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Dettaglio seduta n.131 del 25/07/77 - Legislatura n. II - Sedute dal 16 giugno 1975 al 8 giugno 1980

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Argomento:


PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SANLORENZO


Argomento: Piani pluriennali

Esame Piano regionale di sviluppo 1977-1980 e deliberazioni conseguenti


PRESIDENTE

La seduta è aperta.
I Consiglieri hanno ricevuto l'ordine del giorno concordato alla fine della precedente seduta consiliare. Credo che tutti siano a conoscenza delle procedure di svolgimento dei nostri lavori, che iniziano senz'altro (salto ancora una volta le comunicazioni del Presidente perché troveremo il modo in questi giorni di farle) con il punto quarto all'ordine del giorno: "Esame Piano regionale di sviluppo 1977-1980 e deliberazioni conseguenti".
Relatore è il Presidente della I Commissione, Consigliere Rossotto, a cui do la parola.



ROSSOTTO Carlo Felice, relatore

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, la discussione sul Piano regionale di sviluppo si viene a collocare in un momento particolarmente "intenso" ed "interessante" della vita politica italiana.
L'accordo programmatico siglato dalle forze politiche democratiche, al di là della valutazione che ogni singola componente ne può dare rappresenta un fatto di grande portata politica non solo per il nostro Paese, ma forse anche per l'avvenire dell'Europa stessa.
Non è questa la sede per una sua approfondita analisi: è sufficiente mettere in risalto gli aspetti che possono incidere con più immediatezza e più dettagliatamente sul nostro lavoro di amministratori di una regione cardine non soltanto di un'Europa che abbia come fondamento della sua costruzione strutture democratiche, ma pure elemento di punta, dopo tante parole, di un'inversione di rapporti e di tendenze, per la prima volta dal momento dell'Unità ad oggi, tra regioni settentrionali e regioni meridionali.
Vi é, come dato generale, il miglioramento del clima politico e un sostanziale rinsaldamento delle aspettative e della fiducia dei cittadini verso le istituzioni che può venire dall'intesa politica fra i partiti democratici.
E' questo sicuramente un elemento di non secondaria importanza anche a livello regionale, dove operano con particolare virulenza quelle componenti terroristiche che puntano allo sgretolamento della vita civile e dello Stato e dove il prolungarsi degli effetti negativi delle difficoltà economiche, da qualcheduno con incoscienza auspicato quasi quale mezzo decantatore della situazione politica, potrebbe portare a scardinare la fiducia che nonostante tutto lega nel loro complesso i cittadini e le organizzazioni democratiche, quelle dei lavoratori e degli imprenditori alle istituzioni democratiche.
Sono poi queste in definitiva le condizioni minime, certamente da sole non sufficienti, ma comunque necessarie, per lavorare con più impegno e con ragionate prospettive, per far uscire il paese dalla crisi che sta attraversando, in una regione dove un allargamento di consensi ad un'azione politica largamente unitaria sui grandi temi porrebbe per sempre nel nulla le polemiche sterili ed oziose su parità o paritarietà elettorali e agli sclerotici discorsi su presunti e di certo non facili trasformismi.
Più in particolare, e senza entrare nel merito dei contenuti dell'accordo, vale rilevare il fatto che il problema del governo locale e dell'assetto istituzionale delle autonomie locali trova ampio spazio nel testo dell'accordo e nel dibattito di questi giorni.
Sono stati indicati alcuni interventi immediati e alcune linee di trasformazione che, una volta operative, potrebbero mutare in modo significativo l'attuale struttura, le attuali funzioni, le attuali inespresse potenzialità del sistema delle autonomie locali in profonda crisi di efficienza, ed ove solo l'ottimismo della volontà e l'onestà dei loro amministratori consentono alle stesse di resistere non certo molto al di là di un breve periodo.
E' sufficiente pensare all'aspetto innovativo che potrebbe avere l'attuazione di provvedimenti per accrescere le entrate fiscali dei Comuni alla soluzione uniforme, ancora ampiamente aperta, dell'Ente intermedio fra Regioni e Comuni, all'ampio capitolo della 382, che, a prescindere dalle specifiche forme di attuazione, rappresenterà una vera e propria rivoluzione attiva dell'ordinamento istituzionale del Paese, attuazione del dettame costituzionale di uno stato delle autonomie, e garanzia prima ed essenziale delle libertà del singolo cittadino.
Si tratta di questioni che manifesteranno più avanti la loro operatività, ma che comunque già fin d'ora è necessario considerare perch contribuiscano a mantenere obiettivamente aperto il quadro in cui ci troviamo a lavorare e ci impegniamo, con determinata attenzione nella predisposizione di progetti e di interventi, non solo ed unicamente al brevissimo periodo.
L'insieme di queste considerazioni, unite alla consapevolezza del permanere della crisi economico-sociale e della particolare gravità che la stessa sta assumendo nelle regioni meridionali, di fronte anche ad un lento deterioramento delle strutture statuali giunte oltre ai limiti di guardia inducono tutti, amministratori e forze politiche, ad un più alto senso di responsabilità, una più alta considerazione del momento delicato e difficile che stiamo attraversando, ai problemi del Paese in una assillante ricerca degli interventi prioritari quale effettiva risposta.
Il Piano regionale che ci apprestiamo a discutere, o che meglio, stiamo costruendo da lunghi anni, non solo non è un quid novi rispetto a questi problemi, ma è forse l'atto più direttamente collegato alle grandi questioni nazionali, fra tutti quelli affrontati dall'inizio di questa legislatura, che il Consiglio regionale si sia con fermezza imposto.
Non è sufficiente pertanto una discussione e un'analisi regionale del Piano: occorre fare lo sforzo per misurare questo atto anche e specialmente nel rispetto ai problemi e alle prospettive che il nostro Paese ha di fronte in una fase che è forse la più difficile della sua storia, anche perché per la prima volta dai lontana tempi cavouriani tutte le componenti socio-economiche e politiche sono chiamate e possono in realtà svolgere una funzione e una politica unitaria nazionale che il Paese, nel suo complesso da quei lontanissimi anni, più non conobbe.
Sono trascorsi quasi due anni dalla "Conferenza sull'occupazione e gli investimenti", con cui fu dato avvio ai lavori di formazione del Piano.
Un interrogativo legittimo potrebbe sorgere a questo proposito: era una strada troppo difficile e improba per le forze disponibili nella nostra regione e questo ci ha costretto a rallentare troppo il passo? Oppure si è perso tempo, non vi è stata funzionalità da parte degli organi tecnici dell'istituzione? Oppure era solo un modo per cercare facili consensi con seducenti obiettivi nella speranza che il tutto rimanesse a livello propositivo mentre poi, come per l'apprendista stregone, il tutto si è trasformato in uno strumento che ci ha obbligato a compiere, magari "obtorto collo" ci che abbiamo dovuto fare? La strada da percorrere era ed è effettivamente difficile ed ha anche pesato, in questi due anni di lavoro, la mancanza di strutture già predisposte per un lavoro nuovo nello stesso momento della sua decisione e richiesta: tuttavia sarebbe errato dire di aver perso tempo.
La relativa lunghezza dei tempi è dipesa da una scelta di metodo, dal fatto cioè che non si è voluto far nascere il Piano di sviluppo nelle segrete degli Uffici Studi, ma da un dibattito e da un confronto che è stato - di questo occorre che tutti ne prendiamo atto e ne traiamo soddisfazioni - estremamente ampio, faticato ed esaltante anche solo da un punto di vista culturale per quanto ognuno di noi, e per primo colui che per la seconda volta si assume l'onere di relazionare di questa materia lor signori, ha con questa tormentata continua verifica potuto intuire e capire dei veri problemi che abbiamo a volte troppo trascurato.
Certo vi sono anche stati dei ritardi imputabili al metodo, però a posteriori ci sembra di poter dire che molto più larghi sono stati i risultati positivi che questa fase di formazione del Piano ha consentito di raggiungere.
In primo luogo la discussione intorno alla proposta di Piano di sviluppo dello scorso anno ha rilanciato, con notevole ampiezza, il confronto attorno ai problemi e alle prospettive politico-economiche dell'Ente Regione, sopperendo ad un ritardo che andava accumulandosi fin dagli anni '60, da quando cioè le istanze di programmazione portate avanti dal centro-sinistra avevano stimolato un forte impegno di lavoro attorno a tali questioni, obbligandoci poi a togliere la polvere a quel cumulo di documenti, mai pervenuti ad un momento di chiaro confronto politico che la prima legislatura vide accumularsi nella I Commissione: per i dubbiosi vi è soltanto la richiesta di accesso agli archivi.
In questo senso non si è partiti da zero nell'elaborazione del Piano: larga parte dei contenuti riflettono la sistemazione, l'aggiornamento ai problemi di oggi di quelle tematiche che già allora erano state evidenziate e in questo senso vi è dunque una continuità di fondo fra l'attuale documento e le elaborazioni di precedenti anni.
Il dato nuovo è che questo aggiornamento, questo adeguamento avvenuto attraverso un ruolo attivo e costruttivo di importanti forze sociali (citiamo come esempio la Federazione Regionale degli Imprenditori e i Coltivatori Diretti) che in passato non erano state coinvolte attorno a tali problematiche e, anzi, a queste avevano guardato, specie gli imprenditori, con sufficienza e cinica superbia, si è, con sempre maggior serietà, svolto quasi in simpatica emulazione sul nostro e per il nostro impegno.
Si tratta quindi di linee nuove che vanno al di là del contributo specifico dato a questo Piano di sviluppo e che lasciano ben sperare per i compiti ancora più importanti che attendono in futuro i responsabili del governo, cioè coloro che, dopo aver fatto il Piano, lo dovranno gestire e anche attuare.
In secondo luogo vi è stato un miglioramento indubbio del clima politico in cui s i è svolta la discussione interna inerente al Piano, non nel senso che siano scomparse critiche legittime e doverose, anche di fondo, sui contenuti e sul metodo della politica di programmazione, ma in quanto pare essersi attenuato quel clima di sfida ideologica che tutto sommato non ha giovato e non può giovare né a chi ha responsabilità di governo, né a chi, con l'arma dell'opposizione, vuole e deve, nel limite del possibile, adeguare il governo che oppone agli interessi e alle attese dei cittadini che egli correttamente rappresenta o intende rappresentare.
Si possono citare a questo riguardo, quali esempi significativi, il ruolo avuto nell'apposita sottocommissione dalle forze di minoranza nell'elaborazione del quadro di riferimento politico economico al Piano regionale, e le proposte costruttive e unitarie con cui i Comprensori, o la maggior parte dei Comprensori, in specie quelli più lontani dal polo di crisi e di maggior tensione che è l'area metropolitana torinese, si sono presentati alle consultazioni.
Infine, il che è la circostanza che più interessa questa relazione, si è avuto, attraverso questo ampio confronto, un indubbio miglioramento dei contenuti generali e specifici della proposta di Piano su cui il Consiglio è chiamato a pronunziarsi.
Non è il caso di evidenziare dettagliatamente i punti su cui hanno inciso i pareri raccolti nelle consultazioni e nelle discussioni parallele e che già in parte la prima relazione aveva proposto all'attenzione delle forze politiche e della Giunta stessa; basta per tutte quella occupazionale demografica su cui più ampio è stato il dibattito e su cui molti sono stati gli apporti delle diverse forze interessate.
Nella formulazione definitiva del Piano non si ritrovano indicazioni quantitative riguardanti le tendenze occupazionali; finisce così la polemica sui 134.000 posti di lavoro necessari, qualora si ritenesse opportuno arrestare la caduta dei tassi di attività femminile e maschile.
Vi sono a questo proposito due questioni da chiarire, la prima in relazione al ripensamento su quel dato occupazionale, la seconda riguarda la mancanza di indicazioni quantitative.
Sul primo problema il contributo delle consultazioni è stato fondamentale: hanno svelato errori previsionali, trascuratezze nell'utilizzo di strumenti scientifici, ma in gran maggioranza hanno dato lo spunto necessario per mettere in risalto l'inadeguatezza di un metodo che, se applicato nelle sue estreme conseguenze, avrebbe consentito ben ridotti margini di operatività alla politica di programmazione.
Qualora infatti si fosse convenuto che quella quantità di posti di lavoro addizionali avesse dovuto divenire obiettivo del Piano (cosa che non era, come ormai ampiamente appurato e dimostrato), quali strumenti, quali concreti interventi poteva la Regione utilizzare per formulare delle politiche che andassero in quella direzione? Molto pochi, evidentemente, il che avrebbe fatto scadere la nostra politica di programmazione a fatto puramente astratto e velleitario e avrebbe rigenerato e giustificato sfiducia e disillusioni in quelle forze economiche che si trovano a decidere sulle variabili che condizionano definitivamente il rapporto investimenti-occupazione e che in una programmazione non coercitiva devono non soltanto a parole, avere e saper svolgere una funzione essenziale.
Si è mutato così l'approccio metodologico e nell'attuale documento di Piano si è ritenuto di partire non da previsioni, che in una situazione di questo tipo rischiano di essere comunque errate e astratte, ma dai problemi: e i problemi, come meglio si dirà più analiticamente, sono quelli della divaricazione qualitativa fra domanda e offerta di forza lavoro oltre che della sua diseguale articolazione territoriale: non si è ritenuto di arrivare a quantificare né in termini statici né previsionali questa tendenza; non per evitare di incorrere in errori o per limitarsi a discorsi generici, utilizzabili per trovare il consenso di tutti, ma perché vi è stato, in questi ultimi anni, un cambiamento di fondo nella qualità dei problemi da conoscere, in particolare per quanto riguarda l'occupazione e il mercato del lavoro. La predisposizione di un insieme di conoscenze precise e traducibili quantitativamente non può esservi se prima non vi è un rilancio della ricerca e della discussione scientifica attorno a tali problemi, non disancorata dalla validità di contrapposizioni ideologiche ma neppure strumentalizzata o asservita alle stesse.
Non si tratta neppure in questa sede di partire da zero, anche perch alcuni Istituti di ricerca pubblici e privati hanno recentissimamente fornito interessanti risultati su tali questioni, così come è stato fatto con studi e materiali offerti dagli imprenditori in sede di ultima consultazione.
Occorre però affrontare chiaramente che in un documento che ha la dignità e la portata di Piano regionale non vi possono essere approssimazioni, metodologie parziali o indicazioni non sufficientemente comprovate.
Molto più opportuna è forse la scelta di indicare nel Piano i problemi e i ragionamenti la cui formulazione deve essere compito della Giunta regionale, delle forze politiche, delle altre forze sociali e della cultura, di anticipare e predisporre condizioni perché nel pieno rispetto delle autonomie e della ricerca scientifica si possa addivenire soprattutto con il potenziamento degli organismi di ricerca regionale, ad apposite metodologie, schemi interpretativi e modelli operativi adeguati ai problemi di oggi e di domani.
Si è cercato pertanto di individuare particolarmente alcuni dei risultati che l'ampio processo di elaborazione del Piano regionale ha conseguito.
Si tratta di fatti su cui le forze politiche ancora oggi esprimono sicuramente opinioni differenti.
E' però opportuno ricordarle perché o si tratta di eventi che muovevano verso il rafforzamento di chi lavora nell'interesse delle istituzioni democratiche e di una più omogenea comunità regionale, o perché possono rappresentare le premesse indispensabili per una più incisiva azione di governo che non è mai solo opera di chi in realtà governa perché è maggioranza, ma, nella sua azione più profonda, come la storia ampiamente dimostra, coinvolge continuamente, non soltanto come momento di critica e di alternativa, la stessa opposizione.
La collocazione meridionalistica del Piemonte è la scelta di fondo attorno a cui ruota tutto il complesso delle indicazioni contenute nel quadro di riferimento socio-economico del Piano di sviluppo.
L'importanza di questa impostazione, che premette l'impegno del Piemonte verso il Mezzogiorno, è facilmente comprensibile se si pensa alla particolare fase che attraversa il Paese, ove le prospettive di ripresa economica e le possibilità di sviluppo in un quadro democratico appaiono sempre più legate al tipo di soluzione che si riuscirà a dare ai problemi del sottosviluppo e in particolare del Mezzogiorno stesso nel suo complesso.
Come si concretizzano queste scelte generali con gli interventi di politica economica adottati dal Piemonte? Nel documento di Piano vengono innanzitutto rigettate due ipotesi opposte ma entrambe complementari in relazione al ruolo di stimolo nei confronti del Mezzogiorno che la nostra Regione potrebbe svolgere.
Una collocazione del Piemonte intermedio tra l'Europa e il Mezzogiorno anche ammettendo che la "locomotiva europea" riesca a trainare una ripresa duratura delle economie regionali, subordina la crescita del Mezzogiorno al raggiungimento della nostra Regione di un certo livello di "surplus" da ridistribuire in un secondo tempo nelle regioni meridionali; un'operazione questa già teorizzata e tentata in passato e che ha solo condotto nella realtà ad alimentare i flussi di reddito destinati alla speculazione e all'attività improduttiva, in una visione non di logica economica, ma di demagogia populistica.
