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Dettaglio seduta n.132 del 25/07/77 - Legislatura n. II - Sedute dal 16 giugno 1975 al 8 giugno 1980

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Argomento:


PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SANLORENZO


Argomento: Organi, strumenti e procedure della programmazione

Esame Piano regionale di sviluppo 1977-1980 (seguito)


PRESIDENTE

La seduta e aperta.
Ha chiesto la parola il Consigliere Carazzoni. Ne ha facoltà.



CARAZZONI Nino

Prendo la parola adesso per una sottolineatura politica che mi sembra valida: non si può lasciare passare sotto silenzio la completa diserzione che in questo momento è ben chiara dinnanzi ai nostri occhi, della Giunta e soprattutto del Presidente e dell'Assessore al bilancio E' un rilievo che non posso trascurare di fare.
Nel recente dibattito parlamentare sulla mozione dei sei partiti, ad un certo punto l'on. Pannella, lamentando il vuoto desolante della Camera, si rivolse al suo collega Ingrao, signor Presidente, con un richiamo parlamentare, per sostenere che spetta tra l'altro alla Presidenza il compito di tutelare la dignità dei dibattiti alla Camera stessa, e pertanto l'on Pennella si sentiva autorizzato a chiedere addirittura la chiusura del dibattito, stante l'indifferenza e l'assoluto disinteresse della maggioranza, il che certo non è prova di rispetto democratico nei confronti delle voci dell'opposizione.
Non ho proprio niente, signor Presidente, da mutuare dall'on. Pannella o dal Partito radicale, ma le sarei comunque grato se,.per la dignità dell'assemblea che lei presiede, quanto meno venisse accolto questo mio rilievo sulla latitanza della Giunta stessa. Forse perché non ci sono le cineprese, come mi fa argutamente notare il collega Oberto. Detto questo cercheremo di svolgere qualche rapida considerazione sull'argomento che è all'ordine del giorno dei nostri lavori per dire che la riconosciuta eccezionalità di questo dibattito ci induce ad esordire con una precisazione iniziale che pensavamo - abbiamo usato l'imperfetto - doverosa ma soprattutto rispettosa nei confronti di questa assemblea che invece come abbiamo visto, è poco rispettosa nei confronti della dignità e dell'importanza del dibattito stesso; con una precisazione iniziale dicevamo -- in ordine al taglio che abbiamo scelto di dare al nostro intervento. Partendo dalla premura, peraltro scontata, che la discussione sul Piano di sviluppo non possa non essere impegnata e qualificante pensiamo che una forza politica con le caratteristiche proprie del Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale, debba avere, in questa circostanza non certo l'accortezza, non certo la furbizia, non certo la malizia, ma la sensibilità di sfuggire all'equivoca tentazione, di autovincolarsi ad un esame dettagliato e particolareggiato del documento che ci è stato presentato dalla Giunta con il rischio, così facendo, di cadere in una valutazione critica che per il fatto stesso di essere agganciata al dettaglio finirebbe soltanto con lo sfumare la globalità di quella "opposizione alternativa" che qui intendiamo invece interpretare e rappresentare.
Ecco perché - ed è questa la sostanza della spiegazione che riteniamo di dover dare all'assemblea - il nostro intervento, come lei desiderava signor Presidente, sarà breve, o per lo meno relativamente breve, non perché da parte nostra, sia chiaro, venga sottovalutata o sminuita l'importanza dell'argomento trattato e quindi la conseguente necessità che si faccia spazio ad un'approfondita riflessione, ma invece e piuttosto perché nel quadro di un dibattito (e abbiamo avuto le avvisaglie questa mattina) destinato inevitabilmente ad essere lungo e quindi dispersivo quello che a noi preme è fare emergere, con la massima chiarezza possibile le posizioni del MSI-DN, il che può soprattutto ottenersi se punteremo come cercheremo di fare, non alla quantità, cioè alla lunghezza dell'intervento, anche se poi questo significa rinunciare aprioristicamente a talune considerazioni di merito che pure sarebbe stato interessante svolgere, citiamo per tutte quella digressione, senza dubbio notevole portata in aula stamattina dal collega Benzi, sulla centralità di Torino e sulla forzata marginalità imposta alle altre aree piemontesi che davvero corrisponde a quello che è sempre stato un tema da noi seguito con appassionato interesse, e che ci solleciterebbe quindi a più ampie osservazioni.
Per concludere su questo punto introduttivo, riconosciamo che questo è nella vita della Regione Piemonte, un momento di alto significato, ciò non di meno il nostro commento a tanto importante passaggio sarà volutamente conciso, poiché ci siamo determinati a precisare poche cose, ma a dirle in modo chiaro, in modo inequivoco, in modo direttamente comprensibile, sicch abbia a risultare esattamente delineata la posizione sull'argomento del MSI DN.
Allora in quest'ottica la prima osservazione di fondo che intendiamo sviluppare è volta ad illuminare, liberandolo da talune equivoche ombreggiature, lo sfondo che sta alle spalle di questo dibattito: è un'osservazione certo pertinente se è vero, com'é vero, che il collega Rossotto, anche lui assente, ha ritenuto di dover aprire la sua relazione al Piano di sviluppo proprio con diffusi richiami ai "fatti nuovi e di grande portata" che hanno caratterizzato la scena politica di questi ultimi giorni. Scrive il relatore - qui citiamo con qualche libertà le sue parole senza peraltro alterarne il senso di fondo - che "il raggiunto accordo programmatico siglato tra le forze politiche democratiche" comporta "come dato generale il miglioramento del clima politico ed il rinsaldamento delle aspettative e della fiducia dei cittadini" e concede "ampio spazio all'assetto istituzionale delle autonomie locali" (dai cenni di assenso crediamo che il Presidente della Giunta sia d'accordo). Ci preme sottolineare che questa introduzione al dibattito sul Piano è stata fatta dal relatore, per cui non è certo pretestuoso il commento che riteniamo di dover fare. Diceva ancora Rossotto che proprio questa origine delle autonomie locali viene ad essere esaltata dalla legge 382, da lui definita una vera e propria rivoluzione attiva dell'ordinamento del Paese.
Non possiamo lasciar passare sotto silenzio queste affermazioni. Anzi le dobbiamo contestare duramente, impugnandole come inesatte o, per meglio dire, come ipocritamente riduttive di una realtà che è ben diversa e ben più grave ma che viene presentata in tal maniera allo scopo di non allarmare ulteriormente l'opinione pubblica. Per cui - e, sia chiaro, noi non facciamo altro che seguire un'impostazione data dal collega Rossotto su questo punto - se si vuole avviare la discussione del Piano di sviluppo partendo da questa considerazione, allora dobbiamo essere molto più precisi. Occorre, cioè, avere il coraggio di affermare - senza fumose e sospette attenuazioni - che questo dibattito si svolge mentre in Italia è venuto a modificarsi non solo il quadro politico ma addirittura il quadro istituzionale, perché questa, infatti, è la verità. Oggi, 25 luglio, la Gazzetta Ufficiale pubblica il testo di una legge che non è soltanto - come può leggersi nella relazione del collega Rossotto - "un'attuazione del dettame costituzionale" e neppure un pessimo compromesso tra i gretti interessi di potere della DC e le pretese incalzanti del PCI. E' qualcosa di più, è qualcosa di peggio, é, se mi consentite, l'atto di morte dello Stato unitario sfasciato dalla viltà democristiana e dall'arroganza comunista per lasciare posto ad un altro Stato, allo Stato federativo, allo Stato delle Regioni. Questo è il mutamento del quadro istituzionale che a qualcuno potrà anche fare piacere, ma che, in ogni caso, ha da essere opportunamente evidenziato e sottolineato, perché, come dicevamo, questa realtà non può essere presentata in termini edulcorati, nella speranza di seguitare a tenere "morfinizzata" l'opinione pubblica. Ma non è cambiato solo il quadro istituzionale, è radicalmente modificato anche il quadro politico, almeno in questo spero di avere l'assenso dei colleghi comunisti.
Infatti l'accordo a sei, e virgolettiamo il termine "accordo" per i motivi che poi espliciteremo, di fatto è intervenuto, con la rinuncia alla pregiudiziale anti comunista, ad ufficializzare l'intesa DC-PCI, che ha la copertura, per così dire di comodo, dei partiti laici minori, dal PSI al PLI, i quali solo ora si accorgono di essere stritolati nella morsa di ferro demo-comunista e solo ora hanno preso a scalpitare.
Il comportamento, dopo l'accordo a sei, dei partiti laici minori ci spinge a dire, a fare osservare al collega Rossotto, che non è vero che abbia determinato un miglior clima politico, anzi è esattamente il contrario, ne sono prova la spaccatura liberale, le inquietudini socialiste, le irrequietezze socialdemocratiche, ne è prova perfino il fermento che si alza all'interno della DC, e che a leggere la "Stampa" di questa mattina dovrebbe essere l'on. Moro incaricato di controllare e di spegnere. Tutto questo è avvenuto a seguito di un accordo, che ha avuto una sua caratteristica precisa ma oggi è già messo in forse dai cosiddetti partiti laici minori; solo i repubblicani si illudono ancora di potersi permanentemente confrontare con la DC da una parte e con il PCI dall'altra mentre tutti gli altri laici hanno capito che non eserciteranno per niente la parte di prime donne, come forse credevano, ma dovranno rassegnarsi al ruolo di comprimari del duo PCI-DC. Anche in questo c'e un mutamento e sottolineo appunto in questo il mutamento intervenuto nel quadro politico.
Il Piano di sviluppo dunque viene discusso in presenza di queste realtà nuove, minacciose e preoccupanti (sulle quali ci vuole anche l'assenso del collega Alberton che stamani ha avuto nei nostri confronti un polemico, sia pur garbato, rilievo), su cui per nulla inciderà l'annunciato voto contrario che la DC si ripromette di dare a questo Piano di sviluppo. E' un voto contrario che proprio non impressiona, né commuove, perch pronunciato, a nostro giudizio, per mero tatticismo, per ragioni di facciata, mentre è vero invece che, da mille segni più volte riscontrati in quest'aula e al di fuori di quest'aula, anche nella Regione Piemonte la politica del compromesso strisciante è ormai perseguita certamente dal Partito comunista, ma anche dalla DC.
Seconda osservazione che intendiamo argomentare: l'opposizione del MSI DN, che non abbiamo timore a riconoscere senza falsi moderatismi come preconcetta e pregiudiziale, al tipo di programmazione che viene qui proposta con questo Piano di sviluppo. Ancora prima di scendere ai contenuti specifici del Piano stesso, sui quali ci soffermeremo più oltre respingiamo in punto di premessa una scelta programmatoria che nei suoi presupposti di fondo consideriamo astratta e velleitaria. Dobbiamo riprendere sotto questo profilo alcune delle considerazioni che avevamo cominciato a svolgere allorquando in quest'aula venne discusso il disegno di legge n. 207 relativo alle procedure della programmazione. E lo facciamo ricordando che, in Italia, tutti i tentativi di programmazione regionale sinora esperiti od in corso hanno fatto registrare, o stanno per far registrare, risultati del tutto fallimentari, senza eccezione alcuna, con conseguente sperpero di migliaia di miliardi , in quanto gli obiettivi quelli finali per i piani esauriti, quelli annuali per i piani in via di attuazione - appaiono non conseguiti, specie sotto l'aspetto dell'occupazione, della produttività e del riequilibrio territoriale.
Le cause principali di questa esperienza certamente negativa sono da individuare, secondo noi, nella mancanza di una programmazione nazionale nella mancanza di un ben definito ruolo programmatorio delle Regioni nella mancanza di strutture periferiche unitarie per elaborare ed attuare i programmi, nella mancanza, infine, della partecipazione dei gruppi sociali con poteri decisionali all'elaborazione ed attuazione dei piani.
In questa luce non vediamo come possa negarsi che, in Italia, il problema della programmazione sia da rivedere radicalmente, così a livello nazionale come a livello regionale. E questa revisione, nelle proposte alternative del MSI, deve necessariamente passare attraverso la sostituzione della programmazione cosiddetta indicativa, con una programmazione impegnativa che scaturisca dagli stessi protagonisti, che abbia nelle diverse sedi tutti i controlli democratici necessari, ma che in fase attuativa, comporti poi l'obbligatorietà dell'impegno. Dunque, una programmazione diversa, nuova, caratterizzata dalla globalità, dalla concertazione, dal consenso e dalla guida dello Stato: il che significa poi che la programmazione - per il MSI-DN - non è solo un fatto di ordine, di coerenza, di articolazione organica, ma anche, e soprattutto, di democrazia partecipativa realizzata ai diversi livelli.
Ancorati, pertanto, come siamo, come ripetiamo qui, a questa visione del fatto, del fenomeno programmatorio, noi dobbiamo dire che in via di pregiudizio questo Piano di sviluppo non lo accettiamo, in quanto espressione di un modello programmatorio che non ha avuto riscontri positivi in tutti gli altri posti dove si è cercato di attuarlo e che di conseguenza sarebbe grave errore tentare di ripeterlo anche all'interno della Regione Piemonte.
Contrari in linea di principio al Piano di sviluppo, esprimiamo la nostra opposizione - ed è questa la terza osservazione di fondo che sentiamo di dovere fare - in termini di merito, cioè con diretto riferimento agli specifici contenuti del Piano. E' un rilievo generalmente affermato ed accettato che la nuova stesura del documento sia migliorata rispetto a quella precedente, ritirata dalla Giunta nel gennaio scorso e rinviata in Commissione. Il relatore Rossotto si premura di farci sapere che il miglioramento tra l'altro è dovuto anche, testualmente "all'attenuarsi del clima di sfida ideologica": prendiamo atto di questa osservazione che il collega Alberton stamani non si è premurato di smentire e che a nostro avviso è proprio una conferma di quel compromesso strisciante che prima denunciavamo. Sta di fatto comunque che questa sopravvenuta correzione della seconda edizione, rispetto alla prima autorizza intanto ad affermare - con conseguente giudizio negativo sull'operato della Giunta - che quel Piano era veramente, così come avevamo avuto occasione di dire a suo tempo, astratto, demagogico, generico e quindi per nulla credibile. Ma non autorizza, per ciò stesso, a capovolgere la valutazione e, tanto meno, a modificare il "voto" politico alla Giunta perché se è vero che il campo è stato sgomberato da alcuni falsi problemi è altrettanto vero che lo stacco tra ciò che il Piano dovrebbe essere ed il documento portato al nostro esame continua a restare nettissimo.
Abbiamo già detto in apertura che non saremmo scesi al dettaglio: per cui, a grandi linee, ci limitiamo a rilevare a questo proposito che non è sufficiente la pretesa di "costruire" un Piano solo indicando come obiettivi "una più equilibrata distribuzione territoriale delle attività produttive", oppure "la valorizzazione delle aree esistenti alla periferia" se poi a queste indicazioni ormai acquisite non si fanno seguire specificazioni territoriali e settoriali ben più definite, allora il Piano non esce dal generico e ricade nel vizio di quella onnicomprensività che rimane sterile quanto inefficace. La verità è che - per sfuggire agli errori madornali contenuti nella prima edizione - questa volta la Giunta si è ben guardata dall'abbandonarsi a previsioni demografiche od a valutazioni di grandezze economiche con il risultato contrapposto, però, che - non avendo voluto quantificare gli obiettivi - è arrivata soltanto ad affastellare un insieme di programmi, rassegnando un Piano che risulta sostanzialmente privo di un indirizzo e di un criterio secondo il quale ordinare interventi e priorità. Ed allora in assoluto potremmo anche riconoscere una validità teorica ad alcune impostazioni del Piano, a quelle per esempio che parlano di assetto territoriale articolato, oltrech sull'area torinese, anche sulle aree definite dagli assi nord-sud Voltri Sempione, anche se poi qui è tutto da verificare e rimane ancora aperto il problema del proseguimento dell'autostrada! ed est-ovest Cuneo-Mondovì oppure alle impostazioni che sottolineano la centralità da darsi all'agricoltura ed all'istruzione professionale: ma poi, leggendo il Piano al di là delle contraddizioni che vi si incontrano, noi siamo portati a chiedere con quale scala di gradualità queste medesime impostazioni verranno ad essere tradotte in termini operativi. Non basta dunque elencare dei problemi della cui esistenza, come abbiamo detto prima, ormai siamo tutti consapevoli e cogniti, senza però assumere al tempo stesso responsabilità precise di dire in quale modo si cercherà di affrontarli questi problemi, con quali mezzi, secondo quali orientamenti, entro quali limiti temporali. Né è sufficiente accampare la scusa, come in una certa parte della relazione si cerca di fare, che il Piano è comunque un "utile punto di partenza" e che da qui si possono prendere le mosse per la programmazione del domani. Noi vorremmo ricordare che di programmazione in Piemonte si va parlando dagli anni '60 e, tra l'altro, questo lo aggiungiamo per inciso, non sarebbe inopportuno che la Giunta, così disponibile all'utilizzo di "consulenze esterne", pensasse anche di disporre una consulenza perché sia accertato quante decine o centinaia di milioni finora sono venuti a costare alla comunità questi studi programmatori. Questa è solo una parentesi che abbiamo aperto nel contesto logico di un ragionamento che tende a sottolineare come, dopo un'attesa così lunga, presentarsi con un documento ancora aperto, come adesso si usa dire, è nulla più che un tentativo maldestro di rifiutare responsabilità precise e ben definite. Insomma, ci si perdoni il bisticcio di parole, la sola scelta della Giunta è stata una "non scelta", ma il non scegliere su questo argomento è anche un'obiettiva dimostrazione degli angusti confini entro i quali va considerato e contenuto questo Piano di sviluppo. Quarta ed ultima - osservazione: le disponibilità finanziarie che ridotte come sono, avrebbero dovuto suggerire un diverso comportamento. E' noto infatti, che da oggi fino al 1980 la Regione Piemonte avrà a disposizione secondo i calcoli fatti, all'incirca 1.200 miliardi per l'attuazione del Piano, laddove, sempre secondo i calcoli della Giunta, ne sono disponibili circa 600. Questi sono conti, lo faceva molto fondatamente rilevare questa mattina il collega Paganelli, che derivano dalla nuova classificazione di parametri fatta dal CIPE, ma sono conti che restano sulla carta e che quindi sono poco più che una gratuita speranza. La loro attendibilità infatti è tutta da verificare: tant'è vero che pensiamo non sia infondata la critica che abbiamo sentito già anticipare da altri sulla veridicità di un'ipotesi che prevede di accendere mutui all'interesse costante del 13 nell'arco di 30 anni, oppure che pensa che sino al 1980 vi possa essere un aumento costante annuo della quota parte del fondo comune aumentata del 20%.
Sono considerazioni che ingenerano dei dubbi sull'attendibilità dei calcoli fatti; ma quando anche non volessimo mettere in discussione questo aspetto del Piano, dovremmo dire ugualmente che l'innegabile divario d'altra parte ammesso che esiste, tra le entrate disponibili e le necessità di investimento nelle cinque "aree di intervento" lascia del tutto irrisolto il problema della revisione della spesa che poi costituisce una fondamentale scelta di politica programmatoria, ma che, proprio per essere rimasto insoluto, viene anche questo a privare ancor più di significato concreto il Piano che ci è stato presentato. Soprattutto crediamo che la scarsità delle risorse avrebbe dovuto consigliare lo studio di iniziative capaci di mobilitare tutte le energie del quadro regionale, quelle pubbliche e quelle private, per farle convergere insieme verso l'attuazione di programmi di interesse generale. E' illuminante, a questo proposito l'appunto critico contenuto nella memoria della Federazione delle Associazioni industriali del Piemonte, secondo le quali identificare l'azione del Piano in ciò che la Regione potrà spendere nel corso del periodo 1977-1980, si presenta come una scelta riduttiva, in quanto vi sono altre possibilità che spetterebbe appunto alla Regione individuare e suscitare.
La validità di questo rilievo critico pensiamo che permanga anche dopo che è stata annunciata quella convenzione quadro, tra Regione Piemonte ed Associazioni imprenditoriali poiché nessuno ha notizie precise, per cui vi è da sospettare che anche questa iniziativa sia lasciata alla discrezionalità di scelta della Giunta stessa. Quindi, anche sotto questo aspetto, la posizione della Giunta appare essere motivatamente censurabile e criticabile.
Signor Presidente, colleghi Consiglieri, dopo quanto siamo andati sin qui dicendo, la nostra conclusione sarà rapidissima.
Dalle quattro osservazioni di fondo formulate a commento del Piano di sviluppo non può che discendere un voto decisamente negativo al documento presentatoci. Voto negativo che - in termini per così dire tecnici - vuole essere la risposta del Movimento Sociale Italiano Destra Nazionale ad un'iniziativa, qual è quella del Piano di sviluppo, rivelatasi confusa contraddittoria e carente.
Voto negativo che - su un piano più squisitamente politico - vuole invece interpretare e riassumere la denuncia della nostra parte, la denuncia del Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale, verso i falsi miti contrabbandati come veri del modo nuovo di governare, del buon governo, portati avanti dalle sinistre in genere e dal PCI in particolare: nulla più di vuoti slogans elettorali, purtroppo anche di fortunata presa ma che tuttavia sono fasulli ed inconsistenti e la cui pochezza proprio questo Piano di sviluppo è venuta a mettere a nudo.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Oberto. Ne ha facoltà.



