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Dettaglio seduta n.77 del 02/02/72 - Legislatura n. I - Sedute dal 6 giugno 1970 al 15 giugno 1975

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Argomento:


PRESIDENZA DEL PRESIDENTE VITTORELLI


Argomento:

Congedi


PRESIDENTE

La seduta è aperta. Comunico che, oltre ai Consiglieri dei quali avevo già annunciato l'assenza questa mattina, hanno chiesto congedo l'Assessore Visone per ragioni di ufficio, il Consigliere Beltrami, pure per ragioni di ufficio.


Argomento: Bilancio - Finanze - Credito - Patrimonio: argomenti non sopra specificati - Ristrutturazione industriale

Relazione della Giunta Regionale in merito alla situazione economica regionale, in particolare industriale, all'inizio del 1972. Discussione ed eventuali deliberazioni


PRESIDENTE

Continuiamo l'esame del punto terzo dell'ordine del giorno, sulla "Relazione della Giunta Regionale in merito alla situazione economica regionale, in particolare industriale, all'inizio del 1972. Discussione ed eventuali deliberazioni".
E' iscritto a parlare il Consigliere Gandolfi. Ne ha facoltà.



GANDOLFI Aldo

Signor Presidente, signori Consiglieri, gli interventi di questa mattina hanno già messo a fuoco da diversi punti di vista gli elementi che dobbiamo avere come punti di riferimento nell'analisi della situazione industriale. A nome del Partito repubblicano devo anch'io portare in questa discussione una serie di valutazioni che inducono il mio Partito a dare un peso determinante, nell'analisi della crisi dell'industria piemontese, a cause che nascono dalla politica economica nazionale e che a nostro avviso possono trovare soluzioni solo in un contesto corretto di impostazioni di politica economica nazionale.
Il documento che la Giunta ha sottoposto all'esame e alla discussione nelle varie situazioni provinciali chiede esplicitamente dei pareri sulle componenti strutturali e sulle componenti congiunturali della crisi di fronte alla quale noi ci troviamo, ed una serie di elementi da questo punto di vista sono stati raccolti. C'é una polemica, anche a livello nazionale sugli aspetti strutturali e congiunturali e sul diverso peso che occorre attribuire a questi due elementi nella crisi della quale stiamo discutendo.
Devo dire, anche qui come premessa, che a nostro avviso, se di crisi strutturale si può parlare, si tratta di una crisi strutturale permanente che è un fatto, direi, naturale, fisiologico, in una certa misura, nel momento in cui una economia come la nostra è inserita in mercati mondiali molto ampi, con un'alta incidenza di trasformazioni tecnologiche e quindi con una continua necessità di aggiornamento e di sviluppo della struttura industriale. Cioè, la crisi strutturale è una crisi che un Paese in condizioni fisiologicamente sane deve affrontare in continuazione, come dato permanente di evoluzione della sua economia.
Da noi, è inutile negarlo - e sono giuste, da questo punto di vista alcune osservazioni che ho sentito fare questa mattina dal Consigliere Furia - sono intervenuti elementi, strutturali essi pure, ad aggravare questa crisi strutturale; gli squilibri del nostro Paese e via dicendo. Ma non sono, ci sembra, questi gli elementi determinanti della attuale situazione. Da noi, sulla crisi strutturale si è innestata una crisi congiunturale gravissima, la più grave che abbia attraversato il nostro Paese dal dopoguerra in poi. E' questo il dato che dobbiamo aver presente e che dobbiamo riuscire a valutare in tutte le sue implicazioni.
L'interpretazione ufficiale che è stata data dal Governo sulla crisi congiunturale è riportata nella relazione previsionale programmatica per il '72 presentata, alla fine del mese di settembre, dai Ministri del bilancio e del Tesoro congiuntamente. Questa relazione, nel capitolo dal titolo "I fattori dell'inversione di tendenza ed il ruolo dell'azione pubblica" attribuisce la crisi congiunturale ad una serie di elementi che elenco: i conflitti di lavoro per la contrattazione integrativa, la politica monetaria, la flessione della propensione al risparmio, la caduta dell'autofinanziamento delle imprese, più altri fattori marginali.
Fra tutti questi fattori, un peso decisivo viene dato nella relazione al fattore monetario , cioè nella relazione si dice testualmente che, "date le difficoltà di manovrare tempestivamente lo strumento tributario, le attività monetarie furono indotte ad esercitare, in più d'una occasione nella prima parte del 1970, un'azione di contenimento della base monetaria". Questa è una affermazione certamente molto grave e preoccupante. Anzitutto perché per la prima volta in un documento ufficiale le autorità di governo muovono un'accusa alle autorità monetarie del Paese il che pone ovviamente un problema costituzionale di estremo rilievo, in relazione ai rapporti fra le autorità monetarie e quelle governative.
L'affermazione va peraltro anche analizzata nella sostanza, e da questo punto di vista noi ci sentiamo di sostenere che essa è falsa.