Altrettanto irrealistica appare un'ipotesi di blocco della crescita economica del Piemonte per favorire lo spostamento di risorse nelle regioni meridionali.
E' evidente come un qualsiasi processo di riconversione produttiva o di crescita di investimenti nel Mezzogiorno, che non voglia ripetere gli errori della politica delle "cattedrali nel deserto", deve crescere in parallelo con il mantenimento di una base economica vitale al Nord che consenta un progressivo inserimento nel mercato e che garantisca l'economicità delle attività che si vanno ad instaurare.
Non è quindi smantellando una parte dell'Italia che se ne può costruire una nuova, ma solo introducendo nelle parti sviluppate elementi di cambiamento in termini qualitativi che consentano un progressivo spostamento automatico di risorse verso le regioni da sviluppare.
La linea di politica economica regionale prospettata nel Piano riflette questa impostazione, si fonda e si impegna in un progetto di riqualificazione della struttura tecnica piemontese articolata su tre punti di fondo: a) in primo luogo il perseguimento di una più equilibrata distribuzione territoriale delle attività produttive da raggiungere non solo attraverso la rilocalizzazione delle attività nel polo congestionato di Torino, ma anche con la valorizzazione delle aree esistenti nella periferia, in particolar modo per quanto riguarda l'agricoltura: cose queste già ampiamente trattate in occasione della prima relazione fatta al Consiglio regionale sulla proposta di Piano regionale.
b) In secondo luogo l'avvio di un processo di riqualificazione dell'assetto industriale che da un lato consenta la valorizzazione dei comparti produttivi che trovano nella regione le condizioni non riproducibili altrove per la loro crescita, e che dall'altra inneschi un processo di decentramento verso le regioni meridionali di quelle attività le cui condizioni di base possono essere, anzi, devono essere, riprodotte in tempi economicamente reali.
c) In terzo luogo innescare dei meccanismi di riequilibrio del rapporto qualitativo fra domanda e offerta di lavoro che operino sia dal lato della domanda sia dal lato dell'offerta in modo da evitare e di controllare la diversificazione fra una domanda di lavoro operaio che eccede l'offerta e viceversa un'offerta di lavoro giovane e qualificato che tende a superare sempre più nettamente la domanda esistente.
Si tratta di obiettivi e di linee d'interesse generale che consentono al loro interno un dato fortemente innovativo, quasi esplosivo: l'intreccio cioè fra l'avvio di processi che concretamente possano trasformare l'assetto socio-economico della nostra regione e la creazione dei consensi indispensabili, per rilocalizzare nel Mezzogiorno una massa sempre più consistente di risorse che dovranno essere create, e, ciò che più conta che a questi obiettivi e a queste linee di indirizzo oggi stanno dando il loro assenso e appoggio le stesse componenti imprenditoriali operanti nella nostra regione che sembravano, o alcune forse volevano, avulse da questo processo.
E' del tutto evidente che questi indirizzi politico-economici non garantiscono a priori il raggiungimento degli obiettivi generali, né di quelli relativi alla situazione nazionale ed in particolare del Mezzogiorno, né di quelli relativi alle strutture socio-economiche regionali; sarà compito degli operatori privati forgiati dal mercato e di quelli pubblici dove devono essere esaltate le qualità manageriali nei confronti di quelle del facile consenso clientelare, di compiere in piena autonomia quelle scelte che si pongano a questo livello dei problemi per dare concreti risultati.
Tali affermazioni generiche della necessità della sopravvivenza di un'economia libera di mercato finalizzata a scopi sociali è sovente sollecitata proprio dalle forze imprenditoriali; quando questo loro ruolo come nel caso di specie, è riconosciuto, sta ormai a loro dare in concreto precisa risposta.
Per quanto riguarda la Regione si può dire che un primo passo in questa direzione viene compiuto con la predisposizione del programma pluriennale di attività e di spesa che costituisce la seconda parte del documento di Piano.
Non è più necessario richiamare nello specifico i diversi programmi e processi perché vi è stata un'ampia discussione che ha consentito a ogni forza politica di trarre le proprie considerazioni al riguardo, e spetterà comunque al dibattito che si aprirà nel Consiglio produrre ulteriori approfondimenti e qualificazioni.
E' opportuno dunque limitarsi ad alcune considerazioni generali che si intrecciano su due questioni di fondo.
In primo luogo vi è da valutare il grado di coerenza che c'é fra gli indirizzi politico-economici previsti dal Piano e i programmi d'attività.
Da questo punto di vista servono più alcuni esempi concreti che non ampie considerazioni astratte.
Nel quadro di riferimento viene esplicitato come obiettivo della politica di programmazione e come condizione per la sua stessa crescita ed operatività la riorganizzazione della struttura istituzionale ed amministrativa del sistema delle autonomie locali.
E' questo un problema che nasce da molto lontano, dai limiti più evidenti che, sul piano scientifico e politico, mostrò l'esperienza di programmazione compiuta negli anni del centro-sinistra.
Nell'ambito del programma di attività e spesa trova ampio spazio lo specifico programma di intervento relativo a questa materia; si evidenziano alcuni risultati già acquisiti quale l'istituzione del Consorzio per il trattamento automatico delle informazioni, la legge sulle procedure della Programmazione ed allo stesso tempo si forniscono i criteri essenziali e le scadenze per altri importanti atti ancora da realizzare quali la legge sulle strutture, la legge sulla riorganizzazione della contabilità regionale, l'avvio delle iniziative di consolidamento dei bilanci a livello locale.
Allo stesso modo inoltre nel quadro di riferimento si pone in grande risalto il ruolo che l'agricoltura può avere sia in relazione ai problemi di rilancio produttivo e di contenimento del deficit alimentare, sia in relazione ai processi di riequilibrio territoriale: nel programma di attività si predispongono una serie di linee di intervento quantificate sia negli impegni di spesa, sia negli obiettivi fisici che si intendono raggiungere.
Certo, vi sono alcuni aspetti specifici che presentano ancora dei problemi, come è stato rilevato nelle consultazioni, in larga parte non dipendenti dalla Regione, che richiedono ulteriori approfondimenti ed ulteriori precisazioni, in modo particolare per quanto riguarda l'ammontare complessivo di risorse disponibili per l'intervento nel settore, in specie con riferimento ai programmi di formazione professionale.
Tuttavia nel loro complesso l'insieme di interventi relativi all'agricoltura seguono concretamente una volontà precisa di fare giocare a questo settore un ruolo primario per lo sviluppo dell'economia regionale e di contribuire ad elevare le condizioni di vita delle campagne e delle popolazioni occupate in questo comparto.
Medesimo discorso può essere ancora fatto con riferimento ai processi di riequilibrio territoriale e di riqualificazione produttiva ed occupazionale contenuti nel relativo quadro di riferimento. Oltre agli interventi più generali tesi a creare le condizioni per una diversa gestione del territorio, nel programma di attività trovano spazio alcuni progetti specifici di estremo interesse che si muovono concretamente in quella direzione generale: si fa riferimento specifico in questo senso ai progetti relativi alla formazione di giovani operai ad alta qualificazione al progetto integrato per il settore tessile, al progetto relativo alla realizzazione di nuove aree industriali attrezzate, alla definizione di una convenzione quadro che sancisca i principi essenziali per controllare i processi di rilocalizzazione produttiva.
Si è ritenuto opportuno portare alcuni esempi che evidenziano lo stretto rapporto che vi e fra il quadro di indirizzi socio-economico e le linee di attività amministrativa della Regione. Non si tratta solo con questo di ribadire un concetto di coerenza che peraltro è rintracciabile certo in modo non del tutto omogeneo in tutti i programmi ed i progetti predisposti dalla Giunta regionale; ma di valorizzare, ed è la seconda questione generale, il contributo attivo, operativo, che gli interventi predisposti dall'Amministrazione regionale possono portare in direzione degli obiettivi generali assunti dal Piano.
Si tratta cioè, molto concretamente, di interventi che mobilitano una massa di risorse pubbliche non indifferenti verso quelle linee generali e che proprio per questo possono rappresentare uno stimolo reale per tutti quegli operatori economici che si trovano in questa fase ad assumere decisioni di investimento e che possono trovare nelle politiche avviate dalla Regione un primo e parziale, ma comunque reale, quadro di certezze su cui indirizzare una certa massa di risorse private. Anche qui, in via del tutto esemplificativa, si possono ricordare gli interventi per l'agricoltura, alcuni interventi, tipo la sistemazione della rete di trasporti, alcuni interventi per la sistemazione e la gestione del territorio.
Vi è stato, nel corso di questa ultima tornata di consultazioni, un generale accenno all'esiguità dei tempi in cui la consultazione stessa si e svolta. A questo riguardo, proprio perché riteniamo essenziale la partecipazione come strumento di programmazione, è bene essere estremamente chiari.
Se i tempi sono stati in effetti abbastanza ridotti, occorre per considerare che questa tornata di consultazioni non era né la prima che si svolgeva attorno al Piano di sviluppo, né verteva su un documento sconosciuto. Già lo scorso anno vi era stato un ampio confronto sulla proposta di Piano che aveva condotto - come si ricordava all'inizio - ad acquisizioni non secondarie quale ad esempio il taglio da dare alla questione occupazionale e la specificazione di tutta una serie di interventi settoriali e territoriali. Inoltre il documento di piano su cui abbiamo discusso in questi giorni non è altra cosa rispetto alla proposta di piano presentata un anno fa, ma ne rappresenta la piena continuità con tutte le modifiche e gli adeguamenti che l'evoluzione dei problemi e il progredire del confronto ha reso necessario.
D'altra parte, quale migliore controprova di quanto si è affermato delle forme e dei contenuti che si sono evidenziati in questa tornata di consultazioni? Già è stato messo in risalto il contributo dato da numerose ed importanti associazioni di categoria e non solo in questa circostanza: ma specie come significato politico è opportuno sottolineare il valore delle indicazioni date dai Comprensori.
Si trattava per questi nuovi organismi della prima scadenza in cui misurare concretamente la loro capacità di essere sedi di raccordo fra Regione e Comuni e allo stesso tempo sede di coordinamento e programmazione.
Si può sicuramente dire che questa prova ha avuto esito ampiamente favorevole. La grande maggioranza dei Comprensori si è presentata con documenti articolati che entravano nel vivo dei problemi e recepiti unitariamente da tutte le forze presenti all'interno dei Comitati comprensoriali.
In alcuni casi questi documenti non erano solo osservazioni e proposte relative al documento di piano, ma vere e proprie tracce programmatiche riferite ai problemi ed alle linee di intervento necessarie all'interno dei Comprensori.
Si è trattato, ne siamo convinti, di uno sforzo sicuramente arduo, per è valso a legittimare appieno, a pochi mesi dalla definitiva regolamentazione dei Comitati di Comprensorio, il ruolo di programmazione e di partecipazione reale che questi organismi possono garantire nella nostra regione, sbarazzando quindi il campo da perplessità e dubbi che ancora affiorano sulle reali potenzialità di queste nuove strutture di decentramento.
Quali le osservazioni, le critiche e le proposte di fondo emerse in questa ultima tornata di confronto? Si può per comodità espositiva suddividere le principali osservazioni al documento di piano in due tipi, le une di metodo, le altre di contenuto.
Per quanto riguarda le osservazioni del primo tipo, occorre ancora una volta ribadire le caratteristiche che ha assunto la politica di programmazione in Piemonte sotto la spinta di una precisa visione della Giunta regionale e di un dibattito che ha coinvolto un arco di forze molto ampio.
La programmazione non è solo un quadro di riferimento per l'attività degli operatori economici e sociali nella Regione, ma anche un complesso di indirizzi e interventi coordinati dall'Ente Regione volti al raggiungimento di determinati fini qualificanti.
La programmazione non è uno strumento onnicomprensivo e vincolante formato da una catena di piani a cascata, ognuno dei quali contiene l'altro, ma è un processo di formazione e di attuazione di decisioni cui partecipano autonomamente, a vari livelli, tutti i soggetti interessati.
Devono pertanto essere fugate le preoccupazioni di coloro che ritengono che il processo di programmazione possa ancora avvenire per "scatole cinesi", anche se non si può ignorare la necessità di coordinare, da un lato, le previsioni e gli indirizzi dei differenti ambiti di piano, mentre dall'altro rimangono necessità di approfondimento che devono essere considerate in tutta la loro importanza.
Ciò non significa che nel frattempo debba essere sospesa qualsiasi attività di impostazione di concrete politiche amministrative, ma comporta inevitabilmente di procedere per stadi successivi, anche con il rischio voluto e calcolato, di non ottenere in ciascuno di essi la pienezza degli obiettivi proposti. In questo senso è da leggersi la seconda delle osservazioni di metodo emerse nelle consultazioni, a proposito della non ancora completa integrazione delle politiche di spesa, nonché del loro non ancora completo collegamento con il processo di riorganizzazione dell'Ente Regione che costituisce la finalità del primo programma obiettivo.
Da tale punto di vista la riclassificazione delle spese regionali contenuta nello schema di bilancio pluriennale non è stato solo un fatto formale, ma ha coinciso con una graduale riqualificazione della spesa ed adeguamento delle procedure amministrative al metodo della programmazione.
Sempre a partire da questo principio, del resto, è comprensibile come la disaggregazione della spesa regionale sul territorio non sia solamente un fatto formale, cui possa autonomamente procedere con atti unilaterali la Giunta regionale, ma il risultato di un'attività di progettazione e di decisione che viene oggi avviata con la costruzione delle strutture comprensoriali.
Circa le osservazioni relative ai contenuti generali del documento di piano, oltre a richiamare quanto ora osservato sul problema della progressiva ulteriore specificazione degli interventi da realizzarsi attraverso apporti e procedure che vengano via via posti in essere, anche ad evitare i difetti illuministici della programmazione del passato, si ritiene opportuno fare in questa sede alcune puntualizzazioni: 1) per quanto riguarda il problema dell'immigrazione, non si può non ribadire la validità delle grandi scelte contenute nella relazione di indirizzi, specie in rapporto all'obiettivo del riequilibrio sia a livello nazionale che a livello regionale. Non si tratta di formulare un "progetto immigrazione" a se stante, quanto piuttosto di tenere presente nel complesso delle politiche di piano, sia direttamente gestite dalla Regione sia promosse autonomamente dagli altri soggetti operanti nel suo territorio, da un lato, la necessità di ridurre progressivamente la domanda di manodopera immigrata e, dall'altro, l'opportunità di indirizzarne comunque l'insediamento verso aree non congestionate, e dotate degli opportuni servizi.
2) Per quanto riguarda la finalizzazione dei contenuti degli interventi previsti in generale per l'assetto del territorio, non si ritiene di poter accogliere completamente l'osservazione circa gli aspetti di routine che essi presenterebbero. Va innanzitutto detto, e ciò vale in generale, che nello schema di bilancio pluriennale gli interventi programmati con precise finalizzazioni vengono chiaramente distinti da quelli non programmati. Un esempio della precisa capacità di finalizzazione di un complesso di interventi infrastrutturali sul territorio è offerto dalla politica per le aree industriali attrezzate di Vercelli e di Casale, e in questo senso l'Amministrazione regionale ha chiaramente dichiarato che intende procedere per tutti gli altri interventi previsti o da prevedere.
3) Per quanto riguarda le osservazioni espresse a proposito della riorganizzazione socio-sanitaria, va rilevato che un attento esame del documento di Piano permette di individuare specifici criteri di razionalizzazione dell'esistente e di valutazione dell'efficienza dell'apparato, a partire dai precisi indirizzi espressi per la revisione del sistema di finanziamento della spesa per l'assistenza ospedaliera, e cioè della legge regionale 30/12/1974 n. 43 e sue modificazioni, da attuarsi entro l'anno. Si ribadiscono infine le difficoltà, già esaurientemente approfondite nel documento, dovute al graduale processo di attuazione della riforma sanitaria, che vede le Regioni impegnate in prima fila su di un fronte comune.
4) Per quanto riguarda la tutela dell'ambiente è necessario che nel rispetto dei reciproci campi di attività e senza atteggiamenti fiscali verso operatori privati, l'Ente Regione riaffermi la volontà di garantire la più ampia tutela e salvaguardia dell'ambiente fisico e naturale con l'obiettivo di evitare e prevenire i gravi fenomeni che gia altrove si sono verificati.
Come abbiamo accennato in precedenza, nel quadro socio-economico per il Piano di sviluppo 1977-1980 viene svolta un'analisi sufficientemente ampia della situazione del Paese nel quadro dei processi internazionali, e dei grandi problemi economici e sociali del Piemonte.
Sulla base di tale processo analitico vengono poi individuati, nel processo di riequilibrio territoriale, nella riqualificazione della base produttiva piemontese, nel riequilibrio del rapporto qualitativo fra domanda e offerta di lavoro, gli obiettivi di fondo che l'azione politica economica della Regione vuole perseguire.