OBERTO Gianni

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, tralascio di soffermarmi su quella che ho sentito definire, in quest'aula e fuori, da taluno la filosofia del piano, anche perché non sono riuscito, absit iniuria verbis a trovarne il filone. Intendo dire il filone nuovo, quello che solo potrebbe dare anima e corpo al tante volte, troppe, vantato e sbandierato "modo nuovo di governare". Quando si affermava, nel recente passato, che le cose e i fatti, con la loro imperiosità, dominavano i propositi e determinavano scelte obbligate, senza essere con ciò dei pragmatisti concettuali, si era a dir poco contestati ed irrisi da chi, giunto al timone della nave, in equipe diversa, si avvede ora che il modo di navigare, di comandare, di governare, è spesso condizionato da forze e da eventi quali quelli imponenti di una crisi che non è nostra soltanto, e con la quale si devono inesorabilmente fare i conti. Anche se noi restiamo dell'opinione che alle situazioni difficili e drammatiche si deve guardare in faccia, affrontandole con coraggio non solo verbale, e con fermezza di volontà, per dominarle e superarle, con proposte di azione chiare determinate, realizzabili: cioè concrete.
Le lamentazioni, come alibi giustificativi, non servono a niente, e nascondono una fuga dalla responsabilità. Specialmente quando le crisi prima e forse più che socio-economiche, sono morali e di ideali.
Il ridimensionato Piano di sviluppo, nonostante indubbi miglioramenti sul precedente, rientrato, anche per l'apporto generosamente costruttivo dato in Commissione dal Gruppo democristiano, senza accogliere, accettare e condividere le interpretazioni date dal collega che mi ha preceduto circa cedimenti ideologici in questa direzione da parte del Gruppo democristiano e da rappresentanti di altri Gruppi che si trovano all'opposizione, viene all'esame del Consiglio senza che tutti i Comprensori abbiano potuto esaminarlo compiutamente, per esprimere valutazioni e giudizi. Si sa di rilievi, espliciti e confidenziali, per timore reverenziale, di più di un componente dei Comprensori, nel senso che è loro mancato il tempo per un esame approfondito e responsabile. L'atto più importante nella vita della Regione, il Piano di sviluppo che si proietta nel tempo, e il 1980 è domani, questo Piano di sviluppo, in notevole ritardo sui tempi - la slitta può ormai essere assunta come simbolo di questa Giunta - è mancato all'appuntamento puntuale e razionale proprio con un organismo nuovo (costituito con legge regionale, votata nella passata legislatura), il Comprensorio, che del Piano dovrebbe essere, con noi, protagonista. Non pu dirsi che sia un buon inizio. Anzi è un'esperienza negativa. E qualcosa di più perfezionato poteva vedersi o intravedersi quanto meno anche alla luce della nuova 382, giunta faticosamente e finalmente in porto. Ma dal momento di critica, come dire, filosofica, dal piano generale, del quale altri si è del resto occupato e altri si occuperà, scendo ad aspetti particolari, a mio avviso assai rilevanti. Non senza osservare che altra cosa è programma altra cosa Piano di sviluppo. Quello traccia grandi linee, questo specifica. E' la politica di piano che non si vede, perché non sono identificati, e quindi indicati, i mezzi, gli strumenti, i metodi per raggiungere, nell'arco di tempo fissato come limite, 1980, il traguardo prefissatosi quale obiettivo di sviluppo nei vari settori e nell'interesse globale della comunità. Una politica, anzi la politica degli investimenti della produttività, dell'occupazione, dell'eliminazione degli squilibri settoriali e territoriali - pianura e montagna, città e campagna - sono evanescenti e sfuggenti; né è chiaro come, utilizzando e gestendo le risorse, si possa realizzare in concreto la generica, fumosa ipotesi di sviluppo. Se non fosse abusata l'espressione, e quindi quasi priva di significato censorio in chiave comica, ci si potrebbe ben rifare al ridicolo topolino malamente partorito dalla montagna, frutto di una gestazione seguita ad un precedente aborto. E' evidentemente la matrice che non va.
Non appare delineata una chiara organica "politica montana": in una regione come la nostra per la sua realtà montanara, ciò è incomprensibile ed inammissibile. Non bisogna correre il rischio di svuotare nella sostanza, se non anche nella forma, le Comunità montane privandole del significato di contenuto e trascurando i loro stessi presupposti istitutivi. Le Comunità montane, attraverso ad un lungo iter, travagliato e, questo sì, veramente unitario, sono state le prime espressioni concrete e partecipate di politica programmatoria: il loro ruolo va riconosciuto nei fatti, in termini preminenti in rapporto agli altri Enti ed alle altre aggregazioni territoriali.
Il Piano non indica una precisa linea di scelta nella politica montana che tenga conto una volta per tutte che caratteri geografici, sociali economici esigono provvedimenti ed interventi "diversi", in ogni caso "integrativi", se si vuole davvero porre fine all'emarginazione della gente e dell'ambiente montano, certamente con la valutazione di un'ottica globale, e quindi non scoordinati, ma altrettanto certamente particolari.
Invece sembra che il Piano dica alle Comunità montane: statevene buone nel vostro guscio. Mamma Regione penserà anche per voi. E invece i montanari vogliono pensare loro, pensare ed agire per sé e anche per gli altri.
Venendo all'esame di taluni particolari mi scuso se su di un punto mi ripeterò: ma sono a ciò costretto dal fatto rilevante che nel lungo testo del Piano di sviluppo (tre chili e mezzo di carta, senza tener conto di quelle che sono le osservazioni pervenute diversamente) l'argomento è ripreso ancora senza una chiara linea decisionale, che è indispensabile, se non si vogliono azzoppare determinazioni urgenti, evidentemente per non affrontare o sfuggire ad assunzione di responsabilità nei confronti di Enti locali che premono - e possono avere dalla loro delle ragioni da valutare e discutere - in un determinato senso, non risolutivo. Chiudere gli occhi di fronte alla realtà è il peggior modo per affrontarla, ed è assumersi deliberatamente responsabilità, anche gravi, per un prossimo futuro, che non intendiamo condividere. Mi riferisco all'argomento della viabilità nella Valle di Susa, in relazione all'avanzamento dei lavori per il traforo autostradale del Frejus - altri potrà rilevare l'assoluto silenzio (silenzio-rifiuto? ) in relazione al Ciriegia e al Croce - e alla prevista sistemazione della ferrovia; argomento che con quello relativo alla navigazione interna, cioè al sistema idroviario, non considerato nel Piano di sviluppo, e certo di non indifferente rilievo, quanto meno sotto il profilo di scelta motivata, e con quello relativo ai beni culturali costituiscono motivi del mio intervento.
Il Presidente della I Commissione, il collega Rossotto, era stato perentorio, categorico. Rimando al suo testo scritto, che sostanzialmente rifacendosi a quanto era stato scritto (pagg. 308, 315, 318 del secondo volume sul Piano di sviluppo, edizione rientrata), in sintesi dice: niente sistemazione stradale o autostradale o superstradale nella Valle di Susa per ricevere o portare il traffico di automezzi, - non Tir, quindi, non vetture - al traforo che sarà completato, secondo le obiettive previsioni ancorate ai dati di fatto della perforazione sin qui eseguita da ambo i lati, nel 1980, primi mesi del 1981, prima che sia completamente avvenuta la sistemazione della rete ferroviaria e il suo raddoppio.
Dirò per inciso che attualmente i lavori di perforazione del traforo sono da parte italiana avanzati per 3510 m, e da parte francese di 3160 m sul totale di 12800 m (inizio marzo 1975). Nella relazione della Giunta al Piano di sviluppo di cui si discute, mentre nulla di specifico si trova per le gravi esigenze della sistemazione idrogeologica della Valle di Susa studiata, sin dal 1969, e coordinata alla ipotizzata costruzione dell'autostrada Torino-Oulx dal prof. Luigi Peretti del Politecnico di Torino, nulla è mutato in merito all'assunto sopraricordato. Si legge infatti: "con riferimento al traforo (autostradale) del Frejus va osservato che, indipendentemente dal giudizio sulla necessità e sulla priorità di questa infrastruttura (e l'atteggiarsi pilatesco non è davvero apprezzabile) ormai si è di fronte al dato di fatto dell'apertura, tra qualche anno, del traforo medesimo. Appare evidente - prosegue la relazione che ciò rende più urgente la considerazione dello stato attuale delle comunicazioni della Valle di Susa, in quanto al traffico presente (già congestionante) altro se ne aggiungerà". E considerati i due momenti viabili, lo stradale ed il ferroviario, presceglie in linea ideologica quest'ultimo come mezzo pubblico che deve prevalere su quello privato anche per il trasporto di merci, affermando che "la costruzione di un ulteriore asse stradale sarebbe di grave danno alla Valle" sia per la sottrazione di terreno all'agricoltura sia per l'ipotizzato consequenziale aggravamento del dissesto del suolo (senza nemmeno porsi il quesito se sia possibile, e conveniente, la soluzione di una costruzione viabile con sorpassi sulla sede della rete ferroviaria: almeno in parte di questa percorrenza, soluzione senza dubbio ardita, che qui non propongo se non nel senso che deve essere in un Piano esaminata, studiata, valutata, per sceglierla o per respingerla, cosa che non è invece stata fatta, o almeno non risulta essere stata fatta); per concludere che "occorrerà migliorare gli attuali assi stradali con interventi che dovranno essere dislocati nel tempo tenendo conto della priorità che deve essere assegnata agli interventi sulla ferrovia".
A pag. 44 della illustrazione dell'area di intervento 2 si legge: "L'ipotesi di lavoro della Regione consiste nel considerare il traforo come una struttura ormai non più modificabile, da subordinare nel suo funzionamento. alla realizzazione di misure adeguate nel sistema ferroviario", oltre ad essere l'occasione per il complessivo assetto della Valle.
Siamo da capo: un problema europeo (eppure la maggioranza attuale del governo regionale è tutta pervasa da fervore europeistico) viene ridotto e contenuto in una visione municipalistica, nemmeno regionale, pur degna di tutto rispetto, subordinando l'esercizio del traforo, ad ogni costo, anche a quello di ripetere l'errore compiutosi, triste esperienza, in relazione ai trafori del Bianco e del Gran San Bernardo, dove il transito per il trasporto merci è in costante aumento, al raddoppio della linea ferroviaria, che secondo le previsioni più ottimistiche, che il Presidente della Commissione Trasporti on. Libertini non condivide, richiede tempi molto lunghi, cinque-sei anni, se vi saranno i finanziamenti, il che non sembra sia: e che, comunque, per quanto è risultato nel corso della Conferenza dei trasporti da tecnici delle FF.SS., non sono apprezzabilmente riducibili, per esigenze tecniche che sono state indicate e qui non sto ora a richiamare nei particolari, limitandomi a ricordare il tracciato della linea che è tra le più acclivi d'Europa, circa il 30 per mille. I tempi camminano veloci e la Regione, dandosi un Piano di sviluppo, non può stare a guardare.
Riconduco il discorso all'essenziale per dire che, a mio avviso, un problema di tale importanza, rilievo e portata, che trovi nelle linee di un Piano di sviluppo la brevissima, non ragionata, non razionale indicazione quale ho richiamata, è come se fosse in buona sostanza non ignorato, ma eluso. Non fornire al Consiglio, almeno come elemento conoscitivo per le decisioni, il pensiero del Comprensorio di Torino (la cui vastità elefantiaca in questo caso appare nella sua macroscopica evidenza in senso non positivo, mentre le Comunità montane Valsusine hanno, in più occasioni espresso le loro valutazioni, sia pure divergenti e anche contrastanti) se lo ha motivatamente espresso in termini di partecipazione programmatoria, è il venir meno ad un dovere verso il Consiglio e ad un tempo verso il Comprensorio, tenuto a dir la sua anche in termini di piano comprensoriale nel più vasto quadro di quello regionale, secondo la tassativa norma dell'art. 75 del nostro Statuto. E quando si parla di piano della viabilità valsusina, vedendolo con occhio limpido, quantificandone la spesa, non si può non considerare un dato di fatto già emergente dalla realtà, che il progetto stradale Anas, da aggiornare come costi, prevede per la statale Bardonecchia dal km zero al km 12 la spesa di 25 miliardi, e che il raddoppio della ferrovia, completo nel 1990, porterà la potenzialità massima attuale di 86 treni, a 180, o poco più, comunque non tale da sopperire alle esigenze, non tale da riassorbire quanto nel frattempo sarà ineluttabilmente andato alla strada.
E' dunque tempo di decisioni, perché il pianificare è essenzialmente conseguenza di decisioni e di scelte, obbedendo ad esigenze democratiche e non indulgendo a pressioni demagogiche, in piena autonomia che non è autarchia, non immergendosi nella vanagloria trionfalistica autogestita con comunicati ed interviste, all'insegna del bianco che più bianco... non c' che il rosso! Le nostre critiche, al di là di quel tanto di polemico che è componente prima del pluralismo, di cui tutti oggi stranamente si fanno impetuosi alfieri, sono pienamente responsabili e dirette ad un'assunzione di responsabilità, che respinge l'enfasi del lavorare insieme all'insegna della confusione, anche per non condividere la responsabilità di scelte sbagliate; e non può farci disponibili all'ammucchiata, costretti ad un traguardo agostano, anno secondo.
Ad un incontro svoltosi a Susa, qualche giorno fa, l'Assessore Bajardi ha detto, stando al virgolettato del cronista, che "noi oggi possiamo solo prendere atto della prossima apertura del traforo e studiare quali provvedimenti urbanistici prendere per non farlo sfociare in un prato ma in una efficiente rete di collegamento". La saturazione del traforo cui è collegata la sua redditualità, alla quale l'Assessore fece pure riferimento, è prevista come molto prossima all'apertura. Ottimo proposito per un di là che fosse molto lontano da venire: ma in realtà l'oggi è, più che tempo e momento di studio, già tempo di scelta tra le varie ipotesi prospettate dai tecnici, e di consequenziali decisioni. Gli studi, ed anche profondi, non mancano. Sempre secondo il virgolettato della cronaca del quotidiano, il Presidente della Giunta, avv. Viglione, ha affermato valido "il concetto di sconfiggere l'opinione che con l'apertura del traforo e di un'autostrada si possano risolvere i problemi della Valle". E più avanti ha detto: "In Val di Susa esistono già due valichi - (bisogna ricordare che il Monginevro è difficile da superare d'inverno, e che il Moncenisio è chiuso per sei mesi all'anno) - e l'apertura di un terzo, con l'ovvio potenziamento della rete stradale e ferroviaria ora esistente - (giova ricordare che dall'altra parte, mentre si preparano le vie di accesso diretto, nella Valle del Rodano, parallelamente alla grande autostrada Marsiglia-Parigi, correranno, fra non molto, fra pochi mesi, convogli ferroviari a 300 Km all'ora) - non raggiungerà certo tali benefici da risolvere tutti i problemi". "Potrebbe, si chiede il Presidente Viglione l'autostrada migliorare la situazione critica del lavoro e dell'economia la disaggregazione, il decadimento dei beni culturali? " Ebbene oserei dire - con tutto il rispetto dovuto - che tutti i problemi di quella tormentata valle non troveranno soluzione nel traforo e nella strada, ma parte, buona parte, certamente sì; non esclusi quelli relativi alla fruizione dei beni e degli ambienti culturali, con i connessi aspetti turistici, quando si realizzino le opportune connessioni con i centri interessati, eliminando gli attuali congestionanti e pericolosi attraversamenti forzati.