Se analizziamo, infatti, i dati della creazione della base monetaria nel nostro Paese negli anni '68, '69 e '70, rileviamo che tale base è stata ampliata di 1200 miliardi nel '68, di 1245 miliardi nel '69 e di ben 2100 miliardi nel '70. Ciò significa che, contrariamente a quanto dichiarato in questa relazione programmatica per il '72, nel '70 c'é stato un ampliamento della base monetaria del 70 per cento superiore a quello che si era registrato negli anni precedenti, cioè non si è operato un contenimento ma si è consentito un considerevole aumento della base monetaria. Se confrontiamo tale ampliamento con l'altrettanto considerevole aumento di tutti i mezzi di pagamento, siamo indotti a concludere che le autorità monetarie non hanno svolto affatto una politica di riduzione sul piano della creazione della moneta, ma anzi hanno creato nuova moneta in misura notevole, in una misura che avrebbe anche potuto portarci ad una gravissima inflazione.
Acclarata l'infondatezza di quella affermazione, si deve dedurre che la situazione di difficoltà delle aziende non è certamente dovuta alla diminuzione della circolazione monetaria. A che cosa è dovuta, allora? Nel 1970, se c'è stato, come abbiamo visto, un ampliamento della base monetaria, si è avuta anche una fortissima stretta creditizia. Cioè, se analizziamo la composizione della base monetaria aggiuntiva nel triennio '68-'70, rileviamo che: nel 1968 dei 1240 miliardi di base monetaria aggiuntiva, 921 sono affluiti al Tesoro, per i pagamenti della Tesoreria di Stato, 220 sono affluiti, attraverso le banche, come strumenti di credito a lungo e medio termine, alle aziende, 122 sono entrati dai canali derivanti dal commercio con l'estero come partite positive relative al commercio con l'estero per il '69 troviamo elementi analoghi: 475 miliardi sono affluiti alle aziende di credito per i finanziamenti a medio e a lungo termine alle aziende, 1500 miliardi sono affluiti al Tesoro, 648 miliardi sono usciti a finanziare il deficit della bilancia dei pagamenti.
Per il 1970, invece, rileviamo dati completamente diversi ed estremamente preoccupanti: la base monetaria è aumentata di 2200 miliardi e 3000 miliardi sono finiti al Tesoro per i pagamenti della Tesoreria dello Stato, 319 sono affluiti dall'estero, come risultato della bilancia dei pagamenti, 1274 sono stati sottratti alle aziende di credito da parte dell'Istituto centrale, cioè della Banca d'Italia, 1200 miliardi sono stati sottratti alle aziende di credito, cioè alle attività di credito a medio e lungo termine alle aziende, per finanziare che cosa? Evidentemente, quei tremila miliardi che il Tesoro ha richiesto per pagare i debiti che lo Stato doveva fronteggiare.
Da questa analisi della situazione che si è determinata sul piano della politica monetaria noi deduciamo che le aziende di credito, nel 1970, hanno subito una riduzione di 1300 miliardi, che sono affluiti alla Tesoreria di Stato per pagare il deficit della spesa pubblica. Il meccanismo della stretta creditizia, in altre parole, ha operato come effetto della condizione finanziaria del settore pubblico: cioè, il deficit accumulato dallo Stato e dagli enti pubblici negli anni precedenti al 1970 ha obbligato nel '70 il sistema creditizio, nel momento in cui esso avrebbe dovuto poter intervenire sul mercato per fronteggiare la crisi industriale a contrarre il credito alle aziende ed a riversare una mole ingente di capitali sulla Tesoreria dello Stato per finanziare le passività dello Stato e degli enti pubblici. In sostanza, la gestione poco responsabile del settore pubblico ha dissolto i margini per una politica creditizia meno restrittiva e per la politica che sarebbe stato necessario realizzare al fine di far uscire il nostro sistema produttivo da una situazione congiunturale molto difficile.
Questa constatazione ci porta ad analizzare i dati della gestione pubblica nel nostro Paese: sono questi, in effetti, i dati che dobbiamo aver presenti se vogliamo esprimere un giudizio sulla crisi delle aziende così come ci viene consegnata in questi mesi.
Le spese correnti pubbliche sono aumentate, tra il '69 e il '71, dell'8 per cento, passando dal 75 all'83 per cento come composizione del bilancio complessivo dello Stato, come incidenza delle spese correnti sul totale delle spese; le spese per investimenti sono invece diminuite del 5 per cento, dal 19 al 14 per cento, cioè si è ridotta la capacità del sistema pubblico di investire.
Contemporaneamente, le entrate tributarie sono enormemente diminuite come ha dichiarato anche il Ministro Preti, in questi anni, e la differenza fra le previsioni e le entrate effettive del gettito tributario - un dato che noi dobbiamo avere ben di fronte - ammonta, se non vado errato, a 700 800 miliardi solo per l'ultimo esercizio; al tempo stesso, le differenze fra il bilancio di competenza ed il bilancio effettivo di cassa sono diventate, per tutte queste ragioni, enormi, cioè lo sbilancio del Tesoro verso la Banca d'Italia - citavo prima i dati - è aumentato paurosamente da 140 miliardi nel '69 a 991 miliardi nel '70 a 1681 miliardi nel '71.
I prestiti accesi dallo Stato per queste ragioni sono praticamente triplicati, secondo una dichiarazione dei Ministri competenti pubblicata ieri da "La Stampa": da 446 miliardi nel '70 a 1698 miliardi nel '71.