La volontà politica della Regione è tesa dunque ad indirizzare in quella direzione l'insieme degli interventi di competenza regionale o comunque facenti capo al sistema degli Enti locali piemontesi;, nonché a stimolare una serie di iniziative degli operatori privati che si muovano in quelle stesse direzioni. Per fare questo è probabilmente necessario definire dei criteri che scendano più nello specifico rispetto alle indicazioni contenute nella prima parte del Piano, in particolare è necessario intrecciare gli obiettivi di natura socio-economica con quelli di natura territoriale in modo da formare una"griglia" che consenta l'individuazione di priorità e le scelte più coerenti con quegli obiettivi generali.
L'insieme degli interventi predisposti nella seconda parte del Piano si muovono, come abbiamo tentato di indicare più sopra, complessivamente verso il raggiungimento di tali obiettivi.
Si pongono tuttavia due ordini di problemi da valutare attentamente ai fini di una collocazione realistica delle linee di programmazione proposte nel Piano.
In primo luogo, la situazione d'incertezza in cui ci si trova in relazione al complesso della strumentazione amministrativa e istituzionale le recentissime vicende della 382 legate all'accordo nazionale fra i partiti, il fatto che comunque le indicazioni programmatiche possono concretizzarsi solo se contestualmente si definisce una nuova strumentazione adeguata a supportare le istanze di decentramento e di autonomia degli Enti locali, rendono questa materia ancora in movimento e fanno intuire tutta la difficoltà che vi sarà a coinvolgere a tempi ravvicinati le attuali strutture amministrative con un insieme di interventi complessi e poderosi.
In secondo luogo vi è un problema di rapporto fra risorse disponibili e risorse necessarie che é, e non poteva non essere, sbilanciato a svantaggio delle prime. Questo dato di fatto non può tuttavia portare, ad un atteggiamento rivendicazionista verso lo Stato, né ad una vanificazione della portata degli investimenti proposti nel Piano di sviluppo.
Si tratta, nell'ambito del confronto fra sistema delle autonomie locali e Stato che è necessario mantenere, di operare qui nella nostra Regione in modo coerente sia rispetto alle risorse disponibili sia rispetto agli obiettivi posti dalla comunità regionale.
E' dunque necessario lavorare alla definizione di un quadro di priorità di intervento, che non può essere compiuto né in modo astrattamente razionalizzatore, né sulla base di operazioni mediatorie.
Occorre che tale quadro di priorità venga definito attraverso una fase ulteriore di confronto che coinvolge l'insieme della comunità regionale partendo però da alcuni criteri di metodo e da alcune linee generali di merito che dovrebbero rendere più agevole l'individuazione specifica delle priorità stesse.
L'insieme dei criteri che possono orientare le scelte di priorità non possono che discendere dagli obiettivi generali del Piano, o meglio, dalla coerenza fra quegli obiettivi generali e le diverse politiche che si rendono necessarie per raggiungerli.
Si tratta in altri termini di definire le politiche che si ritiene abbiano un peso più rilevante nel periodo breve e medio per spostare concretamente determinati flussi di risorse in direzione degli obiettivi generali.
In questo ambito, si può poi specificare ulteriormente questo criterio generale sia dal punto di vista settoriale, sia territoriale. Occorre cioè valutare i settori d'intervento che all'interno di una certa politica possono operare con più efficacia e contestualmente valutare le aree territoriali su cui un determinato intervento settoriale può produrre effetti proporzionalmente rilevanti rispettò agli obiettivi proposti nel Piano.
Coerentemente con queste indicazioni di metodo, è possibile tentare una definizione di alcune linee di intervento prioritarie, con l'avvertenza che da un lato si tratta di indicazioni ancora ampiamente da confrontare e valutare e d'altro lato che all'interno di ognuna di queste indicazioni si tratterà di compiere ulteriori precisazioni e specificazioni che possono a questo punto soltanto venire da un confronto più ampio e più dettagliato.
E' possibile operare quindi il seguente quadro di proposte.
Per quanto riguarda le politiche, pare necessario dare carattere di priorità a quelle relative al territorio, alla riqualificazione dell'apparato produttivo ed al lavoro in modo da rimarcare la coerenza degli interventi amministrativi con le scelte di politica economica.
Nell'ambito di queste politiche, i settori che richiedono l'avvio di interventi non ordinari a tempi più ravvicinati si possono indicare nell'agricoltura, nelle aree industriali attrezzate, nei trasporti e nella formazione professionale nonché nel settore della riorganizzazione amministrativa e della dotazione strumentale.
Dal punto di vista territoriale è necessario distinguere tra aree esterne al polo torinese ed aree interne al polo medesimo. Per quanto riguarda le prime, è probabilmente opportuno privilegiare l'asse esterno ad est della regione in cui esistono già risorse locali da utilizzare più razionalmente per un discorso di riequilibrio, ed in seconda istanza la zona esterna a sud del Comprensorio di Torino dove un ruolo di riequilibrio particolare, può essere esercitato dall'agricoltura e da settori industriali ad essa collegati. Rispetto alle seconde è necessario privilegiare le aree situate nella fascia più esterna al Comprensorio con particolare riferimento alla zona sud ed alla zona nord-est dello stesso.
Complessivamente una "griglia" di indicazioni di questo tipo potrebbe consentire una discussione più ravvicinata e precisa nel merito delle scelte prioritarie da definire.
Ad esempio potrebbe emergere l'esigenza di concentrare gli interventi relativi alla zona nord-est della regione nelle aree attrezzate con particolare riferimento alla piccola e media impresa; così come gli interventi nella zona sud della regione potrebbero concentrarsi nell'agricoltura, oppure ancora i trasporti nel polo torinese.
Si tratta tuttavia di prime indicazioni e di esemplificazioni che devono essere approfondite dalla discussione.
A questo fine il documento di Piano in via di approvazione rappresenta la base necessaria da cui partire per compiere questo ordine di scelte con il massimo di consapevolezza dei problemi da affrontare e delle risorse disponibili.
In questo senso l'approvazione del Piano può consentire uno spostamento in avanti del confronto tra le forze presenti nella comunità regionale e contestualmente dare più forza, scientifica e politica alle scelte che dovranno essere compiute per dare alla politica di programmazione quella concretezza che è richiesta dall'urgenza dei problemi.
Il lavoro sperimentale che è stato compiuto ai fini della predisposizione di un bilancio pluriennale, unitamente alla quantificazione dei programmi di settore e dei progetti del programma pluriennale di attività e di spesa, ha portato all'individuazione di una carenza di risorse per l'attuazione degli interventi di Piano nel quadriennio in esame.
In questa sede non sarebbe corretto ricercare immediatamente un equilibrio contabile in un arco di tempo pluriennale, equilibrio che dovrebbe invece essere ricercato in sede di predisposizione del bilancio pluriennale definitivo in ossequio alla legge n. 335/76 e relativa normativa regionale di attuazione.
Occorre infatti tener presente che siamo in una fase di transizione anche per quello che riguarda le modalità e le caratteristiche della legislazione regionale fino ad oggi in vigore; che sarà tale specie nel periodo che andrà dall'approvazione del Piano regionale di sviluppo il 1977 1980, all'approvazione della legge regionale di contabilità e del bilancio di previsione annuale e pluriennale per il 1978-1981.
In conseguenza a questi motivi sarebbe opportuno che le scelte e priorità d'intervento indicate nel Piano trovassero un immediato riferimento finanziario nel bilancio di previsione per il 1978, dopo un'eventuale ulteriore legge di variazione del bilancio per il 1977; ci ovviamente senza negare l'esigenza di attuare tutti gli interventi previsti nel Piano, ma per graduare, secondo precisi ordini di priorità, tali interventi facendoli magari slittare oltre il periodo di riferimento del Piano, oltre che per le scadenze elettive dell'anno terminale, anche per le scadenze che si prevede dovrà avere il bilancio pluriennale.
In ogni caso in questo periodo è necessario impostare una corretta procedura di programmazione finanziaria, tramite l'ausilio della quale si possono in qualche modo recuperare delle risorse di fatto inutilizzate ed in conseguenza di ciò provvedere ad una riqualificazione della spesa regionale; "riqualificazione" che nella situazione attuale non pu limitarsi ad una pura petizione di principio, in quanto siamo in presenza di un programma pluriennale di attività e di spesa articolato in programmi e progetti quantificati in termini di costi, e quindi si possono avere dei concreti termini di riferimento per giudicare la "qualità" della spesa: uno dei problemi di fondo che è emerso dall'esame dello schema di bilancio pluriennale e conseguentemente lo sforzo ulteriore che si deve produrre in questo lasso di tempo è costituito dalla presenza di interventi non programmati (la voce "altri interventi" dello schema di bilancio pluriennale) da ricondurre in adeguati programmi di settore e progetti.
In altri termini il problema del deficit previsto per il 1977 e globalmente per il quadriennio "rispettivamente 125 e 557 miliardi" pu essere risolto non solo con i "tagli" ma anche con opportuni strumenti e metodi di gestione della spesa che vorremmo brevemente riassumere: a) il completamento del lavoro già parzialmente avviato di revisione delle leggi pluriennali regionali di spesa; l'analisi puramente finanziaria di tali leggi era stata già compiuta, per cui occorrerebbe aggiornarla in parallelo con la formazione di nuovi documenti di bilancio; ovviamente il dato puramente finanziario non è sufficiente ma è sicuramente indicativo dei problemi inerenti al funzionamento di tali leggi dal punto di vista procedurale ed operativo b) un'analisi sullo stato degli impegni di competenza e di gestione dei residui di tutti i capitoli del bilancio regionale, andando incontro agli inconvenienti di certi stanziamenti sovradimensionati che vengono impegnati solo formalmente alla fine di ogni anno; tale lavoro risulta necessario anche ai fini della predisposizione del bilancio di cassa per il 1978 c) la definizione esatta degli interventi del programma pluriennale di attività e di spesa da intraprendere nel periodo di durata del bilancio pluriennale in base ai d.d.l. regionali e statali già presentati, ed a quelli ancora da presentare: a questo proposito occorre ricordare che per l'anno 1977 sono previsti per 124 miliardi finanziabili con nuovi interventi legislativi statali e regionali, solo in minima parte già presentati, e nessuno previsto nei fondi globali iscritti nel bilancio per l'anno finanziario 1977 d) un tentativo di definizione, specie quando saremo in presenza del definitivo decreto delegato per il completamento dell'ordinamento regionale, di quali siano gli interventi della Regione sostitutivi di quelli dello Stato, per valutarne gli effetti di promozione e di stimolo nei riguardi di altri operatori, oltre che per la definizione di un quadro più corretto dei rapporti finanziari Stato-Regioni; esempi in tale senso possono essere offerti dai contributi regionali per l'assistenza farmaceutica, dalle spese per gli interessi sulle anticipazioni erogate dalla Regione agli ospedali, da alcuni interventi in materia di assistenza scolastica, oltre che da certi progetti, come ad esempio quello per la prevenzione ed il controllo dell'inquinamento atmosferico e quello per il materiale rotabile ferroviario per i viaggiatori pendolari. Non si tratta certo di rinunciare a certe funzioni ormai acquisite, ma di garantire un maggior coordinamento con gli interventi delle altre amministrazioni pubbliche, in un quadro unitario ed integrato, ed allo stesso tempo di limitare gli interventi sostitutivi ad iniziative che abbiano carattere di particolare esemplarità od urgenza e) un'analisi dell'andamento dei fondi settoriali di finanziamento dello Stato alle Regioni che metta in luce i problemi che derivano dai meccanismi di funzionamento di tali fondi, nonché i vincoli che ne derivano per il loro utilizzo quando di fatto viene impedita qualsiasi discrezionalità di scelte nella loro erogazione; tale discorso non vuole porsi in termini rivendicazionistici nei confronti dello Stato, ma come stimolo per una riconsiderazione corretta del problema del coordinamento di tutta la finanza pubblica alla luce dei principi dell'art. 119 della Costituzione. In atre parole occorre evitare che la disciplina dei rapporti Stato-Regioni per l'erogazione dei fondi settoriali demandi alle Regioni solo un'attività "istruttoria" per giungere a delle decisioni adottate con un'adeguata conoscenza della realtà, piuttosto che in una collaborazione effettiva per la definizione della decisione stessa f) l'avvio dei meccanismi procedurali previsti dall'art. 2 della legge 335/76 che permetterà di iniziare certi procedimenti amministrativi anteriori all'atto dell'impegno anche in assenza degli stanziamenti relativi di bilancio; di fatto ciò snellirà i meccanismi di spesa, e renderà meno rigidi i vincoli di bilancio, rendendo possibile l'equilibrio di bilancio in un arco pluriennale e non solo annuale g) infine una politica volta all'incremento delle entrate tributarie ed extratributarie della Regione, sia attraverso un incremento dei fondi ex art. 9 della legge n. 281, sia attraverso una diminuzione del fenomeno dell'evasione fiscale.
Una volta individuati questi metodi e strumenti per il reperimento delle risorse necessarie all'attuazione del Piano, si tratta di collegarle alle indicazioni pervenute durante le consultazioni per addivenire a quel quadro di priorità di cui si parlava più sopra: il bilancio per il 1978 diventerà così il documento attuativo del programma pluriennale di attività e di spesa, e in cui saranno immediatamente riscontrabili le priorità definite nel modo anzidetto.
Tra l'altro le osservazioni di cui al punto c) si ricollegano all'attuale fase transitoria di passaggio ad un nuovo tipo di legislazione regionale, che risponderà più ai compiti costituzionali della Regione evitando la miriade di leggi settoriali di spesa e riconducendo gli interventi a delle leggi generali di principi che troveranno attuazione nei bilanci; in altre parole non saranno più necessarie le leggi di rifinanziamento, ma le decisioni di spesa saranno unificate in sede di bilancio preventivo.
Speriamo di aver chiarito in questa relazione le caratteristiche ed i problemi che il documento di Piano che ci apprestiamo a discutere presenta e di averne messo in risalto, con la massima chiarezza, gli aspetti positivi e quelli ancora problematici, riportando a proposito di questi le osservazioni che sono venute dall'ampio processo partecipativo che ha accompagnato la formazione del Piano.
In questo ambito pare necessaria un'ulteriore sottolineatura su alcune questioni che a nostro modo di vedere sono e devono essere delle costanti della discussione che affrontiamo.
In primo luogo, la portata nazionale che il documento iniziale ha; in un momento in cui si riaffacciano pesanti segni di indebolimento economico in cui la soluzione della questione meridionale acquista sempre maggior urgenza, in cui profonde novità si sono manifestate nel quadro politico nazionale e nei presupposti dell'iniziativa di governo, un documento come quello che ci apprestiamo a discutere dimostra il senso di responsabilità nazionale di tutte le forze politiche e sociali piemontesi; esplicita secondo una tradizione propria della nostra storia, la volontà di essere ancora una volta protagonisti di questa fase politica così drammatica e così densa di prospettive.
In secondo luogo, attraverso questo documento di Piano si delinea un quadro di riferimento ancora perfettibile, ma sicuramente non più rinviabile per tutti gli operatori pubblici e privati della nostra Regione.
Abbiamo sottolineato l'importanza del confronto che si è sviluppato in questi due anni: ora si scrive l'esigenza di proporre alla comunità regionale, un quadro di orientamento che consenta a tutti un maggior grado di certezze nelle decisioni quotidiane.
Per questo l'attuale formulazione dei Piano sembra fornire più che sufficienti garanzie e per questo occorre che i tempi con cui questo documento diverrà patrimonio di tutti non siano più rinviati, senza ovviamente, intaccare nemmeno minimamente la necessità che il dibattito in questione sia il più ampio possibile.
Ed infine, l'adozione del Piano diventa indispensabile come stimolo per l'attività della stessa Amministrazione regionale.
Abbiamo ampiamente richiamato l'esigenza di addivenire alla definizione di precise priorità d'intervento che diano l'avvio alla politica di programmazione.
Questa scelta sarà necessariamente più difficile, meno pregnante senza l'apporto che può venire dall'adozione formale di un documento di Piano che verrebbe a rappresentare formalmente in questo modo la volontà e l'impegno di tutte le forze democratiche rispetto all'avvio della programmazione in Piemonte.
Valorizzare la coscienza nazionale della nostra comunità regionale fornire un quadro di riferimento definitivo, stimolare con la forza della volontà politica democratica l'iniziativa di governo dell'Amministrazione regionale: non sono più parole, ma fatti.
Ecco, ci sembra che il documento di Piano raccolga al suo interno tutti gli elementi indispensabili per una solida azione di governo regionale.
Per questo non è rituale concludere con un invito ad un ampio ed approfondito dibattito che valorizzi il ruolo democratico e progressivo delle istituzioni che ci troviamo a governare a partire da questo luglio 1977.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Alberton. Ne ha facoltà.