A mio avviso non è antistorico pensarla così, signor Presidente, mentre non è corretto richiamarsi, generalizzando, a tutti gli esempi, specie nel Sud, dove nuove autostrade non hanno portato alcun giovamento! A parte che questa autostrada, o superstrada che dir si voglia, ha da farsi perch oggetto della convenzione italo - francese, in relazione appunto alla realizzazione del traforo autostradale (ed è espressamente consentita, per tale motivo, dalla legge che vieta in Italia la costruzione pro-tempore di nuove autostrade, la 287), essa ha, in sé e per sé, natura ben diversa da quella che ha potuto determinare, per motivi di ritenuto prestigio forse più che per reali esigenze di servizio e di sviluppo, in una concordanza politico-partitica non lungimirante ma che da parte socialista non pu essere dimenticata, con irresponsabilità che in più di un caso vanno quantomeno condivise, la costruzione di talune autostrade del Sud, che, con il traforo del Gran Sasso (il cui costo sarà spropositato e la cui funzione non è certo paragonabile a quella del Frejus, oggi ancor più accresciuta per i nuovi rapporti che saranno consentiti con una Spagna e un Portogallo democratici nel quadro europeo, e per la sua funzione di collegamento al sistema integrato dei porti dell'Alto Tirreno) provano come la programmazione teorica a poco serve se non la si ancora a concreti piani e prospetti di sviluppo. Che al Nord, le autostrade Torino-Aosta, Torino Savona, Torino-Piacenza, Torino-Milano-Venezia, del Brennero, Milano Genova, del Sole e fra poco la Voltri-Santhià-Trafori, siano da buttare non direi. Che abbiano favorito, con il traffico, soluzioni di problemi economici è innegabile. Si può piuttosto dire che i ritardi, per gli ostacoli frapposti, e chi ne ha colpa se l'addossi, nella realizzazione della Torino-Bardonecchia, creano oggi problemi finanziari che, agevolmente superati al momento giusto, sono attualmente, diciamolo pure, difficili e pesanti, per i costi crescenti, che attengono sia all'impianto che alla gestione.
Sarà forse non inopportuno, per concludere su questo punto ricordare che alcuni studi economici compiuti - forse da aggiornare per la mobilità eccezionale dei costi - indicano che entro i primi 80 anni di concessione per l'autostrada e per il traforo le imposte versate allo Stato italiano ammonterebbero ad una quota pari circa al 70/75% del costo dell'intera opera (e non mi pare cosa da poco). Vogliamo restare inerti? E' possibile che l'esperienza del passato non debba insegnarci mai nulla? Mi permetto di non essere di questo avviso. Riprenderemo a suo tempo in dettaglio il discorso.
Per quanto si riferisce al problema idroviario, in un sistema che interessa in modo peculiare il Piemonte e la Liguria, ed attiene pertanto direttamente anche al collegamento del sistema portuale ligure, più specificamente Genova, Savona, Imperia, al retroterra piemontese alessandrino e cuneese (argomento anche questo di grande rilievo nel quadro complessivo dello sviluppo dell'economia della nostra Regione), il problema idroviario, dicevo, sfugge del tutto alla disamina della Giunta, che lo ignora o non lo considera, nella redazione del Piano di sviluppo, non dando quanto meno giustificazione di una scelta in negativo, a problema cognito.
L'argomento è innegabilmente meritevole di attenzione; nel contingente, per la perdurante crisi dell'approvvigionamento e del costo dell'energia elettrica e del petrolio; e in prospettiva per agevolare sempre di più i traffici soprattutto di merci, dovendosi prevedere, a crisi superata - e Dio voglia presto, se gli uomini lo aiutano! -un congestionamento ognora crescente del sistema viabile, per il quale è legislativamente interdetta la costruzione di nuove autostrade.
Programma di azione e Piano di sviluppo non possono ignorare il problema; non lo possono accantonare senza una motivazione, non potendosi attribuire all'atteggiamento agnostico della Giunta il significato di silenzio-rifiuto. Non si liquida con il silenzio una materia che ha una sua realtà europea e italiana, e che deve, in ogni caso, essere approfondita e meditata. Quello idroviario è un sistema di trasporto che non può essere inteso in concorrenza con quelli già attuati, ma ne rappresenta una integrazione necessaria ai fini di un determinato tipo di traffico.
Ferrovia, strada ed Idrovia debbono quindi essere concepiti e realizzati come elementi tra di loro complementari, di un razionale e ben articolato quadro generale di trasporti, adeguato alle esigenze di una economia dinamica ed in continua espansione; insieme valutando elementi congiunturali e fattori strutturali. Si tratta quindi chiaramente di una scelta di Piano.
Da tempo, nel quadro di uno sviluppo idroviario che interessa in termini attuativi vari Paesi europei, il Piemonte si è posto il problema affrontandolo. Non vado alla preistoria. Arrivo semplicemente, a ritroso (è sempre opportuno sapere e ricordare che l'America è già stata scoperta) a qualche anno fa, richiamando, senza rivendicare diritti di primogenitura ciò che in materia la Provincia di Torino e l'Unione delle Province Piemontesi, prefigurazione vitale, volontaristica della realtà regionale, e mi par giusto ricordare l'azione del prof. Giuseppe Grosso, ha pur fatto come ebbi occasione di rilevare anche in sede della conferenza sui trasporti, per più di un verso interessante.
Rimando, per economia di tempo, chi della Giunta avverte la lacuna del Piano anche su questo punto, allo studio pubblicato nel 1967, con il titolo suggestivo: "Le vie d'acqua oggi, fantasia o realtà? ". Lo scritto esamina con buon approfondimento, sotto diversi aspetti, presupposti e possibilità di soluzioni idroviarie in Piemonte, e ciò attraverso ad un'inchiesta presso studiosi ed Enti che promuovono in Italia la navigazione interna: una specie, diremmo oggi, di consultazione diretta di specifiche competenze. Si risponde, in quello studio, all'interrogativo di base, se le idrovie sono uno strumento di traffico ancor oggi valido, e possibile realizzabile, in una visione unitaria della rete idroviaria padana per quanto attiene ai progetti della Torino-Novara-Ticino, 93 chilometri, della Novara-Acqui Terme, 98 chilometri, progetti già portati all'esame del Magistrato del Po, con una previsione di spesa rispettivamente di 61 e di 91 miliardi del tempo.
Sono previsti per la prima idrovia porti commerciali a Settimo Verolengo, S.Germano Vercellese e Novara, e scali a Formigliana, Saluggia e Biandrate; e per la seconda idrovia, porti a Vercelli, Casale, Alessandria Acqui Terme, e scali a Orfengo e Palestro. E' evidente che la soluzione positiva è collegata all'esistenza di una rete idroviaria di adduzione al mare Adriatico e al lago Maggiore; è collegata cioè agli obiettivi della programmazione economica nazionale che si compie armonizzandosi con i Piani regionali di sviluppo. In concreto, nel sistema della rete idroviaria padana, si intende realizzare da un lato il collegamento di Torino con l'Adriatico e dall'altro lato, attraverso l'asta lago Maggiore-Milano, il collegamento di Genova e Savona con la Svizzera. Bisogna, per non considerare un utopistico o falso problema quello che espongo, e in ogni caso per accantonarlo motivatamente in un Piano di sviluppo, come quello di cui ci occupiamo, tener presente che l'esperienza europea sta dimostrando come la navigazione interna, con i mezzi e strumenti moderni in uso, costa meno degli altri sistemi viabili, non solo per il trasporto di merci povere, giacché il trasporto per via di acqua è aperto a tutta una vasta categoria di merci ricche, macchinari, manufatti, anche in relazione al crescente uso dei "containers". Non è questa la sede per scendere in dettagli, né per affrontare il tema del finanziamento di tali opere, certo impegnativo: il mio è infatti un rilievo essenzialmente critico nel senso che il Piano piemontese non affronta il problema, commettendo un grave errore di omissione, che può avere implicazioni in ordine ad altre scelte assorbendosi fonti di finanziamento che possono rendere in futuro più difficile l'impostazione del problema. Ma occorre considerare che la rete idroviaria padana, in altra parte realizzata, rappresenta la proiezione nell'interno della stessa Valle Padana, di porti dell'Alto Adriatico e dell'Alto Tirreno, costituendo un grande bacino portuale riservato a navi di caratteristiche idonee a tenere il mare aperto e, al tempo stesso, a risalire dal mare la rete idroviaria fino alle propaggini dell'arco alpino ed alle direttrici dei grandi trafori ferro-stradali. Una cosa però mi preme dire ancora: l'agricoltura, interessata ai tracciati idroviari, ha motivo di temere per una distrazione, a vantaggio della navigazione interna, delle acque tanto necessarie ai fini delle utenze irrigue? La risposta, frutto di attente disamine, studi e considerazioni è che il fabbisogno idrico per le contate necessarie, per l'innalzamento dei natanti e per l'alimentazione dei canali navigabili non si risolverà in pregiudizio degli usi agricoli. Le idrovie padane fin dall'ottobre 1955 furono dichiarate dalla Conferenza europea dei Ministri dei Trasporti (C.E.N.T.) di interesse europeo, e successivamente la C.E.E, ne fece oggetto di "raccomandazione" nel quadro generale delle infrastrutture dei trasporti.
Vorrei concludere questo rilievo con quanto ha detto nel corso della conferenza dei trasporti del 17/18 giugno il funzionario che rappresentava la Direzione Generale Programmazione Organizzazione e Coordinamento del Ministero dei Trasporti, il dottor Tatta, rifacendosi al mio intervento a proposito di questo argomento: "Siamo senz'altro indietro rispetto agli interventi programmati nel resto d'Europa ove fervono iniziative per una gigantesca canalizzazione che interessa il Reno, il Meno e il Danubio, e che consentirà un flusso di traffico da Rotterdam al delta del Danubio; su questa via navigabile confluirà poi l'altro importante canale che da Lione attraverso il Rodano e la Saona raggiungerà il Reno".
"Tuttavia" sono parole ancora del rappresentante del Ministero, "si pu assicurare che anche le idrovie saranno oggetto di attento esame nell'ambito del piano generale dei trasporti, e la Regione Piemonte non pu quindi essere assente. E quelle piemontesi - ha aggiunto - in particolare saranno prese in seria considerazione nell'ambito del gruppo di lavoro che elaborerà il piano settoriale idroviario".
Concludo ricordando quanto a proposito della formazione professionale e della cultura è scritto nella relazione relativa alla quinta area di intervento che il Piano si propone: "promuovere una gestione del patrimonio culturale esistente sul territorio regionale tale da valorizzare i contenuti e da favorire il più ampio accesso sociale al loro utilizzo".
Qui, più propriamente, si hanno da riguardare, nel Piano di sviluppo, le realtà in concreto, direi oggettive, dei beni culturali, dei beni ambientali, in una visione di ampio respiro, pur nell'attribuzione gestionale ad Enti locali, con garanzie di tutto rispetto. D'accordo sull'esigenza del "catalogo" dei beni e degli ambienti; d'accordo sull'esigenza di personale, qualificato e preparato, non clientelarmente assunto o preferenzialmente assistito. Sono due momenti delicati e impegnativi, di responsabilità. Ne parleremo al momento opportuno. Ma anche in questo settore il discorso del Piano ha degli angoli morti. E anche su questa lacuna mi limito ora ad un rilievo, dichiarandomi interessato alla risposta che mi si vorrà dare, specie adesso che dai giornali si è appreso che il governo regionale laico ha intessuto rapporti epistolari con le Chiese torinesi e piemontesi.
Grande parte dei beni culturali da difendere, conservare, restaurare in modo da "appropriarsene" - ovviamente in termini conoscitivi - sono nelle chiese, abbazie, conventi, sinagoghe (basti ricordare il tempio israelitico di Casale Monferrato), biblioteche e musei ecclesiali; e tali, spesso, sono gli stessi edifici monumentali che raccolgono i preziosi tesori. Questo patrimonio, pur defraudato nel corso dei secoli, resta, in Piemonte dovizioso. Un proposito globale di valorizzazione non può ignorare e trascurare tale ingente porzione di beni culturali. Perciò ho proposto nel corso dell'ultimo dibattito, e riprendo l'argomento perché il discorso trovi ulteriore approfondimento, affinché si dica se si ritiene di cercare e trovare un punto d'incontro e d'intesa con la competente autorità religiosa - che ho ragione di ritenere interessata e attenta all'argomento in modo da assicurare a quei beni una doverosa e rispettosa tutela, per una fruizione partecipata. La proposta ha una sorta di avallo in ciò che sta avvenendo, per quanto ne so, in due Regioni, la Toscana e la Sicilia.
La Sicilia sta discutendo, o forse l'ha già varata, una legge che si dirige su questo filone di indirizzo. La Regione Toscana sta operando in questa direzione. Cito la Regione Toscana perché simile come elemento istituzionale e costitutivo alla Regione Piemonte. Tutte le questioni riguardanti beni culturali ecclesiastici dovranno essere trattati dagli organi regionali, d'intesa con una commissione regionale ecclesiastica ovvero si dovrà provvedere all'inserimento negli organi collegiali regionali di rappresentanti ed esperti designati dalla conferenza episcopale, riconoscendosi all'ordinario diocesano la funzione di rappresentanza che egli ha dei beni culturali ecclesiastici nell'ambito della diocesi, altresì riconoscendosi come prevalente l'intervento di salvaguardia e di rivitalizzazione dei centri storici, nel cui ambito si trovano spesso numerosi edifici e monumenti sacri. Infine si prevede il riconoscimento all'Ente ecclesiastico del diritto di procedere alla redazione di progetti e di perizie di restauro da sottoporre all'approvazione degli organi civili competenti, concedendosi contributi all'Ente ecclesiastico per meglio consentire la fruizione pubblica di raccolte di opere di beni. Ho voluto fare questo riferimento a valori che attengono più allo spirito e all'ideologia per dire che il Piano di sviluppo, certo, opportunamente, dovrà tenere conto anche di questi aspetti, che sono quelli che vivificando lo spirito danno la forza agli uomini di riconoscersi liberi e forti in se stessi.



