiave ideologica e poco realistica.
Si veda a questo proposito come si tratta il problema del decentramento della produzione verso piccole e medie industrie che viene considerato come responsabile della mancata ristrutturazione e del mancato rinnovamento dell'apparato industriale e come responsabile dell'irrigidimento della mobilità dei fattori produttivi. A parte il fatto che la rigidità in cui sono state attanagliate le grandi imprese è di ben altra natura, in alcuni casi queste hanno cercato di recuperare un minimo di elasticità con il decentramento verso le piccole imprese. Il fenomeno non va ovviamente liquidato con tanta leggerezza. Esso è infatti sovente determinato anche da esigenze di ordine produttivo ed in particolare di specializzazione produttiva. In ogni caso questo fenomeno non va considerato come del tutto negativo, in quanto rappresenta pur sempre l'inizio e l'espandersi di fenomeni di imprenditorialità.
Esistono ancora due concetti che vanno messi in rilievo in quanto erronei: quello secondo il quale l'Italia presenta quote di risparmio netto simili a quelle degli altri paesi e quello secondo il quale il livello della finanza pubblica non è troppo elevato rispetto a quello degli altri paesi. Mi soffermo sul secondo aspetto del problema, sul quale peraltro già alcuni colleghi del Gruppo democristiano hanno fermato la loro attenzione.
Per quanto riguarda l'entità della spesa pubblica occorre rilevare come essa sia salita rispetto al prodotto lordo interno dal 34% del 1954 al 48 del 1976, percentuale superiore, e di molto, a quella degli altri paesi, o almeno dei paesi con economie più sane della nostra. Ed il disavanzo non può più essere imputato solamente alla scarsa pressione fiscale; questa ha raggiunto nel 1976 il 33% del prodotto lordo, si appresta a raggiungere per questo anno una quota vicina al 36-37% dei paesi europei a più elevata pressione fiscale, ma con redditi pro capite superiori. Questo significa che il problema dell'evasione fiscale è un problema di diritto penale, non è più un problema che interessi l'economia, la finanza e il diritto finanziario. Si potrà discutere sulla cattiva distribuzione dei tributi, ma ci si dovrà in futuro rendere conto che ulteriori inasprimenti della pressione fiscale non sono possibili. Si potranno forse accrescere alcuni tributi ed eliminare sacche di evasione, ma questo dovrà andare a beneficio e ad alleggerimenti fiscali in direzioni opposte.
Se si vuole quindi ridurre il disavanzo del settore pubblico, l'azione di contenimento deve quindi operare anche dal lato della spesa. Ed in questo campo la nostra opinione contrasta in maniera assoluta con quella della Giunta e del documento presentato. Si afferma infatti nel documento che: "Se è auspicabile una politica che elimini le tendenze assistenzialiste, non si tratta però di ripristinare obsolete teorie neoliberali che non hanno più alcuno spazio nel paese; si tratta al contrario di puntare ad un ulteriore sviluppo dell'intervento pubblico nell'area dei servizi...". A parte alcune certezze fideistiche sull'evoluzione futura della vita politica italiana (che proprio l'estensore del documento non è in grado di fare per motivi di ordine personale) che han portato a confondere il liberalismo con il liberismo riteniamo che oltre al contrasto delle tendenze su uno Stato assistenziale contrasto che vorremmo vedere non solo a parole ma anche nei fatti, si debba puntare proprio in senso opposto a quello indicato. Occorre cioè un minore intervento dello Stato nell'economia, ma anche nell'area dei servizi pubblici.
A nostro avviso, molte attività ritenute di carattere pubblico ed ora svolte dall'operatore pubblico, potrebbero benissimo essere affidate ai privati ed in ogni caso, quand'anche si ritenesse necessario il carattere pubblicistico, dovrebbe essere garantita l'economicità della gestione con tariffe pari ai costi di produzione. La realtà è che tutti sono capaci a gridare contro l'assistenzialismo ma nessuno traduce poi in pratica queste lagnanze. Quando si chiede un ulteriore sviluppo dell'intervento pubblico nell'area dei servizi, con il presupposto che questi saranno forniti a tutti e gratuitamente, non si finisce forse anche qui per fare dell'assistenzialismo? Certamente più razionale dell'elemosina che confluisce nelle tasche dei cittadini attraverso mille rivoli, siamo per sempre nel campo dell'assistenzialismo o, se vogliamo, nella concezione dello Stato assistenziale da noi combattuto.
E' la teoria dello stato sociale che si occupa di tutto ed a tutto provvede, certamente è sicuro per i cittadini ma anche molto statico ed alla lunga porta ad inconvenienti che tutti abbiamo sotto gli occhi non solo nel nostro paese, ma anche in altri (Gran Bretagna, Danimarca) che pure l'hanno attivato con grande serietà e razionalità. A questa concezione sarebbe peraltro assurdo, né intendiamo farlo, contrapporre la teoria del "laisser faire". Ma è anche assurdo considerare solo i due poli opposti, la realtà economica non è congelata in questi due tipi di situazione e non esiste la concezione a cui noi siamo vicini, dello Stato cosiddetto "promotore". In base ad essa il ruolo dello Stato o dell'Ente pubblico in genere è quello di promuovere attraverso un intervento iniziale l'afflusso di energie umane e di risorse finanziarie verso determinati programmi o verso settori di attività. In questo modo l'Ente pubblico assume un ruolo importante nella fase decisionale della politica economica, lasciando quella operativa e gestionale all'iniziativa dei privati; il tutto con esborsi dell'operatore pubblico ridotti al minimo.
A questo punto è opportuno introdurre il discorso sul Piemonte e sul suo futuro, sugli indirizzi programmatici da perseguire, a nostro avviso ad opera della Regione. Si punta nella "relazione socio-economica" della Giunta ad uno sviluppo delle produzioni più qualificate che si rendono necessarie per lo sviluppo dell'intero paese e si rifiuta l'ipotesi di blocco del Piemonte per favorire il Mezzogiorno e l'ipotesi di Piemonte area forte del sud Europa, linea di politica economica, si dice, che porterebbe al prevalere delle produzioni attualmente esistenti ed aggraverebbe ulteriormente gli squilibri esistenti, sempre secondo gli estensori del documento questa linea non ha in passato inciso in modo particolare sulla dinamica produttiva della Regione.
In pratica si rifiuta una politica di maggiore internazionalizzazione che integri ulteriormente il Piemonte con le aree più evolute del Nord Europa, a favore di una soluzione orientata prevalentemente verso collegamenti con il resto del paese ed in particolare con le parti più povere del paese. Ora è evidente che tutti noi siamo coscienti dell'esigenza di una profonda politica a favore del Mezzogiorno (che non dipende però in buona parte da nostre decisioni, ma da decisioni nazionali o prese in sede di regioni meridionali), della necessità di trasferire al sud risorse sempre maggiori per favorirne il decollo, e per favorire una più giusta distribuzione delle risorse. Si tratta però di stabilire una volta per tutte se questo processo deve avvenire avvicinando il Mezzogiorno al nord Italia ed al resto dell'Europa, come noi pensiamo sia necessario, o piuttosto non debba avvenire avvicinando il nord Europa al Mezzogiorno ed ai paesi del terzo mondo meno progrediti. L'auspicare un sempre maggiore inserimento nell'Europa da parte del Piemonte non basta, si deve anche specificare come questo debba avvenire. Certamente nella visione statica e con le politiche semplicemente razionalizzatrici della Giunta il maggiore collegamento con gli altri paesi europei porterebbe ad un privilegio delle attuali produzioni, l'Italia diverrebbe così il polo automobilistico ed il polo tessile dell'Europa continuando il modello di sviluppo degli anni passati. Modello che, occorre rilevare, è stato perseguito fino a pochi mesi orsono da alcuni gruppi industriali ed appoggiato anche dai rappresentanti politici locali.
Nella nostra visione, invece, l'europeizzazione della regione dovrebbe significare un mutamento dei meccanismi di sviluppo che hanno caratterizzato questo dopoguerra, il passaggio da una situazione statica fondata sull'andamento di pochi complessi industriali, ad una dinamica, in cui l'iniziativa imprenditoriale venga sempre più in contatto con la realtà esterna, da una economia orientata quasi esclusivamente verso l'industria ad una economia rivolta in misura maggiore alla crescita del terziario superiore, dell'intermediazione e dell'attività di ricerca e sviluppo, da una regione culturalmente chiusa ad una regione aperta.
E' evidente che in quest'ottica occorre compiere un notevole salto di qualità e non considerare la politica economico-sociale della Regione come rapporto a volte collaborativo, a volte contrastante con i grandi gruppi economici, soprattutto non esaurire le azioni programmatiche alla reazione di qualche area industriale, alla rilocalizzazione di alcune industrie alla razionalizzazione dei trasporti con l'acquisto di alcuni autobus e la costruzione di qualche muretto nella città di Torino.
Soprattutto si dovrà smettere di considerare la realizzazione di alcune opere infrastrutturali come alternativa allo sviluppo sociale. Una maggiore internazionalizzazione della nostra economia richiede infatti come presupposto massimi investimenti a rendimento differito in infrastrutture ferroviarie, viarie, aeroportuali che permettano di rimuovere l'attuale naturale isolamento. Solo così sarà possibile una crescita di settori terziari di ordine superiore, di attività di ricerca, la cui presenza non sarebbe fine a se stessa, ma favorirebbe la crescita di altre attività commerciali, industriali ed agricole alternative alle attuali.
Questa politica richiederebbe naturalmente il passaggio da una situazione statica dei fattori produttivi ad una mobilità accentuata richiederebbe un adeguamento dei piani urbanistici, in molti casi un cambio di mentalità da parte degli imprenditori. Non bisogna però dimenticare che nel settore privato esistono i presupposti per mutamenti rapidi per lo sviluppo di attività alternative e nell'industria per una differenziazione produttiva verso settori tecnologici più avanzati. Lo sviluppo di attività di ordine superiore è reso necessario non solo dall'esigenza di ridare slancio alla nostra economia, ma anche dall'andamento che andrà via via assumendo l'offerta della forza lavoro. La carenza di offerta di 50.000 persone per posti di lavoro che non richiedono un titolo di studio, e la contemporanea eccedenza di 37.500 persone nell'offerta di lavoro da parte di diplomati e laureati, sono il risultato di una tendenza inarrestabile verso una maggiore scolarizzazione , checché ne dica l'amico Ferrero il quale ieri sembrava celebrare con piacere la diminuzione delle iscrizioni alle scuole di ordine tecnico-professionale. Mi pare questo un fenomeno deprecabile del quale non ci si dovrebbe compiacere; il Consigliere Ferrero ha praticamente sollevato il problema ed ha sostenuto che questa è una di quelle variabili che non sono rigide, ma possono variare con il mutamento culturale della realtà e della società. Questo è un tipo di problema che non dobbiamo semplicemente registrare ma, se pensiamo di governare dobbiamo anche cercare di far sì che questo tipo di tendenza si inverta nuovamente.
Noto che, soprattutto quando parlano i nostri colleghi che hanno più capacità di noi a rappresentarsi in termini scientifici o usando un loro glossario, finisce che noi, poveri amministratori della cosa pubblica in senso tradizionale - forse Bianchi è d'accordo con me -, finiamo per non capire più se si valuta in termini positivi la tendenza ad una minore scolarizzazione oppure si depreca questo fenomeno, la stessa cosa si pu dire di questo piano perché non si riesce a capire che tipo di società voglia realizzare. E' vero comunque che la tendenza verso una maggiore scolarizzazione va in parte contrastata rivalutando il lavoro manuale eliminando il valore legale del titolo di studio come proposto dai liberali; la tendenza verso una maggiore scolarizzazione è però tipica di tutti i paesi sviluppati, così come è tipica la tendenza verso la terziarizzazione delle economie in via di sviluppo. Si tratta solo di stabilire se la nostra Regione vorrà inserirsi in questa tendenza, peraltro adeguando anche la domanda di lavoro alla potenziale offerta, oppure se vorrà divenire una succursale industriale di altre zone più dinamiche, che sarebbe in pratica un ruolo da terzo mondo avanzato con un settore pubblico sempre più gonfiato da assunzioni assistenziali di laureati e diplomati.
Molte di queste cose sono presenti nel documento che ci è stato presentato. Si auspica infatti una crescita del terziario superiore, una mobilità dei fattori produttivi. Peccato che le proposte politiche di questi ultimi tempi vanno tutte in senso contrario, con una politica dei trasporti tesa ad acquistare autobus ed a contrastare con le grandi opere infrastrutturali, con una politica urbanistica tesa a razionalizzare l'esistente ed a sfavorire nuovi insediamenti terziari, con una politica del lavoro tesa a recuperare le occasioni di impiego in settori poco qualificati, con una politica fieristica che espelle le iniziative internazionali a favore della fiera del dolcetto di Ovada e di mostre floricole.
La realtà dei fatti dimostra che non si possono fare passare semplici politiche di razionalizzazione per grandi disegni strategici, ma che soprattutto occorre avere una visione chiara di dove si vuole arrivare, non basta negare tutto e non proporre nulla o quasi.
Passando ad un esame più dettagliato del documento presentato notiamo come nella relazione introduttiva siano due i mutamenti sostanziali: quello già ricordato da altri sulla prevedibile dinamica della popolazione e dell'occupazione, quello relativo ad una analisi territoriale più composita che porta a vedere il Piemonte non più suddiviso bipolarmente (tra Torino ed il resto della Regione), ma a considerare una realtà più composita che varia da area ad area, quasi da Comprensorio a Comprensorio. Sotto questo aspetto l'approfondimento rappresenta un positivo passo in avanti rispetto alla precedente proposta di piano e rispetto ai modelli econometrici ed alle analisi territoriali precedentemente sviluppate dall'IRES.
Detto questo, occorre però rilevare come questi mutamenti nell'analisi non siano stati recepiti a livello di azioni programmatiche. Programmi e progetti sono sostanzialmente una rielaborazione formale di quanto era contenuto nella precedente proposta di piano. Ma questo non è il solo segno di un evidente scollamento e delle contraddizioni esistenti tra le varie parti del documento che ci è stato presentato.
Tutto il discorso sull'andamento dell'occupazione, sulla prevedibile carenza di manodopera e sull'eccedenza di lavoro titolato sembra quasi essere inserito per caso, quasi con rammarico da parte degli estensori: non esistono infatti lezioni volte a contenere e contrastare questo squilibrio al massimo esistono alcune indicazioni generiche del programma relative alla formazione professionale. Si tralascia di considerare quali sono anche solo a livello di indicazioni, nel lungo periodo le azioni programmatiche necessarie a riequilibrare la domanda e l'offerta di lavoro.
Si tralascia di ammettere la continuazione del medio periodo di un flusso migratorio verso la regione e di quantificarne i costi in termini di infrastrutture sociali e civili programmandone la localizzazione. Basti pensare che, a questo riguardo, per le abitazioni si fa ancora riferimento alla vecchia stima dell'IRES, ormai obsoleta e senza alcun valore. Infine dopo aver verificato la necessità di immettere forze giovani in agricoltura, non ci si prova nemmeno a compiere una prima e sommaria quantificazione del fenomeno, probabilmente perché questo avrebbe portato ad ingigantire la carenza di manodopera nella Regione.