Cosa ci dicono tutti questi dati? Che la gestione del settore pubblico ha impedito al Governo di intervenire in una situazione congiunturale difficile per il settore produttivo in maniera da poter alleggerire le difficoltà delle imprese, e anzi le ha aggravate enormemente con questa situazione della spesa pubblica. Questo è il primo elemento, mi sembra, che noi dobbiamo avere ben chiaro se vogliamo parlare di questo ordine di problemi: vi è stretta interdipendenza fra la situazione della spesa pubblica e le possibilità di intervento nel campo del settore produttivo per cui se noi vogliamo ridare possibilità di investimento e di credito al settore produttivo non possiamo non intervenire in maniera adeguata concreta ed efficiente sul settore pubblico.
Fatta questa premessa, che riteniamo di fondamentale importanza, ci possiamo addentrare ad esaminare le responsabilità e la impossibilità obiettiva che ha avuto il settore pubblico di intervenire in questa situazione per alleggerirla e modificarla. Possiamo anche cominciare a riflettere un po' più a fondo sulle cause prime della crisi produttiva, che non vanno quindi ricercate in una politica sbagliata delle autorità monetarie nel 1970 ma prima, a nostro avviso, soprattutto nel 1969. Sono gli avvenimenti di politica sindacale del 1969 che hanno messo in moto un meccanismo così complesso: non ne hanno certamente tutta la responsabilità ma hanno di sicuro la responsabilità di averlo messo in moto, in una situazione che ha fatto obiettivamente ritrovare nel 1970 tutto il Paese con una situazione difficile da governare, impossibile, direi quasi, da sbloccare attraverso gli strumenti pubblici.
A che cosa ha portato la spinta sindacale del 1969? All'aumento del costo del lavoro in misura notevolmente superiore all'aumento dei margini di produttività che le aziende riuscivano a creare. Si sono superati, cioè nel 1969, certi limiti al di là dei quali risulta compromesso l'equilibrio delle imprese. Nel '70 e nel 71, poi, il sistema produttivo ha subito gli effetti di questa politica sindacale del '69, Oggi si tende a porre l'accento su certi fattori, come il disordine delle aziende, la disaffezione degli imprenditori, l'assenteismo degli operai. Sono certamente tutti questi fattori che possono avere inciso in qualche misura ma è un tipo di argomentazione, questo, che in realtà tende a spostare l'accento dalle responsabilità che hanno avuto in questo il Governo da una parte e le centrali sindacali dall'altra a responsabilità di frange estremiste degli operai e degli imprenditori Tutto ciò, a nostro avviso, è falso: le responsabilità primarie, a noi sembra, vanno ricercate nell'azione prima del Governo e nell'azione di una politica sindacale che ha superato i limiti che era prudente non superare come richieste di carattere sindacale. Si è creato, fra il 1969 e il 1970, un meccanismo di compressione dei redditi dell'impresa non dico sbagliato come tendenza, ma certamente esagerato: di qui sono derivate conseguenze molto importanti come l'espulsione dal mercato delle aziende più deboli, la riduzione degli investimenti, la riduzione della domanda indotta dagli investimenti industriali, tutti fattori che hanno messo in moto un meccanismo particolarmente veloce ed autoalimentatesi di crisi.
E' vero che molti appunti fatti alle politiche imprenditoriali degli anni precedenti, agli imprenditori incapaci e così via, sono giustissimi ma sono dati statisticamente connaturati ad una crescita industriale. E' abbastanza ovvio, in un processo di allargamento del fenomeno della imprenditorialità, che si presentino casi di avventurieri che cercano di inserirsi nel meccanismo, di imprenditori poco capaci, che portano le aziende in situazioni obiettivamente difficili. Ma tutti questi sono dati che vanno tenuti in conto comunque nel portare avanti sia un'azione sindacale che un' azione di Governo. Perché quello che è certo è che dalla espulsione delle aziende più deboli dal mercato non può venire altro che disoccupazione. Nel condurre un'azione sindacale bisogna anche avere la capacità di valutare fino a che punto si può portare un' azione rivendicativa senza far uscire dal mercato una frangia abbastanza consistente di aziende.
Se noi analizziamo statisticamente i dati (pubblicati dalla Mediobanca nell'ottobre '71) di esercizio di 520 imprese, medie o grandi, di medie o grandi dimensioni, vediamo che queste imprese, dopo aver avuto nel '65 utili per 78 miliardi di lire ed essere arrivate a 122 miliardi di utili ne] '68, hanno avuto nel '70 una perdita di esercizio di 262 miliardi. Se da queste 520 imprese noi togliamo le aziende che appunto hanno avuto passivi di esercizio e facciamo i ragionamenti sulle 219 imprese che invece hanno avuto degli utili, vediamo che queste ultime hanno raggiunto 230 miliardi di utili nel '68 e solo 16 miliardi di utili nel '70. Sono fatti che noi non possiamo ignorare, e che non possiamo attribuire tutti e completamente all'inettitudine ed all' incapacità dei dirigenti delle aziende.