PRESIDENTE

Ha chiesto di parlare il Consigliere Bellomo. Ne ha facoltà.



BELLOMO Emilio

Signor Presidente, signori Consiglieri , quando, la sera del 17 febbraio scorso, a conclusione di un lungo e impegnato dibattito consiliare, decidemmo, tutti insieme, l'opportunità - e anche la necessità di un aggiornamento del dibattito stesso, per una più approfondita ricognizione sui dati e sugli elementi che componevano quella bozza di Piano regionale di sviluppo, era implicita, nella decisione stessa l'opportunità, per tutte le forze politiche presenti, di recuperare uno spazio di tempo da destinare ad un ulteriore approfondimento per un logico arricchimento dei contenuti proposti dalla Giunta e dalle prospettive che essi innalzavano davanti al Piemonte socio-economico per gli anni 1977 1980. Credo che tutti noi ricordiamo come alla base di questa decisione di sospendere il discorso programmatorio per un, se così si può dire supplemento di indagine e di istruttoria, stesse l'affermata volontà politica esplicitata dalle forze di tutti i Gruppi, di mettere a frutto attraverso una nuova riflessione e una più approfondita azione di scandaglio, quella prima parte del dibattito, e, quindi, quel primo responsabile impatto con la realtà piemontese, da finalizzare verso obiettivi concreti, previsti e indicati come le tappe essenziali da raggiungere, per definire, con sufficiente certezza e credibilità, la marcia programmata dello sviluppo piemontese nella più vasta e impegnativa cornice dello sviluppo nazionale, e con particolare riferimento allo sviluppo del Mezzogiorno.
In quell'occasione la Giunta regionale, coerente con l'affermazione di fondo che la proposta di Piano era una proposta aperta, un documento processo da realizzarsi attraverso fasi successive e consecutive, sotto lo scrupoloso controllo della situazione di fatto, sempre in movimento per il continuo evolversi e mutare della realtà, la Giunta, dicevo, fece propria la proposta dei Gruppi, suggellando, con un atto di trasparente umiltà costruttiva, una fase dialettica e di confronto che - forse oggi lo possiamo dire con tutta consapevolezza - non è stata affatto inutile e dispersiva.
Questa decisione unitaria produsse, successivamente in I Commissione una altrettanto unitaria decisione avallata dalla presenza dei Capigruppo di esprimere una Sottocommissione composta da almeno un Consigliere per Gruppo politico e con l'assistenza permanente di consulenti qualificati che i Gruppi stessi dovevano indicare. La Sottocommissione si compose, si insediò, e iniziò un lungo e impegnato discorso tecnico-politico-culturale che oggi - dopo i rituali passaggi in Commissione e in Giunta - è sotto i nostri occhi, per l'ultima verifica, per l'ultimo confronto.
Mi è parso opportuno fare questo breve excursus retrospettivo, non tanto per ricordare quanto tutti già ricordiamo, quanto invece per rimarcare, sulla soglia di questo nuovo dibattito, lo spirito costruttivo l'alto senso di responsabilità, la volontà specifica di ogni Gruppo, che hanno accompagnato, a livello di Commissione, la progressione e la fase elaborativa di questa seconda - la definisco così solo per comodità di discorso, perché in effetti è la logica proiezione e perfezionamento della prima - proposta di Piano.
Ho voluto ricordare le decisioni che abbiamo alle spalle, per significare, e riconoscere, che la nuova proposta di Piano, la sua struttura ed il suo impianto complessivo, le sue linee di condotta e i suoi obiettivi indicati, non sono, evidentemente il risultato di un comportamento furioso e irrazionale, ma sono invece il portato, soppesato discusso, verificato, analizzato, di un lungo e responsabile discorso fatto tra forze politiche di diversa ispirazione, ma tutte parimenti impegnate a presentare una proposta "tagliata" sulla realtà piemontese e proiettata verso un quadro programmatorio nazionale.
La fretta di fare non ha travolto nessuno; niente, nulla , aggiungo è stato immolato sull'altare pagano dell'esibizione astratta e deviante del falso orgoglio unilaterale. Tutto invece, tutto quello che si è fatto e che si trova sotto i nostri occhi, si è potuto fare perché il problema programmatorio piemontese era maturo (e lo provano i contributi dati dalle forze politiche e sociali). Era maturo perché ha sua data di nascita è piuttosto remota e perché è passato al caldo di tutte le graticole critiche, che lo hanno temperato al punto giusto, perché su di esso, su quel problema, il nostro Consiglio regionale prenda oggi una decisione definitiva e finale. Una decisione che potrà essere unitaria, come in teoria si potrebbe supporre, o che potrà essere diversificata e distintiva fra le varie forze politiche, senza che nessuna di esse si trovi nella condizione di mettersi la cenere nei capelli. Voglio dire - insomma - come hanno detto tutte le stesse forze politiche, che l'analisi e l'indirizzo del nostro discorso generale vede il Piemonte nell'ottica nazionale con una particolare attenzione ai problemi di sviluppo del Mezzogiorno e dentro la tensione di una crisi strutturale che investe il Paese e l'Europa. Voglio dire ancora, come hanno detto già le forze politiche e sociali del Piemonte, che l'ampio e articolato dibattito avvenuto fra le stesse, ha consentito l'emergere chiaro e irreversibile, dei grandi problemi che ci ritroviamo davanti, complessi e urgenti, e la possibilità di mettere a fuoco quelli che sono stati comunemente individuati come problemi centrali della nostra realtà piemontese, e dalla soluzione dei quali passa, la linea di sviluppo, omogeneo e programmato che deve caratterizzare, nel breve termine, il nostro modo di essere e di vivere, il nostro modo di produrre.
La crisi nazionale ha raggiunto un livello di grande preoccupazione e la gravità della stessa produce un inarrestabile mutamento nella qualità della situazione politica. Quello che era impensabile e incredibile ieri oggi invece lo si pensa e lo si attua davanti al comune dovere di responsabilità verso il Paese. Quello che ieri pareva improponibile oggi diventa proponibile e nei giusti equilibri, attuabile davanti alla immanenza delle problematiche e delle urgenze - Intese e convergenze talora non parallele e quindi destinate a incontrarsi su un comune terreno programmatico, se non proprio politico - sono la caratteristica, per certi versi, la certezza politica di questi tempi, duri e densi di sacrifici per la gran parte del popolo italiano.
Intese e convergenze programmatiche sempre più necessarie per poter essere in grado di dare una risposta positiva alle gravi questioni, poste dalla crisi economica e sociale le cui conseguenze, ovviamente, registriamo anche in Piemonte, già terra promessa a eserciti di uomini senza lavoro e senza speranza che sotto la Mole hanno trovato una proda economica, molte volte illusoria e fallace. Infatti, continua il processo, e si acutizza degli squilibri territoriali e sociali, aumentano le difficoltà nei maggiori comparti produttivi; si fa lancinante il problema della disoccupazione giovanile e femminile, e quello del caro-vita, e si odono sempre più di frequente le detonazioni della P 38.
E' la stessa, drammatica complessità della situazione, la sua urgenza la sua indilazionabili che impone la ricerca dell'intesa fra le forze politiche democratiche come unico modo e mezzo per il superamento della crisi.
Su questo tema e in quanto socialisti, non possiamo non ricordare e non ribadire il nostro convincimento politico generale, che davanti ad una situazione che si scolla, si sbriciola e si deteriora a falda a falda, dove i valori e gli obiettivi tradizionali si perdono sempre più di vista in un'orgia di individualismo, per non dire di qualunquismo, dove quattro furbi mangiano a quattro palmenti, mentre una moltitudine si specializza sempre più nell'arte di tirare la cinghia, il nostro convincimento ci porta a credere - e finora a proporre inutilmente - che solo un governo di vasta solidarietà democratica sia in grado di sapere e potere dare una risposta alle attese degli italiani.
Per questo abbiamo visto con favore l'evolversi della situazione romana verso una vasta intesa programmatica, che dia forza e credibilità al governo delle astensioni che da un anno regge il nostro Paese.
Ma con eguale preoccupazione diciamo che a lato dell'intesa raggiunta si è partiti già male, per esempio per quanto riguarda la delega dei poteri alle Regioni e agli Enti locali che, a parere dei socialisti, doveva senz'altro essere più significativa di un'autentica volontà riformatrice e di decentramento da parte del Governo. Se si parte con il piede sbagliato tutte le intese finiscono per andare a farsi benedire, come andrà a farsi benedire, in questo modo, anche l'ipotesi che potrebbe anche non essere tanto astratta ed estremamente lontana, l'ipotesi di un superamento positivo del Governo delle astensioni, per conseguire equilibri più avanzati, al cospetto delle crescenti esigenze della realtà nazionale. E queste esigenze si manifestano, giorno per giorno, con un ritmo crescente e con un moto inarrestabile.
Gli ultimi dati nazionali disponibili relativi al primo trimestre di quest'anno e corretti dagli influssi dei fenomeni stagionali, indicano tendenze poco rassicuranti. E' noto che la ripresa dell'attività economica iniziata sul finire dell'anno 1975 e consolidatasi per alcuni aspetti nel 1976, è in via di esaurimento e si sta profilando all'orizzonte - lo affermano gli esperti e qualche acuto imprenditore - un nuovo ciclo depressivo nella produzione e quindi nel reddito nazionale.
Riferendoci al primo trimestre di quest'anno, troviamo che il prodotto lordo interno è cresciuto solo dell'uno per cento; la produzione industriale è aumentata del 2,2%, in compenso la disoccupazione aumenta (basta leggere l'ultima valutazione dell'ISTAT), i prezzi continuano a salire, le importazioni non trovano gli impulsi necessari per sanare gli squilibri della bilancia commerciale; la spesa pubblica continua a divorare entrate enormi, e imprime di conseguenza al Paese una sorta di drenaggio di risorse che alimenta l'inflazione.
Davanti a questo quadro - sintetico, certamente impreciso, non analitico, ma realistico e controllabile - non possiamo stare fermi a grattarci la testa nella posa tipica e fatalistica di colui che aspetta e spera in interventi di ordine superiore e imperscrutabile. Occorre, invece realisticamente, fare delle scelte. Scelte oculate, beninteso; scelte intelligenti, beninteso; scelte produttive, beninteso; ma scelte coraggiose e, fin quanto vale, spregiudicate e calibrate sugli obiettivi che si vogliono raggiungere.
Su questo concordiamo tutti, certamente, come affermazione di principio. Ma quando si tratta di scendere dai principi e coniugarci con la realtà che ci sta attorno; quando si tratta di passare dalle parole ai fatti, dalle enunciazioni alle decisioni, allora, molte volte, si scopre che manca il propellente necessario per mettere in movimento la macchina della riforma, in questo caso la macchina della programmazione. E non c'è chi non capisce che il propellente necessario è la volontà politica specifica, la determinazione, cioè, di volere una cosa e realizzarla, nel segno dei superiori interessi della collettività.
Ora, scendendo alla scala piemontese, la Giunta vuole questa cosa; la Giunta ha scelto il metodo della programmazione e della partecipazione di tutte le forze attive del Piemonte. La Giunta sa che il Piano di sviluppo non è e non deve essere un pacchetto preconfezionato in sede tecnica da far calare dall'alto; ma è consapevole che il Piano è un fatto, se si può dire di massa che nasce dalla base, sui contributi di tutti coloro che li vogliono dare, che li possono dare. Così si è comportata la Giunta regionale: facendo propri i dettati statutari - e non poteva che essere così - ha impostato la sua azione politica, incentrandola sulla programmazione, come strumento insostituibile per l'individuazione, la valorizzazione e la risoluzione delle esigenze presenti sul territorio piemontese.
Ed è proprio da questa scelta complessiva che sono discese già alcune importanti tappe che si inseriscono nel quadro della programmazione: mi riferisco alla legge sulle procedure, alla legge cornice sul trasporto pubblico, alla stessa legge sull'uso del suolo, che esamineremo domani dopodomani, nei prossimi giorni.
Ma la proposta di Piano - come ha già affermato l'Assessore - tenta anche di dare delle indicazioni metodologiche, per la compilazione dei bilanci consolidati di Comprensorio, strumento indispensabile per il coordinamento della spesa regionale con quella degli Enti locali e, in prospettiva, di tutti gli Enti e di tutti gli operatori pubblici operanti sul territorio piemontese. Gli stessi Comitati comprensoriali, gli stessi Consorzi per i servizi, sono altrettanti elementi che si collocano già alle spalle del Piano, nella sua fase di avvio, e ne costituiscono le necessarie spinte al suo concreto decollo. Ma anche altri interventi significativi legge sulle strutture e uffici, consorzio per il trattamento automatico dell'informazione - vanno nella stessa direzione e mirano a modellare l'Ente Regione su compiti di programmazione e di coordinamento, evitando dispersioni e sprechi di energie e di pubblico denaro, evitando gli errori dei passati tentativi di programmazione, tentati in assenza di un'adeguata trasformazione della macchina dello Stato e dei suoi apparati, senza la quale è impossibile innestare quei processi nuovi e diversi che una politica di piano, per essere tale, impone e postula.
In questa visione generale diventa importante e fondamentale tentare non tanto la proiezione dei fenomeni demografici e socio-economici, quanto la loro possibilità di controllo e di organizzazione, a cominciare dalla mobilità delle risorse alla corretta scelta degli investimenti sul territorio, alla riqualificazione della spesa pubblica, al corretto rapporto che deve essere instaurato tra il livello regionale della programmazione e quello nazionale. In buona sostanza questa proposta di Piano mi pare persegua fondamentalmente due aspetti significativi: innestare un rapporto dialettico tra programmazione locale e programmazione centrale; coinvolgere nel processo di programmazione non solo o non soltanto i centri decisionali della Regione, ma anche tutti gli altri soggetti presenti sul territorio; dagli Enti locali alle stesse imprese produttive, non in forma coercitiva, ma in forma collaborativa, con azioni concertate e programmate e con l'obiettivo chiaramente dichiarato di una crescita razionale e democratica. In ciò dovrebbero soccorrere alcuni strumenti che la Regione ha già a disposizione: voglio dire la Finpiemonte e l'Esap, per esempio, che sono stati concepiti appunto in funzione dell'attuazione di una politica di piano e tutti quelli che si riterrà di creare a tale scopo; nonché avvalersi del materiale tecnico, conoscitivo e scientifico, già predisposto dal CRPE e dall'IRES; materiale, questo, in buona parte già consolidato in dibattiti e raffronti di questa e della precedente Amministrazione, che rappresenta in ogni modo un punto di riferimento alle azioni degli operatori pubblici e privati.
Gli interventi contenuti nei progetti e nelle azioni programmatiche corrispondono a scelte considerate come prioritarie per la nostra Regione.
Quando la Giunta dichiara - suffragando questa affermazione con l'esposizione del quadro delle riserve finanziarie disponibili - che all'interno di tali priorità occorrerà compiere ulteriori scelte, fino ad arrivare ad enucleare, in sede di bilancio pluriennale definitivo, circa il 50% delle spese previste, sappiamo, perciò, che in ogni caso non si correrà il rischio di dimenticare settori ed ambiti di attività, ma occorrerà selezionare fra azioni comunque rilevanti, per la soddisfazione delle esigenze della nostra comunità. Per questo è stato opportuno condurre il nostro esame finale, non in una proposta "chiusa", ma sull'intero ventaglio di interventi previsti dalla Giunta con un ulteriore approfondimento che darà i suoi frutti quando - nel prossimo autunno - le scelte diventeranno operative, con la predisposizione del bilancio pluriennale, del bilancio preventivo 1978 e della stessa variazione di bilancio del 1977. A questo proposito potrebbe riuscire utile avere dalla Giunta - a conclusione di questo dibattito - un primo quadro, di larga massima, degli impegni di Piano che si ritiene di poter finanziare già nel corrente esercizio. Se infatti sarebbe esercizio inutile tentare fin d'ora - in assenza cioè di un bilancio pluriennale giuridicamente vincolante - di compiere scelte definitive e "tagli" delle spese dei vari progetti riferiti all'arco pluriennale che va fino al 1980, può essere invece significativo compiere una verifica di coerenza, per quanto può già partire nel 1977 (e che sarà evidentemente, meno di quanto enunciato nei singoli progetti e nei singoli programmi).
Operando in tal modo la Giunta potrebbe fornire fin d'ora elementi utili ad una meditazione che sfocerà successivamente nei confronti che ci attendono, sui principali documenti finanziari, a partire dal prossimo mese di settembre. Quanto, infine, alla considerazione delle possibili "priorità delle priorità" il dibattito, e la stessa consultazione - come ha messo in evidenza la relazione del Consigliere Rossotto - hanno evidenziato alcune linee, che anche al Gruppo socialista appaiono condividibili. In particolare intendo riferirmi al rilancio dell'agricoltura, secondo un'impostazione rigorosamente programmatica, eliminando la politica delle erogazioni "a pioggia" (come sottolineato dal PRI in un documento contenente interessanti proposte che abbiamo esaminato con attenzione trovandovi numerosi punti di sostanziale accordo); alla politica di localizzazioni e rilocalizzazioni industriali, nella quale l'impegno del Piano è accompagnato dalla prima concreta iniziativa, quella della convenzione-quadro, con le rappresentanze imprenditoriali, mentre si stanno realizzando i primi, positivi esperimenti di aree attrezzate, nella mia stessa città, Vercelli, ed a Casale; alla continuazione della politica dei trasporti e dei grandi programmi di sistemazione ambientale e di fornitura di servizi pubblici.
Riepilogando, dal punto di vista politico mi pare di poter dire che il Piano di sviluppo in discussione (poiché, per me, resta un Piano e non una specie di Piano) costituisce un documento ed un adempimento di importanza politica fuori discussione, sia sul piano regionale che su quello nazionale.
In termini nazionali oggi il Ministero del bilancio e della programmazione è impegnato nella redazione della relazione previsionale e programmatica, per il 1978, che avrà, questa volta, sostanzialmente i contenuti di un piano triennale. Questo avviene nello stesso momento in cui tutte le Regioni, sulla base dell'art. 1 della legge 335 sulla contabilità regionale, predispongono i propri programmi di sviluppo; e la Regione Piemonte è stata la prima a tentare questa strada, precorrendo la legge stessa.
E così anche per quanto riguarda l'attuazione della legge 882, la Regione si deve porre, così come previsto dall'impostazione corretta della Commissione Giannini, come un Ente autonomo di governo dell'economia, con propria dignità rappresentativa e propri doveri, così come vengono dal sistema elettivo di primo grado dei suoi amministratori, e nel rispetto delle necessarie univocità di indirizzo della politica economica nazionale.
Il caso piemontese ha, poi, propri risvolti particolari e caratteristiche interne, per cui predisporre un Piano regionale di sviluppo assume particolare significato politico. Vi è innanzitutto la presenza di una delle grandi aree metropolitane del Paese, testimone e prodotto degli ampi movimenti di migrazione interna, negli anni '50 e '60. Vi è la presenza sostenuta e radicata di un capitale che ormai da anni ha assunto tutte le caratteristiche della multinazionalità. Vi é, infine, la spaccatura, ormai storica, tra la città industriale ed il resto del territorio agricolo e montano. Vi sono, dunque, alcuni fra i più significativi elementi di contraddizione strutturale, presenti nell'economia generale italiana e spesso rivelati nel loro aspetto talora esasperato.
Vi è una forte, storica e radicata presenza di una classe operaia matura, una forte presenza della capacità e del senso delle autonomie dei piemontesi; vi è, infine, e pare giusto sottolinearlo proprio in questa sede, una notevole se pure recente, apertura dei ceti imprenditoriali alle necessità dell'interesse collettivo e all'opportunità di assicurare al Paese e alla Regione una corretta amministrazione, adeguata ai problemi del momento.
Questo insieme di circostanze, a mio parere, deve essere necessariamente ricordato, perché è una chiave di lettura assai opportuna dei contenuti del Piano e del programma pluriennale di attività e di spesa che la Regione si è voluta dare.
Credo, concludendo e prescindendo dal commento analitico dei numerosi dati di giudizio e di comparazione che si trovano nei documenti della Giunta, credo che dobbiamo riconoscere il grande e prezioso lavoro svolto in Commissione e nelle consultazioni. Anche se, al limite, possiamo ammettere che queste ultime sono state affrettate in concomitanza agli impegni di lavoro e alle scadenze di lavoro liberamente assunte e accettate da tutte le forze politiche, non si può dire che le stesse non abbiano dato risultati preziosi che, aggiunti ai risultati delle precedenti consultazioni, costituiscono un apporto vigoroso al progetto di Piano e una parte - quella recepita dalla Giunta - altrettanto importante e significativa.
Da questi confronti ed in base a questi contributi (Industriali Coldiretti, Comprensori, Comunità montane) sono emersi i grandi obiettivi di ordine generale, sui quali la Giunta ha proposto le sue linee di sviluppo programmato, lungo le quali dovrà esplicarsi, in un incessante processo di adeguamento alla realtà, tutta quella che sarà l'azione attuativa, ai suoi vari livelli comprensoriali, zonali e settoriali. I Comprensori, ormai in fase di funzionamento, rappresentano indubbiamente uno degli elementi centrali del processo di programmazione e dovranno svolgere quindi una funzione preziosa e decisiva. Quello della Commissione è stato indubbiamente un lavoro intenso e faticoso, ma il risultato di questo impegno politico-culturale è credibile e serio.
La proposta della Giunta è sostanzialmente valida, sia dal punto di vista delle analisi che da quello delle nervature attraverso le quali si propone di articolare il Piano, nella sua fase operativa. Sappiamo di qualche inesattezza e di qualche imperfezione su alcune grandezze di ordine finanziario, sovrastimate e male interpretate, come ha del resto dichiarato l'Assessore alla programmazione Simonelli in seno alla I Commissione queste inesattezze si dovranno correggere, perché possono indurre in valutazioni più generali, sbagliate e inattendibili e certamente la Giunta stessa farà le relative proposte.
Ma sappiamo anche che la proposta di Piano, con i suoi obiettivi definiti aree di intervento, ha un nucleo radicale valido e significativo al quale, finora almeno, non è stato opposto un nucleo alternativo.
Noi socialisti voteremo dunque con piena fiducia la proposta di Piano presentata dalla Giunta.