Per quanto riguarda la politica territoriale dobbiamo giudicare positivamente l'articolazione delle linee fondamentali della struttura territoriale regionale secondo tre grandi componenti costituiti: a) dal Comprensorio di Torino e dalla corona di Comprensori che lo circondano b) dai Comprensori che si collocano sulla direttiva Voltri-Sempione c) dai Comprensori che si trovano rispetto ai primi due in posizione intermedia e marginale.
Allo stesso modo dobbiamo giudicare positivamente l'indicazione di un decentramento all'interno del Comprensorio di Torino, su una serie di sub poli collegati alle linee ferroviarie secondarie del Comprensorio. A livello di indirizzi programmatici riteniamo anche valida la politica fondata su una varietà di interventi riguardanti: le localizzazioni industriali, l'organizzazione di aree agricole, i trasporti, le abitazioni e i servizi.
Purtroppo questi indirizzi, pur se innovativi, ci paiono limitati ai fini dell'innesco di una politica di decentramento e di diffusione dello sviluppo economico all'interno della regione. Ancora meno adeguati all'obiettivo in questione ci sembrano poi essere i programmi ed i progetti per cui anche i pur limitati indirizzi programmatici risultano pure e semplici enunciazioni di principio.
Per quanto riguarda gli indirizzi, si tralascia di considerare le azioni programmatiche necessarie ai fini del decentramento dal porto di Genova verso l'entroterra piemontese, e non si considera minimamente la problematica relativa al potenziamento delle comunicazioni con il porto di Marsiglia; questo, oltre a favorire le potenzialità di tutta la regione favorirebbe in modo particolare gli insediamenti produttivi e tutta l'economia dei Comprensori sud del Piemonte. Inoltre: si rifiuta la costruzione di un nuovo asse di comunicazione tra Torino ed il Frejus puntando solo su un miglioramento dell'attuale linea ferroviaria, che non potrà in ogni caso essere sufficiente a smaltire le nuove linee di traffico; gli interventi delle comunicazioni all'interno della conurbazione torinese vengono visti in funzione esclusivamente razionalizzante e quindi statica, con l'obiettivo di non accrescere il grado di accessibilità verso il polo torinese: noi riteniamo invece che da massicci investimenti nell'area torinese possano derivare effetti diffusivi sull'intero territorio regionale.
Nella stessa logica razionalizzatrice viene visto il sistema aeroportuale torinese, non considerando affatto i benefici che potrebbero derivare, in termini di diffusione dello sviluppo e di differenziazione delle attività economiche, da un potenziamento delle infrastrutture aeroportuali e quindi dei collegamenti aerei.
Infine, l'analisi non approfondisce l'autonomo processo di diffusione dello sviluppo esistente all'interno della regione, dato dal fiorire soprattutto nella parte sud della regione, di nuove iniziative e dalla crescita di iniziative esistenti. E' soprattutto in funzione di questo fenomeno che gli indirizzi programmatici sono carenti; non si tratta infatti solamente di localizzare nuove iniziative o di rilocalizzarne altre, ma anche di favorire le recenti esplosioni di imprenditorialità che stanno sorgendo in aree del Piemonte fino a poco tempo fa considerate economicamente e culturalmente depresse. E' nei loro riguardi che programmi e progetti sono poco adeguati rispetto agli obiettivi che si vogliono perseguire.
Il programma pluriennale di attività e di spesa è la parte più carente di tutto il documento presentatoci. Nonostante la suddivisione delle attività e delle spese in aree di attività e di intervento, in programmi e progetti, ci pare si sia proceduto ad una semplice rielaborazione formale della precedente proposta di piano nella parte relativa alle azioni programmatiche.
Allegato al programma viene presentato un bilancio pluriennale approssimativo con errori di calcolo che portano a dare versioni di bilancio quantitativamente diverse e con un errore nella valutazione dei mutui contraibili che porta ad una sovrastima per circa 50 miliardi. Anche questi errori, non giustificabili se si considera il tempo a disposizione per presentare gli elaborati, sono la dimostrazione dell'incapacità della Giunta a tradurre in pratica le enunciazioni di principio di due anni orsono, anche questi errori, ma non solo questi, sono la dimostrazione che il "nuovo modo di governare" è solo uno slogan valido a coprire incapacità culturali e carenze tecniche notevoli.
Il bilancio pluriennale, dedotte le spese per il funzionamento della macchina regionale, gli oneri per ammortamento mutui, le annualità di spesa sulla legislazione vigente, le spese ospedaliere, contiene programmi e progetti per 1100 miliardi; questi per la metà solamente saranno coperti da disponibilità finanziarie nel periodo 1977-80.
Se si tiene conto, inoltre, che parte dei 1100 miliardi contenuti nei programmi e nei progetti si riferiscono a provvedimenti legislativi già in atto, sugli anni futuri si può a ragione stimare che questi stanziamenti assorbiranno quasi interamente le disponibilità finanziarie, lasciando poco o nulla per nuove iniziative. Sarebbe stato utile se la ripartizione di queste spese fosse stata fatta già in sede di bilancio pluriennale e probabilmente questo avrebbe dimostrato l'inattività del voluminoso programma di attività e di spesa e avrebbe ridotto tutto il Piano di sviluppo ad un "libro bianco" e gli indirizzi programmatici ad indicazioni per l'attività della Giunta negli anni ottanta; questo almeno nella logica dell'intervento tipica di questa amministrazione.
Esaminando più a fondo il programma pluriennale di attività e di spesa dobbiamo rilevare che le ipotesi sull'andamento delle entrate sono da verificare più attentamente, soprattutto per quanto riguarda le assegnazioni del fondo comune e della quota ILOR.
Per quanto riguarda la spesa dobbiamo rilevare una potenziale sottostima delle spese per il personale regionale. I relativi incrementi di spesa, calcolati unicamente sulla base del tasso inflazionistico, non considerano eventuali ed auspicabili incrementi reali nelle retribuzioni né la necessità di far ricorso a nuove assunzioni per migliorare e potenziare il funzionamento della macchina regionale.
La stazionarietà dello stanziamento a favore dell'IRES, che naturalmente porta a decrementi in termini reali, nasconde forse la volontà di smantellare definitivamente attraverso l'asfissia finanziaria questo istituto, perlomeno è evidente la volontà di ridurre il ruolo ed il ricorso ai servigi da parte della Regione. Assurdamente bassi sono gli stanziamenti previsti per i Comprensori; i 300 milioni del 1977, che salirebbero a 345 nel 1978, sono ridicoli se si pensa che dovrebbero coprire tutte le spese di 15 Comprensori comprese quelle per il personale.
Dopo un lungo "battage" pubblicitario sul ruolo partecipativo dei nuovi organi di governo, è evidente l'intenzione delle attuali forze politiche di maggioranza, tendente ad emarginare i Comprensori ad un ruolo marginale e puramente rappresentativo. Se attraverso l'asfissia finanziaria si vuole affossare questo nuovo organo di governo si abbia almeno il coraggio di dirlo chiaramente.
Per quanto riguarda gli interventi in agricoltura dobbiamo rilevare una certa indeterminatezza nell'obiettivo di mantenere il più alto possibile il livello occupazionale ed un certo contrasto con quello dell'aumento e dell'adeguamento del reddito delle aziende agricole. Avvicinare i redditi agricoli a quelli del resto dell'economia significa ridurre ulteriormente il numero degli occupati, anche se questa riduzione dovrà essere il risultato dell'abbandono di forze anziane e dell'immissione di nuove leve giovanili. Sotto questo aspetto vanno forse intesi i due obiettivi a prima vista contrastanti. Dobbiamo però rilevare come non si sia tentata una quantificazione almeno approssimativa dei due fenomeni, e come l'immissione di forze giovanili nel settore agricolo rimanga a livello di enunciazione di principio, non potendosi ritenere adeguati all'obiettivo gli interventi previsti in sede di attuazione delle direttive CEE.
Nell'ambito dell'obiettivo volto all'aumento qualitativo e quantitativo della produzione si sovrastima lo strumento del recupero delle terre incolte o mal coltivate. Inoltre se in periodi di austerità e di scarsità delle risorse, come l'attuale, è una necessità recuperare a coltura le terre incolte, tutto il discorso del recupero delle terre mal coltivate ci lascia alquanto perplessi. Questo sia per quanto riguarda chi deve decidere quali siano le terre mal coltivate, sia per l'azione di esproprio della proprietà, che, come abbiamo già avuto modo di intravedere, potrebbe derivare in seguito all'azione di gruppi organizzati con appoggi presso la maggiore forza politica. In questa politica, a parte il diritto da parte di ognuno di coltivare ciò che ritiene migliore, noi riteniamo siano insiti i presupposti di gravi attacchi al principio della libertà del singolo cittadino.
Per la parte relativa ai programmi ed ai progetti si deve rilevare la limitatezza soprattutto per quelli relativi alla irrigazione ed alla zootecnia; per quest'ultima i contributi integrativi per piani di sviluppo aziendale con nuove strutture zootecniche corrispondenti a 10.000 capi occorre rilevare come rappresentino meno dell'1% dell'attuale patrimonio bovino della regione. Anche i programmi di rimboschimento contenuti nel programma per la forestazione rappresentano con i 5.000 ettari previsti nei 5 anni meno dell'1% della superficie boschiva piemontese.
L'agricoltura più di altri settori è forse un classico esempio della tendenza a voler far passare per grandi programmi quelli che sono unicamente gli interventi di ordinaria amministrazione.
Per quanto riguarda l'area d'intervento 2) è apprezzabile lo sfoltimento fatto rispetto alla precedente edizione di tutte le considerazioni sui singoli settori produttivi e l'abbandono della ricerca spasmodica sui settori a tecnologia avanzata ai fini della differenziazione produttiva. Imprese in grado di dare un valido contributo ai fini della qualificazione e dell'innovazione dell'apparato produttivo piemontese si trovano in quasi tutti i comparti produttivi. Si è però abbandonato qualsiasi riferimento al discorso energetico, discorso importante per una regione alta consumatrice di energia, soprattutto se si considera il deficit produttivo della regione.
Il Piano di sviluppo avrebbe dovuto essere l'occasione per indicare le scelte energetiche e l'individuazione delle aree ai fini della localizzazione di nuove centrali, specie se nucleari, indicando come si intendeva porre rimedio ai disagi posti da questi insediamenti.
Per i trasporti abbiamo già rilevato la scarsità degli obiettivi previsti, in funzione solamente razionalizzante e con il rifiuto di alcune opere che noi riteniamo importanti per lo sviluppo del Piemonte, quali il nuovo asse viario del Frejus, il potenziamento dell'aeroporto di Caselle.
Si deve inoltre respingere l'impostazione data alla politica dei trasporti volta a non accrescere il grado di accessibilità su Torino per favorire il riequilibrio territoriale. Noi riteniamo, invece, che il riequilibrio si ottenga potenziando le comunicazioni di Torino con il resto della regione, della regione con il resto del paese e con l'esterno migliorando le comunicazioni all'interno del polo torinese.
Per quanto riguarda la promozione dell'attività fieristica, già da tempo siamo in polemica con l'attività della Giunta per l'affare SAMIA e per la cattiva organizzazione di quelle che avrebbero dovuto essere le attività sostitutive (Vinincontri).
Non si tratta di riprendere vecchie polemiche, ma fin quando non si avrà una concezione più dinamica della società, anche l'attività fieristica sarà ridotta a iniziative da paese, o con molte pretese e nessun risultato (vedasi Vinincontri); a questo fine anche la costituzione della società Promark darà probabilmente scarsi risultati.
Per l'area d'intervento 3), relativa alla gestione del territorio, il nostro giudizio non varia molto rispetto ai precedenti.
Esistono alcuni validi indirizzi, quale per esempio quello relativo alla promozione degli strumenti urbanistici. Questo settore più degli altri è però una dimostrazione del contenuto del documento che lo avvicina più ad un "libro bianco" che ad un Piano di sviluppo. Quasi tutti i programmi ed i progetti si riferiscono alle leggi esistenti al massimo con rifinanziamenti, quando non dipendono da stanziamenti statali, come avviene per l'edilizia residenziale e per quella scolastica.
L'edilizia è una dimostrazione della carenza di questo piano. Alle scarse risorse giunte alla Regione con le leggi 166, 492, 865, ed alle ancora più scarse prevedibili con futuri interventi statali, non si sa che contrapporre un ipotetico e fantasioso piano Regione-ANIACAP, inattuabile e che porterebbe ad un dimezzamento dei già scarsi investimenti realizzati attualmente nel settore abitativo. Per il risanamento dei centri storici si intende intervenire con un progetto, legato alla legge 27 ed al suo rifinanziamento che, se pur valido nella operatività, mette in evidenza la pochezza dell'iniziativa rispetto alle dimensioni del problema. In realtà proprio il settore delle abitazioni è una dimostrazione dell'impossibilità a risolvere i problemi con il solo intervento pubblico, e della necessità da parte dell'Ente pubblico di farsi promotore con esborsi minimi di interventi che canalizzano risorse private. Abbiamo in questi giorni un progetto dell'Istituto S. Paolo, che si pone in quest'ottica e ci pare vada considerato positivamente.
Sempre in questa prospettiva dei massimi risultati con minimi esborsi si possono individuare soluzioni molto varie, ma sempre valide.
Detto questo, concludo anticipando il voto negativo del mio Gruppo sul documento che ci viene presentato dalla Giunta. Dico questo perché non venga interpretata in modo equivoco una mia eventuale assenza, causata soltanto dalla non ubiquità del sottoscritto.
Vorrei ancora fare una annotazione di tipo politico. In quest'aula, in parecchie riprese, si è accennato al nuovo quadro politico nazionale e alla sua influenza addirittura sul nostro Piano di sviluppo. Si è anche parlato della spaccatura nell'ambito del Partito liberale. La spaccatura c'é quando qualcosa si divide, ma quando in un partito si discute e si vota mi pare che non si faccia altro che gestire la democrazia: questa è la democrazia.
Le dimissioni dalle cariche direttive, nel nostro Paese, non sono l'autocritica. Quando un Presidente di un partito ritiene di votare contro il Segretario ha chiaramente il dovere di dimettersi da Presidente, anche perché nel nostro partito il Presidente fa parte della Segreteria politica quindi c'é incompatibilità di posizione. Non facciamo l'autocritica semplicemente ci collochiamo tra i Consiglieri. Gli onorevoli Malagodi e Bignardi adesso sono Consiglieri nazionali.
Detto questo mi pare che vada rimarcato come il documento sottoscritto dai partiti che a suo tempo concorsero a redigere la Costituzione, abbia un grosso significato politico, ma, più che politico, culturale; questi partiti hanno dimostrato di avere la capacità di fare politica superando la logica dei luoghi comuni e delle contrapposizioni, il più delle volte fini a se stessi. I limiti di quest'accordo sono sotto gli occhi di tutti. Tengo a precisare questo anche perché in una intervista stamattina il Presidente del Consiglio Sanlorenzo ha fatto delle anticipazioni che riguardano la nostra Regione. Ritengo opportuno precisare l'atteggiamento del nostro partito su questo accordo. Noi riteniamo che l'accordo tra i sei partiti abbia il significato di dare la possibilità al Governo di incidere più profondamente sui problemi delicati dell'economia e dell'ordine pubblico ma che dal punto di vista politico sia un'occasione per ricercare di creare quella solidarietà democratica essenziale alla gestione del nostro Paese in termini privilegiati (non me ne voglia Bontempi) tra i partiti della democrazia latina, di democrazia liberale e di democrazia socialista e naturalmente, con la presa d'atto che i rapporti tra opposizione e maggioranza di sinistra che verranno fuori da questa revisione, in tempi lunghi, saranno determinati e caratterizzati da un diverso stile rispetto al passato.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Petrini. Ne ha facoltà.