Possiamo poi analizzare i dati relativi all'aumento del fatturato. Fra il '69 e il '70 c'é stato complessivamente un aumento del fatturato del 15 per cento, contro un aumento del costo del lavoro oscillante fra il 25 e il 30 per cento, e un aumento degli oneri finanziari del 22 per cento.
Ho i dati di autofinanziamento delle aziende: nel '65, su 100 miliardi di investimento, le aziende ne prelevavano 61, quindi il 61 per cento dai propri bilanci sotto forma di autofinanziamento; nel '70 l'autofinanziamento si è ridotto al 51 per cento, per il '71 non possediamo ancora i dati ma probabilmente l'autofinanziamento non supererà il 40 per cento, cioè le esigenze di finanziamento con ricorso al mercato dei capitali sono aumentate di più del 50 per cento in due anni per effetto della situazione degli utili.
Tenendo presenti questi dati, non possiamo non rilevare, e quindi non denunciare, che la crisi dell'occupazione è incominciata nel 1970 per due fattori concomitanti: lo sforzo di razionalizzazione che le imprese sono state indotte ad avviare per recuperare i margini di redditività venuti a mancare, la cessazione di imprese poste fuori dal mercato, con effetti di diminuzione di domanda, di minor propensione al consumo, e quindi di accentuazione e di esaltazione del meccanismo di crisi.
In sostanza, per sintetizzare questo tipo di ragionamenti, noi dobbiamo avere ben chiaro che le rivendicazioni del '69-'70, per responsabilità congiunta di Governo e sindacati, cioè proprio per la scarsa chiarezza del quadro complessivo in cui queste si ponevano e di indicazioni di politica economica nazionale che sono state eccessive, non dico sbagliate, cioè hanno superato i limiti di produttività che il sistema poteva garantire. La conseguenza non poteva essere che una forte inflazione, che avrebbe vanificato gli aumenti salariali, o la crisi congiunturale, che in effetti noi ci troviamo oggi ad affrontare. Il Governo ha scelto di fatto, forse consapevolmente, la crisi congiunturale, nel tentativo di evitare l'inflazione. La crisi congiunturale c'è stata, ed è gravissima; è gravissima, ripeto - e qui torno al mio ragionamento iniziale, - per lo stato concomitante della finanza pubblica e la incapacità di gestire il settore pubblico; e la crisi della finanza pubblica, che ci è stata consegnata dagli anni Sessanta, rende oggi obiettivamente difficile, se non impossibile, agli organi pubblici intervenire in maniera adeguata.
Che cosa dobbiamo fare adesso, in particolare per il Piemonte ma direi in generale per tutta la struttura industriale del nostro Paese? La crisi fino ad oggi è stata contenuta perché le aziende pubbliche non hanno licenziato, perché l'Iri è intervenuta, ed interviene tuttora, attraverso le sue varie ramificazioni, a tentare, dov'è possibile, il salvataggio delle aziende pericolanti. Ma sarà possibile cercare di rinviare al futuro gli effetti della crisi del '69-'70, come di fatto si sta facendo, con assegnamento sull'azione delle aziende a partecipazione pubblica? Analizziamo la situazione delle aziende pubbliche. La Finsider denuncia, per il 1971, un deficit di 70 miliardi; la Finmeccanica e le aziende che fanno capo all'Iri annunciano un deficit di entità non ancora nota ma che sembra molto consistente; la Sip, la Stet, la Rai-TV chiedono aumenti di tariffe, il che mette in evidenza dati di gestione insopportabili (vi abbiamo accennato parlando della Rai-TV ); l'Alitalia dichiara un passivo di quasi 2 miliardi per il 1971. L'Iri e l'Eni hanno avuto recentemente aumenti dei fondi di dotazione. Ma considerando questi dati, c'è da ritenere che gli aumenti dei fondi di dotazione non vadano per nuovi investimenti ma siano stati invece richiesti per colmare situazioni finanziarie fortemente deficitarie, dati di gestione ormai insopportabili.
Su questo sarà importante che il Parlamento eserciti un minimo di controllo. E' pensabile che in questa situazione le aziende pubbliche possano sostenere ancora, come hanno sostenuto nel '71, la congiuntura? A nostro avviso non è più pensabile: la situazione nel '72, quindi, si aggraverà ulteriormente, perché le aziende pubbliche dovranno denunciare per intero la situazione fallimentare della loro gestione, e non potranno intervenire, come mi sembra vadano chiedendo in continuazione molte parti politiche e le centrali sindacali, a sostenere la situazione deficitaria o la situazione di crisi strutturale di altri settori. Quindi, la crisi reale noi ci troveremo a doverla affrontare nei prossimi mesi.
A questo punto che cosa è possibile fare? Si presentano due possibilità: quella di un tentativo di ripresa a breve periodo e quella del rafforzamento della struttura industriale a lungo periodo.
La ripresa industriale non può passare altro che attraverso un tentativo di migliorare le possibilità di accesso al credito delle aziende che ne avranno sempre più necessità (perché il credito, evidentemente, si è ridotto per le aziende, ma non si è annullato), ma in una situazione in cui tenderebbe a diventare obiettivamente più difficile, con la normativa esistente, per le banche intervenire in operazioni di credito ad aziende deficitarie. Da questo punto di vista l'iniziativa che ha proposto la Giunta forse è il solo tipo di iniziativa che si possa tentare: garantire il rischio per gli istituti bancari a favore delle aziende che hanno necessità di superare situazioni congiunturali difficili.