PRESIDENTE

Ha chiesto di parlare il Consigliere Gastaldi. Ne ha facoltà.



GASTALDI Enrico

Signor Presidente, signori Consiglieri, col mio intervento mi limiter a fare alcune considerazioni sulla parte del Piano che riguarda l'agricoltura, lasciando alla collega di Gruppo le osservazioni sulle proposte del Piano per gli altri settori e sul Piano in generale.
Prima però voglio fare alcune premesse: della proposta di piano per l'agricoltura interessa certamente di più la parte pratica, quella cioè che riporta le proposte per la sua attuazione tanto più che si sa che i ragionamenti teorici fatti a tavolino non trovano tante volte una esatta corrispondenza nella pratica perché devono realizzarsi in un ambiente socio economico in evoluzione. Però non può essere trascurata la parte iniziale del Piano, la parte generale e, per così dire, teorica, nella quale si precisano le intenzioni che si vogliono ottenere col Piano stesso. Ed è in questa parte che compare il problema teorico più importante per l'agricoltura, il problema del rapporto, cioè, tra reddito ed occupazione e della loro conciliabilità.
E' vero che la soluzione di tale problema non è proposta in termini categorici o di nesso predeterminato di causa ed effetto e sullo stesso piano di valore (l'occupazione è infatti elencata forse già intenzionalmente, dopo il reddito), ma è proposta in termini di desiderio e di oggetto da presentare come terna di discussione in sede competente (Consiglio regionale e altre sedi), è limitata, nelle intenzioni, all'età giovanile, e vengono proposti, per la sua realizzabilità, quali mezzi: 1) l'estensione dei compiti di lavoro agricolo (uso di terre incolte creazioni di posti di lavoro nelle trasformazioni e nelle commercializzazioni del prodotto agricolo) 2) viene proposta la riduzione o fisiologica o quella favorita dall'attuazione della direttiva CEE n. 160 3) viene proposto il miglioramento delle strutture, che, per la senilità e per la mentalità degli attuali occupati in agricoltura, non si è mai potuto ottenere, ma che potrebbe costituire un invito ai giovani per un ritorno alla terra.
Quindi, anche se a me pare che basare un giudizio sul piano agricolo solo sulla soluzione del problema reddito-occupazione non sia giusto perché al momento attuale non è assolutamente possibile fare delle previsioni esatte sui futuri fabbisogni occupazionali, che sarebbero illusorie data la scarsità degli strumenti disponibili, è però vero che sarebbe stata utile una precisa affermazione di scelta, in caso di necessità.
Come ho già detto prima, preferisco, e mi pare più esatto, esaminare se la parte pratica del Piano dà le indicazioni per costruire un'agricoltura capace di produrre di più e meglio e a costi più competitivi, e se dà le indicazioni per usare i mezzi a disposizione e per predisporli ed articolarli nel futuro in modo da aumentare il prodotto richiesto dal bisogno regionale e nazionale e per garantire, nello stesso tempo, al produttore un reddito adeguato e, come si dice ora, comparabile, evitando la sola politica di sostegno e di assistenza. Iniziando tale esame, devo dare atto che l'elencazione dei progetti non è più, come in quello precedente, un'elencazione del tutto e del meglio, che sarebbe bello poter fare per l'agricoltura, ma che sono stati enucleati quegli interventi che possono essere portati avanti nel periodo del Piano e che sono state sempre, a differenza di quanto era stato nel Piano precedente, identificate e quantificate le spese previste per quasi tutti i progetti.
In campo zootecnico si opta, molto opportunamente, per una politica di ammodernamento strutturale, di sviluppo delle forme associative e cooperative, di diffusione di tecniche moderne per ottenere un incremento di carne bovina e un incremento di capi a vita, migliorati dal punto di vista genetico e un incremento della produzione zootecnica minore. Nel campo ortofrutticolo, specie vitivinicolo, giustamente è stato posto l'accento sui prodotti di elevato pregio e sul rinnovamento dei vigneti partendo da un'opportuna iniziativa vivaistica e arrivando alla promessa della soppressione delle sofisticazioni. Per il settore della forestazione vengono presentate notevoli e buone innovazioni: la forestazione viene infatti presentata non solo come strumento di difesa idrogeologica, ma anche sotto l'aspetto d'incremento produttivo, con una serie di provvedimenti e servizi di assistenza utili per ottenere quell'incremento necessario, vista la negatività, per tale prodotto, della bilancia dei pagamenti. Il programma per l'irrigazione viene saggiamente ridotto ai complessi più importanti con un miglioramento delle strutture per la loro utilizzazione più completa.
Per l'istruzione socio-economica condividiamo l'impostazione data dalla sua regionalizzazione. Per quella tecnica, non nascondiamo perplessità circa la volontà di conservare l'attuale delega da parte della Regione alle organizzazioni professionali dello svolgimento di un servizio la cui delicatezza e importanza richiederebbe, da parte delle strutture pubbliche un impegno diretto e non solo di controllo. Per l'organizzazione zonale del territorio agricolo, che viene prevista completa per il 1980, vengono ben fissati i, compiti dall'ESAP e dagli interessati (agricoltori, cooperative amministrazioni e forze sociali locali).
Nella parte pratica del Piano potrebbero essere chiariti alcuni punti ed affermazioni che appaiono forse, a prima vista, o non troppo chiari o non coordinati o di cui non vengono precisati, quantitativamente limiti di spesa. In conclusione la proposta di Piano della Giunta prevede decisamente una linea di politica agraria tesa al rinnovamento strutturale e all'ammodernamento dell'agricoltura e l'impegno di rendere l'agricoltura piemontese più efficiente e di stampo europeo, capace di portare un contributo autonomo allo sviluppo generale dell'economia e della società regionale. Il giudizio ha le limitazioni precisate ragionando sulla parte teorica e iniziale del Piano che preciserebbero meglio la volontà politica della Giunta di rifiutare gli interventi di tipo assistenziale o a pioggia.
Voglio soltanto più precisare che, anche se le obiezioni e le osservazioni fatte sulla parte del Piano che riguarda l'agricoltura non sono di portata tale da giustificare un giudizio non favorevole, non intendo con questo predeterminare il voto che il nostro Gruppo darà sul Piano nel suo complesso.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Ferrero. Ne ha facoltà.