ALBERTON Ezio

Signor Presidente, signori Consiglieri, il dibattito su questa seconda edizione del Piano di sviluppo regionale non può non svolgersi in continuità con il precedente dibattito di circa sei mesi fa, soprattutto quando sentiamo affermare che la proposta attuale non è altra cosa, ma è la piena continuità con la precedente (con quale grado di coerenza complessivo sarebbe poi facile evidenziare). Consideriamo quanto ho detto allora come una premessa che riconfermiamo, riprendendo oggi solo ciò che serve per agganciarsi al dibattito odierno. Ciò che progressivamente cambia e slitta è il periodo di validità del Piano: dalle dichiarazioni programmatiche della Giunta "il Piano entro il 1975", a questo che in termini operativi potrà riguardare poco più di due anni di legislatura.
E poiché, ovviamente, il Piano non è una pura esercitazione accademica la sua operatività, la sua presenza o meno, avendo voluto legare ad esso ogni attività regionale, è tutt'altro che priva di effetti sulla comunità.
La Giunta ha voluto puntare tutto sul Piano, facendone un motivo di fondo della sua attività: occorre riconoscere che è stata sbagliata prima di tutto la programmazione della programmazione. Ricordiamo le considerazioni espresse nel precedente dibattito, per ripercorrere l'iter di questi ultimi sei mesi e pervenire ad un giudizio complessivo e globale su tutta l'attività programmatica della Giunta.
Le critiche nostre, di altre forze politiche, raccolte dalle consultazioni, erano sinteticamente le seguenti: in primo luogo, di ordine metodologico, sia sotto l'aspetto istituzionale che economico e riguardavano il rapporto tra programmazione regionale e nazionale, le assenti o errate indicazioni dei rapporti tra Regione e gli altri operatori. In secondo luogo, introduzione di elementi di confusione o distorti circa il momento economico ed i problemi del Piemonte; di qui le critiche alle previsioni demografiche-occupazionali, che non coglievano i problemi reali del Piemonte (tutto era puntato sul fabbisogno di posti di lavoro e nulla veniva osservato sul fabbisogno di manodopera), prefigurando obiettivi di fatto contrastanti con la politica meridionalistica, una totale assenza dell'analisi dei problemi di riequilibrio interni, economici e territoriali al Piemonte.
In terzo luogo l'insufficiente programmazione delle attività proprie della Regione, per sé e come riferimento agli altri operatori, con l'assenza di ogni quantificazione finanziaria e programmazione temporale.
Tali critiche vennero riconosciute valide, e la discussione in Consiglio portò la Giunta ad accogliere la proposta di un pratico ritiro della proposta di Piano. Si convenne sulla proposta formulata dal nostro Capogruppo, Bianchi, di un rinvio del Piano alla I Commissione: essa avrebbe dovuto procedere alla ricostruzione e ridefinizione del cosiddetto "quadro di riferimento", procedendo in tal senso ad un'accurata definizione della metodologia della ricerca e ad un confronto sui problemi generali della Regione.
Respingemmo, noi per primi che avevamo proposto il rinvio in Commissione, la proposta o l'interpretazione possibile di questa, di "andare a scrivere insieme il Piano". Si sollevarono perplessità e nacquero diffidenze sul rapporto che avrebbe potuto instaurarsi tra le forze politiche o tra l'opposizione e la Giunta, proponendo e seguendo tale via.
La proposta l'avevamo avanzata convinti che questo fosse nell'interesse della programmazione regionale; i rischi erano reali: per questo dobbiamo considerare oggi e giudicare anche quell'esperienza. Chi preannunciò (come il collega Carazzoni) una fase di gestione assembleare e una naturale fase successiva di votazione assembleare, dopo l'eventuale revisione, dovrà oggi riconoscere di aver tentato una facile quanto vana strumentalizzazione. Chi temeva che con quell'atto la Democrazia Cristiana ricercasse accomodamenti nei rapporti soprattutto con il Partito comunista, mi auguro possa riconoscere oggi, con onestà intellettuale e politica, la nostra correttezza intellettuale e politica.
L'esperienza fatta, da un lato, sotto un profilo quasi istituzionale ci sembra abbia confermato la positività di quanto da noi richiesto anche nella discussione della "legge sulle procedure": essere cioè un diritto del Consiglio discutere le direttive generali di indirizzo nell'elaborazione del Piano di sviluppo. Questo lascia, come ha lasciato, inalterati i diritti e i doveri della Giunta, ma garantisce una compartecipazione pur utile. Per un altro verso, tale esperienza dobbiamo verificarla per i risultati effettivi che essa ha portato; è molto facile riconoscere le profonde differenze tra la prima e questa seconda edizione nella relazione generale: viene abbandonato l'approccio ideologicizzato che contraddistingueva la prima edizione e si riconoscono i problemi critici della nostra situazione nazionale, l'inflazione, la spesa pubblica, la produttività. Questo da un lato dimostra la validità concreta, non ideologica, delle nostre critiche, anche se non in tutte le parti condividiamo l'analisi che si fa delle cause di questi problemi e ancora largamente insufficienti ci appaiono poi le indicazioni di soluzioni sia di ordine generale che riferite alla Regione. Anche rispetto alle analisi ed alle conclusioni cui i partiti a livello nazionale sono pervenuti nel quadro degli accordi programmatici, vi sono carenze ed ambiguità: ciò si nota, per esempio, quando si afferma che per la produttività "i nodi sono ormai risolti", mentre negli accordi nazionali si sottolinea la necessità che la produttività debba ancora migliorare anche nel breve periodo, in questo secondo semestre '77, critico per l'arresto della produzione e quindi anche a parità di capitale fisso investito.
Il relatore Rossotto attribuisce poi all'accordo programmatico il ruolo di sollecitatore di un allargamento della base unitaria anche nella nostra Regione, attribuendo il miglioramento del Piano al miglioramento del clima politico: o è una difesa d'ufficio dei cambiamenti introdotti, o sa di paternalismo predicatorio che non trova riscontro nel dibattito politico regionale.
Non saremo noi a sminuire o sottovalutare l'importanza e il peso degli accordi nazionali, di cui ribadiamo il significato, in positivo e in negativo, ad essi dato dalla nostra Direzione nazionale; ma né riusciamo collega Rossotto, con tutta la buona volontà, a concordare sull'affermazione di palingenesi che è con essi che, per la prima volta dopo Cavour, tutti possono lavorare per la società, né riusciamo a riconoscerci nella mistificante esaltazione dei processi unitari in atto a cui sembrerebbe impudentemente sottrarsi il Consiglio regionale piemontese con cui l' "Unità" di ieri presentava il Piano.
Si dice che, sia a livello nazionale sia a livello comprensoriale tutto l'atteggiamento è improntato a spirito unitario, si dice che unitario non significa omogeneo, si dice che unitario è indicativo di uno spirito non viziato da aprioristiche contrapposizioni. Ma riaffermiamo che, nella nostra Regione, il nostro è un ruolo di opposizione, che il Piano di sviluppo è cambiato proprio in virtù anche della nostra severa e rigorosa opposizione, non astrattamente ideologica, anche se stimolata da una volontà alternativa. Siamo convinti che anche il Piemonte partecipa alle carenze strutturali del Paese che potremmo sintetizzare nelle dissonanze tra i livelli di efficienza con cui si opera, nella sfera pubblica o privata, dell'amministrazione o della produzione, e gli obiettivi di qualità della vita cui si vuole e si deve tendere.
Ne deriva una sostanziale impossibilità di alimentare in maniera sana la spesa pubblica, una sua finalizzazione quasi patologica più a sostegno dei consumi che degli investimenti, produttivi o sociali. Poiché tale parte diagnostica della relazione appare condivisibile e corrispondente alle più vaste indagini condotte su scala nazionale, la definizione di una linea di attacco su base regionale dovrebbe essere immediata: operare quelle scelte e impostare quelle azioni concrete in grado di promuovere la crescita della produttività del sistema, almeno per le variabili sotto controllo. Solo per questa via sembra possibile cooperare alla rimozione dei vincoli, dalla bilancia commerciale all'erogazione dei servizi sociali, migliorando la qualità della vita e contemporaneamente contenere l'aumento dei costi.
Tale impostazione, anche se corretta, non va tuttavia al di là di una esplicitazione di un punto, sia pure qualificante, dell'odierna tematica economica. Essa è certamente carente se così è inserita in un "Piano" dal quale è naturale attendersi contributi operativi insieme ad indicazioni quantitative e strumentali.
Nel dibattito generale in aula e nei lavori della Sottocommissione abbiamo proposto e sollecitato profonde riflessioni sul mercato del lavoro in Piemonte e sui problemi ad esso connessi. Le critiche e le proposte circa gli aspetti demografici-occupazionali sono risultate esatte, per lo meno nelle tendenze, quantificate poi dagli studi della SITECO che vengono citati, ma non formalmente recepiti nel Piano: la contemporaneità cioè di un eccesso di forza lavoro altamente scolarizzata (a livello di diploma o di laurea) e di una carenza di forze lavoro nelle fasce specializzate qualificate o generiche.
Vengono quindi abbandonati i primitivi obiettivi o ipotesi occupazionali. E qui introduciamo due osservazioni che varranno in sé per questo aspetto, ma anche per altri motivi: abbiamo già insistito e risottolineiamo la necessità di una messa a punto del modello demografico occupazionale. E' opportuno che sia la Regione a pilotarlo, ma è perlomeno indispensabile che ci sia un coordinamento permanente delle sedi di ricerca pubbliche o private. Sono dati indispensabili: per questo nella legge sulle procedure abbiamo richiesto che la relazione generale sulla situazione socio-economica della Regione subisse un aggiornamento annuale. Mentre avvertiamo che, nonostante le critiche rivolte già un anno fa, ci troviamo ancora in carenza di un aggiornato modello previsionale, vogliamo contestare la metodologia pianificatoria introdotta con questa seconda edizione: poiché i dati quantitativi della prima edizione sono stati contestati, i dati vengono tolti del tutto (così si evitano le contestazioni), riducendo il tutto a discorsi troppo generici per essere propri di un Piano, e si tende a giustificare ciò con l'affermazione che non essendo tali obiettivi determinati o determinabili direttamente dalla Regione, non vale la pena di proporli quantificati.
Se onestamente si adducessero motivazioni di difficoltà o di impreparazione, rimarrebbero le critiche sul tempo perduto (analisi che c'erano fino al '74 e poi non sono state aggiornate in questi ultimi due anni), ma così si tende invece a riproporre l'alternativa tra una "pianificazione globale" e una non pianificazione che credevamo già sufficientemente svuotata di validità politica e scientifica nel precedente dibattito.
Rimangono per questo affermazioni generiche quali "forse si manterranno i tassi di attività attuali ", facendo perdere ogni correlazione o correlabilità tra tendenze, obiettivi e programmi e riducendo a pura discrezionalità la valutazione del comportamento dei soggetti operanti nella Regione. E' evidente anche il rischio di perdere una capacità di guida e di indirizzo per la comunità regionale, quando non si esplicitino chiaramente gli obiettivi.
Le accuse di eccessiva genericità valgono anche quando si passa ad analizzare il ruolo del Piemonte nel contesto economico nazionale, nelle sue caratteristiche interne e nella sua relazione con l'Europa e con il Sud.
Ad un primo livello di analisi il Piano sembra accettare la sfida della definizione del modello di sviluppo con cui disegnare l'evoluzione dell'economia regionale. Ad un maggior approfondimento le indicazioni appaiono lacunose, se non in alcuni casi addirittura contraddittorie. Viene riconosciuta, e condividiamo, la necessità di crescita del Piemonte, quale via obbligata per la creazione reale di effettive possibilità di sviluppo sia al Nord che al Sud.
Per il tipo di crescita non si esce però da categorie generali con il rifiuto di un'ipotesi del Piemonte quale area trainante del Sud Europa e l'insistenza sulla necessità di privilegiare la "qualità" rispetto alla "quantità" di questo sviluppo piemontese, incoraggiando la crescita dei settori che presentano maggiori prospettive di mercato e contenendo nei limiti cosiddetti "fisiologici" la crescita dei settori tradizionali.
Ribadiamo che, a nostro parere, l'opzione verso un inserimento "europeo" del Piemonte non è in contrasto necessariamente con la crescita del Mezzogiorno.
Circa il secondo punto, ne va ribadito il carattere esclusivamente qualitativo. A livello di piano interessa conoscere i settori che appaiono più ricchi di prospettive, la valutazione del loro potere attivante, per domanda, investimenti, occupazione. D'altra parte si sottolinea che il Piemonte potrebbe svolgere un ruolo centrale, oltreché nei confronti del Mezzogiorno, anche nei mercati internazionali, privilegiando il rapporto con i mercati europei per i prodotti ad elevato contenuto qualitativo, e favorendo la crescita nel Mezzogiorno degli apparati delle produzioni tradizionali, con le quali spuntare livelli di competitività nei confronti dei paesi emergenti.
Mentre da un lato si può affermare che l'indirizzo verso produzioni a più elevato contenuto qualitativo può essere proprio conseguenza di un'opzione europeistica del Piemonte, da un altro non si può comprendere questa visione di distinzione tra innovazione e tradizione (le innovazioni nei prodotti, nei processi, nelle strutture organizzative, sono proprie anche delle attività tradizionali) quasi portata a esemplificare due possibili Italie, tanto più che non si comprende da dove possa derivare la maggiore competitività dei settori tradizionali se trasferiti al Sud. Se la maggior competitività del nostro Paese nei settori tradizionali è stata nel passato caratterizzata soprattutto dai livelli salariali mediamente più bassi di quelli di altri paesi, e oggi improponibili, non crediamo si intenda coltivare un'ipotesi di salari differenziati tra Sud e Nord (avendo le gabbie salariali del passato reso evidenti tutti i loro limiti).
Una cosa è affermare che la crescita del Sud sia da affidare a produzioni ad alta intensità di lavoro, altro è che essa debba derivare dal trasferimento di settori tradizionali oggi ancora competitivi ed altrove operanti, e dai quali soli d'altra parte può partire il processo, se pure lento, di diversificazione verso produzioni qualitativamente più avanzate.
Richiamiamo ancora allora le carenze di approfondimento finalizzate, e per il cui sviluppo è necessario l'apporto non solo della Regione.
L'Assessore Simonelli aveva riconosciuto che studi di settore erano allora disponibili e che non erano stati proseguiti: sembra però che il tempo abbia continuato a passare invano dal momento che nel Piano si afferma che "la difficoltà di elencare la tipologia dei settori innovativi" è grande.