Il rafforzamento della struttura industriale, invece, non può che passare attraverso una iniziativa economica coordinata, programmata, che elimini gli errori del passato e che tenti di rimediare in prospettiva alla situazione oggi esistente; e deve essere basato sulla consapevolezza di alcuni elementi fondamentali: prima di tutto, che, dato l'aumento dei costi di lavoro, in termini reali, il capitale necessario a creare nuovi posti di lavoro diventa più alto di quanto fosse tre o quattro anni fa, e, quindi il problema dell'accumulazione del capitale nei prossimi anni nel nostro Paese diventerà ancor più importante di quanto sia stato negli anni Cinquanta e Sessanta; aumentando, cioè, la necessita di capitale per posto di lavoro, deve aumentare la capacità di accumulazione del capitale di sistema, accumulazione del capitale di sistema che si realizza, in una società come la nostra, attraverso il sistema produttivo.
Altro problema è l'accumulazione del capitale, altro problema è la destinazione dei capitali. Certamente, su questo secondo stadio deve intervenire la mano pubblica, il potere pubblico, per indirizzare gli investimenti nelle direzioni volute dalla collettività. Su questo siamo perfettamente d'accordo. Una volta garantita alle aziende la possibilità di accumulazione del capitale, è su questo secondo problema - la politica della destinazione degli investimenti - che mi sembra le forze di sinistra dovrebbero prestare grande attenzione. Si tratta, cioè, di garantire condizioni di redditività alle imprese, da un lato, e di mettere a disposizione dei poteri pubblici strumenti idonei, dall'altro, per obbligare il sistema produttivo nel suo complesso ad indirizzare il capitale, attraverso la selezione e la localizzazione degli investimenti verso le aree, le zone, i settori industriali che più ne abbisognano.
Tutto questo, però, è destinato a non sortire risultati positivi senza una contemporanea azione di risanamento della finanza pubblica. Oggi non si può più parlare di aumento della spesa pubblica, di aumento degli investimenti, soluzione tradizionale nel momento di crisi: perché oggi mancano i fondi alla finanza pubblica, manca la possibilità, a meno di non provocare una gravissima inflazione, con prospettive tragiche per il nostro Paese, di fare interventi di questo tipo. Oggi, i residui passivi, dei quali si dice che dovrebbe essere accelerata l'utilizzazione, sono residui che rimangono , e mi sembra di averlo dimostrato prima, nel bilancio dello Stato, perché lo Stato e andato esaurendo le sue capacità di investimento proprio perché le entrate sono diminuite e tutte le spese che lo Stato è riuscito a fare sono state spese correnti, non spese in conto capitale. E direi che lo sforzo di ampliamento della base monetaria del nostro Paese che hanno fatto le autorità monetarie è stato quasi completamente assorbito dalla situazione debitoria degli enti pubblici, situazione debitoria determinata dall'aumento spropositato delle spese correnti.
Se questa, signori Consiglieri, è l'analisi che la mia parte politica ha ritenuto di dover fare su questo tipo di situazione complessiva del Paese, del mondo produttivo, quali sono le proposte? Sono quelle che di fatto ho già elencato esplicitamente: una politica dei redditi, su tutto l'arco del Paese, che permetta un aumento delle entrate fiscali, da un lato, intervenendo sulle categorie che più sono in grado di dare in un momento come questo, e dall'altro una politica di aumenti salariali che non superi mai più, per il futuro, i livelli degli aumenti di redditività e di efficienza del sistema produttivo; una politica degli investimenti che finalmente riesca ad indirizzare gli investimenti secondo gli obiettivi della politica economica nazionale; e un contenimento estremamente deciso delle spese correnti nel settore pubblico. E' possibile, riqualificando la spesa pubblica, tentare di ricreare condizioni di investimento da parte della finanza pubblica nel nostro Paese; ma queste condizioni oggi non esistono, e si può ricrearle in un esercizio o due solo attraverso un'azione estremamente rigorosa di correttezza amministrativa e di attenzione ai problemi generali del Paese.
Questi, ci sembra, sono i problemi che noi dobbiamo avere presenti in questa situazione di carattere generale, sono gli elementi predominanti che incidono nella situazione anche nostra, piemontese. Sarebbe illusorio, e mi sembra anche demagogico, pensare che si possano fare interventi risolutivi al di fuori di essi, e di queste problematiche di carattere nazionale. C'è e giustamente mi sembra sia stato detto questa mattina, un' esigenza di far sentire il peso e la volontà della Regione, il peso delle indicazioni che la Regione può esprimere verso chi detiene le leve del potere, il Governo nel campo delle politiche fiscali, creditizie, di investimento, di programmazione economica in senso lato nel nostro Paese. Possiamo certamente entrare nel merito anche di singoli problemi regionali enunciarli, studiarli e vedere in che modo si possono collocare in una prospettiva di carattere più ampio; ma non c'e dubbio che è la prospettiva di carattere nazionale quella cui dobbiamo essere estremamente attenti e quella su cui dobbiamo portare questo tipo di indicazioni. Quindi, al di là degli elementi conoscitivi che abbiamo raccolto e degli altri che potremo raccogliere nei prossimi mesi, a giudizio della mia parte politica c'è un'esigenza prioritaria, oggi, nel nostro Paese: quella di riprendere, su questi indirizzi, e con queste indicazioni, una politica di programmazione economica finalmente seria, concreta, fattiva, che faccia uscire il Paese dalle attuali condizioni di crisi produttiva. Al di fuori di questo contesto, di queste possibilità di soluzione di carattere nazionale, non ci possono essere che problemi di alleggerimento o di soluzione di casi marginali, non certamente possibilità di ripresa anche per il settore produttivo piemontese.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Rossotto. Ne ha facoltà.