FERRERO Giovanni

Le discussioni, i temi, i problemi da cui partono oggi le forze politiche, sono un punto fermo e hanno una qualità nuova rispetto alle soluzioni e alle impostazioni del passato. Sono d'accordo con il Consigliere Benzi che al termine del suo intervento ha messo in rilievo come, al di là di consensi e dissensi, non si possa sfuggire dall'elemento politico innovatore che l'approvazione della deliberazione del Consiglio regionale per l'impostazione del Piano comporta rispetto alla situazione passata. Credo che questo possa essere affermato senza trionfalismi, ma avendo chiaro che il Piemonte è la prima Regione d'Italia a compiere questo atto; l'Emilia, la Lombardia, l'Umbria e forse la Toscana hanno approvato dei documenti di carattere più limitato, che nascevano da motivazioni politiche e da obiettivi diversi da quello che si prefiggono la Giunta, il Consiglio, la I Commissione e le forze sociali della nostra Regione.
Questo punto fermo è una guida, un orientamento, un contributo per l'azione che la Regione svolgerà attraverso la revisione delle leggi attuali, le deliberazioni della Giunta, i suoi atti, un orientamento cioè per il complesso della sua attività rispetto agli obiettivi e alle finalità del Piano. Il Piemonte ha una "cultura della programmazione" con radici lontane e profonde, ha elementi di continuità e di accumulazione negli anni che vanno tenuti in considerazione. Il Piemonte è la prima Regione d'Italia ad aver costituito un istituto di ricerche economiche e sociali attraverso l'azione dell'Unione Regionale delle Province piemontesi. L'elemento nuovo consiste nel passaggio dalle definizioni di strumenti, di indicazioni, di aspirazioni, al tentativo di uniformare ed informare ad essi l'attività di un organo, quale quello regionale. Si tratta in sostanza di superare il contrasto che avuto un rilievo politico rilevante negli anni precedenti al 1975 tra una volontà illuminata e riformatrice, tra l'impostazione di strumenti che individuava i limiti e i guasti che lo sviluppo in atto avrebbe portato, e una struttura di potere e di rapporti di forza politici e sociali che, al di fuori delle aspirazioni e delle indicazioni illuminate, hanno proseguito con una logica divergente rispetto a queste.
Il fatto che il discorso sia ripreso dopo il 15 giugno, per fissare una data, ma comunque a cavallo di quegli anni, deriva soprattutto dalla nuova situazione politica che anche quel tipo di dibattito e quegli scontri hanno contribuito a determinare. Un secondo elemento di interesse deriva dallo Statuto stesso della Regione Piemonte, il quale dice che il Piano è deliberazione del Consiglio, non legge. E' quindi un elemento che esprime indica la volontà politica del Consiglio, ma, al tempo stesso, mantiene un carattere dinamico, modificabile; impone cioè degli elementi di condizionamento e di vincolo, che però possono essere adeguati con il modificarsi della situazione dei rapporti tra le forze politiche e sociali il mutare della situazione economica, produttiva e di tutte le variabili nazionali connesse. Quindi il Piano è uno strumento che raccoglie indicazioni concrete e metodologiche, concretizzandole in modo non rigido modificabile e dinamico. Perciò, il piano deve essere, in qualche misura non onnicomprensivo. La critica non può essere peggiorativa, non può dire che il Piano deve essere una summa universale di tutti gli argomenti possibili in via di principio.
Questo carattere dinamico e modificabile lo lega ancora molto concretamente a una data situazione economica e politica e quindi pone in essere delle scelte e delle priorità; non citare non significa trascurare ma significa, ad esempio, rinviare ad altre occasioni, vedere la conseguenza temporale delle scelte non esplicitate rispetto a quelle contenute.
La svolta politica che c'è stata e questa concezione non rigida del Piano sono i primi due punti oggettivi sui quali si deve misurare, e non può non misurarsi, qualunque impostazione politica. Questi sono anche terreni su cui si misurano l'efficacia e la coerenza delle obiezioni, dei suggerimenti e delle modificazioni che si intendono introdurre all'interno di questa struttura che è aperta a contributi, ove ve ne siano, ove tengano conto di questi due elementi oggettivi, al di là della stessa volontà delle forze politiche.
Non condivido il tipo di ragionamento fatto questa mattina nel primo intervento della DC. E' un ragionamento che si può sinteticamente così riassumere: esiste e può essere definito un modello ideale di Piano, esiste cioè la possibilità di codificare e di definire cosa è un Piano regionale di sviluppo. Il Piano attuale, così com'è presentato dalla Giunta, si scosta in un certo numero di punti, di considerazioni e di elementi rispetto a questo modello ideale di piano, per cui la presenza di uno scarto tra questi due elementi comporta un giudizio negativo sul Piano, e quindi una sorta di reprimenda nei confronti delle forze che lo hanno proposto non essendone all'altezza. Un atteggiamento del genere ha degli elementi non condivisibili perché pericolosi rispetto ai due punti che dicevo prima; intanto perché pone tutto il giudizio possibile come giudizio negativo. Questo metodo mi pare che ponga in negativo il contributo dello stesso Gruppo democristiano e qualunque tipo di contributo che sia uscito dal lavoro del Consiglio regionale o che possa uscire in queste giornate di discussione. Solo così si può spiegare la critica, che mi è sembrata pesante, alla relazione generale, cioè a quella parte che aveva visto un impegno e un concorso, che poi in altra parte del medesimo intervento veniva rilevato, da parte di tutte le forze politiche.
Questo metodo è negativo in quanto non può produrre che risultati negativi e presuppone una sorta di piano rigido, di impostazione stabile e statica. Chi può prevedere certi parametri nello sviluppo di una regione o nello sviluppo socio-economico di una situazione al di fuori della battaglia politica? Come si può pensare che una formulazione di modello matematico o di altro strumento sappia, al di fuori della lotta politica tra i partiti e tra le forze sociali e quindi accettandone i risultati, gli arretramenti o gli avanzamenti, in via del tutto proiettiva ed estrapolativa definire, sulla sola base del passato, senza una prospettiva per il futuro, quali sono valori numerici che raggiungeranno certi indicatori? Se vi fosse una possibilità previsionale di questo genere all'interno di un meccanismo di pianificazione, in qualche modo, questo meccanismo non solo sarebbe contro pluralismo, ma sarebbe addirittura contro il pensiero umano, sarebbe in qualche misura una sorta di nuova dialettica hegeliana nella quale l'uomo migliore sia l'uomo morto perché cessa di opporsi al processo dialettico. Questa impostazione porta a contraddizioni ulteriori e con essa non possiamo quindi convenire. In questo discorso emerge un ruolo della Giunta eccessivo perché, in realtà, si suppone che la Giunta, e quindi l'espressione della maggioranza, faccia tutto, preveda tutto, e quindi che l'unico tipo di atteggiamento possibile per il Consiglio sia una critica a quanto altri fanno. Infatti si pongono soltanto delle domande degli interrogativi, dei punti aperti e non si sollecitano, indicandole in modo positivo, le scelte giuste. Da questo punto di vista si arriva alla conclusione che il ruolo di proposta del Consiglio vada poco al di là della sua possibilità di dire che, all'interno della proposta della Giunta qualche cosa non c'è, qualcosa manca, senza affermare, invece, che il punto di riferimento culturale attorno a cui ruota il piano proposto dalla maggioranza è scorretto, che vi è un altro punto di riferimento, o che ve ne sono due o tre e che da questi nascono indicazioni di Piano diverse da quelle che la Giunta ha proposto.
Questo è anche dimostrato dal fatto che si arriva alla discussione sul Piano dopo aver anticipato in una conferenza stampa il voto negativo del Gruppo DC, o comunque dopo aver espresso pesanti critiche, senza che vi sia stata, nello stesso tempo, una relazione di minoranza, senza aver concretizzato e scritto le altre priorità che la maggioranza dovrebbe far proprie; cioè senza aver individuato il terreno di proposta che deve essere evidenziato e quindi accolto, o contestato e modificato.
Il Consigliere Bellomo metteva giustamente in rilievo come, in modo più accentuato che in altre occasioni, non vi sia alcuno che nel suo intervento, movendosi da posizione di coerente opposizione, dica quali contenuti e quali scelte si debbano assumere all'interno della proposta del Piano. In politica contano il tono, l'atteggiamento, l'ottica in cui ci si pone per affrontare certi problemi, e mi pare che da questo punto di vista vi sia una differenza tra l'atteggiamento dell'intervento del Consigliere Alberton e quello del Consigliere Paganelli.
Vorrei riprendere, da un punto di vista non politico ma esclusivamente culturale, alcune questioni emerse nel dibattito. Questa diatriba sui modelli, sulle proiezioni, sulla loro efficacia, comincia ad avere qualcosa di ascientifico e di medioevale. Non ho capito, senza nulla voler togliere all'utilità del lavoro fatto, in che cosa consista l'originalità culturale di un certo tipo di proposte demografico-occupazionali che ci sono state riferite, stante il fatto che i modelli demografici che usano l'Ires e la Siteco sono acquistabili sotto forma di libro; chiunque può procurarseli.
Tutti sanno che i modelli di tipo demografico sono largamente inattendibili e sono tra i modelli più rischiosi, perché postulano alcune cose, quali il tasso di natalità, che dipendono non soltanto dalle condizioni di una popolazione, ma anche dal suo modello culturale; tutti sanno che l'emigrazione e l'immigrazione sono variabili esogene e non endogene rispetto a un modello puramente demografico; tutti sanno che processi di mutamento della cultura, della situazione economica comportano risultati molto diversi nell'estrapolazione dei modelli. Ho voluto portare questi esempi per dire che non me la sentirei di sostenere che un modello "prevede": un modello non prevede mai, un modello contiene delle ipotesi di struttura, si riferisce a certi dati del passato e quindi in qualche misura traccia una proiezione che i rapporti di forza, ad esempio politici e sociali, possono anche rompere e modificare. Se in qual modello si immettono delle ipotesi, allora si possono vedere quali sono le conseguenze che queste ipotesi comportano.
Il modello della Siteco contiene certe ipotesi; il modello dell'Ires contiene delle altre ipotesi. La discussione, al di là di un certo limite diventa accademica nel riconoscere che se si mantengono certe ipotesi di tasso di attività e alcune ipotesi dell'aumento della popolazione del Piemonte, si verificano certe cose sull'occupazione; se invece altre sono le ipotesi, il risultato è differente. Le forze politiche discutano delle ipotesi non trincerandosi dietro una supposta oggettività dei modelli. Solo ipotesi e obiettivi corretti permettono di utilizzare utilmente, e ciò oggi è utile se non necessario, modelli ed equazioni. Lo stesso ragionamento si applica all'esempio che ha portato il Consigliere Alberton questa mattina quando diceva che il Piano regionale di sviluppo individuerebbe la carenza di posti di lavoro, mentre non affronterebbe la richiesta presente di posti di lavoro che non viene soddisfatta stante l'attuale situazione della formazione culturale e professionale degli addetti potenziali. Ho l'impressione che questo discorso sulla forza lavoro eccedente e sulla forza lavoro mancante richieda approfondimenti, per non diventare astratto.
La gente che ha il diploma e la laurea e che non trova lavoro, esiste è un dato fisico, tangibile e numerabile; l'ipotesi di nuovi posti di lavoro in altri settori del mercato del lavoro è un'ipotesi. Allora, una forza politica deve sapere che non sono due aspetti praticamente equivalenti: sono al più due aspetti logicamente equivalenti. La discussione sulla riconversione di questo o di quel settore industriale o sulla formazione professionale per portare ad occupare quei posti di lavoro che si dice siano mancanti è un problema che ha certi tempi; la presenza oggi di disoccupazione in altre fasce e un problema che ha altri tempi e non è soltanto conseguenza di un modello.
In secondo luogo, le previsioni fatte dagli studi della Siteco, secondo me, non tengono sufficiente conto di quello che sta succedendo in queste ultime settimane. Mi risulta che l'iscrizione nelle scuole medie superiori stia scendendo in modo consistente soprattutto all'interno degli istituti tecnici professionali e all'interno del liceo scientifico e degli istituti per geometri, mentre si può verificare un aumento nei licei classici e nelle scuole magistrali. Se già quest'anno si manifesta una tendenza alla descolarizzazione in alcuni settori della scuola media superiore probabilmente quei dati di eccedenza di diplomati in attesa di lavoro vengono ad essere radicalmente compressi e si apre uno spazio nuovo per la formazione professionale.
Il ragionamento politico che si può fare avendo chiare le conseguenze che le diverse scelte introducono, è di discutere sulle scelte differenti.
Ne ho evidenziata una. Non mi sento, perciò, come invece altri fanno con una certa disinvoltura, di sostenere che il problema dei diplomati e dei laureati si risolve esclusivamente attraverso la compressione del loro numero; esiste almeno un'altra strada: al titolo di studio, a cui oggi corrisponde una preparazione modesta, si faccia corrispondere una preparazione seria e sostanziosa. Questa, insieme al dato numerico della scolarità, è un'altra variabile di cui le forze politiche devono farsi carico. Si tratta allora di applicare questo discorso di serietà e di rigore rispetto agli sbocchi professionali e alla qualità della formazione alla formazione professionale della Regione e compiere anche una ricognizione dei tipi di formazione per riorganizzare i piani di riparto dei fondi, dei corsi da istituire, della loro qualità.
Detto questo, mi pare che ci sia un punto di forza all'interno del Piano della Giunta, e che questo raccolga indicazioni non contestate da nessun'altra forza politica: viene posto al centro del Piano lo sviluppo delle forze produttive nonostante la limitata influenza diretta che la Regione può avere, ben sapendo che un rilancio e una rivitalizzazione dell'apparato produttivo di una Regione, che ha valenze agricole in alcune zone e industriali in altre, avviene attraverso un'operazione aperta e che non vede nella Regione soltanto un Ente erogatore di contributi, ma anche un interlocutore politico con una sua capacità autonoma di rapportarsi nei confronti della gente e nei confronti delle forze sociali. Questo mi pare sia stato il punto centrale e il collega Bellomo lo ha già rilevato. Come diceva il Consigliere Gastaldi, questo ragionamento nel settore dell'agricoltura è chiaramente articolato; come punto di partenza si riconosce il ruolo fondamentale dell'imprenditorialità nel settore agricolo. Questa è una scelta fatta in modo chiaro e non equivoco; se si fa questa scelta ne conseguono aspetti che riguardano il settore della ricerca, oppure il settore dell'occupazione, specie di quella giovanile perché questi due elementi si collegano meglio ad un'ipotesi di rilancio dell'attività produttiva.
Senza affrontare i tempi complessi del rapporto tra occupazione e redditività, che forse con una certa difficoltà possono vedere un "prima" e un "dopo" in modo rigido, per affrontare il tema dell'occupazione (a meno che non si voglia lasciare tutto com'é, ma nessuna legge regionale riuscirebbe a congelare la situazione dell'agricoltura nella situazione attuale), ci vogliono grandi interventi infrastrutturali. Il legame tra i due aspetti, redditività e occupazione, non è un legame che si possa formulare una volta per tutte, ma è qualcosa di dinamico che deriva dal tipo di orientamento degli investimenti e dalla stessa volontà autonoma dei soggetti che operano all'interno del settore; quindi si richiedono degli interventi per i problemi dell'irrigazione (con le ovvie conseguenze sulla zootecnia), sulle colture pregiate, nella riorganizzazione delle aziende.
Non sfugge su questo punto la sensazione che, senza parlare di prefigurazione perché è eccessivo ed immodesto da parte della Regione Piemonte, vi sia un sostanziale accordo tra le linee del nostro piano e gli accordi tra le forze politiche a livello nazionale in materia di agricoltura e in particolare sul piano agricolo alimentare; in sostanza l'indicazione che il Piano di sviluppo contiene non è dissimile e non porta a conseguenze diverse da quello che, gli stessi partiti che sono qui presenti, osservando da un'altra ottica, più ampia e generale, il problema dell'agricoltura in Italia, hanno finito per individuare come modi, scelte e priorità rilevanti. Questo é un elemento positivo, un elemento su cui si può lavorare ulteriormente, tenendone fermi i principi per valutarne le conseguenze in termini d'investimenti, di scelte specifiche, di revisione delle leggi, ecc.
Sul programma della formazione professionale, sempre seguendo questa logica generale che pone al centro il ruolo delle forze produttive, non solo dell'industria, pur sapendo il ruolo massiccio che l'industria ricopre (omettendo cosa era la formazione professionale tre, quattro anni fa), si notano le conseguenze che deriveranno dall'applicazione del Piano. Per intanto si è passati in questi due anni da 100 a 900 insegnanti che partecipano a corsi di formazione di riqualificazione professionale, quindi l'intensità del rapporto tra elementi di programmazione e attività specifica del settore si è di gran lunga sviluppata, probabilmente rimanendo ancora al di sotto di elementi soddisfacenti, ma certo compiendo uno sforzo impressionante. Emerge molto chiaramente un orientamento nuovo che è legato ai processi produttivi e questo mi pare il senso delle realizzazioni nelle aree di Biella e di Orbassano, certamente nate con il contributo rilevante delle forze sociali e delle forze imprenditoriali.
Questo contributo rafforza ancora di più il rilievo generale e non episodico di queste scelte, perché sta a significare che queste forze riconoscono nella Regione un interlocutore istituzionale a cui ci si rivolge, per porre le loro esigenze e per studiare possibili soluzioni.
Il corso del BIT, al di là del discorso specifico che si potrebbe fare sul settore e del fatto che questo settore nella Regione non era in nessuna misura coperto dalla scuola pubblica e oltre al rapporto con gli industriali, pone un rapporto estremamente interessante con le Facoltà universitarie, con il Politecnico in particolare; la stessa convenzione quadro che abbiamo discusso in questo Consiglio non è cosa diversa rispetto al processo che si avvia attraverso questi atti concreti. Se si è d'accordo su questi punti, si può andare avanti, si può cominciare a ragionare non più in termini di censiti, almeno in parte, ma in termini di corsi che scaturiscano da un programma e quindi da un tipo di accordo che vede impegnato il ruolo di programmazione della Regione, il ruolo di gestione dell'Ente locale, che veda impegnate strutture formative all'interno di una logica pluralistica e che veda in primo luogo valorizzato e impegnato l'elemento di offerta del lavoro, sia esso di tipo privato che di tipo pubblico. Questo significa certamente un processo di grande rilievo nella riorganizzazione dell'attuale formazione professionale e questa e un'indicazione che può essere dedotta dal Piano regionale.
Per quanto riguarda il settore dei servizi che non può essere schiacciato o eliminato in un piano che ponga al centro i problemi inerenti all'occupazione, c'e il nodo fondamentale della sanità su cui si è soffermato il Consigliere Paganelli questa mattina. E' un nodo fondamentale per il peso attuale che il fondo ospedaliero ha all'interno del bilancio regionale e per tutte le incertezze che si proiettano sulla vita della regione in mancanza di indicazioni certe sul finanziamento degli ospedali lo è inoltre per la 382, per l'auspicata legge di riforma sanitaria, per la 349 che concerne le mutue. Ebbene, per questo settore all'interno del Piano, pur con una certa cautela, sono evidenziate delle indicazioni di prospettiva e delle scelte. In sostanza c'è, scritto che il problema della sanità è un problema fondamentalmente di riforma istituzionale e di controllo della spesa. Noi riteniamo che debba essere affrontato il problema del controllo della spesa e che il problema della riforma istituzionale è il problema dell'unità locale dei servizi, è il problema delle deleghe, è il problema del ruolo che i Comuni riusciranno ad assumere per una gestione unitaria ed integrata dei diversi servizi Non è una questione di parole, dottoressa Vietti, si tratta di sapere se esiste una volontà unica che presiede all'erogazione dei medicinali all'interno delle mutue, alla richiesta delle lastre e dei ricoveri, oppure se sono due volontà diverse e se il compito dell'ospedale è e rimane quello di una gestione aziendale (da cui tra l'altro i nostri ospedali sono ancora molto distanti), ma che non produrrebbe molti risultati positivi, se si dice che l'unico problema è quello di ridurre la degenza media, perché se continua la logica di chi chiede di spedalizzare e chi spedalizza, la riduzione delle degenze medie non farà altro che favorire un processo di ulteriore e più massiccia spedalizzazione.
Ci vuole un accordo sul processo di spedalizzazione, si deve porre il problema se i tassi di crescita "naturale" della spesa sono o non sono accettabili, sapendo però che da ciascuna di queste scelte non si esce con indicazioni di per sé onnicomprensive perfette, ma si esce con un discorso politico che faccia delle priorità e che dia dei tagli; che raggiunga un'unità politica a livello regionale, in relazione ai nuovi insediamenti ospedalieri, agli ampliamenti dei posti letto, all'assegnazione di nuove risorse ospedaliere; che ponga il problema dei laboratori privati, delle case di cura private e delle altre fonti di erogazione che esulano dalle possibilità di controllo diretto della Regione.
Su tutti questi punti non è possibile sostenere che il Piano regionale non contiene indicazioni e scelte di tipo politico, che il suo modello culturale è del tutto indifferente e che non contiene al suo interno una certa proposta. I problemi della riforma istituzionale del controllo della spesa sono gli stessi problemi che si pongono anche nell'impostazione politica nazionale e sono temi sui quali l'accordo di governo oggi, a differenza di alcuni mesi fa, è estremamente esplicito. Quando si sostiene che deve essere accentuato il ruolo del Comune come Ente gestore e che vanno affrontati tutti i problemi istituzionali che la 382 comporta, si conferma come sostanzialmente valida l'indicazione "istituzionale" del Piano; il fatto stesso che negli accordi di Governo gli aspetti istituzionali per la sanità abbiano avuto il ruolo centrale, dimostra che erano stati posti come uno degli elementi centrali e in qualche misura prioritari di un processo pianificatorio di controllo.
Il secondo punto dell'accordo di Governo è il controllo della spesa all'interno degli ospedali. Questo, ripeto, ha delle implicazioni drastiche a livello regionale rispetto alle quali non è sufficiente dire che le scelte della Giunta non sono chiare: nella logica sono chiare.
Si tratta di dire se queste scelte devono essere diverse o se occorre procedere con maggior decisione su di esse. Il debito degli ospedali, alla fine del '76 ha raggiunto i 1.650 miliardi, quindi, rispetto alle richieste delle Regioni esisteva una carenza del fondo nazionale ospedaliero di 1.650 miliardi, e subirà sicuramente, durante l'esercizio in corso, un peggioramento. In questa situazione si può chiedere che vengano ripianati i debiti, cioè che altri 1.650 miliardi vengano buttati all'interno dell'attuale calderone; si può non chiedere nulla e fingere che questi problemi non esistono, oppure si può vedere se è possibile effettuare un'operazione di risanamento della situazione finanziaria degli ospedali analoga a quella che è richiesta per i Comuni, cioè, si può chiedere che nel prossimo esercizio il fondo ospedaliero sia in grado di coprire, nella sostanza, la spesa reale e accertabile degli ospedali, e che, attraverso il ritorno a condizioni di pagamento normali degli Enti ospedalieri, vi sia una riduzione delle tariffe delle derrate alimentari, o del costo del riscaldamento, o di altri generi che oggi gli ospedali devono pagare; si può chiedere se non è possibile ridurre per tanti ospedali come per tanti Comuni, la voce dei mutui; se quindi non è pensabile un'operazione che risolva questi problemi, che già il Consigliere Paganelli citava.
Sono problemi complicati perché il governo mette a bilancio una cifra il decreto del CIPE contiene una cifra diversa e le promesse del Ministro sono per cifre ancora diverse; tutto questo non è che un meccanismo che porta i singoli amministratori, i presidenti degli ospedali a dire "il buco è così disastroso ed incalcolabile, e le possibilità di arrivare ad un bilancio di pareggio sono così aleatorie, se non nulle, che è assolutamente inutile farsi delle inimicizie per ottenere un risultato che nessuno riuscirebbe ad apprezzare nella sua importanza".
Sul problema della sanità, al di là dei problemi di tipo culturale che riguardano la salute, al di là di molte altre questioni, esistono dei punti e delle scelte all'interno del Piano che possono essere interpretate come elementi di rilievo per un'organizzazione dell'attività di governo propria dell'Ente, e per dare credibilità all'Ente in modo che possa compiere operazioni sempre più importanti e sempre più consensuali nei confronti della comunità regionale sui temi dell'attività produttiva e della ripresa economica, sui quali la Regione non ha di per sé e direttamente delle competenze proprie. Mi pare giusta l'indicazione che il Consigliere Rossotto dava nella relazione introduttiva circa l'accordo di governo che ha delle conseguenze e delle indicazioni, unitarie e sottoscritte, pur con limiti che possono contenere.
Il Piano è il primo esempio di corretta impostazione, dinamica ed aperta, i cui elementi centrali sono coerenti con indicazioni nazionali che costituiscono esse stesse un fatto nuovo e importante, alcuni mesi fa non acquisito.