PETRINI Luigi

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, l'attuale confronto tra le forze politiche del Consiglio regionale non è altro in realtà che la sintesi e la conclusione di un dibattito sul Piano di sviluppo regionale che dura da parecchio tempo. D'altronde l'oggetto del confronto giustifica con la sua importanza la necessità di un'attenta analisi e di accurate verifiche. Come già ricordato da altri colleghi, la Giunta iniziò a parlare del Piano di sviluppo sin dalla sua costituzione, due anni or sono lanciando in tutt'uno con il "nuovo modo di governare" lo slogan del "Piano entro il 1975". Dopo due anni di amministrazione definiamo oggi connotati dimensioni, natura e prospettiva del documento che la Giunta ha presentato come Piano di sviluppo per il Piemonte con riferimento al 1980. Saltati tutti i tempi precedentemente fissati dalla Giunta, saltato il primitivo progetto di Piano di sviluppo, ci accingiamo oggi a valutare quello che resta di tutto il discorso programmatico, sviluppatosi nel corso di questo biennio; e non poteva essere altrimenti, dopo aver preso visione degli elaborati che la Giunta ha presentato.
Infatti, il documento che abbiamo di fronte, a mio avviso, non è un piano, ma è una serie di enunciazioni politiche e di progetti applicati ad alcuni aspetti della vita regionale. Devo però riconoscere, Assessore Simonelli, che il passo avanti compiuto con l'attuale documento rispetto alla precedente analisi della Giunta è stato comunque significativo, sia nell'articolazione dei singoli momenti settoriali, sia nella stessa valutazione di alcuni aspetti di fondo che devono fare da supporto ad un'analisi di piano. Ma assai grave è l'assenza di quantificazioni finanziarie e di programmazioni temporali, soprattutto prioritarie. Non avendo la Giunta provveduto a varare la legge sulla contabilità regionale come ricordava il collega Paganelli, manca la possibilità di verificare la parte finanziaria attraverso il bilancio pluriennale e così assistiamo ad un monte di progetti per un importo di spesa doppio rispetto alle entrate elencati senza nessuna successione cronologica.
A suo tempo si fecero appunto delle scelte, si determinò un quadro di riferimento basato su valutazioni, ricerche e studi che condussero alla fissazione di obiettivi numericamente definiti, ricavati da indicatori rapportati all'andamento occupazionale, all'incremento del reddito e della produzione. Mancava a quegli indicatori l'esatta cognizione dei valori quantitativi (ad esempio, il modello demografico cui applicarli): ecco il perché di talune ipotesi impossibili che hanno condotto all'accantonamento della proposta originaria. Di fronte a quella esperienza non restavano che due strade: o rivedere tutti i calcoli e le ipotesi, o accettare un criterio riduttivo e prospettare non più un Piano di sviluppo, ma uno schema operativo di programma pluriennale di spesa. Si è optato per questa seconda strada con un affastellamento di problemi e di indicazioni senza alcuna selezione di importanza e di priorità, nel tentativo di raccogliere tutti i contributi espressi nelle prime consultazioni e quindi di non scontentare nessuno.
Come ho già sottolineato, la Regione Piemonte finora è inadempiente all'obbligo di dotarsi di una propria legge di contabilità; obbligo che le deriva dalla legislazione statale prima di tutto, ma che logicamente è consequenziale alla formazione di un bilancio a respiro pluriennale.
Attendiamo pertanto, anche se la successione avrebbe dovuto essere inversa che la Giunta provveda ad apprestare un proprio disegno di legge sulla contabilità.
Detto questo, non ritengo di approfondire ulteriori aspetti a carattere generale, per altro importanti, come per esempio la disparità tra le risorse e gli obiettivi che si intendono proseguire e perseguire, per soffermarmi invece in maniera specifica, anche se forzatamente sintetica sul volume del documento della Giunta relativo all'assetto e alla gestione del territorio. Né mi pare che questo discendere ad analisi di settore significhi una limitazione o una riduzione di prospettive. Diciamo che il documento generale di settore nella sua consistenza sopra rilevata quasi suggerisce una disamina di questo tipo, che vede i problemi in successione piuttosto che in coerenza l'uno con l'altro e ancora, anche qui, senza alcuna priorità definita in maniera inequivoca.
L'aspetto più significativo della premessa generale al programma obiettivo di uso sociale del territorio risiede nella constatazione di fondo che il programma stesso deve indirizzarsi alla eliminazione degli squilibri territoriali esistenti in Piemonte, primo fra tutti quello dell'area torinese nei confronti delle aree periferiche. L'acquisizione di questo dato come obiettivo trasferisce ovviamente ogni proposizione metodologica e di contenuto sul lungo termine, non potendosi d'acchito ribaltare una situazione strutturale che fonda le proprie radici assai in là nel tempo. L'utilizzo del territorio, così com'é oggi in Piemonte risponde infatti ad una logica che non può trovarci consenzienti, n d'altro canto si può ritenere possibile un'inversione di indirizzo mediante l'applicazione di semplici correttivi ai meccanismi di sviluppo attualmente in atto.
Se vogliamo osservare il problema anche sotto il profilo delle tendenze che si vanno manifestando, dobbiamo ancora constatare, e tutti gli indicatori lo rilevano, che il Piemonte non va verso il riequilibrio fra Torino ed il resto della Regione, ma verso una accentuazione del peso del capoluogo. Si tratta allora, sulla base degli indirizzi definiti dal documento regionale, di arrivare alla redazione di piani territoriali di coordinamento che, in quanto tali, raccolgano e sintetizzino gli elementi del quadro socio-economico comprensoriale e producano in maniera articolata scelte di sviluppo nell'accezione più ampia, tali da rendere operativi sul territorio gli indirizzi stessi di politica regionale. La dimensione comprensoriale è da ritenersi idonea per questa operazione di riequilibrio territoriale. Ma qui il documento mostra una carenza preoccupante l'attuazione dei piani territoriali di Comprensorio comporta quanto meno l'indicazione di strutture e la precisazione di spese, che invece non trovano spazio né in questa analisi e neppure nella normativa sulle procedure della programmazione, che fa rinvio a successive disposizioni. In termini di concretezza operativa e di nostra credibilità politica, mi pare invece indispensabile prevedere subito la redazione e l'attuazione almeno di alcuni piani comprensoriali ed in particolare di quelli funzionali al disegno di riequilibrio territoriale.
Quali sono pertanto i criteri per portare avanti questo discorso? Se l'obiettivo è quello della diffusione dello sviluppo, si tratterà da un lato di impostare una politica che abbia riguardo di interventi da porsi in atto nel quadro di direttive di settori ormai acquisite e come tali definitivamente perseguite; dall'altro di analizzare e verificare la compatibilità di tali interventi con gli obiettivi generali, accettati e riconosciuti come validi da tutte le componenti interessate al processo programmatorio.
Il problema correttamente impostato verrebbe così a trasferirsi sul piano delle scelte prioritarie. La struttura socio-economica di alcune zone del Piemonte le rende a mio avviso particolarmente adatte alla redazione di questi piani territoriali - stralcio o pilota che dir si voglia. I Comprensori, per esempio, situati allo sbocco delle vallate settentrionali e meridionali della nostra Regione, presentano problematiche in certe misure affini con tendenza alla pianurizzazione degli insediamenti industriali, con carenze nel sistema dei trasporti, con necessità di intervento a livello infrastrutturale. Solo agendo in tale prospettiva è possibile porre freno ai fenomeni di alleggerimento del peso di questi Comprensori nel contesto regionale conseguenti al depauperamento e all'indebolimento dell'apparato economico industriale. Queste potrebbero essere le aree di intervento a breve o al massimo a medio termine, per evitare che i tempi lunghi, che il documento fa supporre necessari per promuovere l'inversione del fenomeno della polarizzazione su Torino portino ad agire su situazioni di degradazione troppo accentuate o comunque difficilmente reversibili.
Ma vorrei aggiungere un ulteriore momento di riflessione. Se ci vogliamo muovere in questo disegno di riequilibrio territoriale, occorre anche una fase di verifica delle compatibilità interne alla Regione. Il Consiglio regionale ha appena approvato una legge sulle procedure della programmazione, che precisa la natura e l'entità dei rapporti Regione Comprensori, in ogni fase del processo programmatorio. E' da ritenersi pertanto indispensabile e necessario un adeguamento alla nuova impostazione delle procedure di quella parte del documento, che esemplifica e definisce l'apporto dei livelli cosiddetti inferiori alla costituzione del piano regionale. Adeguamento che non scompagina il prospetto ivi delineato (quadro di riferimento di iniziativa regionale con aggiustamenti integrazioni ed approfondimenti dei livelli inferiori), ma lo rende più rispondente al concetto generale di partecipazione, riservando ai Comprensori, unità locali e Comuni, facoltà propositive autonome, nelle dovute forme, nei confronti dell'iniziativa regionale.
Nel valutare il programma di promozione degli strumenti urbanistici non si può fare astrazione dal complesso dibattito in corso sulla legge 10 e sul disegno di legge regionale n. 117. Nella trattazione dei singoli punti devono ritenersi giocoforza presenti, anche se non me ne occuperò, se non di riflesso, due realtà: quella esistente e conseguente alla legge 10 con il suo bagaglio normativo e tecnico (nuovo regime della concessione e oneri di urbanizzazione) e quella incombente della regolamentazione regionale della pianificazione urbanistica che è tuttora fonte di numerose perplessità. E' molto probabile che il tema urbanistico diventi predominante nel campo di attività degli Enti locali. Lo stimolo che la Regione ha dato a una diversa e più puntuale regolamentazione urbanistica dei vari settori è stato largamente accolto, almeno stando alle cifre citate dalla Giunta: ripianificazione avviata in 537 Comuni su 1209, con 492 su 537 Comuni nella forma di piano regolatore generale. Ma ogni impegno dettato ad altri esige reciprocamente un impegno proprio. A mio giudizio infatti, la Regione deve fornire l'aiuto finanziario necessario agli Enti locali per provvedere ai compiti di cui sopra, operare con sollecitudine in risposta a quanto i Comuni predispongono a titolo di regolamentazione urbanistica. Sul primo punto il documento cita le leggi 34/75 e 31/76 e l'opportunità di un loro rifinanziamento. Se si prescinde quindi da un giudizio di validità operativa di tale normativa, dandolo quindi per scontato, non sarebbe male, prima di andare al rifinanziamento, ottenere dei valori circa le risposte dei Comuni. In altre parole, come e in che misura gli Enti locali hanno messo a profitto i contributi? Qual è l'esito tecnico dei piani elaborati grazie all'intervento regionale? A 2 anni di distanza un primo bilancio diventa indispensabile per impostare lo stesso discorso in proiezione futura. Il polso della situazione locale rivela al contrario larghi motivi di insoddisfazione sui tempi delle risposte regionali al lavoro dei Comuni. L'argomento potrà sembrare di difficile proposizione in questo momento: peraltro, poiché più volte leggo nel documento di snellimento procedurale, senza una parallela analisi strutturale delle capacità operative degli uffici regionali, la preoccupazione diventa più marcata, anche in vista dell'entrata in vigore della nuova legge urbanistica. Che vale pianificare, ed è il buon senso che lo dice, se poi non si è in grado di fronteggiare l'ordinaria amministrazione? L'osservazione mi porta diritto al terzo punto del documento, dove l'estensore dimostra di condividere questa perplessità di fondo accennando, riferendosi al problema delle infrastrutture pubbliche all'esigenza di "razionalizzazione della spesa, in relazione ai tempi amministrativi massimi accettabili". Per conto mio reputo positivo che tale preoccupazione agisca da incentivo per un progetto di indagine sulla consistenza e lo stato delle opere di urbanizzazione primaria.
In questo contesto dovrebbero assumere importanza due momenti: innanzitutto l'indagine dovrebbe condurre, integrata con analoghe iniziative per tutti i settori delle opere pubbliche, all'acquisizione di una carta di ciascun Comune piemontese, che fotografi con immediatezza ogni situazione locale. Il massimo rilievo possibile sarebbe da attribuire, in questa carta, ad un dato nuovo, di estremo interesse per la Regione, come titolo preferenziale per l'accesso al finanziamento. Mi riferisco ai cosiddetti coefficienti di carenza che ogni Comune determinerà in vista della definizione degli oneri di urbanizzazione. Vorrei raccomandare alla Giunta la massima attenzione per questo aspetto che può diventare decisivo in sede di ripartizione dei fondi regionali.