ROSSOTTO Carlo Felice

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, il dibattito che si è aperto oggi sulla relazione che la Giunta ha presentato in ordine all'indagine conoscitiva eseguita presso le singole Province, indagine conoscitiva sollecitata al termine di un precedente dibattito, quando nel settembre dello scorso anno si volle esaminare la situazione economica della Regione Piemonte a seguito delle conseguenze del provvedimento preso dalle autorità americane il 15 agosto '71, ha portato ad evidenziare negli esatti termini una situazione che tutti noi, come operatori politici, conosciamo e constatiamo: una situazione di stagnazione e di recessione, una situazione che sta deteriorandosi giorno per giorno, e che, tutti ne siamo convinti, i prossimi mesi vedranno ulteriormente aggravarsi.
Questa mattina il collega Furia ha passato in rassegna rapidamente i settori in crisi, seguendo la classificazione in primario, secondario e terziario, dell'attività economica, ed è arrivato alla conclusione che tutti questi settori sono in crisi: dall'agricoltura all'industria, nei suoi specifici settori della edilizia, tessile (oggi incomincia a vacillare anche quella chimica, mentre pare che la metalmeccanica tiri ancora, ma non si sa per quanto ancora), al settore terziario, che logicamente subisce le conseguenze della crisi dei due primi settori.
E' una indagine che non ha svelato nulla di nuovo, una indagine che si poteva benissimo evitare. Sapevamo tutti quanti, da tempo, che ad un certo momento ci saremmo trovati ad una stretta finale, a dover decidere che cosa fare per limitare le conseguenze dannose, in questo senso, e con questo significato, nel luglio dello scorso anno il mio Gruppo ha dato pieno appoggio a questa Giunta, proprio perché, dopo anni e anni di ammonizioni di predizioni, di avvertimenti, ci si è resi conto che nelle forze democratiche ci si cominciava a convincere che non si poteva proseguire in una certa linea. Di fronte al dramma di seicento lavoratori della Leumann che hanno il posto di lavoro definitivamente compromesso, di altri lavoratori di altre aziende che si trovano nelle stesse loro condizioni, e di tanti e tanti altri che ancora non sospettano - ma noi lo sappiamo con sicurezza che dovranno fra non molto affrontare situazioni altrettanto dolorose, abbiamo il dovere di esprimere con tutta sincerità i nostri più riposti pensieri e di cercare un minimo comune denominatore.
Il collega Furia ha detto questa mattina che una delle condizioni essenziali per poter uscire da una così drammatica contingenza consiste nel ridare fiducia alla classe operaia, alle masse lavoratrici ed al ceto medio. Un discorso di fiducia è veramente da fare. Però, se vogliamo considerare la società in cui stiamo operando una società inserita in un sistema di libero mercato, una società pluralistica, in cui alle forze del lavoro, nella componente produttiva, si affiancano il capitale, i datori di lavoro, bisogna anche considerare il rovescio della medaglia, pensare alla condizione psicologica, materiale ed economica in cui si trova ad agire oggi l'operatore economico. Parlo prevalentemente dell'operatore privato ma in condizioni pressoché identiche si trova l'operatore pubblico, e ne abbiamo avuto la riprova nel corso del dibattito sulla Montedison, nella cui conduzione e prevalente la partecipazione statale. Il Presidente della Confindustria, in una intervista alla stampa, ha detto che l'operatore varca la soglia dell'officina domandandosi con angoscia ogni giorno che cosa gli accadrà, logorato dal dover produrre senza poter programmare e dal misconoscimento della sua attività, che è una delle più difficili ed in un certo senso più ingrate, impegnando tutte le sue facoltà ed attitudini implicando un rischio personale come nessun altro mestiere, ed è anche fisicamente tra le più faticose. Da questa psicosi, che deriva da mancanza di fiducia negli altri partners di questo discorso economico, che è composto non soltanto da lavoratori ma anche da coloro che con essi collaborano a determinare un certo risultato, si può dedurre che l'imprenditore oggi ha l'impressione di essere un tollerato, un parassita uno sfruttatore, avversario del progresso civile. Inoltre, vi è la pretesa che le imprese contraddicano alla logica del profitto, per poter essere sociali.