PRESIDENTE

E' iscritta a parlare la professoressa Soldano. Ne ha facoltà.



SOLDANO Albertina

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, nell'ambito della discussione sul Piano di sviluppo regionale, in correlazione e - se mi è consentito - a precisazione di alcuni interventi a carattere generale di colleghi che mi hanno preceduta, ritengo opportuno svolgere alcune considerazioni su un tema che dovrebbe costituire una linea costante per giungere ad importanti e decisive scelte programmatiche, un filo conduttore che, attraverso la valorizzazione di tutte le componenti in cui si articola la nostra realtà regionale, porti ad una sintesi operativa e contribuisca concretamente allo sviluppo armonico della realtà stessa. Mi riferisco al problema della formazione professionale, non secondo una visione meramente settoriale, ma per puntualizzare il ruolo che la formazione professionale assume in un momento in cui l'apporto culturale nell'attività di lavoro è un fatto determinante per la qualità della vita, nonché per la crescita e lo sviluppo socio-economico. Il problema pone in evidenza oggi, nella realtà italiana, non soltanto la necessità di individuare precisi momenti operativi, ma anche il dovere di saper cogliere spunti culturali di notevole rilievo nella progressiva acquisizione di una consapevole maturità umana e civile. Non a caso, nel Piano di sviluppo in esame da parte della Giunta regionale, si tende a presentare, se ho ben compreso, un programma obiettivo di formazione umana e si identifica l'area di intervento 5° con l'attività di formazione e cultura, ossia si pone il problema della formazione professionale in raccordo, in modo specifico, con il sistema scolastico e con la gestione del patrimonio culturale. Tuttavia, occorre rilevare che la materia, nel suo complesso, viene alquanto suddivisa nel Piano, anzi frammentata nelle diverse aree di intervento e nei diversi progetti-obiettivo senza che ne emerga un chiaro disegno politico, né una linea operativa che, attraverso opportuni collegamenti, riesca a prospettare un sistema formativo regionale organico, finalizzato al primo inserimento dei giovani, al reinserimento dei lavoratori o sospesi o espulsi dai processi produttivi, alla mobilità professionale nell'ambito di una funzione formativa ricorrente e interessante tutto l'arco della vita lavorativa.
Si tratta, in sintesi, di dichiarazioni d'intenzione, non di reali programmi-obiettivo che s'intendono conseguire; manca la definizione delle linee d'azione che si intendono adottare, cioè l'indicazione dei mezzi con i quali si intende operare. Non basta affermare che ci si intende muovere verso la definizione di un ruolo nuovo della formazione professionale occorrerebbe precisare in che cosa consiste tale ruolo e in che modo s'intende concretizzarlo. Nei documenti della Giunta manca una definizione chiara di professionalità e di formazione corrispondente; senza tali chiarimenti non si può stabilire, nel concreto, come la formazione professionale possa e debba porsi, ad esempio, in ordine al riassetto dei settori produttivi di beni e di servizi, alla politica attiva del lavoro in rapporto all'evoluzione tecnologica, economica e sociale e alle trasformazioni dell'organizzazione del lavoro. In particolare, non risulta chiaramente come la formazione professionale possa e debba porsi come raccordo tra le conoscenze scolastiche e le esigenze di professionalità nel mondo del lavoro. Non basta, a nostro avviso, dichiarare, come avviene nell'area d'intervento 5°, che si intende fare della formazione professionale un elemento di rilancio e di riqualificazione dello sviluppo.
Occorre definire invece come e con quali mezzi e risorse umane s'intenda perseguire quanto viene dichiarato. Né basterebbe dire che s'intende elevare i contenuti della formazione professionale; occorre piuttosto determinare in che cosa debba consistere concretamente tale elevazione. In particolare, non viene detto nulla circa il sistema formativo che s'intende realizzare in prospettiva, né circa la programmazione delle esigenze formative e l'organizzazione delle iniziative attuative corrispondenti.
Così ci paiono insufficienti le indicazioni relative alla ristrutturazione del settore per quanto concerne in modo specifico i livelli regionale e comprensoriale, relativamente ai centri di formazione professionale. Occorre definire, in termini di effettivo programma obiettivo, l'adeguamento della struttura formativa esistente alla situazione del mercato del lavoro e non soltanto indugiare a livello di dichiarazione di intenzioni. In verità, il riassetto del settore richiede una legge-quadro in materia, una legge che, assicurando una funzione di indirizzo e coordinamento ai livelli centrali del Paese, stabilisca un quadro di principi tali da consentire il riordino complessivo del settore.
Occorre, infatti, evitare che il decentramento regionale non si riduca ad un mero decentramento dell'esistente, da gestirsi secondo logiche regionalistiche di tipo deteriore, anche se collocate in un tentativo di razionalizzazione.
Non si giustifica la mancanza di proposte - ci sia consentito affermarlo - da parte della Regione, in rapporto alle sue peculiari competenze di programmazione, tanto più in relazione al fatto che ormai è avviato, a livello nazionale, nelle competenti sedi parlamentari, il dibattito sulla legge-quadro della formazione professionale. In modo specifico, pare che, per quanto concerne il mercato del lavoro e le dinamiche occupazionali, occorra fissare una precisa linea operativa fondata sulla formazione professionale capace di concorrere a orientare e a fare evolvere la stessa domanda di lavoro nei suoi aspetti localizzativi tecnologici, organizzativi, economici. Il documento del Piano non coglie, a nostro avviso, le interrelazioni e le correlazioni tra le diverse attività produttive di beni e di servizi. Questo ci sembra un grosso limite, anzi un grave impedimento, di fronte ad un sistema di sviluppo fondato sulla interrelazione e sul coordinamento, indispensabili per un'attività di formazione professionale che si fondi sulla professione concepita come ruolo e sulla mobilità professionale in senso orizzontale, verticale ed intersettoriale.
Per quanto concerne alcuni specifici interventi proposti nel Piano sempre in relazione alla formazione professionale per settore industriale ci sia concesso fare alcune osservazioni. Anzitutto, gli interventi regionali ci sembrano confluire nella creazione di tre centri-pilota gestiti dalla Regione. Non c'é, però, indicazione coerente con quanto dichiarato nella premessa relativa alla riconversione e ristrutturazione di quanto esiste nel campo attuativo della formazione professionale, come se bastassero i tre centri-pilota a riqualificare, almeno oggi, l'intero sistema di formazione professionale. Ci sembra anzi di cogliere, nel complesso, una certa aspirazione di egemonia politica e culturale, rispetto al settore formazione professionale, in collegamento con la realizzazione di alcuni cosiddetti centri-pilota.
A tale riguardo non si vede come, con l'istituzione di centri-pilota aprioristicamente determinati, non specificati, si possa procedere a promuovere, indirizzare e coordinare le risorse formative esistenti nella comunità regionale, siano esse in atto o potenziali. Rileviamo anzitutto che il riordino del sistema formativo, in base al pilotaggio dei centri che ancora non esistono, dovrebbe essere rinviato a tempi medio-lunghi, al fine di consentire la realizzazione delle infrastrutture, il reclutamento, la formazione e l'organizzazione del personale necessario, nonché una prima sperimentazione. In secondo luogo, non ci pare un criterio valido quello di affidare a pochi centri operativi tutta la progettualità didattica e la conseguente sperimentazione; piuttosto, la progettualità didattica e la conseguente sperimentazione dovrebbero diventare valenze e dimensioni fondamentali per un centro di formazione professionale, al fine di garantire una reale capacità di risposta formativa, tempestiva e adeguata alle esigenze e ai fabbisogni formativi, posta in essere dai problemi dell'occupazione, specialmente giovanile e femminile, e dall'evoluzione tecnologica, economica e sociale. Così, per quanto concerne il settore socio-sanitario, ci pare che il discorso sulla formazione professionale del personale occorrente sia carente di una linea chiara e precisa sull'organizzazione e sull'impiego del personale.
Il processo di formazione professionale trova le sue premesse essenziali nel tipo di organizzazione del lavoro e nel tipo di mobilità professionale che si vuole conseguire; non basta, al riguardo, prefigurare un'immagine, per così dire, complessiva del servizio che si ha intenzione di realizzare. D'altra parte, la mobilità professionale non può essere intesa in modo da annullare l'esigenza di ruoli professionali distinti e ben determinati, in vista della situazione di un ruolo di operatore unico che sembra invece essere preferito dalla Giunta regionale; così pure, il lavoro di gruppo non può essere un lavoro di tipo assemblearistico, ma deve essere un lavoro interdisciplinare che richiede ruoli e apporti ben precisi, nonché chiare assunzioni di responsabilità. Inoltre, i] lavoro di gruppo deve essere collegato ad un concetto di mobilità professionale caratterizzato da un effettivo, costante aggiornamento e potenziamento e non da una generica e, tutto sommato, inoperante uniformità. Vale a dire l'essenza del lavoro di gruppo è costituita da una responsabile capacita di interrelazione e di correlazione nelle diverse competenze fra loro, in rapporto ai bisogni dell'utenza.
Rileviamo ancora che, mentre ovunque si viene affermando l'esigenza di un decentramento funzionale distribuito sul territorio, nell'ambito del Piano in discussione, la Giunta tende a concepire l'unità locale dei servizi, almeno nella nostra interpretazione, come un'unita fortemente centralizzata e centralizzatrice e non come un sistema articolato e coordinato da vari gruppi operativi, capace di avvalersi di tutti gli apporti possibili e altresì di corrispondere alle molteplici e mutevoli esigenze dell'utenza. In tale prospettiva, gli utenti non diventano soggetti effettivi del servizio socio-sanitario, a causa della mancanza di reali possibilità alternative rispetto ad ogni specifico bisogno.
Per ragioni di brevità sorvoliamo su specifiche osservazioni analoghe che si potrebbero fare circa le previsioni per la formazione professionale relativamente ad altri settori pure importanti della vita associata, quali l'agricoltura, l'artigianato, il commercio, il turismo. Riteniamo tuttavia doveroso fare almeno un cenno su quanto è previsto per il settore della pubblica amministrazione. In sintesi, dobbiamo evidenziare come non si prospetti una politica di promozione e di valorizzazione del personale amministrativo, fondata sulla sua responsabilizzazione, garantita da un'adeguata professionalità e mobilità professionale, ma anche da una relativa autonomia. Si punta, invece, a un lavoro di gruppo assemblearistico che, di fatto, pare piuttosto consentire un controllo politico sugli operatori, e altresì si tende ad una mobilità del lavoro a discrezione del potere politico-amministrativo. Non ci pare, cioè ipotizzare il lavoro di gruppi responsabilizzati, operanti in base ai criteri dell'interdisciplinarietà e in forza del potenziamento dei ruoli ciò vale tanto per le relazioni col territorio e la comunità regionale quanto per i procedimenti e le funzioni interne.
Senza una tempestiva e progressiva riorganizzazione del settore della formazione professionale, la Regione non può dare un'adeguata risposta alle esigenze di formazione poste dalla legge sull'occupazione giovanile e a quelle che saranno poste, a tempi brevi, dal provvedimento legislativo sul riassetto industriale. In una prospettiva di reale sviluppo, la formazione professionale degli operatori ai vari livelli rappresenta un fattore indispensabile, anzi insostituibile.
La visione specialistica e settoriale non è sufficiente. Occorre assumere una visione strutturale e di sintesi che, sola, può permettere oggi di cogliere i problemi di fondo della formazione professionale.
Inoltre si chiarisca la correlazione della formazione professionale con i processi formativi scolastici e, in generale, con lo sviluppo economico e sociale, considerando la formazione professionale non semplicemente come un fattore derivato e subalterno, ma come fattore attivo e attivizzante.
Analogamente si affronti, nel limite delle competenze regionali, il problema dei rapporti con la scuola, che deve essere messa in grado di operare in aperto dialogo con la società; ma il problema non si risolve descolarizzando o allentando la spinta verso l'elevazione del livello d'istruzione necessario per una persona che deve essere messa in grado di possedere gli elementi sempre più complessi e necessari per leggere e dominare la realtà.
Concludendo, noi intendiamo il problema del lavoro come un calare di ideazioni e di progetti nel mondo e come logica operativa nel quadro organico della programmazione; pertanto riteniamo che oggi occorra attuare un tipo di formazione, nell'ambito dell'educazione ricorrente, che pensi a tutto l'uomo, cioè all'uomo che lavora perché pensa e opera con convinzione e responsabilità.
Vuole essere, questa, una proposta per un confronto serio, articolato aperto al dialogo. Importante, comunque, ci pare non sottovalutare, almeno da parte nostra, che la prospettiva educativa dell'uomo, anche come lavoratore, deve muoversi in tre direzioni: quella di condurre all'autopromozione integrale della propria personalità, quella della socializzazione della persona come senso dell'altro e del bene comune quella della culturalizzazione come trasmissione dell'eredità sociale e come partecipazione creativa di pensiero, di lavoro e di tecnica del genere umano. Questi sono i fini generali da considerare permanentemente nel continuo processo di maturazione dell'uomo.
Al raggiungimento di questi fini noi intendiamo ispirare la nostra azione, nel rispetto del ruolo assunto dalle singole forze politiche all'interno di questo Consiglio regionale.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Bono. Ne ha facoltà.