La limitatezza dei fondi è un tema generale che coinvolge tutto il piano ed è un po' il corollario di ogni osservazione relativa all'edilizia residenziale e scolastica. Di fatto essa deve tradursi in uno stimolo alla miglior utilizzazione del disponibile. Il problema della casa è troppo grave per consentire errori o leggerezze. Di fianco all'esigenza evidenziata di un operato unitario, perciò non dispersivo tra Stato e Regioni, sta un'altra considerazione che mira al coinvolgimento per la realizzazione di programmi di edilizia residenziale anche delle risorse provenienti dal settore privato. La Giunta sta mostrando progressiva sensibilità alla prospettiva, che è reciprocamente condizione di rinnovata vitalità per un settore economico, quello edilizio, che accusa pesantemente i contraccolpi di una congiuntura avversa. Sia pure sulla misura modesta che l'ambito operativo della legge consente, l'istanza è stata almeno formalmente accolta dall'art. 7 della legge 27/76: se è importante l'acquisizione del principio lo è ancor più la valutazione di uno stato di necessità che la scarsità di fondi a disposizione dello Stato e della Regione per il settore rendono evidenti. Anche in questa direzione tuttavia, si rischia di portare avanti un procedimento di mobilitazione finanziaria, senza produrre contemporaneamente quel lavoro analitico che deve consentire una corretta utilizzazione del disponibile economico. Se ci si limita, come fa il documento, alla elencazione degli interventi già in corso, si fa un lavoro burocratico, non si creano presupposti per le scelte future.
Il progetto della Giunta denuncia infatti manchevolezze di natura strategica, vale a dire che è privo di qualificazione in tema di localizzazioni residenziali sul territorio. Si rischia così il paradosso di promuovere un tentativo di coordinare lo sforzo finanziario chiamando a raccolta tutte le risorse di diversa provenienza senza un parallelo supporto di corretta collocazione delle medesime in termini territoriali o settoriali.
L'osservazione ci porta ad una valutazione del tutto conseguente del problema dei centri storici intesi non solo come beni culturali, ma anche come bene economico e patrimonio della collettività. All'enunciazione di principio che la Giunta fa di una priorità assoluta in materia per il ricupero delle risorse esistenti, fa riscontro l'esiguità del finanziamento per l'acquisizione dei complessi residenziali da risanare, esiguità che dequalifica una scelta nel momento della sua pratica estrinsecazione. Un discorso per certi versi analogo e proponibile per l'edilizia scolastica dove tuttavia lo status della pianificazione e quindi della qualificazione delle scelte è senza dubbio più avanzato per la presenza di due programmi triennali (1975-1977 e 1978-1980) già in fase di avviamento che possono fornire utili elementi di raffronto. Il nodo cruciale per il settore tuttavia è un altro, come il documento rileva: mancano circa 40 miliardi per il completamento dei vecchi programmi della legge n. 641; dieci di essi sono necessari per i completamenti veri e propri, vale a dire che non sono conseguenti ad oneri derivanti da ritardi e carenze. Per essi è essenziale che la Regione si impegni in prima persona, soprattutto se si considera che grazie ad essi la quota di posti-alunno che si renderà disponibile sarà notevolissima.
Il programma di intervento per lo sviluppo del turismo richiederebbe un discorso a parte, che tragga le sue premesse da una serie di fattori: vocazionalità turistiche, valorizzazioni del patrimonio culturale e artistico, creazione di una serie di infrastrutture a sostegno del movimento di persone e ricerche ed applicazioni di soluzioni nuove, quali l'agriturismo, che meritano ciascuno una trattazione particolareggiata. Ho la sensazione che la parte del documento dedicata al turismo sia inadeguata. Nel momento in cui la situazione economica e industriale accusa ricorrenti alti e bassi, in cui la ricerca di soluzioni alternative avrebbe benefici notevoli sotto il profilo occupazionale e costituirebbe un richiamo anche per il movimento degli stranieri verso la nostra Regione ecco, in questo frangente ci troviamo di fronte ad un documento, pulito finché si vuole, ma freddo, senz'altro di stampo burocratico, che fa cenno alle iniziative in atto, ma pare carente sotto l'aspetto promozionale. Tra l'altro, otto righe in tutto sulla propaganda turistica-regionale non qualificano indirizzi come ci si deve attendere da un testo programmatico ma rinviano a tempi diversi una soluzione di cui non si anticipa nulla. Non vorrei che la Giunta avesse considerato marginale questo settore per l'economia piemontese: per il turismo ci vuole di più, ci vuole di meglio in quanto la nostra Regione può veramente definirsi sottoutilizzata turisticamente senza che la sua struttura fisica e le potenzialità umane esistenti lo giustifichino.
Si parla anche di soppressione degli Enti provinciali per il turismo al fine di una più efficace programmazione della promozione turistica. Ma delle due, l'una:o gli Enti provinciali per il turismo svolgono funzioni che altri già svolgono (e non mi pare) e allora non si vede perch proseguono una attività ripetitiva; o è vero il contrario: allora con quali strutture, con quali mezzi si pensa di sostituirli? Il documento non lo dice. La parte del terzo documento sin qui esaminata è stata eccezionalmente prodiga in termini di indagini conoscitive: mi sarei aspettato altrettanto, e con piena giustificazione oggettiva, anche per il turismo. Nel silenzio del piano mi permetto un suggerimento: le Province piemontesi redassero a suo tempo, in collaborazione con gli Enti provinciali turismo, dei piani di sviluppo turistico; dunque un'indagine di partenza già potrebbe esserci al fine di attualizzare, verificare ed eventualmente per effettuare in base ad essa scelte selettive di interventi e di iniziative che forniscono le garanzie che la Regione ritiene necessarie.
Sia pure in misura minore, ma analoghi rilievi possono essere svolti per il programma di interventi per lo sviluppo dello sport. Qui, quanto meno, vengono elencati degli obiettivi soprattutto per l'impiantistica, ma manca, a mio avviso, una qualificazione importantissima dell'attività sportiva. Lo sport deve progressivamente abbandonare, anche nelle discipline meno popolari, una sua caratteristica elitaria per diventare fattore di promozione sociale. La domanda, colleghi Consiglieri, viene dal basso, dalla gente che acquisisce questo senso della pratica sportiva. I fenomeni, marce collettive, camminate, corse in bicicletta e via discorrendo, ci stanno dinnanzi agli occhi, ma finora, secondo un costume che è tipicamente italiano, vedono l'Ente pubblico prevalentemente come spettatore; sul piano promozionale (scusatemi la crudezza del riferimento) fanno di più i giornali piemontesi della Regione Piemonte. Le prospettive sono amplissime, tutte recepibili con un programma di sviluppo. Per non ampliare il discorso a dismisura, mi limito a due valutazioni. La Regione a mio giudizio, deve intervenire con funzioni di coordinamento nell'ambito dell'attività delle centinaia, se non migliaia di Enti, associazioni e società sportive, i cui intenti sono lodevolissimi, ma si concretizzano in un'attività disorganica ed episodica. La riprova è costituita dalla pioggia di contributi che più volte durante l'anno, spesso in misura ridottissima 50 o 100 mila lire, la Regione eroga. Se la Regione, com'é giusto, intende impegnarsi finanziariamente, determini con legge criteri propri e li applichi con metodi selettivi che premino le iniziative veramente valide.
Notevole rilievo ha avuto giorni addietro la presentazione di tre disegni di legge, se non vado errato, di matrice comunista, socialista e democristiana, in materia di sport sul piano nazionale, disegni che coinvolgono tutti, in misura più o meno ampia, le Regioni. E' chiaro che qualcosa si sta muovendo anche a livello statale, per cui la mia richiesta di coordinamento verso quei settori mi pare legittima, anche perché non mi sembra responsabile che una eventuale approvazione di un testo di legge nazionale ci colga impreparati, tanto mentalmente quanto strutturalmente.
E siamo all'ecologia, nelle sue diverse articolazioni. In sede diversa i vari problemi sono già stati ampiamente dibattuti e parecchie scelte programmatiche regionali subiscono, o subiranno prossimamente, i primi collaudi: quindi oggi si tratta di puntualizzare. Per quanto riguarda la sistemazione idrogeologica e forestale, al di là dei programmi già avviati per i quali mi auguro di conoscere al più presto lo stato di attuazione, il grosso elemento di novità può venire ora dai decreti delegati conseguenti alla 382, per vedere se essi porteranno ad un ampliamento delle competenze regionali, sanando così talune illogicità della situazione attuale. Ripeto l'auspicio per un maggior coordinamento delle attività regionali, che vedono ripartite tra due Assessorati competenze in larga misura affini (ad esempio il pronto intervento ed interventi definitivi nei vari bacini). Non dimentichiamo il grosso impegno tecnico operativo che la Regione dovrà affrontare per l'utilizzo dei fondi dello Stato messi a disposizione per l'alluvione del maggio scorso; impegno che deve essere anche di coordinamento normativo per la parte riguardante interventi comuni a leggi di diversa origine, come la legge regionale n. 54/75 e le leggi dello Stato n. 445 e 293 (difesa e consolidamento di strade ed abitati) per evitare come è già successo in passato, le rinunce degli Enti locali a talune forme di finanziamento per interventi analoghi, ritenute meno convenienti. Mentre non sembra opportuno dilungarsi sulle parti riguardanti lo smaltimento dei rifiuti solidi e la prevenzione del controllo dell'inquinamento atmosferico, la trattazione di un punto del "settore del risanamento acque" mi sembra proporre un interrogativo logico. Parlando dello stato di avanzamento del programma di risanamento e traendo spunto dalla difficoltà di attuazione, si fa cenno ad una iniziativa regionale assunta in deroga alle procedure previste. Si parla cioè della sperimentazione di una metodologia che porti all'assunzione diretta da parte della Regione della responsabilità per la progettazione, il controllo e l'esecuzione delle opere. Senza che ciò suoni offensivo per le capacità operative regionali in tale campo, capacità per altro non brillantissime in altri settori consimili, domando alla Giunta, tale procedura non contrasta apertamente ad esempio, con quella seguita nel campo dell'edilizia scolastica? Là si riconoscono certi poteri e quindi certe capacità agli Enti locali, qui si ritengono invece incapaci di agire, anche se riuniti in consorzio. Varrebbe la pena di approfondire la questione, perché se il totale carico regionale può risolvere certi problemi, non è detto che, risolto il nodo finanziario tutto non vada a buon fine o, quanto meno, possano ritrovarsi altre cause ritardatrici che non l'inettitudine di Comuni e Province. Quello della deresponsabilizzazione degli Enti locali è un tasto pericoloso per motivi fin troppo evidenti e contraddice una linea di politica regionale.
Non credo di poter dare, in sede di conclusione, alla mia disamina altro che il carattere di una rapida panoramica su argomenti spesso disparati. L'analisi generale che ho svolto all'inizio dà tuttavia il senso di questa forma di approccio al documento programmatico, forma che è suggerita dalla sua stessa impostazione e dalla sua carenza come vero e proprio Piano di sviluppo. Anche se il compito di un Piano regionale di sviluppo non è quello di fornire analisi e soluzioni di politica economica generale che spettano a sedi diverse, tuttavia in esso possono darsi contributi propositivi di supporto per l'elaborazione di un piano a carattere nazionale, che da quelle scelte ed analisi discende. Negli accordi programmatici intervenuti tra i partiti in sede nazionale è stato sottolineato che decisivo per rendere compatibile la crescita degli investimenti e della occupazione, con i vincoli posti dalla riduzione del tasso di inflazione e dal riequilibrio dei conti con l'estero, è l'orientamento degli investimenti stessi verso sbocchi più certi e qualificati di domanda, che sono stati fissati nell'edilizia nell'agricoltura, nell'energia e nei trasporti. Non tutti questi rilievi sono stati considerati nel progetto presentato dalla Giunta.
Noi democristiani siamo pertanto consapevoli che le cose da fare sono ancora molte ed impegnative, ma siamo anche convinti che mai come ora si presentino occasioni per attuare un serio Piano di sviluppo. E' questo un giudizio che si fonda sulla convinzione che sia possibile imboccare la strada della concretezza operativa sulla base di un uso accorto di tutto ciò che finora è stato fatto in tema di studi per la programmazione regionale piemontese. Deve pertanto proseguire senza sosta il confronto culturale e il dibattito sulla valutazione realistica della coerenza degli indirizzi politici rispetto agli obiettivi di fondo e le risorse disponibili. Solamente con i fatti suffragati da precise e complete analisi delle varie situazioni, con il concreto servizio alle nostre popolazioni in ogni frangente dell'attività pubblica si può ottenere finalmente uno sbocco concreto a lunghe elaborazioni finora troppo generiche. La sostanza del nostro intervento, nonché la posizione che abbiamo concretamente assunto e l'attività che abbiamo svolto nel corso degli ultimi due anni, sono il frutto di una dialettica serrata e di un impegno culturale e politico della D.C. e del suo Gruppo consiliare che gli atti della Regione documentano.
Non saranno più possibili evasioni o fughe da responsabilità collettive, ma primarie per la Giunta che deve gestire le scelte programmatiche. Credo che a nessun Amministratore regionale abbia fatto piacere subire rilievi così perentori come quelli ricevuti nelle ultime consultazioni; ma al di là del dato in sé c'é un problema di correttezza politica nei confronti della base che, coinvolgendoci, chiama in causa la nostra credibilità verso la comunità piemontese. A questo appello non dobbiamo e non possiamo restare sordi.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Martini. Ne ha facoltà.