Se noi consideriamo questo stato di fatto psicologico e di carenza di fiducia, e insieme lo commisuriamo alla carenza, alla mancanza di fiducia che oggi nella classe lavoratrice si sta determinando e verso i poteri pubblici e verso le stesse loro naturali organizzazioni, tanto che il discorso per le stesse organizzazioni, a quanto risulta, molte volte è reso difficile proprio nella responsabilizzazione su certi problemi, c'é da chiedersi come si possa lasciar cadere l'imprenditore ad un tale livello di sfiducia quando in qualsiasi indagine nei confronti dei Paesi sottosviluppati si riscontra che uno dei motivi essenziali del loro mancato decollo economico è, più che la mancanza di mezzi economici, la mancanza di una preparazione imprenditoriale. Negli stessi regimi collettivistici si cerca di ricreare artificialmente la figura dell'imprenditore: è questo il caso della Polonia, della Jugoslavia, è questo il fenomeno che Ota Sik denunciò nelle sue conferenze televisive durante la breve "primavera praghese", quando dichiarò che le condizioni di arretratezza economiche e sociali che la Cecoslovacchia conosceva derivavano proprio dall'essere morto lo spirito imprenditoriale nella collettività nazionale.
Quando un' azienda è in crisi, perché una congiuntura negativa ha determinato la bancarotta della nostra società, si sente dire a questi imprenditori, a questi lavoratori che sono i primi ad essere colpiti dalla situazione economica sfavorevole: il padrone tiri fuori quello che ha guadagnato prima. Ma vogliamo una buona volta parlare di problemi in chiave moderna, aderente alla realtà, non ripetendo pedissequamente certi luoghi comuni che hanno appartenuto al bagaglio di un vecchio passato di lotte sociali, di profondo valore umano, ma non più adatti alla situazione attuale? Possibile che qualcuno pensi ancora all'imprenditore come al "padrone dalle braghe bianche" di certe canzoni del nostro folclore popolare, e non comprenda che nei tempi nostri al processo produttivo dà il suo apporto una miriade di partecipanti? Se si sta parlando di capitale di rischio, che è necessario, le società danno i dividendi per poter di nuovo dare a questa economia i mezzi necessari per nuovi investimenti produttivi bisogna chiedersi che cosa si è operato in questo settore. Noteremo che da vari anni a questa parte - e ciò è stato ripetutamente denunciato dal mio partito, mai ascoltato su questi temi negli anni passati - il capitale di rischio non ha più voluto concorrere alla determinazione dello sviluppo economico, proprio perché umiliato da un certo tipo di politica: così abbiamo visto crollare i livelli azionari, abbiamo notato una certa tendenza ad astenersi dal rischio, a causa di certe politiche che offendevano indiscriminatamente il grosso capitale ed il piccolo risparmiatore.
E' aumentato di contro il risparmio a reddito fisso, e su questo risparmio a reddito fisso le aziende private hanno trovato difficoltà ad alimentarsi, in quanto la mano pubblica era sollecita ad appropriarsi di tali fonti. Non sono, le mie, considerazioni gratuite: a confortarle sono le dichiarazioni di Guido Carli, un uomo che ha una non piccola parte di responsabilità nell'andamento del sistema bancario e creditizio italiano.
Egli dice che se vogliamo riparlare di investimenti produttivi, se vogliamo riaccendere una certa dinamica in un certo tipo di sistema, dobbiamo stabilire un equilibrio fra impegno pubblico e impegno privato, perch oggi, sono sue parole, "l'equilibrio fra i due settori è rotto, ed è rotto prima di tutto nel sistema legislativo". Da parecchio tempo la nostra legislazione mostra di preferire l'impresa pubblica a quella privata: a quest'ultima si tagliano le salmerie, cosicché l'un settore si espande l'altro si contrae. Questo è un altro dei motivi che hanno determinato le note conseguenze. Quindi, il dire: il padrone ritiri fuori quello che ha guadagnato, è fare un discorso che può in un certo momento riaccendere lotte di classe, ma che nulla di concreto può portare alla soluzione reale del problema.
Né mi pare che si possa far risalire tutto il male - nell'indagare sulle responsabilità di questa situazione - ad un certo momento della nostra storia recente, che si chiama "autunno caldo". Se non vado errato mai vi fu un periodo di bassa tensione di conflitti salariali e di adeguamenti salariali come quello fra il 1962 e il 1969. E mi pare che una delle grosse responsabilità che oltre che sui Governi di centro sinistra pesano su una parte determinante del nostro sistema, che oggi si sta ergendo ad arbitro e giudice di fronte a questi eventi calamitosi, sia proprio l'aver continuato a procedere, nonostante le previsioni fallimentari nostre per un certo tipo di politica che si era instaurata nel 1962-1963, con la presunzione che tutto girasse perfettamente e che chi diceva che le cose ad un certo punto, con questo andazzo, sarebbero volte al peggio non fosse altro che un facile profeta di sventure che mai si sarebbero avverate.