BONO Sereno

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, il Piano di sviluppo regionale che stiamo esaminando rappresenta, come ha già detto molto chiaramente il Consigliere Ferrero poc'anzi, un punto di partenza importante e decisivo per un nuovo modo di gestire e di governare la politica regionale. Se non si coglie l'essenza di questo aspetto, difficilmente si riuscirà a capire fino in fondo il valore ed il significato dell'ago che stiamo compiendo. Vi sono stati e vi saranno molti e difficili problemi ancora da risolvere. Noi non nascondiamo che nella fase di costruzione, di avvio, e di messa in moto del Piano, essendo questa una prima esperienza che si va a realizzare a livello nazionale, i problemi che abbiamo di fronte saranno molti, e accresceranno il valore dello sforzo che stiamo compiendo. In questo quadro siamo sempre disponibili ad accogliere tutti i contributi positivi da qualsiasi parte vengano.
Dobbiamo però essere fermi nella determinazione di realizzare una nuova metodologia nella gestione pubblica che deve permettere di impostare più razionalmente tutto il lavoro futuro. Il mio non sarà un intervento di carattere generale, ma puntualizzerà alcuni aspetti; il primo dei quali che non può essere dimenticato quando si parla di programmazione della vita economica e sociale, è quello che si riferisce ai problemi del territorio alla sua organizzazione e al modo di difenderlo. Non dobbiamo dimenticare che il territorio rappresenta uno dei beni non riproducibili e che, giunti alla sua distruzione, non è più possibile ricostruirlo, quindi i guasti prodotti in questo settore non sono più riparabili. Basti pensare, per esempio, quanto viene a costare alla collettività la lotta per il risanamento delle acque e dell'ambiente. Occorre dire con estrema chiarezza, e questo la documentazione del Piano lo dice, che tutto ciò è stato possibile perché in passato sono prevalsi concetti errati circa il valore ed il significato della proprietà e della libertà di iniziativa privata. Certo la proprietà e l'iniziativa privata sono momenti decisivi ed importanti in una società pluralistica, però la proprietà e la libertà di iniziativa debbono sempre esercitarsi entro determinate discipline che non rechino danno all'intera collettività.
Abbiamo assistito in questi ultimi anni a gravissimi danni provocati sul territorio dalla speculazione edilizia, dalla disordinata localizzazione degli insediamenti produttivi, dai non sufficienti controlli sugli impianti produttivi: basti ricordare i danni provocati dall'Ipca di Torino e dall'Icmesa di Seveso e alla proliferazione disordinata delle raffinerie. L'Italia è diventata il Paese che raffina più petrolio di tutti gli altri Paesi d'Europa; basti pensare allo scarso controllo che è stato esercitato nell'uso di sostanze chimiche in agricoltura, e al disordinato sviluppo delle attività produttive ed estrattive, con i gravissimi danni provocati all'assetto del territorio.
Se non si parte dalla constatazione di fatto delle realtà del nostro Paese, non si riuscirà a modificare in positivo questa realtà e a comprendere il valore ed il significato di molti atti. Nel progetto di Piano così come negli atti concreti che sono stati portati avanti dalla Giunta, vi sono le premesse, il recupero e il riequilibrio della situazione di dissesto che si andava sempre più sviluppando. Richiamo rapidamente il significato e il valore della legge sui trasporti, della legge urbanistica che da un anno stiamo discutendo e che finalmente è matura per arrivare in Consiglio regionale; tale legge sarà articolata attraverso i piani territoriali di coordinamento, i piani regolatori generali comunali ed intercomunali, i programmi di attuazione, attraverso una normativa che anche se non perfetta, rappresenta un grosso passo in avanti rispetto al passato. Pensiamo al piano dei parchi e alle relative leggi istitutive che stiamo portando avanti, politica già impostata dalla passata amministrazione e seriamente avviata.
La legge n. 43 del 1975 afferma che la politica dei parchi tende a conservare e a difendere il paesaggio e l'ambiente ma anche ad assicurare alla collettività ed ai singoli il corretto uso del territorio per scopi ricreativi, culturali, sociali, didattici e scientifici e per la valorizzazione delle economie locali. Sono affermazioni di importanza decisiva che vengono puntualmente rispettate nell'esecuzione e nello svolgimento dell'attività che stiamo portando avanti. Il vasto dibattito sviluppato in Commissione, in Consiglio regionale e con la collettività attorno alla realizzazione del piano dei parchi, ha avuto sicuramente una netta prevalenza sulle opposizioni che si sono verificate.
Vi sono state alcune opposizioni, alcune perplessità determinate da sincere preoccupazioni, ma dobbiamo dire che queste perplessità e queste preoccupazioni sono sempre state superate con un dibattito franco chiarificatore, leale nei confronti dei nostri interlocutori. Altre volte poche per la verità e per fortuna, vi è stata qualche manifestazione che non esito a definire di tipo "barricadiero" intorno alla politica dei parchi; vi sono state montature e strumentalizzazioni richiamate da interessi economici non sempre confessabili, sui quali poi si sono innescate anche alcune manovre e alcuni tentativi di sfruttamento politico.
Quella che noi portiamo avanti e che emerge con chiarezza dal documento del Piano è una politica che supera i vecchi concetti mummificati degli ambienti prescelti, che affronta invece il concetto nuovo e moderno di tutela dei valori naturalistici ed ambientali non fini a se stessi, ma così come dice la legge n. 43, in funzione dell'uomo per un elevamento delle sue condizioni di vita, per lo sviluppo delle attività scientifiche culturali, ricreative, economiche.
Il Piano contiene altre proposte importanti ed interessanti, sia in merito all'assetto, all'organizzazione e alla difesa del territorio, il programma per la sistemazione idrogeologica e forestale è un altro momento altamente qualificante della politica territoriale della Regione soprattutto in riferimento ai gravissimi danni causati recentemente sul piano economico e sul piano umano del nostro Paese. Di fronte a questi problemi, di fronte ad una trentennale latitanza governativa, la scelta del Piano regionale è giusta, tempestiva e qualificante; l'impegno che con questa scelta si affronta è pesante e gravoso dal punto di vista economico ma non mancherà, anche se a scadenze non immediate, di offrire le adeguate contropartite.
Gli altri momenti presenti nel Piano di sviluppo sono il programma per la protezione e il risanamento delle acque, il programma per lo smaltimento dei rifiuti solidi, il progetto per la protezione ed il controllo sull'inquinamento atmosferico. Attraverso questi programmi che rappresentano alcuni momenti costitutivi, compiono scelte precise che vanno in direzione della qualificazione delle condizioni di vita, e quindi inequivocabilmente nella direzione opposta a quella condotta negli ultimi trent'anni nel nostro Paese, in contrapposizione a quella politica capitalistica che facendo leva sul profitto individuale ad ogni costo ha prodotto gravi guasti all'assetto del territorio e all'ambiente.
Colleghi Consiglieri, ritengo che, contrariamente a certe affermazioni sostenute questa mattina in Consiglio, circa la genericità del documento presentato ed alla presunta assenza di impegni quantificati per cui il documento non potrebbe essere definito piano, debbo dire che, a parere di una valutazione obiettiva, il Piano che stiamo esaminando ha un suo valore specifico per gli aspetti che ho sinteticamente accennato, in quanto fissa con estrema precisione, oltre agli obiettivi, anche i tempi di realizzazione, gli strumenti con i quali questi obiettivi devono essere realizzati, i mezzi necessari e le indicazioni per reperirli. Questa mattina il Consigliere Alberton, che non ho il piacere di vedere in questo momento - corrispondendo ad un ragionamento che d'altronde è una sua caratteristica peculiare e che noi volentieri gli lasciamo -, ha dichiarato che è stata sbagliata la programmazione della programmazione da parte della Giunta e della maggioranza per tentare di contestare nella globalità il Piano e la linea politica che lo sostiene; queste dichiarazioni sono state fatte senza che il Consigliere Alberton avesse il minimo ripensamento autocritico sui risultati di trent'anni di governo D.C., ai diversi livelli, del nostro Paese, da quello nazionale a quello regionale nella prima legislatura.
Per anni e anni si è fatto dell'accademia sulla necessità di portare avanti un processo programmatorio ma a questo processo programmatorio non si è mai fatto compiere il minimo passo. Mi paiono molto più equilibrate a questo proposito le affermazioni fatte dal Consigliere Paganelli a conclusione del suo discorso e dal Consigliere Benzi. Oggi stiamo intraprendendo una nuova esperienza che va costantemente verificata e corretta; non pretendiamo di avere in mano la verità assoluta e di dire che nei documenti non c'é nulla che non possa non essere migliorato, per riteniamo che questi documenti rappresentino un punto di riferimento serio ed importante per chiunque voglia confrontarsi con la realtà. E' un'esperienza che oggi realizziamo non solo con il contributo dell'attuale maggioranza ma anche con il contributo di tutto il Consiglio regionale alcuni programmi presenti in questo Piano erano già stati avviati dalla precedente maggioranza, essi sono stati richiamati nel Piano in modo positivo, ripresi e potenziati.
Dovrebbe essere chiaro anche per i colleghi che non fanno parte della maggioranza e che facevano parte di quella precedente che la ripresa di questi progetti all'interno di un Piano di sviluppo rappresenta una loro valorizzazione, in quanto la loro vita singola e slegata da tutto il contesto della politica regionale li vanificava o li riduceva in parte nella loro validità. Oggi questi progetti, quali per esempio la legge sui parchi, ora diventata piano, il piano di risanamento delle acque o altri vengono ad acquistare un valore nuovo e più elevato, perché sono collegati tra di loro e al disegno più generale che investe tutta l'attività del nostro Consiglio.
Quando si affronta un disegno come quello che abbiamo oggi di fronte quando si entra nel merito dei problemi si deve ponderare seriamente e concretamente le dichiarazioni che si fanno e gli impegni che si assumono.
Questo documento ha un valore specifico e particolarmente importante, pu veramente aiutarci a impostare la vita am ministrativa della Regione su un piano nuovo, più qualificato, più progressivo, più produttivo per tutta la collettività regionale.



PRESIDENTE

Signori Consiglieri, mi pare che il dibattito di oggi sia stato particolarmente interessante; penso che domani lo sarà altrettanto. La seduta è aggiornata alle ore 9,30 di domani 26 luglio.
La seduta è tolta.



(La seduta ha termine alle ore 18,45)



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