MARTINI Mario

Il mio intervento si riallaccia per diverse motivazioni a quello svolto dal collega Petrini. Egli giustamente conclude ricordando che ci sono state delle consultazioni e che queste consultazioni devono avere un loro significato. Il documento presentato dalla Giunta viene discusso in aula con l'apporto di quelle risultanze e la Giunta è chiamata a dare una risposta esauriente.
Quando ci siamo incontrati con i rappresentanti dei vari Comprensori del Piemonte, abbiamo avuto la sensazione che ci sia stata una suggestione di adesione alle linee programmatiche delineate dal documento della Giunta quando però si cercava di calare nella realtà questa suggestione, si vedeva che c'era un vuoto non facilmente riempibile. Alcuni Comprensori hanno premiato il momento pseudopolitico di accordo sul documento, altri invece tenendo consultazioni al loro interno, hanno approfondito notevolmente la sostanza del documento e hanno formulato delle proposte. Poiché questi sono stati gli unici a formulare delle proposte concrete assieme a poche altre categorie (forse solo la Federazione delle Associazioni industriali, poich sono mancati gli stessi sindacati), pur riconoscendo alla legge sulle procedure di programmazione un'intempestività per quanto riguarda questo primo Piano, ritengo che non possiamo lasciare senza risposta le richieste venute dai Comprensori attraverso le consultazioni. In particolare, c' stata una adesione sugli obiettivi di fondo, sugli obiettivi di equilibrio territoriale e di qualificazione del tessuto produttivo. In modo particolare mi riferisco a quanto hanno detto i quattro Comprensori della Provincia di Cuneo che trovano dell'analogia, ad esempio, con le richieste fatte dal Comprensorio di Asti e che interessano quindi una larga parte del Piemonte.
I Comprensori si sono chiesti come si concilia l'obiettivo di riequilibrio territoriale e di qualificazione del tessuto produttivo con le indicazioni che vengono date dal documento della Giunta, che parlano di collegamenti interpolari stradali e ferroviari interessanti i poli comprensoriali di Pinerolo, Saluzzo, Savigliano, Bra, Alba, Asti; di collegamenti penetranti a raggiera che partono da questa fascia verso gli altri centri del Piemonte; di necessità del raddoppio della galleria ferroviaria del Frejus, che porterà naturalmente a raccogliere il traffico della Francia, della Spagna e dell'Europa sud-occidentale in un collo di imbuto che ancora una volta riverserà un traffico intenso con conseguenti attività terziarie sull'area torinese, provocando necessariamente un'onda di terza cintura.
Come si concilia - si domandano i Comprensori del Piemonte sud in generale e in particolare i Comprensori di Cuneo e di Mondovì - la loro richiesta di rottura dell'isolamento e di integrazione economica con la Liguria e con la Francia, con il silenzio del documento della Giunta sulla direttrice di collegamento stradale Ceva, Garessio, Albenga e sulla linea di collegamento ferroviario Cuneo, Ventimiglia, Nizza, che pure è in fase di avanzata costruzione? E' stata tenuta presente la realizzazione della Cuneo-Nizza quando, ad esempio, si propone il raddoppio della galleria ferroviaria del Frejus? Non voglio con questo discorso dare la sensazione di sostenere una tesi piuttosto di un'altra: vengo qui a sostenere, invece l'esigenza che si faccia uno studio globale e complessivo che permetta alla Regione di dare delle risposte più esaurienti.
Come si concilia la proposta che viene fatta dalla Giunta con l'esigenza da parte del Cuneese (e non soltanto del Cuneese, ma anche della regione delle Alpi Marittime) di stabilire un collegamento viario con il Ciriegia-Mercantour? Ritengo che non si possano lasciare senza risposta tali seri interrogativi.
Devono essere tenute presenti le proposte avanzate da parte di una forza di opposizione che sicuramente non ha una tradizione di massimalismo ma vanta una tradizione di confronto concreto con la realtà. Da parte francese si sta conducendo uno studio che interessa tutto l'arco alpino dalla zona del Frejus fino al mare. Per poter dimostrare di essere interlocutori seri dei nostri confinanti d'oltralpe, sarebbe opportuno che la Regione, stabilendo dei tempi precisi, si facesse promotrice di uno studio che metta fine a queste diatribe di province e stabilisca quali possono essere le priorità e le necessità, sia pure tenendo tutti presente che non è questo il tempo di realizzazioni di grossi trafori stradali. Lo studio completato sul versante francese ha dato delle indicazioni di realizzo per il 1993 che dimostrano che anche dall'altra parte ci si muove con indubbio realismo.
Affronto ancora un settore di un certo rilievo sul quale sarà opportuno che la Giunta dia una risposta, perché è un interrogativo sollevato e ripreso dalle consultazioni e che verrà poi discusso nei singoli Comprensori a livello istituzionale e a livello politico.
Quale riscontro trova nel piano la richiesta dei Comprensori di Saluzzo, Cuneo, Mondovì, Alba ai fini della qualificazione del tessuto produttivo e dell'integrazione agricoltura-industria? Il disegno che viene presentato nel documento della Giunta - torno a ripetere - è un disegno che ha una certa suggestione, ma, quando lo si cala nella realtà, non si trovano risposte particolareggiate, per cui rimangono dubbi e si formano interrogativi; addirittura si è arrivati a fare dei processi alle intenzioni, che devono essere immediatamente smentiti dalla Giunta stessa.
Ad esempio, da questi Comprensori viene proposto, che si faccia un programma speciale che preveda non tanto delle aree attrezzate industriali quanto piuttosto una dislocazione di piccole e medie industrie nei Comuni di fondo valle, dalle Valle Po fino alla Valle Bormida, pur essendo questa fuori dell'arco alpino.
Il Comprensorio di Alba, in un suo documento che vale la pena di citare, dice chiaramente: ".. sottolineano che il recupero delle Langhe ed in particolare del tessuto umano non sarebbe comunque possibile senza l'individuazione di un polo di sviluppo nell'alta Langa e più precisamente nell'area gravitante attorno alla città di Cortemilia. Tutti i membri del Comprensorio esprimono infine la loro perplessità sull'individuazione da parte degli estensori del Piano di un asse industriale Alba, Savigliano Saluzzo, soluzione questa che rischierebbe, secondo il parere di molti, di accentuare ancora più lo squilibrio esistente fra le diverse zone all'interno dello stesso Comprensorio". Ebbene, non c'é una risposta. Anzi la Giunta nelle osservazioni al Piano, osservazioni che tra l'altro sono già state corrette in meglio, in merito al piano di sviluppo industriale della Comunità montana della Valle Stura dice: "Un punto discutibile invece appare quello relativo ad un intervento di incentivazione per la realizzazione di nuovi investimenti da parte di imprese che diano lavoro ad almeno trenta nuovi dipendenti.. il contributo di 500 mila lire per ogni dipendente garantito dalla Comunità montana si sovrappone ed è in contrasto con altre leggi di incentivazione". Ho la sensazione che ci sia una persistente tendenza a considerare questi problemi ad un livello generale e che quando si vuole calare nella realtà si incontrino delle ostilità: noi abbiamo il dovere di chiedere alla Giunta se esistono queste ostilità; se non esistono si tratta soltanto di enunciazioni non coordinate nel loro insieme.
Una considerazione a parte merita l'area attrezzata di Mondovì. Si conferma che vanno realizzate le quattro aree attrezzate partendo da quella di Vercelli per la quale c'é già stata la convenzione. Quando si arriva però all'area di Mondovì la cosa viene molto più sfumata, tant'è vero che nell'ambito del Comitato comprensoriale si ha la sensazione che da parte della Giunta ci sia un tentennamento e non ci sia più la convinzione degli anni passati sulla necessità di venire incontro all'area più depressa del Piemonte.
Può essere un processo alle intenzioni però nel documento della Federazione delle Associazioni industriali, a pag. 25, si legge: "Condividiamo inoltre le indicazioni relative a Saluzzo, Savigliano Fossano, Alba, Bra viste in funzione di interconnessione tra le aree di Torino e quella di Cuneo" (cioè in contrasto con quanto viene richiesto da questi Comprensori), e ancora: "..molto positiva ci appare l'indicazione di superamento della scelta obbligata di Mondovì come sede per un'area attrezzata, scelta che non potrebbe essere supportata né dal tessuto produttivo locale, né da quello sociale né dalle infrastrutture esistenti".
Se a questo aggiungiamo anche che si stanno stilando dei protocolli e si stanno predisponendo delle convenzioni tra la Regione e gli operatori industriali, ci auguriamo che questi protocolli non tengano presenti le aree depresse solo in enunciazioni generali per privilegiare nella struttura un processo di razionalizzazione nella distribuzione dei settori industriali nel Comprensorio torinese.
Se così fosse, non mi resterebbe che disapprovare l'operato della Giunta, ma, come forza politica, la ringrazierei per essere chiara nelle sue scelte. E' indubbio però che queste cose dovremmo dirle a coloro che abbiamo consultato, ai quali abbiamo assicurato che avremmo dato particolare rilievo alle loro indicazioni.
Concludo sottolineando l'invito che viene dal Comprensorio di Mondovì espresso alla fine del documento ufficiale:"...Di fronte a tale eventualità, il Comprensorio di Mondovì, nello spirito del riequilibrio socio-economico del territorio, a cui si ispira il Piano, chiede che la Regione si impegni prioritariamente a realizzare in concreto una politica organica di interventi specifici a favore delle aree più deboli del Piemonte". Questo deve essere detto in maniera chiara sia nei documenti programmatici, sia nelle consequenziali decisioni a livello operativo.
Chiudo con un'annotazione che, secondo me, ha il suo rilievo. Sulla forestazione ci sono delle indicazioni precise di spesa che devono essere fatte e che vengono rapportate a 10 miliardi annui, con integrazioni che possono venire da altri capitoli di bilancio. Facciamo attenzione, per perché anche in questo settore occorre fare delle scelte precise. Andiamo nelle Comunità montane e rendiamoci conto che ci sono 5/6 Comunità che, se non avranno possibilità immediata di ripresa, vedranno pregiudicato nei prossimi anni il loro tessuto umano in modo tale che non potrà più essere ricostituito.
Con quale criterio si può parlare di programmi di forestazione? Dando ad impiantare la foresta a società imprenditoriali della pianura, oppure cercando di creare posti di lavoro che diano garanzia di stabilità nelle Comunità montane, nelle vallate? A pagina 11 del documento programmatico si dice: "dare alle Comunità montane lo slancio operativo con garanzie finanziarie". Se vogliamo rispettare questo indirizzo è necessario che ci avvaliamo delle Comunità montane, della loro capacità di autogoverno, che diamo loro garanzie a livello medio di 5/10 anni di finanziamento, che permetta loro di svolgere una politica programmata di occupazione. Naturalmente vi è un'ampia possibilità di programma integrato, che le Comunità montane possono svolgere meglio di noi, altrimenti anche il piano di forestazione rimarrà sulla carta o sarà un'operazione speculativa che verrà condotta con ulteriore vantaggio delle zone economicamente più ricche a scapito di quelle più depresse ed emarginate.



PRESIDENTE

La parola alla dottoressa Castagnone Vaccarino.



CASTAGNONE VACCARINO Aurelia

Il Gruppo repubblicano non è molto numeroso, il mio intervento invece avrà una certa ampiezza e quindi sottoporrà a una certa fatica l'attenzione dei colleghi. Il Piano che è stato presentato ha, per i repubblicani, un primo pregio che sembra apparentemente soltanto formale: è un Piano non rilegato, un Piano cioè che non ha quelle pretese di opera onnicomprensiva che aveva il primo Piano, che giustamente a febbraio è stato rinviato alla I Commissione per una rielaborazione di carattere concettuale e per una precisazione di aree e di progetti, che è quello appunto di cui noi oggi dobbiamo discutere.
In questa revisione non è tutto positivo; mi riferisco all'introduzione sulla filosofia del Piano che è ancora confusa e che forse ha subito le conseguenze degli interventi da parte dei vari Gruppi e, in definitiva sembra essere una specie di collage delle istanze dei vari partiti, non ha una struttura perfettamente coerente con i vari allegati del Piano e, fra questi, lo schema di bilancio pluriennale.
E' già stato detto da altri Consiglieri e mi riferisco all'eccellente intervento del Consigliere Paganelli, che lo schema di bilancio contiene molti errori, quindi non li sottolineo, ma vorrei sottolineare quelle parti che noi repubblicani più condividiamo. Le entrate, probabilmente, sono state in parte gonfiate; la discrepanza fra i due giudizi per quanto riguarda il fondo nazionale ospedaliero è effettivamente tale da lasciare perplesso qualunque programmatore; ci sono molte previsioni di spese per progetti non ancora determinati e che non sappiamo quanto siano coerenti con il Piano nella sua globalità; si esige chiarezza nella differenziazione fra le assegnazioni con destinazione vincolata e le spese proprie della Regione. C'é mancanza di chiarezza nell'impegno di spesa per leggi regionali approvate e per quelle future in coerenza con il Piano. C' sovrapposizione e mancanza di chiarezza tra un'area e l'altra, per esempio fra agricoltura e ecologia per la difesa idrogeologica, fra sanità ed ecologia per gli inquinamenti atmosferici, e vi è discrasia fra opere suggerite dai lavori pubblici che non completano e non rendono quindi efficienti quelle portate avanti dall'ecologia.
In sostanza, possiamo dire che questa bozza di bilancio si presenta più come una sommatoria di attività dei vari Assessorati che come una programmazione vera e propria e quindi necessita di un potenziamento e di una maggiore incidenza da parte dell'Assessorato alla programmazione, per rendere coerente l'attività di tutti gli altri Assessorati.
Tuttavia, anche se allo stato attuale quello che ci è stato presentato è più un programma pluriennale di Giunta che un Piano e presenta un deficit elevato, sta a questo Consiglio fare in modo che le proposte del programma possano essere trasformate in un Piano, cogliendo in ciò che è stato fatto i lati positivi, e offrendo alla Giunta quelle indicazioni che, a nostro avviso, non rendono affatto confuso il quadro politico ed il corretto rapporto fra maggioranza e opposizione, ma valorizzano l'opposizione rendendola propositiva e non soltanto critica. Pur nella confusione della parte introduttiva sottolineiamo alcuni punti positivi che tuttavia non sono poi stati messi in rilievo nelle varie aree programmatiche. Il primo è l'aver adeguato più realisticamente le previsioni demografiche e naturalmente i conseguenti dati occupazionali. Il secondo è l'aver accettato il principio della mobilità del lavoro, a cui nessuno ha fatto cenno fino ad ora, sul quale vorremmo invece che la Giunta si esprimesse.
Vorrei chiarire che, quando si parla di mobilità, intendiamo sia la mobilità esterna da azienda ad azienda, sia quella interna, da reparto a reparto. Non è questo un problema senza importanza, non soltanto per il suo rilievo esterno e quindi per la chiara indicazione politica da parte della Giunta regionale, ma anche per i problemi interni all'operatività stessa degli strumenti di cui la Regione dispone. Facciamo per esempio riferimento agli ospedali, strani Enti che dipendono dalle Regioni i cui dipendenti però, pur essendo regionali, dipendono dai Consigli di amministrazione degli ospedali. Ma proprio per questo un'indicazione estremamente precisa da parte della Giunta avrebbe un significato particolare anche nei confronti di queste amministrazioni che in questo momento stanno appunto cambiando la loro maggioranza politica e che in applicazione alla legge Mariotti rispondono alle maggioranze delle amministrazioni che le nominano quindi necessitano di indicazioni precise.
Non è senza significato quanto noi chiediamo anche in ordine alla riduzione della spesa ospedaliera e ad una maggiore efficienza. In un ospedale torinese su 400 degenti vi sono 1400 addetti, un numero cioè superiore alla media svedese, ma la media delle presenze annue degli addetti è di 110 giornate lavorative. E' evidente che, a questo punto dobbiamo dare chiare e precise indicazioni, sul fatto che è possibile spostare un addetto da un reparto all'altro, e sul fatto che chi non lavora non è tutelato dallo Statuto dei lavoratori (é evidente che lo Statuto non tutela coloro che non fanno assolutamente niente). Queste precisazioni devono essere fatte anche perché il problema della mobilità dei lavoratori il problema dell'efficienza delle strutture produttive e delle strutture pubbliche in questo momento è alla massima attenzione dei sindacati e sarebbe evidentemente un deresponsabilizzarsi da parte della Regione se di questo problema non si facesse carico e se su questo problema non desse indicazioni precise, insieme con un'altra indicazione, che a me pare della massima importanza, se vogliamo cambiare il clima generale del nostro Paese e cioè che l'Ente pubblico non è un "padrone" contro il quale si debba fare la lotta di classe, ma l'Ente pubblico appartiene a tutti e quindi appartiene anche a quei lavoratori che vi operano così come appartengono a questi lavoratori tutti gli altri Enti pubblici, in questo caso la responsabilità dei lavoratori deve essere più alta di quanto non sia la responsabilità dei lavoratori delle aziende private.
E' di grande importanza inoltre l'informazione sullo stato di operatività delle leggi regionali (già citata da molti altri Consiglieri ) e l'indicazione politica di come affrontare la revisione delle leggi. Non è sufficiente l'informazione sullo stato di operatività, perché una maggioranza deve anche dare l'indicazione del modo con il quale intende rivedere le leggi esistenti; questo ci permetterebbe di recuperare forse delle somme spendibili secondo le indicazioni programmatiche.
Ha già preso un avvio concreto un piano contrattato con le organizzazioni imprenditoriali e sindacali e l'avvio di convenzioni quadro con gli imprenditori. A questo proposito, come è già stato chiesto dal collega Alberton, desideriamo una informazione molto chiara, non perché noi repubblicani non siamo d'accordo su questa contrattazione, che anzi abbiamo già sollecitato altre volte, ma perché non ci sembra affatto corretto avere informazioni soltanto dai giornali, soprattutto non ci sembra esaustivo delle conoscenze sullo stato attuale di questo tipo di contrattazione.
L'ipotesi di un progetto di assetto territoriale è articolato su tre grandi linee, quella torinese e quelle definite dagli assi nord-sud Voltri Sempione, est-ovest Cuneo, Mondovì, Alessandria; è un'ipotesi che il Gruppo repubblicano vede in senso positivo così come la centralità di problemi quali l'agricoltura, la formazione professionale, il sostegno alle strutture produttive. Ma al di là delle indicazioni in positivo, quelle che il collega Bellomo ha indicato e ha chiamato le priorità delle priorità quali il rilancio dell'agricoltura, la formazione professionale non solo fondata sulla realizzazione dei tre progetti della Giunta, ma con una mobilitazione di risorse, entro un quadro, che noi preferiremmo legislativo, che cerchi comunque di eliminare le carenze e lo spreco dispersivo del passato; il sostegno alla struttura produttiva attraverso il riequilibrio territoriale e la rilocalizzazione delle aziende; la continuazione dei piani di ammodernamento del materiale rotabile iniziato fin dal 1963, la soluzione dell'assetto viario della Valle di Susa, il completamento dei programmi di sistemazione idrogeologica, anche se ci rendiamo perfettamente conto che le recenti calamità naturali impegneranno grande parte delle somme disponibili. E' una delle indicazioni che il collega Bellomo non ha citato.
Continueremo ad avere danni ingenti per calamità naturali fino al momento in cui non provvederemo alla minima sistemazione per evitare quanto meno i danni più grossi: i 50 miliardi, di cui 25 della Regione e 25 dello Stato, sono una somma che se fosse stata usata tempestivamente probabilmente avrebbe evitato gli interventi per riparare il disastro vero e proprio che abbiamo avuto.
Ma di fronte a queste, che chiameremo anche noi priorità delle priorità, e che accettiamo con l'aggiunta della sistemazione idrogeologica rileviamo che è timidissima, per non dire inesistente, l'individuazione dei tagli per eliminare il deficit, il quale da un lato comporta la revisione della previsione di spesa contenuta nella bozza di piano pluriennale probabilmente già gonfiata da parte degli Assessorati, e dall'altro comporta scelte precise. I repubblicani ritengono di doverne indicare alcune.
Sul progetto dei pendolari, per esempio, non per mancanza di validità ma perché è di competenza dello Stato, la Regione non può impegnare 30 miliardi per sostituirsi ad esso, si tratterà piuttosto di fare opera politica di pressione nei confronti dello Stato per l'attuazione del progetto che la Regione ritiene indispensabile per un suo migliore assetto.
Il progetto per la tutela infantile è attuabile in parte attraverso la riforma sanitaria; ci sembra quindi che la cifra messa oggi a disposizione sia nettamente superiore alle necessità, perciò si dovrebbero meglio utilizzare i fondi già esistenti.
Riduzione drastica del progetto di cartografia regionale che è già stato detto elastico in occasione della votazione della legge e che quindi potrà essere ridotto od aumentato in sede di revisione. Riduzione ed eliminazione quindi di interventi dispersivi sulla navigazione interna sulla caccia e pesca, sugli interventi promozionali del turismo che così come sono fatti non ci danno nessuna garanzia di incidere realmente sulla realtà regionale; ridimensionamento di progetti di opere pubbliche a cominciare dal sistema fognario che va ricollegato con gli interventi dell'ecologia.
In breve, per non trattenere ulteriormente i Consiglieri, riassumerei le richieste del Gruppo repubblicano in questi punti: stato di operatività delle leggi già esistenti esame della coerenza di queste leggi con il programma presentato e quindi scelte precise da farsi prima della presentazione del bilancio pluriennale, altrimenti non abbiamo alcuna garanzia che il bilancio pluriennale rispetti veramente le scelte programmatiche indicazioni precise non solo sulle priorità delle priorità, ma anche sui tagli, sui quali una maggioranza non può non assumersi le responsabilità, perché non può attendersi soltanto dall'opposizione questa indicazione.
Se siamo ben disposti a fare il nostro dovere, richiediamo che anche la Giunta faccia il suo. Riteniamo indispensabile avere tempestive informazioni sulla convenzione quadro con le categorie imprenditoriali e sulla coerenza di questa convenzione con la legge 117 che andrà in aula nei prossimi giorni.
Chiediamo quindi che alla deliberazione che la Giunta ci presenterà non sia allegata la bozza di bilancio pluriennale perché il non allegarla significa un atto politico che tiene conto delle critiche e delle proposte venute dal Consiglio regionale, mentre allegarla significherebbe riconfermare la volontà politica di non scelta da parte della Giunta. Le nostre precise proposte tendono quindi a trasformare un programma pluriennale di Giunta, degno di ogni rispetto, perché finora, nonostante ampie elaborazioni di documenti, non si era mai arrivati ad una programmazione di carattere pluriennale, in un Piano a cui potrà fare riferimento tutta la struttura produttiva piemontese, non solo quella sulla quale incide maggiormente la Regione, l'agricoltura ad esempio, di cui ha parlato il collega Gastaldi, ma anche sulla struttura industriale e artigianale; ma a questo Piano vero e proprio debbono fare riferimento non solo le strutture produttive, ma anche tutte le strutture amministrative piemontesi, perché non si verifichi uno scollamento fra la struttura regionale e le nuove strutture che abbiamo creato, come i Comprensori, gli Enti autonomi, i Comuni e i loro consorzi, ai quali in molti casi la Regione delega compiti importanti, che devono essere chiari, precisi e con punti di riferimento inequivocabili.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Borando. Ne ha facoltà.