E' certamente vero, e sarebbe oltretutto profondamente errato, se la Regione pensasse di fare ciò "inventandoseli" per suo conto. Ma, senza proporsi di definire rigidi piani di settore, è possibile ed è necessario continuare ad indagare su ciò, in stretta collaborazione con le rappresentanze economiche e sociali, ed inserire poi tali elementi in un Piano di sviluppo. Non si capirebbe altrimenti come e da dove deriverebbero sia i contributi alla programmazione nazionale, sia gli elementi per la programmazione delle attività proprie della Regione (dalla formazione professionale alla rilocalizzazione industriale). Vogliamo sottolineare ci che non è fatto con sufficiente forza nel Piano, che comunque la visione dello sviluppo presentata richiede un forte sviluppo degli investimenti, ed è bene che la comunità regionale, in tutte le sue espressioni, ne sia pienamente consapevole. E poiché, d'altra parte, studi e analisi ne vengono proposti parecchi nel Piano, introduciamo qui alcune osservazioni generali e specifiche: vi è una forte esigenza e necessità di regionalizzare i fenomeni, come analisi e consolidamento dei problemi, al fine di una gestione e soluzione sia regionale sia nazionale.
Ma diverso è regionalizzare, diverso e concentrare tutto sull'Ente Regione: invece che sburocratizzare la struttura pubblica, si rischia di incrementarla. Questo vale in specifico per i progetti dell'anagrafe delle attività produttive e dell'osservatorio sul mercato del lavoro. A parte la necessità di finalizzare molto più dettagliatamente tali iniziative, a parte la necessità di strutturarle ed agganciarle a precisi momenti di gestione (vedi osservatorio sul mercato del lavoro, formazione professionale, sua struttura Comprensoriale, e una previsione di 50 milioni ci lascia piuttosto dubbiosi su che cosa si possa realizzare con tale cifra), ricordiamo come questi rischino di essere ancora semplici e costosi doppioni di attività già esistenti (vedi rapporti con le Camere di Commercio).
Nella Sottocommissione, oltre ai problemi relativi al mercato del lavoro, insistemmo molto sulla necessità che il Piano approfondisse e determinasse le linee di assetto territoriale, e analizzasse e definisse obiettivi precisi per la parte relativa agli interventi diretti della Regione soprattutto nei servizi socio-sanitari.
Ma a questo punto, pur vedendosi riconosciuta la giustezza delle esigenze manifestate, si fece valere la preminenza della scadenza di luglio, e il lavoro della Sottocommissione, che pure aveva materiale su cui lavorare, fu interrotto. Era la fine di maggio e gli esperti furono congedati. Certo, vi sono nel documento attuale linee di assetto territoriale che nella prima edizione mancavano totalmente, ma le riteniamo ancora del tutto insufficienti e insoddisfacenti. E, si badi bene, non per perfezionismo intellettuale, ma per facili considerazioni di operatività e validità del Piano.
Già a febbraio avevamo sottolineato come un metro di giudizio sul Piano avrebbe dovuto essere la sua capacità o meno di guidare ed aiutare i Comprensori a definire il loro ruolo ed a promuovere i loro piani socio economici-territoriali. Ricordiamo certamente anche noi il contributo valido dato da alcuni Comprensori, soprattutto da quelli del Cuneese: ma evidenziamo che questo testimonia della validità dell'istituto dei Comprensori, non della validità del Piano. Nelle "procedure" abbiamo introdotto il criterio dell'approvazione o meno di tali piani socio economici-territoriali di Comprensorio, esclusivamente sulla base della loro coerenza con il Piano regionale: ci chiediamo, e chiediamo a tutti, di applicare tale metro a questo Piano e di giudicarne quindi la proponibilità.
Consapevoli degli squilibri esistenti nella nostra Regione, che avevamo evidenziato nel precedente dibattito, abbiamo insistito perché tali squilibri venissero misurati con indicatori di natura socio-economica, che consentissero di selezionare le priorità di intervento. Tale necessità nel Piano viene prima riconosciuta, poi negata nei programmi per le aree industriali! Per gli interventi di mobilità e rilocalizzazione non vengono fissati parametri, e tutto viene ricondotto alle responsabilità politiche delle parti. Lo stesso relatore Rossotto afferma che quelle presenti (aree est e sud esterne o sud e nord-est interne al Comprensorio di Torino) sono prime indicazioni da approfondire.
Si afferma che il Piano territoriale regionale è da fare, ma intanto: il Piano territoriale di coordinamento dell'area metropolitana di Torino la cui struttura è pronta dall'aprile del '75, dov'é? E soprattutto, in questi rinvii per ulteriori approfondimenti proposti dalla stessa Giunta come non giudicare o impedire la verifica di una coerenza con il Piano regionale e il suo disegno di riequilibrio territoriale, di scelte determinanti che intanto avvengono, quali quella del Piano dei trasporti varato dal Comune di Torino? Si afferma nel Piano regionale che le esigenze di Torino devono essere soddisfatte, ma non incentivate: crediamo siano affermazioni generiche, che consentono tutto e contemporaneamente il contrario di tutto. Riprendiamo quanto diceva un Consigliere democristiano del Comune di Torino a proposito del Piano dei trasporti: "Si presenta l'esigenza di riorganizzare la stessa area metropolitana, con una diversa distribuzione delle attività al suo interno. Una concreta politica di riequilibrio del Piemonte e dello stesso Comprensorio di Torino, se richiede come premessa e condizione il blocco dello sviluppo del polo metropolitano, comporta poi una serie di interventi attivi, in positivo volti a portare al di fuori della metropoli torinese un certo numero di fabbriche e di servizi (..). Questi interventi non possono essere rinviati.
Non possiamo continuare ad attendere, dobbiamo assumere qualche prima iniziativa ed una poteva proprio essere quella di un piano dei trasporti che impostasse una vera rete metropolitana: metropolitana non perché passa in sotterranea, ma per l'ampiezza dell'area su cui insiste e che serve, per la sua capacità di trasportare e di collegare Torino con gli altri centri esterni alla conurbazione (Pinerolo, Cirie, Lanzo, Rivarolo, Ivrea) creando così una condizione per spostare insediamenti industriali e popolazione, per rivitalizzare le cittadine minori, senza imporre i disagi di un faticoso pendolarismo".
Questa indeterminatezza è inaccettabile anche per il rapporto Regione altri operatori privati, per ambedue i quali il Piano è la sede della definizione e della chiarezza dei ruoli, così come solo il Piano è la sede per la valutazione delle compatibilità e delle priorità i generali, non ricuperabile nei singoli programmi o progetti. Questo vale per esempio per i problemi di rilocalizzazione industriale: essi vengono affrontati in modo molto generico nel Piano e rinviati invece ad operazioni "a latere" di esso: la convenzione quadro tra Regione e Federazione Industriali con le sue conseguenze operative, di cui tanto si parla e che nessun Consigliere regionale conosce. Esse devono invece essere parte strutturale del Piano pena altrimenti ridurre tutto ancora una volta a pura discrezionalità.
Tanto che, pur dicendo di dover e voler privilegiare e priorizzare gli interventi all'esterno del Comprensorio di Torino, le prime iniziative che vengono progettate sono all'interno del Comprensorio stesso e in aree ad elevata concentrazione industriale, con il pericolo, fuori di un'ottica rigorosamente programmatoria, di finire per determinare, che lo si voglia o no, proprio quell'espansione a macchia d'olio oltre la seconda cintura torinese, che si dice di volere evitare (la parte territoriale sarà molto più approfondita da altri miei colleghi): ecco che allora non basta dire nel Piano o nel programma "faremo un'altra legge per le aree industriali" ma bisogna nel Piano specificare criteri e modalità.
Risposte altrettanto incerte trovano le affermazioni sulla necessità di ridurre il divario tra Torino e il resto della Regione, nei settori dei servizi, terziario, commercio: come? dove? Eppure le occasioni già direttamente dipendenti dalla Regione potrebbero non mancare, se pur nella limitatezza delle responsabilità dirette, e cito ancora una volta le attività collegate o collegabili al Consorzio per il trattamento automatico dell'informazione.
Così non troviamo nella nuova proposta di Piano né una ricognizione dello stato esistente nelle materie di più diretta competenza regionale, n la formulazione di precisi obiettivi cui si vuole arrivare nel periodo di validità del Piano.
La mancata disaggregazione per aree territoriali, tanto dei problemi quanto degli obiettivi, contribuisce a rendere generica e indeterminata la pretesa programmazione regionale. Come sarebbe pericoloso che, dietro la facciata della programmazione, i diversi centri operativi dell'Ente Regione si muovessero in reciproca indipendenza, così sarebbe (e sarà) negativo che i diversi operatori esterni non riuscissero a cogliere gli obiettivi e i vincoli che il Piano propone, proprio quando la programmazione si dovrebbe qualificare anche per la riduzione dei gradi di discrezionalità e la maggiore oggettivizzazione dei meccanismi di incentivo o disincentivo delle diverse attività.
Il Piano si presenta più quindi come un insieme di programmi e di progetti dell'Ente Regione, che come quadro di riferimento operativo complessivo. Sottolineiamo come fatto positivo questo arricchimento del parco progetti, ma avevamo già ribadito come non sarebbe stato con questo metodo che si sarebbe data sostanza alla programmazione regionale. Dei programmi e dei progetti presenti nel programma pluriennale di attività e di spesa, molti hanno, già nelle consultazioni, messo in evidenza i limiti.
Il primo, e per noi più rilevante, è quello della loro carenza di correlazione con la programmazione finanziaria. Già di essi non si capisce se, e in quale modo sono stati selezionati, perché, in sostanza, vi siano solo quelli e non altri, essendo in essi mescolati aspetti di routine amministrativa con interventi specifici. Ha senso allora - ci chiediamo affermare che il fabbisogno finanziario sarebbe di 1.200 miliardi di qui al 1980? Ha senso cioè il confronto con queste cifre? Ancor più negativo, ai fini del varo di un piano, è lo scollamento tra "programma pluriennale" e "bilancio pluriennale", scollamento temporale e finanziario e su questi aspetti interverrà il collega Paganelli.
La carenza di "programmazione nella programmazione" della Giunta la comunità regionale la sta già pagando: il 1977, all'insegna della programmazione, non ha ancora praticamente un vero bilancio, non ha visto nessun nuovo investimento (riconosciuto dallo stesso Assessore Simonelli nella discussione sulle procedure) e, per ben che vada, nel caso di una variazione di esso, darà un notevole contributo ai residui passivi.
Altri limiti rilevantissimi sono lo scarso coordinamento che collega questi progetti uno all'altro, tanto da risultare incapaci di dare gambe operative alle indicazioni generali presenti nelle finalità. Basterebbe citare l'assenza di coordinamento operativo esistente ai fini del sostegno delle attività industriali, ad esempio tra rilocalizzazione - territorio infrastrutture viarie ed abitative - trasporti. La Finpiemonte sta elaborando progetti di intervento nelle strutture urbane e nei centri storici (l'approviamo perché corrisponde a richieste che avevamo fatto nel corso della discussione sulla legge sulla Finanziaria), ma nei programmi del Piano non se ne parla e ci chiediamo allora (rispetto ancora le definizioni che abbiamo introdotto nella legge sulle procedure): che grado di vincolo e di efficacia ha il Piano regionale? Si riparla, per l'ennesima volta, della necessità di sottoporre a revisione le leggi esistenti, ma non ne vengono definiti né limiti, né criteri (e poi oltretutto questa operazione viene continuamente rinviata).
Per la formazione professionale si indicano tre progetti specifici condivisibili, ma si lascia ancora alla gestione ordinaria, relativa sempre all'osservazione dei singoli centri, la politica complessiva del settore.
Per l'agricoltura, per la quale si riconosce nella relazione generale la possibilità di un saldo negativo dell'occupazione (si parla di un piano processo, ma mancano le valutazioni perfino sulle situazioni dell'ultimo anno e vogliamo ricordare che l'occupazione in agricoltura è diminuita nonostante la stagnazione nell'industria), nei programmi si fissano gli obiettivi di aumento sia dell'occupazione, sia della produzione e sia del reddito. Dov'é la compatibilità e la coerenza tra questi obiettivi? O, pur sottolineandone continuamente l'importanza prioritaria, non se ne coglie il significato di settore produttivo, che deve, accentuando l'attenzione sui costi e sui prezzi, mantenere e ricuperare anch'essa ogni aspetto di competitività? Crediamo di comprendere, ed è però a comprova della validità di queste critiche, il significato delle sollecitazioni pervenute in tante consultazioni e di alcune insistenze, nella relazione Rossotto. Se, perch qualcosa si muova, perché qualche investimento venga effettuato, perch qualche progetto venga avviato, è necessario che si compia il rito dell'approvazione del Piano, questo rito venga celebrato in fretta, senza ulteriori ripensamenti: questo è il senso di tanta insistenza, per cercare di varare intanto una variazione del bilancio 1977, e per introdurre elementi di spesa nel 1978.
Noi ribadiamo che ritardi, insufficienza, politiche più che tecniche sono di diretta ed esclusiva responsabilità della maggioranza, e sono tali da giustificare un nostro giudizio negativo non solo su questo documento di Piano, ma su di esso come espressione dell'intera attività programmatoria della Giunta. C'è perfino stanchezza, l'avvertiamo e ne siamo preoccupati ormai attorno a questo tema: però vorremmo che si rassicurasse il collega Minucci che si chiedeva, nel febbraio 1977, se nella nostra opposizione c'era semplicemente la volontà di annullare o di sminuire, con una campagna propagandistica preventiva, l'effetto politico e psicologico che l'ormai imminente varo del Piano avrebbe avuto sull'opinione pubblica e aggiungeva: "dico che la gente avrà chiaro di fronte agli occhi che il nuovo quadro politico, uscito dalle elezioni del 15 giugno 1975, rende possibile un rapido varo della politica di piano, mentre il vecchio quadro politico non l'aveva consentito, addirittura l'aveva respinto". Noi questo varo della politica di piano, non lo stiamo francamente rilevando, se non avvertendone, semmai, gli aspetti negativi. Proprio perché vogliamo che questi siano superati, ricuperando nell'attività programmatoria, anche il prestigio e il ruolo delle istituzioni, manteniamo vivo il nostro critico dissenso.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Rossi.