BORANDO Carlo

Desidero aggiungere alcune considerazioni sul Piano e sulle sue possibilità di realizzazione nel tempo. Mi limiterò a fare considerazioni generali e toccherò alcuni problemi pratici.
Ieri l'avv. Oberto ha trattato del problema dell'idrovia padana come mezzo di trasporto; questo problema sarebbe molto impegnativo soprattutto in senso finanziario, è certamente un argomento interessante. Le grandi realizzazioni non sono mai state fatte in un batter d'occhio, per alcune di esse ci sono voluti preparazione e sforzi notevoli per il superamento di innumerevoli difficoltà e ostacoli. Non v'é dubbio che la situazione orografica del nostro territorio, a partire dal lago Maggiore fino a Novara, da Milano a Cremona e più ancora da Novara verso il mar Ligure e verso Torino, è tra le più difficili. La tecnica tuttavia oggi supera anche queste difficoltà, è solo questione di costi e di mezzi. Sono sempre stato sostenitore di questa realizzazione; le mie remore e le mie perplessità hanno cominciato a prendere corpo quando ho valutato il costo della costruzione e la prospettiva dell'ingentissima spesa per manutenzione e gestione. Tali spese sono: manutenzione per l'imponente mole delle opere e degli edifici idraulici spese di gestione per la quantità di acqua necessaria e per l'utilizzo di essa rottura del suolo e intersecazioni di falde freatiche in una zona tipicamente irrigua come quella del Basso Novarese, del Vercellese dell'Alessandrino e del medio torinese. Ci sono state notevoli e pesanti proteste da parte delle associazioni irrigue e delle organizzazioni sindacali agricole.
Ho citato questi problemi, che inevitabilmente si presenterebbero, per concludere che occorre avviare, una volta per tutte, una seria ricerca sulla validità del problema accennato: se le difficoltà sono superabili, il progetto va incluso nel Piano; se non lo sono, va abbandonata l'ipotesi e quindi occorre prenderne atto.
Dirò alcune cose sulla viabilità. Signori colleghi, è inutile rinverdire le polemiche sulle autostrade e sulle strade. Le facevo in provincia di Novara con il Consigliere Bono quindici anni fa. Sono convinto che la politica della strada come struttura non è stata sbagliata. La realizzazione della famosa legge 126 alla quale hanno fatto seguito le leggi 181 e 614 ha consentito di eseguire in Piemonte, nel periodo dal 1960 al 1972, opere di ammodernamento e nuove costruzioni di strade per circa 2500 km, per una spesa di 150 miliardi circa. Non dimentichiamo che negli anni dal '60 al '65, ad eccezione delle strade di montagna che avevano costi maggiori, si potevano sistemare strade con una spesa di 5/6 milioni per chilometro . Oggi sembra normale avere 2500 km in più per strade asfaltate e ammodernate, ma provate ad immaginare come sarebbe la nostra situazione se non si fosse fatto ciò che si è fatto: il trasporto di persone e merci, su mezzi pubblici o privati, il collegamento tra paese e paese, tra paese e frazione, tutte le esigenze nel campo della scuola, del lavoro, del turismo stagionale e di fine settimana, avrebbero avuto lo sviluppo di oggi? Certamente no, per cui questa azione va proseguita dove è necessario.
Non ci sono più né i soldi né le necessità di quegli anni e proprio per questo occorre scegliere con ponderazione e con saggezza. Salvo le realizzazioni di prima scelta e di grande entità che spettano alla Regione vanno date disposizioni ed istruzioni ai Comprensori perché siano individuate le opere indispensabili o che diventeranno tali in conseguenza di evoluzioni particolari o di diverso assetto del territorio. C'è il problema delle autostrade e mi rivolgo in particolare alla autostrada Voltri-Sempione che partendo da Voltri dovrebbe raggiungere il traforo del Sempione inserendosi sulla dorsale dell'Alto Vergonte per raggiungere attraverso la Svizzera, il centro Europa. Tale autostrada sarà realizzata in ragione del 60% entro un anno, ossia il tratto Voltri-Alessandria Alessandria-Villanova Monferrato, Villanova-bretella Santhià. Il tratto Villanova Monferrato-Arona invece rimane sulla carta e, a mio giudizio tale realizzazione non va lasciata a dormire.
L'autostrada Milano-Laghi è stata la prima realizzazione di questo genere effettuata in Europa (anno 1922). La verità è che ha solo il nome di reale perché parte da Milano, giunge a Vergiate, ma al lago non è mai arrivata. E' noto che tale arteria, nell'arco dell'anno, porta milioni di turisti lombardi sulla sponda occidentale del lago Maggiore, del lago d'Orta, nelle valli del Novarese e del Vercellese. Questo per quanto riguarda il turismo; ma sulla crisi dell'industria del Cusio, del Verbano dell'Orsola che cosa possiamo dire? Credete che l'assenza di una proporzionata viabilità in quella zona sia del tutto estranea al costo del trasporto? Vengo al tema dell'agricoltura. Su questo argomento altri, quali rappresentanti diretti delle organizzazioni agricole, hanno titolo per parlare. Mi limiterò a fare alcune considerazioni sull'agriturismo e sulla politica condotta in questi anni dalle Amministrazioni provinciali e dalle Camere di Commercio, non solo, ma anche dalla Giunta regionale di cui facevo parte. Per la tutela dell'ambiente, per l'ecologia, per la conservazione e la valorizzazione di case esistenti, per la crescita del reddito dei contadini di montagna e di collina si davano contributi dall'esame del disegno di legge 117 ho ricavato che per effetto delle condizioni, dei vincoli, delle norme, dei divieti in esso contenuti, tutto questo non si potrà più fare. Non sono mai stato entusiasta per quelle forme di contributo, sta di fatto che ora nessuno più riuscirà a realizzare qualche cosa di propria iniziativa e con i propri mezzi.
Parliamo di agricoltura vera. In Piemonte, per la natura del terreno si produce principalmente riso, grano, granoturco, uva e vino, frutta carne, latte e foraggi. Il prezzo del foraggio è di 10/12 mila lire al quintale; un capo di bestiame normalmente consuma tre chilogrammi di fieno per ogni chilogrammo di peso vivo; ne deriva che una lattifera costa solo di alimentazione circa 2500 lire al giorno. Si aggiunga il costo del capitale investito (costo del capo bestiame e del suo posto, considerando che le attrezzature zootecniche moderne costano da 800 mila a un milione di lire per posto-capo), il terreno, l'irrigazione, il lavoro dell'allevatore e dei suoi collaboratori; dopo questo calcolo possiamo dire che non sono fuori posto gli allevatori quando invocano almeno 300 lire al litro del latte. Se si è consenzienti su questo non si devono fare false demagogie quando la Commissione provinciale prezzi deve fissare il prezzo del latte al consumo. Consideriamo che milioni di cittadini consumano una tazzina di caffè più volte al giorno a 200 lire alla tazza e consideriamo che un litro di latte, che costa 350 lire, può servire per un'intera famiglia, almeno per una colazione.
Per ottenere foraggi e granelle ci vuole acqua; per la risicoltura ci vogliono terreni adattati; per i cereali ci vuole acqua; per la zootecnia ci vogliono attrezzature: sono tutte cose ovvie, quindi è ovvio che vanno privilegiati questi settori. Ormai, è noto, i mezzi a disposizione sono sempre più scarsi; non ci sono denari per abbellire le case, perciò bisogna indirizzare nella giusta direzione le iniziative: trasformazioni fondiarie impianti di irrigazione di ogni tipo, attrezzature zootecniche, cerealicole e vinicole. Potendo si potrebbe realizzare anche altro, ma non potendo lo sforzo va fatto in quella direzione.
Commercio. - Il Piemonte è una regione industriale, agricola e turistica; è poco commerciale, o quanto meno lo è poco se si fanno le proporzioni con altre regioni d'Italia. L'accentuazione del fenomeno economico e del suo sviluppo sono sempre stati, da che mondo è mondo strettamente legati alla vocazione della gente, alla particolare ubicazione delle zone e alla consistenza del collegamento con l'altra parte del mondo e, naturalmente, al tipo di produzione della zona. La produzione dell'automobile, primaria in Piemonte e in Italia, non ha certamente bisogno di noi per essere collocata e questo per ovvi motivi; ma sono le altre produzioni che hanno bisogno dell'aiuto associativo e pubblico per trovare sbocchi, collocazione e valorizzazione: bisogna vendere realizzando un guadagno (se si fa come l'Alfa Romeo si va in malora in breve tempo). I prodotti dell'agricoltura, i foraggi, il riso, soprattutto il vino, i prodotti della piccola industria, dell'artigianato, del settore laniero, i prodotti metalmeccanici, del mobile, della utensileria hanno bisogno della collocazione interna ed estera. E' inutile suggerire all'Assessore Marchesotti la promozione di iniziative fieristiche per il commercio interno, essendo ormai risaputo che solo attraverso questa forma si pu dare un aiuto concreto all'economia. Sarebbe più opportuno assumere iniziative per l'esplorazione e l'identificazione delle piazze estere dove i nostri prodotti potrebbero essere collocati. Sarebbe opportuno attraverso le Camere di Commercio, ma soprattutto attraverso l'Istituto del Commercio con l'estero e, se necessario, anche in polemica con esso, andare alla ricerca delle piazze estere dove possono essere collocati i prodotti della nostra terra, della nostra industria e del nostro artigianato. Il mio pu sembrare un discorso campanilistico, ma posso fare l'esempio di un mobiliere che per conquistarsi uno spazio di 25 metri quadrati alla Fiera di Colonia, ha dovuto procurarsi innumerevoli raccomandazioni. Analogo discorso può valere per i mercati del terzo mondo e per i mercati d'oltre Oceano.
In sostanza, la Regione può fare queste cose assumendo iniziative serie e concrete.
Scuola e istruzione professionale. Ritengo un preciso dovere degli amministratori eletti dai cittadini, e che quindi hanno responsabilità pubbliche, di preoccuparsi e occuparsi della scuola, dell'educazione e dell'istruzione. E' vero che non possiamo fare molto sul piano dell'assetto della scuola, dell'organizzazione, dei finanziamenti, essendo competente lo Stato, ma sarebbe estremamente utile che fossimo tutti uniti nel dire ai giovani, alle famiglie, alla popolazione e ad una certa parte di docenti che questo andazzo non può più continuare. Mi riferisco al non studio e alla promozione facile. Quando nel processo di democratizzazione della scuola si inserì non solo il concetto della "scuola aperta a tutti", ma anche il concetto della promozione aperta, si commise la prima grave debolezza e fu fatale che il processo di pretesa democratizzazione si trasformasse presto, nonostante la resistenza di pochi, in processo di faciloneria. Si tratta di ridare alla scuola la funzione di selettività e di educazione.
Come Consigliere regionale ho fatto parte della Commissione giudicatrice per l'assunzione di tre geometri. Si presentarono 80 concorrenti dei quali 72 ebbero il coraggio di affrontare l'esame. Il concorso si concluse con l'assunzione di tre validi candidati, tra cui due donne.
Dei 72 partecipanti, alla domanda "che cos'é un ettaro" solo il ventiquattresimo seppe rispondere. All'avv. Vecchione, Presidente della Commissione, sbalordito chiesi: "Se vi fossero degli esaminandi ai quali come uomo di legge, chiedessi che cos'è un codice e quelli non lo sapessero, tu che cosa faresti? ".
La storia dell'ettaro è paragonabile alla storia del codice. Non si pu pretendere di diventare geometri, ragionieri, maestri, o peggio ancora medici, avvocati, ingegneri senza preparazione alcuna e lamentarsi che la società, la quale ha consentito di studiare, non è pronta a dare un posto di lavoro a tutti. La selettività della scuola non significa atteggiamento duro nei confronti dei giovani.
Ritengo che gli amministratori debbano svolgere nei confronti dei giovani anche la funzione di risanamento delle mentalità e delle psicologie, andando a spiegare che la vita è una conquista che incomincia sui banchi di scuola, giorno dopo giorno, attraverso sacrifici se si vuole salire la scala sociale e se si vuole essere utili a se stessi e agli altri.
Spenderò alcune parole sulla formazione professionale, argomento che già altri Consiglieri hanno trattato. Quanto ero Assessore all'istruzione avevo rilevato le manchevolezze e le storture del settore, soprattutto le grandi richieste di fronte ai pochi soldi e immagino che oggi lo siano ancora meno. Occorre attuare una scelta rigorosa dei corsi di istruzione professionale. I giovani possono frequentare tre anni di scuola professionale imparando a fondo alcune materie che permettano di impadronirsi di un mestiere dignitoso oltre che ben retributivo. Vi sono dei giovani diciottenni cuochi, assistenti negli alberghi, operatori zootecnici, trattoristi, motoristi che percepiscono uno stipendio iniziale attorno alle 400 mila lire mensili. Dico queste cose anche ai dipendenti regionali che magari hanno già al loro attivo alcuni anni di anzianità.
Concludo per dire alcune cose sugli impegni finanziari. Ne ha parlato ieri l'avv. Paganelli e ricordo anche il ragionamento che fece il collega Rossi, tenace osservatore delle situazioni finanziarie della Regione. Egli quindici giorni or sono osservava che la Regione con i mutui contratti fino ad oggi, con quelli che finirà di contrarre da oggi in poi e con la massa di spese correnti si troverà, nel 1980, ad avere un carico tale che il bilancio risulterà notevolmente assottigliato. I mezzi sono pochi, le iniziative da realizzare sono molte e, tra queste, alcune sono più importanti e più urgenti, l'abilità sta nel scegliere. Questo Piano lascerà l'amaro in bocca forse a molti, ma sarà un Piano serio che responsabilizzerà chi lo ha proposto, chi lo ha approvato, chi lo assiste chi lo critica nella misura in cui riuscirà ad essere estremamente aderente alla realtà.
Mi viene in mente un contadino che faceva parte del Consiglio di un Comune della provincia di Cuneo, uomo probo, onesto, abituato ad amministrare le cose di casa propria con semplicità e precisione caratteristica peculiare dei contadini. Poiché il sindaco e i colleghi del Consiglio proponevano una spesa che egli non riteneva urgente e soprattutto troppo gravosa per il Comune, quando gli toccò di parlare disse che avrebbe votato contro, perché quel debito sarebbe finito sulle spalle degli "antenati". Il poveretto aveva compiuto un lapsus freudiano: intendeva dire i posteri.
In verità certi debiti troppo onerosi e troppo proiettati nel tempo finiscono sulle spalle di coloro che non sono ancora nati, quindi aveva ragione quel contadino, finiscono sulle spalle degli antenati.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Besate.



BESATE Piero

Prima di entrare nel merito del tema che ho scelto per il mio intervento, intendo fare alcune considerazioni sulla pianificazione in generale e, in particolare, sul ruolo del piano. Devo dichiarare la personale soddisfazione nel vedere che, finalmente, la Regione Piemonte si avvia alla definizione e alla approvazione, sia pure con le diversità di posizioni dei vari Gruppi, di questo documento. Appartengo a coloro che, in età giovane, conobbero alcuni uomini, che, per la prima volta, andarono come missionari, in Piemonte a predicare nei Consigli provinciali la programmazione: Lombardini, Detragiache, Maspoli, Bodrato e altri. Ci furono dibattiti, perplessità. Il Bollettino del Comitato regionale del mio Partito (allora si chiamava "Piemonte Cronache") trattò di questo problema.
Erano gli anni di preparazione del centro sinistra; si era andato esaurendo il ciclo del centrismo; l'idea della programmazione veniva ripresa dalle forze politiche e culturali che si collocavano alla sinistra nel mondo cattolico, con la partecipazione dei socialisti e dei comunisti che, di fronte allo sviluppo selvaggio degli anni '50, si proponevano l'obiettivo di discutere quel tipo di sviluppo e d'i proporne uno nuovo.
Vennero i periodi dell'individuazione delle aree ecologiche, la prima legislatura e poi questa. Il documento che oggi abbiamo in esame è il prodotto del lavoro non soltanto di coloro che hanno partecipato in questi ultimi anni alle consultazioni dell'intera comunità piemontese. Dallo scetticismo iniziale, dagli scontri, dagli sforzi che sono stati compiuti oggi si arriva a discutere, sia pure con valutazioni diverse, un documento che, per la sua filosofia (non nel senso delle scelte e delle indicazioni ma del ruolo), si pone l'obiettivo della programmazione.
La programmazione e soprattutto la pianificazione sono difficili.
Ricorderò il giudizio sulla pianificazione dato da due uomini politici al massimo vertice mondiale: del XXV Congresso del PCUS (che interessò tutti soprattutto per i giudizi sull'eurocomunismo), ci è sfuggito (forse per questo fatto politico predominante) il giudizio che Breznev dava sulla pianificazione quinquennale: "Non riteniamo di dover andare oltre anche se ci sono le proiezioni quindicennali, perché le variabili che entrano in gioco sia all'interno dell'Unione Sovietica che all'esterno sono tante e tali che sarebbe impossibile dare una definizione intrinseca al traguardo dei quindici anni". Questo lo dice il capo di uno Stato che ha tutto in mano, dalle forze armate, alla finanza, alle aziende. Nixon diceva: "I piani sono inutili, ma pianificare è necessario". Sembra una "boutade" americana. Invece, nell'approfondimento del concetto, si può dire che dalle previsioni iniziali a quelle finali di piano si trovano degli scostamenti anche macroscopici. Pianificare è tuttavia necessario per poter dominare tutte le variabili che entrano in gioco, anche quelle che sono imprevedibili o suscettibili di interferenze interne o esterne.
Con questo documento presentato in questa forma, anche grazie agli apporti delle maggioranze di ieri e di oggi, delle opposizioni di ieri e di oggi e soprattutto delle forze esterne, dei Comprensori, dei Comuni, delle forze sociali, abbiamo la possibilità di fare un discorso serio, radicato nella realtà, che tiene conto delle variabili e delle risorse disponibili.
Sono stati rilevati degli errori. Certamente altri ne saranno rilevati nel momento in cui il piano si calerà nei piani socio-economici comprensoriali e nei piani territoriali comprensoriali. E' un piano processo, un piano partecipato. Dal concetto di pianificazione autoritaria fatta scientificamente, illuministicamente, che cala dall'alto, si passa ad una pianificazione democratica che è un continuo andare e venire dal centro alla base, come usiamo dire noi comunisti per significare il rapporto tra società e istituzioni.
All'interno di questo programma un ruolo importante e rilevante ha l'agricoltura. Ho scelto questo tema non solo quale componente della III Commissione, ma soprattutto perché mi pare che il capitolo agricolo all'interno del documento generale del Piano si presenti con alcune particolarità rilevanti. L'agricoltura è trattata come settore direttamente produttivo, con aziende tutte di tipo privato e, quindi, considera la programmazione che deve essere fatta d'accordo con gli operatori privati.
Non siamo in un campo dove l'operatore è pubblico: dobbiamo avere il consenso degli operatori privati, altrimenti quella pianificazione risulterà assolutamente inaccettabile e comunque non efficace.
E' uno dei documenti più quantificati, sia per quanto riguarda gli obiettivi (il che vuol dire anche qualificare le scelte), sia per quanto riguarda le risorse disponibili. Una valutazione positiva è stata svolta dal collega Gastaldi del Gruppo repubblicano. Conosco anche quella del collega Borando svolta poco fa.
La serietà del documento agricolo è tanto più rilevante in quanto si riferisce anche a variabili esterne nazionali, europee, non ancora ben definite. Ad un certo punto è detto: "senza una redifinizione della politica agricola comune e dei relativi meccanismi sarebbe impossibile andare avanti". In esso si fa riferimento alla carenza di un quadro programmatico nazionale, alle competenze che saranno trasferite dalla legge 382, al raccordo con i provvedimenti in corso di discussione in Parlamento: il cosiddetto " quadrifoglio " (forestazione, irrigazione, zootecnia colture pregiate), il rifinanziamento delle Regioni (si parla di 330 miliardi alle Regioni e 170 miliardi al Ministero), il provvedimento sulle terre incolte, la riforma dell'AIMA, il provvedimento sull'associazione dei produttori agricoli e, infine, il provvedimento di revisione degli attuali contratti agrari.
L'accordo programmatico tra i partiti dell'arco costituzionale riprende, appunto, tutti questi temi in discussione: si riparla della Cee dei contratti agrari, dell'AIMA, soprattutto dell'agricoltura in termini di riduzione del disavanzo della bilancia dei pagamenti, del problema del "quadrifoglio", con particolare sottolineatura per le zone collinari e montane, delle terre incolte, della cooperazione, dell'associazione dei produttori agricoli, del credito agrario e degli interventi nella trasformazione e commercializzazione dei prodotti. Il documento regionale è stato scritto prima dell'accordo programmatico.
A pag. 18 viene indicata una quantificazione in riferimento alle strutture. Questo è strettamente previsto anche in rapporto al disegno di legge n. 117: l'intenzione è proprio questa, è una maglia discutibile quanto si vuole, ma che si ritrova nel documento urbanistico. Mi riferisco ai colleghi repubblicani, sempre sensibili e attenti alla questione della razionalizzazione e del contenimento della spesa. Si dice che 200 miliardi sono insufficienti; certo, se si considerano i termini degli interventi che per 30 anni hanno presieduto alla politica agraria con i risultati che conosciamo, questo impegno è insufficiente. Sono proprio quei termini criticati da parte di tutti. Oggi che siamo al "dunque" bisogna pure che ci mettiamo d'accordo.
Il documento parla soprattutto di attuazione delle direttive CEE, legge 15, ammodernamento delle aziende per raggiungere il reddito comparabile con i settori extra agricoli e parità di condizioni di vita civile con le situazioni non rurali. Ci vuole la prospettiva, se manca la prospettiva mancano i giovani: questo è il grosso problema, non solo nell'agricoltura piemontese. La parte più importante è costituita dall'ammodernamento delle aziende da conseguirsi attraverso i piani aziendali, sempre che sussistano i requisiti. Ecco allora che realizziamo lo schema della razionalizzazione e il contenimento della spesa. Non dico che elimineremo completamente gli sperperi e gli interventi a pioggia, certamente li limiteremo. Non era ammissibile continuare con i metodi di un tempo che avevano suscitato ironia e soprattutto danno. Se riusciremo a realizzare questo scopo non avremmo soltanto raggiunto una qualificazione nella spesa per l'agricoltura, ma avremo ridato fiducia al mondo agricolo.
Il documento fa grande affidamento ai piani agricoli zonali. Se ne parla nello Statuto, nella legge delle procedure, nella legge delle direttive Cee, nella legge sui parchi, nella legge dell'Esap e in quella cha approveremo in questi giorni. Essi sono l'articolazione in agricoltura del Piano regionale di sviluppo. Questo vale anche per gli interventi al di fuori delle direttive, per un altro tipo di aziende, per il credito di conduzione, per le macchine, per certi interventi in zootecnia, per certi interventi per miglioramenti fondiari e in particolare per quanto riguarda la montagna e la collina. Il documento prevede giustamente un ruolo importante dell'Esap e siamo d'accordo. Non so se potremo (e lo dichiaro come Gruppo) in questo scorcio di sessione approfondire il dibattito sull'Esap in occasione dell'approvazione della legge di adeguamento. Se il dibattito non fosse possibile ora, riteniamo che esso debba improrogabilmente svolgersi in autunno. Ritengo, inoltre, di dover entrare nel merito di un argomento essenziale: l'irrigazione, per non dire la sistemazione idrogeologica. Il documento giustamente rammenta che anche l'Esap prevede interventi in materia, e ci trova consenzienti soprattutto il modo con cui viene posto il problema del Moiola, dell'alto Tanaro dell'agro di Poirino, ecc. E' importante che questo modo sia rigorosamente rispettato ed attuato: accertamenti obiettivi, decisioni e verifiche tecnico-scientifiche e di fattibilità tecnica ed economica di questi grandiosi interventi. Mi permetto di riprendere alcuni argomenti inerenti agli interventi minori. Il documento di piano dice che per lo sviluppo della zootecnia occorre sviluppare le foraggere su almeno 4 mila ettari. La pianura del Basso Biellese chiamata altopiano morenico in zona di bonifica attualmente è coltivata completamente; non vi esiste però un sistema irriguo, salvo l'impianto di aziende agricole diretto-coltivatrici che lo sostengono con un lavoro improbo. Il territorio si trova in zona industriale; le federazioni dei Coltivatori diretti di Biella e di Vercelli tennero pochi mesi fa un convegno, presentando uno studio preliminare che trovò l'accordo di tutte le componenti contadine, delle forze politiche del Comprensorio. Quell'argomento deve essere ripreso: poiché con una spesa limitata a carico della Regione per lo studio e con la spesa per la bonifica a carico dello Stato si potrebbe sviluppare la foraggera e la zootecnia su una superficie di 5 mila ettari.
I problemi irrigui e dell'uso delle acque sono strettamente connessi con quelli delle centrali nucleari e più ancora con quelli delle centrali elettriche sia che si tratti delle centrali idroelettriche, sia che si tratti delle centrali termoelettriche ed elettronucleari.
Ma quale che sia la politica delle localizzazioni in rapporto al Cnen in rapporto al Ministero dell'industria e del commercio, in rapporto all'Enel, all'azione delle Regioni, soprattutto in rapporto all'atteggiamento delle popolazioni, dobbiamo dire al Governo che né la Regione né i Comuni possono ridursi a fare la parte del Calandrino, che va a prendere le botte dalle popolazioni e dagli agricoltori per presentare il piatto bell'e fatto al Ministero, il quale se ci sarà l'opposizione delle popolazioni dirà "sono le Regioni", poi quando invece va a Piacenza, al convegno, dice: "Se voi Regioni non decidete decido io". Ve lo immaginate Donat-Cattin che decide per Sale o per Trino? Il problema è quello di avere le Regioni presenti nel piano energetico. Gli agricoltori di Vercelli e di Novara non fanno il terrorismo pseudoecologico, ma fanno la questione dell'insediamento delle centrali responsabilmente, rendendosi conto della necessità dello sviluppo degli impianti di produzione e di energia. Con la legge 117 intendiamo difendere tutta l'area agricola e su questo c' l'unanimità del Consiglio regionale. D'altra parte se si toglie l'acqua di irrigazione per l'agricoltura si rendono vani tutti gli sforzi che vengono fatti per salvaguardare e potenziare questo settore tanto necessario per lo sviluppo dell'intera economia italiana, si va a rovinare il comprensorio agricolo di ben 200 mila ettari irrigui compreso tra il Ticino e la Dora Baltea, per il quale sono previste opere non programmate, alle quali i governi che si sono succeduti non hanno provveduto minimamente. Su questo terreno si misurerà certamente la volontà politica delle forze regionali e dell'intero assetto politico, perché sappiamo che, quando si va alla base si trova il democristiano del Comune che non è d'accordo con quello della Regione, idem per gli altri partiti; ci sono, cioè, linee, elementi di emotività, di non conoscenza del problema, ma soprattutto di disinformazione da parte dell'Enel, del Cnen e del Governo che incidono su questi problemi, che incidono sul problema dell'uso delle acque sull'inquinamento del Po, sull'assetto idrogeologico che potremmo ritrovare rimbalzati sull'agricoltura, sulla disponibilità di acque per usi industriali, civili, energetici. Se non affrontiamo questi problemi nel complesso, così come sono affrontati nel documento, ci ritroveremmo una situazione di ribaltamento di tutte le previsioni che facciamo, sia pure con tutte quelle correzioni, quei suggerimenti che vengono dalla critica e da un esame approfondito, obiettivo e anche appassionato come sta avvenendo nel dibattito in corso.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Lombardi.