ROSSI Luciano

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, il relatore, collega Rossotto ha giustamente sottolineato come da un anno la nostra Regione abbia aperto un significativo confronto attorno alla proposta di Piano regionale di sviluppo, investendo, a cominciare dal Consiglio regionale, le molteplici componenti della società politica, economica, culturale e sociale del Piemonte, e in modo particolare il sistema delle autonomie locali.
Naturalmente sugli orientamenti e sulle proposte formulate dalla Giunta regionale le valutazioni sono state diverse, siano esse di consenso, che di confronto o di contrasto. L'aspetto che da tutto questo dibattito è emerso che riteniamo della massima importanza, e che ci permettiamo sottolineare è la convinzione che soprattutto con una politica di piano sia possibile assolvere a quello specifico ruolo originale che spetta alla Regione, di momento di programmazione, di coordinamento della spesa pubblica nel territorio e di riferimento dell'insieme delle iniziative economiche della società piemontese.
A questo proposito intendiamo sottolineare il significato politico della parte generale del piano che sostanzia anche il programma pluriennale di attività e di spesa di cui parleremo in seguito; questo perché in caso contrario ci si limiterebbe ad un'arida elencazione degli interventi dell' "Azienda Regione" nei limiti delle sue strette competenze.
Al contrario, nel rispetto delle reciproche autonomie e di un corretto pluralismo istituzionale, politico e sociale, la Regione dotandosi di un Piano di sviluppo ha voluto ribadire il suo carattere di Ente politico e non solo e soprattutto amministrativo (a questo proposito vi è una significativa coincidenza temporale con l'approvazione del decreto delegato della 382 che costituisce un'ulteriore tappa della fase costituente regionale).
In definitiva l'Ente pubblico elettivo, a differenza dal passato, si è dotato di uno strumento per governare lo sviluppo senza adeguarsi passivamente ad esso.
Tale valutazione non è però più frutto di un insieme di enunciazioni che per tanto tempo sono state fatte, ma serve anche per affermare come la preparazione di un piano di sviluppo da parte di tutte le Regioni del nostro Paese costituisce, dal punto di vista istituzionale, un fatto profondamente innovativo, poiché è la prima volta, nella storia del Paese che ciò risponde alle prescrizioni non soltanto degli Statuti regionali, ma alle prescrizioni di una legge dello Stato: la n. 335 del 1976 sulla contabilità regionale.
Non si tratta peraltro di una novità puramente giuridico-formale, ma di un mutamento nella sostanza dell'operare delle Regioni.
L'articolo 1 della legge 335 stabilisce infatti che i piani siano il fondamento dei bilanci pluriennali degli Enti regionali, unendo così ai loro indirizzi le scelte ed i comportamenti per la politica pubblica degli investimenti e più in generale della spesa.
Inoltre, nello spirito della legge, i piani delle Regioni diventano congiuntamente ai loro bilanci, il centro di coordinamento dell'insieme della spesa pubblica con particolare riferimento a quella degli Enti locali territoriali e non territoriali, nonché delle aziende ad essi collegate.
Questi caratteri innovatori voluti dalla legge, sono presenti nei documenti e nel processo della programmazione regionale piemontese, che anzi, con alcuni dei contenuti più rilevanti della proposta di piano della Giunta dello scorso anno, aveva anticipato significativamente alcune delle previsioni legislative.
Correttamente la Giunta, dopo il necessario confronto e dibattito avvenuto sulla nuova proposta di piano, ha presentato, insieme al programma pluriennale, uno schema di bilancio pluriennale, al cui approfondimento si dovrà lavorare contemporaneamente alla discussione consiliare per approvare la legge regionale sulla contabilità, che ne permetterà, una volta in vigore, l'approvazione formale.
A questo proposito sembra necessario ricordare che tale opera di approfondimento dovrà essere strettamente correlata con il processo di riorganizzazione istituzionale amministrativo, previsto nel primo programma obiettivo del Piano "Organizzazione e informazione".
Il pregio dell'attuale schema consiste nel fatto di essere uno schema aperto che nello stesso tempo è un impegno per l'immediato futuro, che ha in sé la possibilità di coinvolgere le iniziative e le risorse degli Enti pubblici ed economici, per la cui azione il Piano costituisce quadro essenziale di riferimento.
Tutto il dibattito dell'ultimo anno, e in particolare lo svolgimento e gli esiti delle più recenti consultazioni, ci pare convalidino questo giudizio, e rendano evidente l'importanza di una simile larga partecipazione, senza la quale si ricadrebbe nel settorialismo e negli interventi troppo spesso non finalizzati del passato.
Signori colleghi, essendo il bilancio pluriennale presentato come schema aperto, come prima abbiamo evidenziato, e quindi schema di riferimento che dovrà essere ulteriormente considerato nel momento in cui andremo agli adempimenti sulla legge di contabilità, secondo lo spirito della legge statale 335, crediamo opportuno interpretare tale schema, nella sua molteplice articolazione, come punto di riferimento per la gestione a livello territoriale della massima entità di spesa pubblica. Con questo intendiamo affermare, secondo l'interpretazione che diamo agli elaborati del Piano, che per quanto concerne la spesa pubblica, occorre che essa sia imbrigliata e contenuta entro livelli di governabilità all'interno dei grandi indicatori economici e rapportata a livelli tollerabili con l'entità del prodotto interno lordo.
Il programma pluriennale, come momento essenziale del Piano, va visto nel senso che il governo della spesa pubblica deve operare attraverso un sistema la cui programmazione significa definizione della qualità, della priorità, i cui limiti di espansione siano vincolanti per tutti.
Dobbiamo riuscire a fare in modo che la spesa pubblica si trasformi da fattore di crisi e di inflazione, quale esso è andato configurandosi, in fattore di risanamento,di rinnovamento e di sviluppo.
Lo schema di bilancio pluriennale va perciò interpretato non solo circa le possibilità di investimento reale, cui è possibile tendere in base alle risorse disponibili, ma come strumento indicatore per realizzare tre obiettivi fondamentali e interdipendenti: 1) per riconsiderare in termine di riequilibrio gli investimenti decisi dalle attuali leggi regionali, nonché per un loro utilizzo sempre più finalizzato verso interventi di carattere strutturale 2) per qualificare l'ulteriore spesa, sia socialmente, sia sotto l'aspetto produttivo 3) per garantire una gestione sempre più partecipata e democratica della spesa pubblica.
Se allora il Piano costituisce uno strumento anche per il coordinamento dell'insieme della spesa pubblica della nostra Regione, allora tutto il sistema delle autonomie deve contribuire in modo decisivo e determinante a raggiungere nella misura più estesa possibile questi tre obiettivi.
In questo riaffermiamo la volontà di creare una Regione che sia soprattutto Ente di indirizzo politico, di legislazione e di coordinamento e che, attraverso una corretta e coerente politica di deleghe, si ponga come soggetto promotore della riqualificazione di tutta la spesa pubblica a livello regionale.
Anche in questo senso dobbiamo valutare attentamente il significato che dovranno assumere i bilanci consolidati di Comprensorio, per evitare il rischio di costruire degli schemi astratti, anche se metodologicamente corretti, che di fatto non incidano sul tradizionale modo di essere e di operare della pubblica amministrazione a livello locale.
Se ragioniamo in questa ottica il problema dello squilibrio finanziario che emerge dalla lettura dello schema di bilancio pluriennale, si ridimensiona ulteriormente: se pensiamo che da oggi al 1980 la Regione avrà disponibili al netto del fondo ospedaliero circa 1.000 miliardi, ci rendiamo conto della scarsa incidenza che possono avere gli interventi della Regione, se li considerassimo solo in un'ottica meramente contabile.
A proposito del fondo ospedaliero, sarà opportuno andare in fretta ad un'indagine sui metodi e criteri attuali di gestione e di spesa, per acquisire quegli elementi di conoscenza che oggi il Consiglio non dispone indispensabili per trarne le dovute conseguenze normative ed organizzative.
Parimente, la medesima iniziativa può essere suggerita nei confronti degli Enti locali e delle aziende pubbliche ad esse collegate, per rendere in generale più operativi gli indirizzi che abbiamo precedentemente affermato.
Egregi colleghi, una tale interpretazione del Piano, anche sulla base delle indicazioni dello schema di bilancio pluriennale, inteso secondo quanto previsto dalla stessa legge n. 335, costituisce un momento di maggiore autorevolezza verso il potere centrale per realizzare un disegno che definisca democraticamente degli efficaci parametri a livello nazionale a proposito di quanto il bilancio dello Stato dovrà assegnare alle Regioni attraverso il fondo destinato ai Piani regionali di sviluppo e che dovranno essere vincolati.
Se questa nostra impostazione è giusta, allora a noi sembra che il sistema delle autonomie nel suo complesso prima ancora che si consolidi l'intero decentramento delle funzioni statali, deve di fatto - sempre più urgentemente - riappropriarsi come Ente-territorio di tutte le funzioni di guida politica, di indirizzo e di controllo della maggiore quantità di spesa pubblica, il che significa della più ampia quantità di fatti organizzativi, nei quali si manifesta l'intervento pubblico.
Ciò significa allora che il Piano e lo schema di bilancio pluriennale che sono al nostro esame, dovranno dimostrare che la Regione e l'insieme degli Enti territoriali, rappresentanti generali della collettività, sono effettivamente capaci di essere guida e punto insostituibile di controllo per tutti i settori della spesa pubblica, spesa pubblica che non deve costituire solo incentivo di quella privata, ma che alimenta un pluralismo di interventi tesi a superare la crisi attuale, e divenire effettivo momento di un nuovo tipo di sviluppo economico e sociale.
Certo, quanto esposto, non vuole affrontare tutti i vari aspetti della proposta di piano, ma è frutto delle esperienze che abbiamo fatto sul modo di legiferare e di lavorare della nostra Regione. A questo riguardo permettetemi di rifarmi ad un'esperienza personale. Da alcuni mesi sto esaminando le leggi regionali di investimento in conto capitale finanziate attraverso l'accensione di mutui: seppure in modo differenziato, una parte considerevole di tali leggi ha iniziato ad operare. Sono già stati dati contributi per oltre 63 miliardi, sulla base di impegni di circa 123 miliardi. Tutto questo è avvenuto in circa 20 mesi e, se non si è andati oltre, è solo per il fatto che certe procedure previste nei meccanismi delle leggi, che noi Consiglio regionale abbiamo approvato, non facilitano un'attività più rapida. Rimane comunque il fatto, secondo lo studio fatto e, può anche non essere tutto esatto, che entro un anno altri 70 miliardi circa potrebbero passare dalla fase di impegno alla fase operativa. La dinamica della spesa sarebbe la seguente: 130-140 miliardi contro i 195 miliardi previsti.
E' senza dubbio un fatto rilevante, se pensiamo che a tali investimenti per contributi si dovranno aggiungere risorse non indifferenti per contributi in interesse che si finanziano con mezzi ordinari di bilancio.
Tuttavia rimane il fatto: la spesa è ancora in parte lenta, non soltanto per le macchinose procedure prima ricordate, ma per il fatto che l'accesso al credito bancario rimane assai difficile.
Mi pare perciò necessario non soltanto rivedere i meccanismi delle leggi, ma operare per tentare di recuperare eventuali possibilità finanziarie per finalizzarle meglio agli obiettivi e alle scelte che si decideranno rispetto alle indicazioni del programma pluriennale.
Riuscire a fare questo sulle leggi attuali, ci aiuterà a capire meglio la quantificazione finanziaria delle leggi future; sarà importante a condizione che la spesa pubblica sia finalizzata a quell'obiettivo che prima si indicava, vale a dire incidere sulle strutture economiche e sociali e, al tempo stesso, costituire opera di risanamento e di rinnovamento.
Lo studio fatto suggerisce infine l'opportunità che la nostra Regione organizzi una conferenza sul credito, per andare ad un confronto costruttivo con gli istituti bancari affinché il programma pluriennale sia visto come l'occasione per instaurare nuovi rapporti finanziari ed economici attraverso i quali l'utilizzo delle risorse sia sempre meglio finalizzato.
Le esperienze fatte non sono state infruttuose, ed altrettanto è avvenuto quando nell'ultimo periodo di lavoro di questa assemblea, si sono definite le pre-condizioni per una politica di programmazione regionale: la legge sulle procedure, il Piano di sviluppo che discutiamo, la legge di contabilità regionale che dovrà essere definita a settembre, le varie leggi settoriali di piano, creando le condizioni strumentali ed organizzative necessarie per impedire la sclerotizzazione della Regione, di un vecchio sistema d'essere della Regione, anche per quanto riguarda la sua capacità di incidere sulla realtà esistente e di trasformarla conseguentemente.
A questo proposito, al di là delle valutazioni sui singoli aspetti, ci sembra che l'interesse destato dallo schema di bilancio pluriennale sia una diretta testimonianza della sua rilevanza politica e dell'importanza di questo sforzo, certo da limare e approfondire, ma che rappresenta una sostanziale novità nella strumentazione della politica economica regionale permettendo di avere un riferimento quantitativo dei costi delle varie scelte alternative del Piano.
Anche per tutto questo crediamo complessivamente che la scelta della proposta di piano sia giusta. Esso non è uno schema fisso per sempre, ma è soggetto a tutte le verifiche che la legge sulle procedure ha definito e che la legge 335 afferma, ma soprattutto offre la possibilità a tutte le forze politiche del Consiglio di contribuire, con la propria originalità e diversità, a costruire con la programmazione regionale, un nuovo tipo di impegno per affrontare la grave situazione, e far sì che le risorse politiche e morali di cui è ricca la realtà sociale del Piemonte, vengano unite e mobilitate a quelle delle altre Regioni per avviare un processo di superamento della crisi, e per un nuovo tipo di sviluppo economico.
Concludendo, egregi colleghi, questo intervento ha voluto affrontare soprattutto questioni di carattere metodologico al fine di contribuire a comprendere meglio i processi che vengono stabiliti con il Piano, con il programma pluriennale e la conseguente politica della spesa.
Ci pare che gli aspetti metodologici avranno un'importanza ancora più grande nel momento in cui le istituzioni autonomistiche, Regioni e Comuni in modo particolare, si vedono affidati compiti come quelli previsti dalla legge n. 382 per i quali tanto si è lottato.
Tali compiti richiedono alla Regione in modo particolare nuove e più adeguate capacità per dimostrare quanto importanti saranno le conseguenze dell'azione svolta per il decentramento dello Stato, così come previsto dalla Costituzione.
La politica di piano si inserisce in questa nuova realtà e nella nuova situazione politica del Paese.
Non dovremmo perciò deludere le aspettative dei cittadini; anzi la Regione, i Comprensori, gli Enti locali, le Comunità montane e altri livelli di aggregazione economico-sociale, diverranno quindi momento decisivo di questa nuova realtà.
Anche per questo il Piano che siamo chiamati ad adottare acquista più rilevanza. Pregiudiziale dunque, in questa società piemontese così ricca di pluralismi, operare oggi con maggior impegno e rigore per affrontare i difficili problemi che ci siamo permessi di richiamare in questo dibattito.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Benzi.



BENZI Germano

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, dovrei ripetere molte cose dette a febbraio, quando abbiamo parlato del primo Piano di sviluppo vorrei parlare ancora del SAMIA, morto malamente, nonostante la Giunta avesse detto che si preparava a sostenere le nostre mostre. Innanzitutto vorrei dire qualche cosa sulla relazione del collega Rossotto perché mi pare che manchi di un apprezzamento all'opposizione. Questo piano è migliore grazie all'apporto dell'opposizione.
Ho anche dei dubbi che l'intesa dei sei partiti a Roma sia un fatto di importanza storico-europea. L'Europa è un continente strano che, dal 1900 al 1977, è stato scosso da ben altri avvenimenti, guerre, rivoluzioni dei dittatori; ritengo che questa intesa fra i sei partiti italiani durerà esattamente come tutte le intese italiane: ben poco, e non penso che abbia qualcosa di storico.



PRESIDENTE

Questo non è ancora detto.



BENZI Germano

Non lo posso anticipare, signor Presidente, sono disposto a scommettere con lei sulla durata di queste cose.
Venendo al nostro Piano, ritengo che le indicazioni in esso evidenziate per il settore industriale non siano convincenti, anche perché tutti abbiamo una grossa esperienza sulle industrie controllate dallo Stato, che per lo più sono macchine mangiasoldi che non lasciano andare avanti l'Italia.
Nella relazione Rossotto si parla delle aree industriali, aree che ogni tanto sbandieriamo. So che a Vercelli qualcosa si sta facendo; qualche industria ha richiesto i terreni, però rimane tuttora nel vago l'indirizzo della Regione, cioè se vogliamo incentivare la produzione di industrie nuove o se vogliamo aiutare tutti indistintamente: a questo punto avrei delle grosse perplessità. Se vogliamo che l'industria piemontese si differenzi e imbocchi nuove strade potremmo avere delle possibilità differenziate, ma se continuiamo ad aiutare le aziende che vanno a batter cassa da tutte le parti facendole sopravvivere per un anno o due, perderemo una grossa occasione.
Voglio rendere omaggio al prof. Grosso, che nella veste allora di Presidente della Provincia di Torino, si batteva perché il Piemonte potesse uscire dal suo isolamento geografico e potesse intervenire nelle zone confinanti, in Francia, in Germania. Il Piemonte ha una sua funzione; oltre il confine delle Alpi, ha una sua prospettiva industriale e commerciale, e questo è dimostrato dall'esportazione, perché effettivamente c'é, al di là della frontiera, il richiamo di una parte della nostra produzione. Nel Piano non esiste questo particolare modo di intendere l'industria del Piemonte.
Ritengo inoltre che nel Piano andrebbero messi maggiormente in rilievo i Comprensori. Il Consigliere Alberton ne ha giustamente parlato. I Comprensori hanno avuto un trattamento diverso l'uno dall'altro, sia per la loro preparazione sia per la differenza di posizione. In particolare i Comprensori che confinano con la Liguria e con la Lombardia, non dico che siano stati dimenticati, ma sono poco aiutati e difficilmente riescono ad avere una loro vita autonoma e fiorente. La stessa cosa si verifica per il Novarese che confina con la Lombardia e di conseguenza è attratto verso Milano. Dobbiamo riuscire a equilibrare queste situazioni, altrimenti avremo Torino considerata sempre la grande città e gli altri centri minori sempre dimenticati o almeno poco aiutati. Forse sarebbe opportuno ripensare al Comprensorio di Torino che, tolte le piccole appendici di Pinerolo e Ivrea, è rimasta la vecchia provincia, con una forza tale di cui lo stesso Consiglio già capisce la gravità. Si deve avere il coraggio di avviare una suddivisione diversa mantenendo i Comprensori, a meno che nell'intesa dei sei partiti salti questo concetto e allora avremo una diversa sistemazione: è un'ipotesi che potrebbe anche capitare.
Dirò alcune parole sulla parte contabile. Ho dei grossi dubbi sull'aumento delle entrate del 20% per anno: è un'ipotesi che potrebbe verificarsi, come potrebbe anche non verificarsi, anzi con i chiari di luna a cui andiamo incontro, non so se ci sarà qualche Ministro che avrà il coraggio di dire che ci daranno i fondi; è vero che i Ministri hanno molto coraggio; se mettessimo in fila tutte le loro dichiarazioni d'affetto avremmo un libro divertentissimo da leggere. In realtà l'aumento del 20 per anno è un'ipotesi di lavoro che potrebbe essere sostenuta, ma che in fondo non è confortata dai dati.
Emerge in modo evidente il deficit: questo vuol dire che dovremo rinunciare a certe cose, e fare delle scelte. Non si può immaginare di contrarre troppi debiti; tutte le aziende ne fanno quando le banche danno i soldi, tutte le famiglie, quando possono, ne fanno. Non so, però, se la Regione, messa com'é contabilmente, abbia questa possibilità di indebitarsi, soprattutto dopo l'approvazione del Piano (non vedo il Consigliere Rossotto, non vorrei che si fosse suicidato per le mie dichiarazioni, ne sarei veramente imbarazzato). Il collega Rossotto nella relazione fa una confusione timida, non trionfalistica, forse ha dei dubbi sul Piano, non li esterna in modo chiaro, ma li lascia intendere quasi di soppiatto. Egli dice che l'espansione del Piemonte è legata all'industria.
Sappiamo tutti che l'industria del Piemonte, che equivale al 70 dell'attività trainante, è solo in minima parte in mano alla Regione: siamo costretti a fare i conti con forze che non possiamo orientare e guidare possiamo soltanto trovare degli accordi. Non voglio ricordare la famosa Conferenza sul lavoro, che fu solo una fastosissima cerimonia. Devo dire però che da allora non abbiamo avuto grossi contatti con l'industria, anzi si è verificato un irrigidimento nel senso contrario.
Accennerò brevemente alla questione meridionale, che è costantemente ricordata nel Piano e viene ripresa in tutti i discorsi: è diventato di moda dire che lo sviluppo del Piemonte è legato a quello del Meridione.
Bellissima frase! E' una triste realtà, però, che se il Meridione non riesce a decollare l'economia nazionale avrà sempre una palla al piede.
Però, signori Consiglieri, non è il Piemonte che può fare la politica del Meridione: è lo Stato. Noi facciamo solo delle affermazioni di principio alle quali crediamo, ma, in realtà, non riusciamo a far nulla di concreto se non qualche dichiarazione di amicizia agli operai della Regione Campania.
Se, effettivamente, non abbiamo possibilità concrete, dovremmo fare una disamina delle cose che potremo fare, e dovremmo anche saper dire che in questi ultimi trent'anni si sono sprecati miliardi e miliardi in Meridione.
Se il Meridione avesse decollato come doveva decollare, con tutto quanto lo Stato italiano ha speso, non avremmo la situazione odierna. Leggiamo di quando in quando sui giornali di aziende meridionali saltate per aria, ma quelle aziende non restituiscono mai il denaro che hanno preso; non si mettono nemmeno in galera i responsabili. Se vogliamo che il Meridione assuma una giusta posizione dobbiamo avviare una programmazione diversa dobbiamo ricordarci che l'artigianato, la piccola e la media industria sono in grado di creare una diversa situazione meridionale: è una questione di fondo. Si era creduto che la grande industria avrebbe potuto risolvere tutto. Non è vero; stiamo leggendo sui giornali, proprio oggi, che cosa capita alla Motta e all'Alemagna. Dobbiamo chiedere al Meridione la contropartita della serietà degli uomini politici, di coloro che fanno la campagna elettorale con le aziende, affinché il Meridione possa avere la tranquillità economica che tutti auspichiamo.
Nel Piano c'è l'analisi della situazione nazionale e regionale, ma è un'analisi carente. Nessuna nazione industriale può prosperare avendo il primato degli scioperi, delle assenze per malattie ingiustificate dell'alto costo del denaro, con la pretesa di far vivere aziende morte che divorano miliardi senza nessuna contropartita, con uno stato imprenditore fallito, con le varie sottospecie di aziende dell'Iri per lo più gestite da uomini di parte che prendono iniziative strane nel campo industriale. O in Italia ci sarà una tregua sociale e sindacale in cui tutti "lavoreranno" o saremo condannati in un limbo vegetativo.
Si dice che inizieremo i lavori nella zona di Vercelli; manca però la programmazione effettiva e la chiarezza, dati indispensabili nell'industria. Vorrei sapere quante sono le industrie che hanno chiesto di trasferirsi a Vercelli e a Casale, quanti sono gli operai che andranno a lavorare in quelle zone, come si provvederà alle loro abitazioni, con quali servizi andranno a lavorare. Vogliamo creare altro pendolarismo? Queste cose dovrebbero completare il quadro effettivo del rilancio di quelle zone industriali.
Vorrei accennare brevemente all'artigianato. In questa relazione non c'è nulla di nuovo in merito alle proposte riguardanti l'artigianato. Il Piano riconduce quasi tutto ai contributi per partecipazione a fiere e mostre: cosa bellissima, su cui sono d'accordo, direi, anzi, che potrebbe essere l'inizio dell'espansione artigianale; però sul Piano dello sviluppo serio dell'artigianato non è sufficiente. Dare qualche contributo per partecipare a mostre in Francia o in Germania è un fatto marginale.
Inoltre, sempre nella relazione, si parla di contributi volti alla valorizzazione di importanti mestieri artigianali e sono citati i sarti, i barbieri, i parrucchieri. Ebbene, signori Consiglieri, se pensiamo che solo i parrucchieri e i barbieri siano artigiani dimostriamo di avere delle idee stranissime, pacchiane, parziali. Sono cose che non stanno né in cielo n in terra: l'artigianato e una cosa molto più seria, molto più ampia. A Castellamonte abbiamo un nucleo di ceramisti che purtroppo sta scomparendo in occasione della mostra gli espositori si attaccavano personalmente i manifesti; abbiamo industrie della ceramica che non temono nemmeno la concorrenza toscana. La ceramica in Piemonte ha una nobile tradizione.
Parliamo di Mondovì, parliamo di Cuneo, altro che sarti e barbieri! Nel piano non è previsto nulla in favore delle botteghe artigiane. La Regione Veneto ha approvato una legge che merita di essere considerata, la quale dà contributi all'artigianato qualificato, sia in favore degli apprendisti sia in favore delle botteghe artigianali. E' un notevole passo avanti che potrebbe darci lo spunto per mettere qualcosa di più nel Piano per esempio in favore dei lavoratori del rame, che vantano un'antica tradizione in Piemonte, dei lavoratori del legno, degli orafi, ecc. Questo è l'artigianato che dobbiamo coltivare se vogliamo che il Piemonte possa esportare i suoi prodotti: i barbieri e i parrucchieri non li esportate potete tenerli in Piemonte, se volete farvi la barba! Anagrafe delle imprese. Non è una questione di cui si debba preoccupare la Regione: abbiamo un sacco di uffici costituiti che conoscono tutto l'andamento produttivo della Regione, dalle Camere di Commercio all'Unione industriale, all'Artigianato. Non solo, ma ritengo che a chiedere alle aziende certi dati sulla produzione che sono confidenziali non ve li danno perché hanno paura della concorrenza, paura delle banche. Questo è il voler troppe cose dalle aziende; si troverebbe un muro, perciò non facciamo altra burocrazia, la tendenza alla burocrazia uccide tutto, compreso noi stessi.
Lasciate che quel lavoro lo facciano coloro che sono attrezzati.
Brevemente farò alcune considerazioni sulla questione commerciale. La Giunta dice che si impegna a far sì che si abbia una riduzione dei costi di commercializzazione. Fosse vero! Ma normalmente queste cose si ottengono con altri mezzi, non con la pianificazione urbanistica commerciale normalmente si possono avere prezzi minori, quando si controllano, quando si fa un altro tipo di distribuzione. Si insiste sul fatto di voler cambiare i mercati all'ingrosso, sostenendo che non funzionano, ma ritengo che solo quello di Torino debba essere ristrutturato.
C'è un'altra questione che mi mette in allarme e cioè la riorganizzazione degli uffici: il buon funzionamento degli stessi non deve far parte di nessun piano; è normale che funzionino bene, è sottinteso.
Così pure non sono d'accordo che si debba abolire il principio di gerarchia: non voglio fare nessuna particolare osservazione, voglio soltanto dire che se c'é un posto dove ci vorrebbe una certa gerarchia è proprio la Regione Piemonte. Faccio anche una raccomandazione in merito al personale: i concorsi di assunzione devono essere seri e duri, e i dipendenti devono essere pagati in modo equo e giusto per evitare che i migliori se ne vadano altrove.
Il fatto che mi accaloro parlando di questo Piano, non vuol dire che non riconosciamo l'esigenza di un piano e di una programmazione. Ma il mio sforzo vuole dimostrare che il piano la fatto in un modo diverso sfrondando le cose mutili. Nonostante i difetti che vi troviamo riteniamo che sia giunto il momento di incominciare, perché quando dovessimo fare un terzo piano lo faremmo certamente migliore di questo, in:quanto sarà arricchito da questa esperienza. Questo sarà un piano di transizione che ci permetterà di attuare il piano vero del 1980, quando avremo fatto tutte le dovute esperienze, avremo toccato con mano le difficoltà; i Comprensori, se saranno ancora vivi, non saranno chiamati solo a sentire, ma potranno dare precise indicazioni. Nonostante i difetti che ho rilevato (e ne ho trovati molti) è venuto il momento di incominciare a fare questo lavoro ordinato e programmato, tenendo naturalmente presente che c'é un'opposizione che vuole mettersi contro il Piano non per partito preso ma perché vuole correggere gli errori più evidenti, quelli che non si possono ignorare.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Paganelli che conclude gli interventi della mattinata. Ne ha facoltà.