LOMBARDI Emilio

Signor Presidente, signori Consiglieri, la grave crisi economica che dopo gli anni del miracolo economico ha colpito il nostro paese, ha posto negli ultimi tempi al centro dell'attenzione generale l'agricoltura colpevole secondo i più di marcata arretratezza e del conseguente grave deficit della bilancia commerciale con l'estero. Non sarò certamente io a voler confutare che siamo largamente deficitari con l'estero nella bilancia alimentare. Le cifre sono chiare. Quello che invece mi preme far rimarcare con il conforto di cifre altrettanto chiare, è che l'agricoltura italiana specie in alcune aree e per alcuni settori, in questo dopoguerra è cresciuta, com'é cresciuto il paese e che, là dove è stato possibile, il coltivatore diretto italiano ha saputo, con il suo intelligente lavoro tirar fuori dalla terra, una terra spesso ingrata, tutto il possibile.
Tutti sappiamo che solo un terzo del territorio nazionale è pianeggiante, che il rimanente è collina o montagna e che mentre la popolazione continua a crescere, così come continua a crescere il consumo alimentare pro capite, i terreni coltivabili, per cause diverse, tendono a ridursi sempre più. Ed allora bene hanno fatto i partiti che hanno sottoscritto l'accordo a livello nazionale a proporsi come obiettivo di fondo la copertura del 90% dei nostri consumi alimentari, ma ho il fondato timore che si sia peccato d'ottimismo. Il nostro Paese, parte integrante del Mercato Comune Europeo, speriamo presto di una Europa unita, a sua volta inserita in un libero mercato a livello mondiale, fintanto che manterrà, come ci auguriamo, questa posizione, dovrà accettare le regole di carattere economico che ne discendono e che per quanto attiene al settore agricolo-alimentare, specie per alcune produzioni, ci obbligheranno ad essere deficitari nel tempo.
Ho voluto fare questa schematica e se volete superficiale premessa perché pur con i suddetti limiti essa fa giustizia di alcune critiche e di alcuni obiettivi eccessivamente ambiziosi contenuti nel piano. Quando parliamo e soprattutto decidiamo di problemi agricoli, non possiamo, non dobbiamo dimenticare che le linee politiche fondamentali sono quelle decise a Bruxelles e su quelle dobbiamo costruire e non su ipotetiche, seppur auspicabili, riconsiderazioni ed innovazioni.
Passando all'esame concreto del Piano ho notato come, per quanto attiene agli obiettivi, vi sia stato un notevole ridimensionamento, da quelli indicati nella prima stesura. Notevole ridimensionamento e prudenza ma non ancora sufficienti. Non possono infatti coesistere, nonostante l'equivoca dizione, il più elevato possibile livello di reddito (primo obiettivo) col più alto livello possibile di occupazione (secondo obiettivo). Non lo possono perché sono esigenze contraddittorie, a meno che qualcuno non riesca ad accrescere una terza componente: il terreno coltivabile, che purtroppo però rimane quello che é, anzi diminuisce nonostante gli sforzi che faremo per recuperare le terre incolte e soprattutto non possono coesistere in una realtà europea, ove gli addetti all'agricoltura degli altri paesi membri sono mediamente la metà che nel nostro paese e ove le aziende agricole, di conseguenza, hanno mediamente una dimensione doppia delle nostre. Bisogna prendere atto di questa realtà e non rifugiarsi in soluzioni che oltretutto si affidano a strumenti, vedi terre incolte o piani di zona, che non sappiamo bene cosa saranno o cosa ci potranno offrire, anche se, e lo affermo con forza, a scanso di equivoci sono strumenti in cui crediamo e per i quali offriamo la nostra collaborazione affinché riescano al massimo aderenti alle nostre necessità.
Quando il piano afferma che per raggiungere gli obiettivi su indicati bisogna migliorare l'irrigazione, la zootecnia, le colture pregiate, la forestazione, che bisogna incentivare l'associazionismo e la cooperazione penso ci trovi tutti d'accordo anche perché sono esigenze espresse ripetutamente da ormai molto tempo un po' da tutti. Ma il fatto che ci trovi tutti d'accordo, che tutti siano accontentati è positivo? Credo proprio di no, e che questa onnicomprensività abbia chiaramente il significato di un ulteriore tentativo da parte della Giunta di facile ricerca del consenso. Non lo sarebbe se avessimo risorse infinite e non 250 miliardi che si ridurranno, collega Besate, a circa 127 se il taglio obbligato, viste le disponibilità nel loro complesso per l'area di intervento n. 1, sarà proporzionato al taglio delle altre aree d'intervento. Bisogna assumersi la responsabilità, esprimere la volontà politica di scegliere l'irrigazione o la zootecnia, la ortofrutticoltura o la viticoltura, la forestazione o la cooperazione. Con queste scelte cartacee tutti s'aspetteranno molto, rimanendo poi delusi nello scontro con la realtà dei fatti.
Inizierà allora la ricerca di chi ha sbagliato, ricerca difficile quasi impossibile nel composito quadro di competenze esistente nel nostro paese.
La prima stesura del piano fotografava qualche volta in modo preciso spesso sbiadito, la situazione, forniva però alcune conoscenze indispensabili per giudicare un piano. La stesura che discutiamo, più prudente, è estremamente carente di dati di partenza. Ci sono questi dati? Sono probanti? Se non ci sono o se non sono probanti, come possiamo modificare la realtà che non conosciamo? Sugli strumenti comunque, pur lamentando una notevole genericità, almeno sotto l'aspetto generale possiamo concordare con la relazione di piano. Non ci pare invece sufficientemente esplicita e precisata la forma di conduzione che dovrebbe realizzare, con gli strumenti su indicati, gli obiettivi proposti. E' vero si fa specifico riferimento alle imprese contadine diretto-coltivatrici, ma a parte la questione formale dell'aggettivo "contadino" che è un ritorno al passato e ciò per un piano di sviluppo non è di buon auspicio, non ci sembra a sufficienza precisata quale sia l'azienda diretto-coltivatrice alla quale tendiamo.
A differenza delle lacune ed omissioni su questa scelta fondamentale da parte del piano, noi riteniamo di dover ancora una volta precisare che l'azienda diretto-coltivatrice, come abbiamo sempre sostenuto, è la forma migliore, per le condizioni naturali, ambientali, umane nelle quali deve lavorare e svilupparsi la nostra agricoltura.
La nostra scelta non discende solo da un'esigenza di carattere produttivo, ma da una concezione che tende, qualche volta in apparenza anche a scapito della massima efficienza, in tutte le fasi della produzione a privilegiare l'uomo, in questo caso il coltivatore diretto. In un momento in cui si pone con forza il problema di una diversa organizzazione del lavoro in settori determinanti della nostra economia, per rimediare all'insofferenza ed alla disaffezione, spesso comprensibili, al tipo di lavoro svolto, noi riteniamo che l'azienda diretto-coltivatrice offra la possibilità a chi in essa opera di esprimersi e di impegnare ogni sua capacità. Riteniamo altresì l'azienda a conduzione familiare valida sotto l'aspetto produttivo, sia per quanto riguarda la quantità che la qualità.
Non possiamo dimenticare che da essa proviene l'88,9% della produzione agricola lorda vendibile piemontese, pur lavorando essa solo il 75% dei terreni coltivabili. L'azienda diretto coltivatrice deve però essere messa nelle condizioni di raggiungere le dimensioni ottimali, che noi riteniamo raggiunte, quando essa permetta l'impiego a tempo pieno della mano d'opera familiare con l'uso della massima meccanizzazione e dei più moderni mezzi tecnici offerti dal mercato per il tipo di produzione aziendale, che deve sempre più tendere alla specializzazione. Coltura specializzata che se incrementa la produttività ed il prodotto lordo vendibile a parità di terreno coltivato, pone però grossi problemi di mano d'opera e di tecniche produttive. Penso sia nota a tutti la difficoltà, in tempi normali, di trovare mano d'opera dipendente nel settore agricolo e a questo problema il piano non dà risposta. L'azienda specializzata a conduzione familiare abbisogna in ristretti periodi di tempo per lavorazioni stagionali, di mano d'opera anche specializzata (pensiamo alla potatura nel settore viticolo e frutticolo, pensiamo alla raccolta dei prodotti nel settore orticolo e frutticolo).
Riteniamo che prevedere la possibilità di costituire delle cooperative di lavoro, anche per il settore della forestazione, che possano adeguarsi alle esigenze delle varie produzioni a livello comprensoriale od a livello anche più ampio, sia un'esigenza inderogabile, la cui soluzione è premessa indispensabile, non solo per dare un grosso contributo ai problemi dell'occupazione, ma per poter estendere le colture specializzate in molte zone votate della nostra Regione.
Siamo coscienti che a monte e a valle, e qualche volta nelle stesse fasi della produzione, l'azienda a conduzione familiare deve affrontare problemi non risolvibili dall'azienda singola ed allora nasce l'esigenza dell'associazionismo e della cooperazione. Quanto detto dal piano su questo tema è da noi condiviso, anche se riteniamo di dover esprimere una preoccupazione. Riteniamo che l'associazionismo e la cooperazione abbiano una validità, anche economica, intrinseca e che siano quindi in grado di affrontare il mercato con le proprie forze. L'attuale legislazione sulla cooperazione, spesso punitiva nei confronti dei cooperatori, richiede che la Regione, la Comunità intervengano con finanziamenti sia di tipo promozionale che equilibratore. Dobbiamo però stare attenti a non far nascere, sorgere nel settore, con finanziamenti indiscriminati, iniziative di carattere speculativo o di rapina che possono, appena la speculazione per diversi motivi non fosse più esercitabile, far indietreggiare il movimento cooperativo, proprio nel momento in cui esso sta entrando sempre più nel modo opportuno nelle nostre campagne. So che la sperimentazione è rimasta alla competenza statale, ma vi devono essere dei momenti puntuali di raccordo con le applicazioni concrete di competenza della Regione. In questo senso il piano è carente specie per quanto riguarda alcuni comparti produttivi, estremamente bisognosi di sperimentazione, che noi riteniamo strumento determinante per il progresso della nostra agricoltura.
Assistenza tecnica, formazione professionale, assistenza contabile informazione socio-economica, piani aziendali e zonali, perché diventino strumenti validi devono poter disporre a monte di una sperimentazione d'avanguardia, senza la quale ogni iniziativa diventa un punto interrogativo, dietro il quale spesso si nascondono delusioni economiche e morali. E visto che abbiamo accennato alle varie forme di assistenza vogliamo, dopo la discussione già avvenuta sulla legge n. 15 di recepimento delle direttive CEE, ribadire la nostra posizione in merito, che sembra largamente accettata dalla proposta di piano.
Per motivi di carattere generale e settoriale riteniamo che essi debbano essere autogestiti, anche se non obbligatoriamente, in forma unitaria. Occorre resistere alla tentazione di burocratizzare e rendere statici gli strumenti operativi. L'esperienza negativa di molte iniziative gestite dagli Enti pubblici, dimostra come sia necessario affidarle a strutture organizzative di diretta espressione e controllo del mondo agricolo, limitando il ruolo della Regione ad azioni di programmazione, di coordinamento, di controllo, di studio e statistica, collegamento alla scuola, all'Università, alla ricerca scientifica.
Nulla sarebbe più deprimente per gli imprenditori agricoli, della vista di un crescente numero di pubblici funzionari impegnati in paternalistiche gite di lavoro per la campagna o peggio trincerati dietro le loro scrivanie, a cui essere soggetti. A questo proposito vorrei domandare al collega Gastaldi come concilia la posizione del suo partito che chiede in ogni sede il blocco delle assunzioni negli Enti pubblici, con la richiesta avanzata ieri in quest'aula, che questi organismi siano gestiti direttamente dalla Regione.
Mentre mi avvio rapidamente a concludere il mio intervento ritengo ancora necessario approfondire alcuni problemi specifici che il piano o non sviscera sufficientemente o addirittura con affronta. Il primo è quello dei rapporti agricoltura-industria. Positivamente è da considerare il discorso dell'integrazione tra produzione agricola ed industria di trasformazione inteso come momento fondamentale per l'assunzione di una maggiore, diversa valenza economica per il settore agricolo; ma perché questo avvenga occorre prima creare gli strumenti che permettano all'agricoltura di affrontare la contrattazione con l'industria da pari a pari; altrimenti accresceremo solo l'asservimento dell'agricoltura all'industria e ridurremo lo spazio d'imprenditorialità del coltivatore. Non possiamo dimenticare quello che sta avvenendo nel settore del latte e quanto successe due anni fa in Campania sul mercato dei pomodori da industria. Il secondo è quello dei servizi e delle infrastrutture. Fra gli obiettivi generali del piano vi è quello di un riequilibrio territoriale da raggiungersi anche attraverso ad un notevole miglioramento delle condizioni di vita da parte della popolazione agricola ed in genere rurale. E' a mio avviso la priorità delle priorità - e si potrebbero fare in merito numerose riflessioni e constatazioni. Mi limito a porre una domanda. Com'è pensabile che i giovani e le giovani, visto che questo è un obiettivo condiviso da tutti, si fermino in agricoltura, quando migliaia di aziende agricole della nostra Regione sono ancora senza corrente elettrica, servite da strade ridotte in pantani per lunghi periodi dell'anno, senza acqua potabile, con intere aree prive di un'assistenza sanitaria accettabile e di un qualsiasi servizio socio-assistenziale? Queste proposte precise attendono, anche per notevoli responsabilità del mio partito, ancora una risposta che il piano deve dare se non vogliamo avere delle aziende agricole potenzialmente efficienti, ma abbandonate, perché chi poteva o sapeva gestirle non aveva lo spirito del missionario.
In ultimo, come già in parte sottolineato dal collega Oberto, non si può non esprimere stupore per come viene sbrigativamente affrontato il problema agricolo delle zone montane o di collina depressa. L'Assessore mi risponderà che vi è la legge n. 15, che ci sarà la forestazione. Non è sufficiente. E' vero, esistono i piani di sviluppo socio-economici della Comunità, ma è opportuno che ci rendiamo conto che l'agricoltura di montagna può e deve essere migliorata, ma che non potrà mai diventare competitiva con quella delle zone più fortunate della nostra Regione, del nostro paese e tanto più degli altri paesi della Comunità. L'operatore agricolo svolge nelle nostre montagne non solo un'attività produttiva, che ripeto va migliorata e potenziata, ma esplica in misura maggiore una funzione equilibratrice nella meravigliosa natura montana, per la quale la Comunità deve essergli riconoscente, non solo verbalmente, ma integrando con opportuni provvedimenti il suo scarso reddito e difendendo attraverso leggi appropriate il suo lavoro, i suoi prodotti da invasioni non sempre pacifiche e rispettose.
Il giudizio complessivo sui contenuti del piano, anche per quanto riguarda il settore agricolo, per le ragioni contenute nel mio intervento non può essere favorevole, nonostante i sensibili miglioramenti apportati nella seconda stesura. Ma il giudizio critico e negativo non significa disimpegno e pur nella distinzione e nel rispetto dei ruoli che il momento politico ci assegna, siamo disponibili a lavorare affinché il piano si concretizzi nella realizzazione pratica, meglio di quanto sia stato ideato nella stesura teorica, convinti come siamo che così facendo contribuiremo a migliorare la situazione economica e sociale della nostra agricoltura e con essa quella dell'intera regione.



PRESIDENTE

Signori Consiglieri, stante l'ora la seduta si conclude. Riprenderemo i lavori oggi pomeriggio alle ore 15,30 precise. L'Ufficio di Presidenza è convocato per le ore 15,15.
La seduta è tolta.



(La seduta ha termine alle ore 13)



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