PAGANELLI Ettore

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, molte sono le considerazioni che la discussione di quello che viene ora definito "Piano di sviluppo 1977 1980" induce a fare e la tentazione di caricare il dibattito di toni polemici sui tempi e sui contenuti è senza dubbio forte.
Basti pensare alle parole con le quali il 10 ottobre 1975 l'allora Assessore Libertini apriva praticamente la Conferenza regionale sull'occupazione: "Tutti sanno ormai, in primo luogo, che la Giunta regionale ha assunto l'impegno formale di presentare il programma economico 1976-1980 alla fine di quest'anno. Stiamo lavorando in tale direzione". E l'impegno veniva ribadito dallo stesso Libertini in Consiglio nel novembre 1975: "Il Piano di sviluppo a gennaio e a marzo del 1976 il bilancio raccordato col Piano di sviluppo"'. Erano quelli i tempi in cui a parole tutto era facile e pronto in genere per il mese successivo.
Ci troviamo oggi invece a discutere un documento che solo con molta buona volontà può essere temporalmente spaziato nell'arco 1977-1980 considerato che non si sa quanta parte del bilancio 1977 (quel bilancio che a suo tempo era stato definito provvisorio e che tale resterà per quasi tutto l'esercizio finanziario) potrà incidere in una direzione programmata ed inoltre documento che solo con altrettanta buona volontà può essere definito piano. Il collega Alberton ha già dato una nostra prima valutazione del documento ed altri colleghi entreranno più nel merito dei problemi.
Credo però non occorra una particolare esperienza in materia di pianificazione per dire che il documento che stiamo discutendo non ha n l'architettura, né la struttura di un piano. E' si vero che siamo alla prima esperienza, che non ci troviamo di fronte ad un piano di quelli che discutendo la legge sulle procedure abbiamo chiamato "a regime", ma è altrettanto vero che dopo tanto discutere ci si sarebbe atteso un qualcosa di più ampio respiro.
Un piano è tale se veramente considera nella globalità l'intiero sistema socio-economico nel quale la Regione si pone da un lato come operatore politico che fa da indicatore anche alla sfera privata e dall'altro, sempre nell'ambito di una visione globale, ricava il piano della sua attività. Il bilancio pluriennale diventa lo strumento attuativo di questa parte del piano.
Ebbene ci pare che nel nostro caso la prima parte praticamente manchi (salvo poi vedere svolgere questa azione della Giunta a lato del piano) e la seconda sia monca. Infatti la Giunta non ci propone di approvare tra i documenti del Piano il bilancio pluriennale per il motivo che non si pu approvare e la stessa ipotesi allegata ai documenti è stata infatti chiamata solo "schema". Ma non approvando il bilancio pluriennale sostanzialmente non si approva un piano, si fa ancora - e bisogna prenderne atto - un rinvio di alcuni mesi. E non dobbiamo dimenticare che nel momento in cui ci si appresta a votare una deliberazione sul Piano non solo non abbiamo il bilancio pluriennale, ma non abbiamo neanche un bilancio annuale vero e proprio, stante l'anomalo regime di bilancio provvisorio in cui ci troviamo ad operare nell'esercizio finanziario 1977. E questa situazione non la denunciamo solo ora, ma la prospettammo chiaramente già nel mese di dicembre 1976 nella breve discussione in aula sul bilancio quando affermammo: "La maggioranza con la via scelta oggi avrà un bilancio intero sia pure provvisorio, sul quale potrà operare senza limiti, un bilancio non approfondito e non dibattuto con le forze sociali e con gli Enti locali della regione".
La singolarità e nel tempo stesso l'anomalia di approvazione di un piano senza bilancio pluriennale l'abbiamo già prospettata il 15 luglio discutendo e votando le norme transitorie della legge sulle procedure della programmazione.
Il "no" del Gruppo democristiano che abbiamo motivato sugli art. 26 e 27 - voto politico è stato detto - prendeva proprio lo spunto dalla mancata previsione del bilancio pluriennale tra i documenti fondamentali del Piano 1977-1980 ed oggi non facciamo altro che ricollegarci a quella previsione.
D'altra parte la Giunta e la maggioranza non possono proporci di votare il bilancio pluriennale per il grave ritardo con cui si presentano all'appuntamento con la legge di contabilità regionale. Anche su questo terreno il Gruppo democristiano aveva sollecitato la Giunta sia nella già ricordata discussione sul bilancio sia con una precisa interrogazione al riguardo nel mese di maggio scorso. Ci è stata data una cortese risposta di maniera, la solita assicurazione dell'imminenza dell'evento e siamo qui ad aspettare.
E' opportuno che la Giunta mediti un pochino sulla funzione del nostro Gruppo e valuti diversamente la nostra azione prestandole qualche volta orecchio: noi non ci poniamo episodicamente su questo o quell'argomento, ma perseguiamo quel fine che il nostro Capogruppo Bianchi sempre giustamente evidenzia e cioè di essere forza di governo all'opposizione: un fine che è di stimolo, ma anche di aiuto all'organo di governo. Perché, come era giusto ed opportuno fare, non si è discussa ed approvata per prima la legge di contabilità regionale, antecedente logico al Piano ed ai suoi adempimenti? Forse perché fa meno notizia di altri fatti, come il Piano,che a scadenze cicliche può offrire l'opportunità di un certo richiamo giornalistico? Che non si sia sino ad ora approvata la legge è grave non soltanto perché altre Regioni (ad esempio Lazio, Toscana, Emilia, Marche, Puglia) l'hanno già approvata o l'hanno già in fase di avanzata discussione, ma proprio per il lasso di tempo decorso dalla legge nazionale che è veramente notevole.
La legge che detta i "principi fondamentali e norme di coordinamento in materia di bilancio e di contabilità delle Regioni" è del 19 maggio 1976.
Ad un anno e due mesi dalla promulgazione di questa legge la nostra Giunta non ha ancora presentato la legge regionale. Ed è un ritardo che abbiamo il dovere di rimarcare proprio perché ci troviamo di fronte ad una Giunta che ogni volta che se ne presenta l'occasione, non risparmia critiche per i ritardi del governo centrale.
Ed è una legge questa, e lo diciamo per tempo, di così rilevante importanza che non può essere poi strozzata nei tempi di consultazione studio e discussione in Consiglio per recuperare il tempo perduto dalla Giunta.
Sul piano delle osservazioni potremmo riprendere per criticarlo, per confutarlo oggi e con maggiore vigore il discorso che per troppi mesi e ingiustamente ha cercato di liquidare anni ed anni di significativa storia della programmazione in Piemonte, quello cioè della partenza da zero.
Su questo argomento Alberton aveva dato appunto avvio al suo intervento nella discussione del febbraio scorso affermando: "La partenza da zero secondo noi, è stata voluta. Si è voluto rompere con le esperienze, con i metodi, con il processo di pianificazione piemontese così come si era venuto a consolidare".
La maggioranza ha cercato di superare e di recuperare le avventate posizioni di taluno, proprie dell'epoca del facile trionfalismo, con il meditato intervento dell'Assessore Simonelli a febbraio e con la relazione del Consigliere Rossotto di oggi che da un lato tenta un'abile difesa dell'impostazione e dei ritardi dell'attuale Piano e dall'altro si sforza di fare qualche concessione a precedenti elaborazioni che avrebbero di fatto arricchito gli archivi della I Commissione. Ne prendiamo atto ma è bene che diciamo subito con molta chiarezza che non accediamo neanche a queste posizioni. Non vogliamo addentrarci a discutere il passato ma è opportuno che ogni forza politica rimediti ogni suo atteggiamento durante la prima legislatura e valuti senza alcun velo ogni azione, ogni richiesta ogni responsabilità. Noi D.C. lo facciamo e non da oggi soltanto, ma forse è corretto lo facciano tutti.
E concordiamo senz'altro col relatore Rossotto quando esalta "il ruolo attivo e costruttivo di importanti forze sociali" come ad esempio gli imprenditori.
Certo è cresciuta negli anni la collaborazione di queste rappresentanze nei riguardi dell'Ente Regione, ma va anche detto che è bastato ad alcune forze politiche l'andare in maggioranza per far venir meno le diffidenze e le remore che su questi apporti avevano pesato.
Ma io penso che la più clamorosa smentita all'anno zero venga - e noi abbiamo il dovere di rimarcarlo e di dirlo alla comunità regionale proprio dalla lettura del programma pluriennale di attività e di spesa 1977 1980.
Quando si parla dell'Ires, dell'Esap, della Finanziaria regionale, del Consorzio regionale per il trattamento automatico dell'informazione come strumenti della programmazione, quando si esamina il ruolo dei Comprensori si dichiara esplicitamente che in Piemonte la programmazione parte da lontano, non è consistita solo in carte pregevoli ma ormai ingiallite ed il ruolo esercitato da ogni forza politica è nel tempo e nei fatti e non pu essere né dimenticato né cancellato.
Certo e giustamente per ogni problema si prospettano ipotesi nuove affinamenti, miglioramenti: la società cammina velocemente e proporre da parte di chi governa aggiornamenti è doveroso e legittimo, ma nel rispetto delle posizioni di partenza.
E poiché ho accennato al programma pluriennale di attività e di spesa 1977-1980 desidero ancora fare due osservazioni sullo stesso.
La prima sulla "programmazione di bilancio" e sul "progetto di bilancio". Si cerchi di essere chiari, lineari in materia. Eccessive sofisticazioni ed elaborazioni dottrinali possono appagare qualche studioso. La chiarezza, la funzione di indicazione e di controllo per tutte le opportune considerazioni che ne devono derivare sono quanto richiedono gli Enti locali, la comunità regionale.
La seconda riguarda la riorganizzazione degli uffici: è tempo anche qui di passare dalle affermazioni all'impegno. Ci risulta che la maggioranza vuole ora effettivamente affrontare il discorso delle strutture, vuole risolvere i problemi ancora aperti del personale. E' quanto noi chiediamo da mesi e mesi ed è superfluo ripetere qui la nostra disponibilità a studiare, esaminare, collaborare per risolvere tutti i relativi problemi consapevoli del ruolo e dell'importanza che l'organizzazione degli uffici e la corretta sistemazione del personale hanno nella vita dell'Ente.
Ho già accennato al bilancio pluriennale che non possiamo approvare ed allo schema che probabilmente farà parte degli allegati della deliberazione. E' opportuno allora approfondire il discorso. E ripeto qui quanto ci siamo già detti in Commissione. Penso sia profondamente corretto fare ad alta voce in aula e con ascoltatori quei discorsi che ci facciamo al chiuso nella sede della Commissione.
Il Gruppo D.C. che ha lavorato sui documenti consegnatici qualche settimana fa ha rilevato negli aspetti contabili errori, manchevolezze valutazioni contrastanti (in parte segnalati anche da qualche partecipante alla consultazione).
La Giunta a sua volta ha certamente approfondito questi argomenti arrivando a degli aggiustamenti. Le osservazioni che facciamo pertanto non hanno la pretesa di porsi come considerazioni di chi si ritiene più bravo o come scoperte sensazionali (anche perché la materia è di quelle ove è facile sbagliare specie nel campo previsionale): vogliamo solo contribuire col nostro intervento a far sì che il quadro di assieme risulti il più possibile realistico, si diano dati non avventati e si facciano previsioni non illusorie.
Pensiamo pertanto che i quadri di riepilogo delle entrate di cui a pagg. 27 e 87 (riepilogo generale) dello schema di bilancio debbano coincidere e non contenere una diversità di circa 70 milioni.
Pensiamo che la valutazione della capacità di indebitamento fatta a pag. 13 ed utilizzata per i riepiloghi (a prescindere da successive considerazioni di merito) sia inesatta in quanto non tiene conto anno dopo anno dei mutui già potenzialmente contratti. E pertanto i 42 miliardi 160 milioni del 1979 comprendono già i 9 miliardi 930 milioni del 1978. Gli 86 miliardi 160 milioni del 1980 comprendono già i 42 miliardi 160 milioni cosicché il totale dell'indebitamento possibile risultante da quello specchietto è di 86 miliardi e non 138 (vale a dire in cifra tonda 52 miliardi in meno).
Pensiamo che la sintesi di bilancio contenuta nell'introduzione dell'Assessore (pag. 8 della relazione socio-economica e di indirizzi) debba subire parecchie variazioni a cominciare dall'esatto riparto delle spese per l'area di attività che risultando di 168 miliardi 98 milioni non si capisce perché sia stata scritta per 200 miliardi. Altre voci di spesa vincolata debbono subire invece aumenti, ma fortunatamente l'inesatta duplice considerazione delle annualità su limiti di impegno per leggi vigenti fa abbassare di oltre 250 miliardi le previsioni per le aree di intervento cosicché riteniamo che il netto a disposizione per programmi e progetti in attuazione del Piano dovrebbe essere di poco inferiore ai 500 miliardi. Fin qui ci pare dovrebbe trattarsi di assestamenti che abbiamo indicato per grandi linee e che la Giunta pensiamo farà dandoci una stesura riveduta, corretta ed esatta. Ma a questo punto si inserisce un secondo ordine di ragionamenti. Non i calcoli, ma le valutazioni, le previsioni sono esatte? Si sa qual è la saggia norma che presiede ai bilanci di previsione. Non sovradimensionare le entrate, non sottodimensionare le uscite. Ma fermandoci solo ai grandi numeri osserviamo: Mutui. Il calcolo al 13% per 30 anni (pag. 13, ipotesi difficilmente realizzabile da oggi all'80) ci porta ad una disponibilità di indebitamento di 86 miliardi (così come dovrebbe essere corretto). Ma se passiamo ad un tasso del 15% per 15 anni la disponibilità si riduce a circa 20 miliardi.
Se consideriamo un tasso del 16% per 15 anni la disponibilità dovrebbe aggirarsi solo più sui 10 miliardi.
Fondo comune. Si prevede un incremento del 20% annuo. Molto più realisticamente nella precedente ipotesi di bilancio pluriennale si accennava ad un incremento oscillabile dal 10% (ipotesi minima) al 20 (ipotesi massima). E' sì vero che nel 1977 (per l'entrata in vigore della legge Morlino) vi è stato un incremento del 28,97%; è si vero che le notizie danno quest'anno un considerevole aumento delle imposte dirette (che però solo in parte costituiscono il fondo comune).
Tuttavia pur lasciando da parte l'ipotesi minima del 10% annuo che ci porterebbe ad una minore entrata di oltre 67 miliardi, non è fuori luogo fare un'ipotesi di aumento costante negli anni del 15% o del 20% per il primo anno e del 10% per i due anni successivi. Ci troveremmo nel primo caso con meno 34 miliardi e nel secondo con meno 36 miliardi. In punto spese prendiamo una sola voce.
Spese per il personale regionale: complessivamente in uscita 61 miliardi 812 milioni. Ci si dice che la progressione di tale spesa nel quadriennio è stata ottenuta applicando un incremento del 15% per il primo anno ed un incremento dell'8% per i restanti anni e che a tale progressione ci si è giunti avendo come riferimento la previsione circa l'andamento dei prezzi contenuti nella lettera di intenti inviata dal Ministro Stammati al fondo monetario internazionale per la concessione all'Italia di un prestito di 530 milioni di dollari. Ci sia consentito dubitare di questa interpretazione estensiva della lettera di intenti che vuole legare la progressione del costo del personale regionale alla previsione di aumento dei prezzi (tra l'altro indicato solo fino al 1978) e ritenere invece questa voce di spesa sottovalutata. Abbiamo preso solo grandi voci e non abbiamo neanche la certezza di aver detto delle cose adattissime. Non vogliamo certo esasperare i nostri ragionamenti. Anzi ci auguriamo fermamente che la situazione economica nazionale evolva in senso favorevole sì da fare sentire benefici riflessi anche alle Regioni, ma non possiamo sottacere che il verificarsi anche solo in parte di talune delle circostanze che abbiamo indicato può far ridurre di qui fino all'80 la somma a disposizione per programmi e progetti di una cifra oscillante tra i 50 e 100 miliardi.
Diremo qualcosa sulla parte della relazione Rossotto relativa alle risorse finanziarie regionali, ma vi è ancora un argomento che è opportuno toccare anche se il dato uguale in entrata e in uscita riguarda lo specifico settore e finisce di non alterare nella sua impostazione il bilancio. Trattasi dell'assegnazione del Fondo nazionale ospedaliero.
L'allegato 1 (pagg. 10, 11, 12 dello schema) ci spiega un meccanismo originale di aumento che tradotto in cifre dovrebbe significare entrate negli anni 1977-1980 di 1.698 miliardi 865 milioni. Ma una noticina piccola, piccola a pag. 17, ci avverte che "esiste una seconda ipotesi che fissa in 222 miliardi 430 milioni per ciascuno degli anni di riferimento l'assegnazione proveniente dal riparto del Fondo nazionale per l'assistenza ospedaliera". I 222 miliardi moltiplicati per 4 danno un risultato di 888 miliardi con una differenza rispetto alle precedenti previsioni semplicemente di 809 miliardi. Non abbiamo potuto approfondire l'argomento attingere notizie più precise, ma diciamo che la Giunta non ci può lasciare fra due previsioni così contrastanti. Ci deve dire qualcosa di più preciso.
Da parte nostra ci limitiamo a due osservazioni. Che, salvo errori, la previsione nel bilancio dello Stato per il 1977 del Fondo nazionale ospedaliero è di 3.750 miliardi sui quali si deve calcolare la percentuale di spettanza della Regione e che col fare previsioni su incrementi di detto fondo non ancora stanziati nel bilancio nazionale ci siamo visti rinviare se non sbaglio - proprio all'inizio di quest'anno una legge regionale quella relativa a "Modificazioni del bilancio di previsione per l'anno 1976 per l'assistenza ospedaliera".
Il problema delle risorse finanziarie per affrontare programmi e progetti è certamente un problema centrale. Abbiamo già detto che il Consigliere Rossotto se ne fa carico nella sua relazione. Al di là degli inevitabili "tagli" nei programmi per cercare l'equilibrio contabile occorre evidentemente ricercare nuove possibilità di entrate o se si vuole di ricupero di somme. Il relatore ne indica parecchie, ma anche qui occorre molta chiarezza. Certo si può ragionare sugli interventi della Regione sostitutivi di quelli dello Stato per creare un diverso rapporto finanziario fra Stato e Regioni; certo si può sperare in un incremento delle entrate tributarie ed extratributarie della Regione, sia attraverso un incremento dei fondi ex art. 9 legge 281, sia attraverso una diminuzione dell'evasione fiscale; ma onestamente non si può pensare di risolvere problemi finanziari ed impostare un bilancio pluriennale su voti o speranze.
Occorre innanzitutto guardare in casa nostra e Rossotto lo fa accennando al lavoro già parzialmente iniziato di revisione di leggi pluriennali regionali di spesa ed all'analisi sullo stato degli impegni di competenza e di gestione dei residui. Ma non basta accennare a queste ipotesi: è necessario porvi seriamente mano. Questa revisione su cui da mesi ogni tanto si discorre ed alla quale il collega Rossi si sta dedicando con la nota competenza ed impegno, è opportuno che si faccia veramente e che in tema di residui la Giunta presenti il conto consuntivo 1976. Il pericolo che già nel 1977 molte previsioni restino sulla carta è veramente grande. Se non andiamo errati solo quelle che vengono indicate come "nuove leggi regionali di rifinanziamento" comportano già una spesa di circa 30 miliardi. Sono poi previste parecchie nuove leggi regionali che comportano una spesa aggiuntiva di decine di miliardi. Si pensa effettivamente di farle? Come si pensa di farvi fronte? Se si comincia ad assumere impegni senza avere la ragionevole previsione di adempierli, se si comincia a fare scorrere gli impegni si perde in credibilità. La Giunta pensiamo vorrà essere precisa sull'attendibilità e sulla concretezza.
Concludendo queste considerazioni diciamo che non ci addentriamo in valutazioni di merito e complessive che già ha fatto il collega Alberton e che altri riprenderanno. Il dibattito nel suo complesso farà emergere quanto si è modificato in questa seconda edizione, quanto è stato recepito delle nostre osservazioni, le carenze che ci sono ancora, gli aspetti che non ci soddisfano. Alle motivazioni di insoddisfazione e di perplessità già introdotte o che emergeranno aggiungiamo e ribadiamo quelle che il taglio di questo intervento ha evidenziato. La deliberazione che si voterà al termine di questa discussione è certamente un passo avanti nella strada della programmazione, una dichiarazione di intenti che la maggioranza - e questo lo comprendiamo -, tenuto conto della partenza iniziale, non poteva ulteriormente rinviare; ma non è un vero e proprio Piano. Il forzato rinvio degli strumenti attuativi (variazione di bilancio, bilancio pluriennale) ai quali è affidata l'indicazione e la misura di fattibilità degli intenti stanno proprio ad indicare (al di là ancora delle valutazioni di merito) che ci troviamo di fronte ad un disegno incompiuto.
Noi vogliamo sin d'ora, avevo scritto augurarci, poi avendo sentito Rossotto chiudere la sua relazione con un atto che ha definito di modestia e di speranza, correggerei anch'io, noi vogliamo sin d'ora sperare che nell'autunno, quando si cercherà di dare concretezza alle intenzioni, la Giunta voglia collocarsi con molto realismo e con effettiva disponibilità a recepire le valutazioni e le indicazioni delle forze politiche.
Non è sufficiente scrivere nella relazione che il documento di piano deve diventare il patrimonio di tutti: occorre, perché lo diventi, che tutti, o quanto meno i più, possano riconoscere e condividere quel documento e vedere nella sua effettiva attuazione la vera strada dello sviluppo ordinato della nostra Regione.



PRESIDENTE

La seduta è tolta e riprende alle ore 15.



(La seduta ha termine alle ore 12,45)



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