Nel '69 c'è stato un recupero di precedenti mancanze di adeguamenti. Il mondo libero, competitivo europeo al fianco nostro aveva visto lentamente i salari adeguarsi al ritmo di produttività, mentre da noi tutto era rimasto fermo. Non è stato l'autunno caldo, in effetti, a provocare l'attuale stretta. Tutti gli imprenditori con i quali abbiamo avuto occasione di parlare ci hanno detto che gli oneri che i contratti stipulati nell'autunno caldo massicciamente hanno fatto pesare sull'economia nazionale e sulle singole imprese avrebbero consentito di mantenere ancora una buona competitività alle nostre imprese se il ritmo di produzione avesse mantenuto un certo livello. La crisi è venuta, dunque, non in funzione dell'autunno caldo ma piuttosto di quello che ad esso è seguito, con la politica di conflittualità permanente, con l'errata applicazione di provvedimenti che hanno consentito forme di assenteismo. Perché è logico che non si può improvvisamente, senza adottare determinate forme di garanzia, concedere il massimo di liberta, se non a rischio di pagarne immediatamente le conseguenze, attraverso quel sistema di ricatto continuo cui l'economia pubblica, cui l'azione dei Governi, blandenti l'azione sindacale da una parte e ritraentisi ad un certo momento, determinando l'espansione della spesa pubblica, dalla mattina alla sera, facendo sì che i residui passivi salissero a cifre astronomiche (ed è una fortuna, se si pone mente alla relazione del Mec, che non siano state spese tali cifre altrimenti il sistema occidentale, per nostra colpa, sarebbe risultato completamente scardinato; è una fortuna, si osserva ancora nella relazione economica del Mec, che in Italia agli squilibri di bilancio annuale faccia riscontro questo strano istituto del residuo passivo, che impedisce di immettere in circolazione danaro fresco. Vi fu un solo uomo, responsabile di un Governo - mi pare nel luglio del '70 - che, di fronte ad uno sciopero generale, oso dire che così non si poteva andare avanti: fu accusato di avere i nervi fragili, e si andò avanti. Il risultato è quello che costatiamo oggi.
Occorre a questo punto chiedersi con chiarezza se crediamo in questo sistema economico che si chiama sistema libero, per cui le varie componenti in una società pluralistica possono portare avanti certe istanze sapendo che esiste gradualità; oppure se questo sistema come vogliono, è chiaro determinate forze deve essere completamente scardinato, perché si intende stabilire delle forme di emarginazione non soltanto dell'imprenditore privato ma dell'imprenditore pubblico che operi in competitività con l'imprenditore privato, perché si vuole un operatore pubblico che ubbidisca soltanto alle grosse esigenze sociali che si chiamano le grandi riforme quando si sa che queste sono destinate a rimanere sulla carta perché non vi sono i mezzi per affrontarle a meno che non ricorra alla stampa di danaro che vorrebbe dire inflazione, con creazione di problemi dei costi, di problemi di quella spirale prezzi-salari che il nostro Paese per fortuna conobbe soltanto dal '46 al '48, e che fu spezzata dalla chiara visione politica che ebbero i governanti nostri di allora, e che fu il presupposto per quel rilancio economico che avrà arricchito di più l'imprenditore ma che un certo benessere, un certo decollo sociale ha pur dato a tutti, nel nostro Paese.
Questo mio discorso non può essere considerato il discorso di una vecchia destra liberale. Le stesse considerazioni le fa anche il Ministro Giolitti, che nessuno credo vorrà accusare di essere uomo di destra. Egli ha detto, rivolto ai sindacati, il 9 agosto, che questi si devono assumere la responsabilità di procedere nelle richieste con gradualità sincronizzata con le ipotesi di sviluppo nella produzione degli investimenti e del reddito. E' dunque veramente il momento di esaminare le questioni con serenità, di vedere quali sono le possibilità concrete che ci restano assai poche - per ricreare un clima di fiducia non soltanto nella classe operaia, nella classe lavoratrice, nel ceto medio, ma nell'imprenditore perché si determini una piattaforma sulla base della quale poter procedere.
Il potere pubblico, il potere politico, per parte sua, deve saper fare le sue scelte in funzione dei mezzi e delle possibilità che questo processo produttivo può comportare, deve saper influire, incidere su quel profitto che è necessario si determini mentre ora non si sta più determinando, per una complessa serie di motivi; perché le strutture sono inadeguate (lo Stato è vecchio e nulla si è fatto, all'infuori di bei discorsi, per riformarlo); perché la spesa pubblica ha raggiunto cifre enormi; perché si sono toccati infiniti settori senza ottenere alcun risultato positivo (la scuola obbligatoria fino ai tredici anni, una grossa conquista della quale si cominciò a parlare già dal 1881, al tempo della legge Coppino, ma la cui attuazione fu allora rinviata in attesa che i mezzi finanziari permettessero di avviarla, venuto il momento di poterla realizzare, è stata attuata nella maniera più negativa e deteriore, che ha fatto saltare tutto il sistema scolastico, perché dalla terza media, al termine di questa scuola dell'obbligo, i giovani si sono trovati sbalzati in un insieme ancora incardinato su un precedente sistema scolastico e dalla irritazione che ne è loro derivata sono stati indotti alla contestazione; la riforma della casa, tanto sbandierata quando si sapeva con certezza che mancavano i mezzi finanziari per poterla realizzare, per cui sono stati possibili solo modesti parziali interventi; la riforma sanitaria, che non sarà, se non un ulteriore giro di parole, sempre perché in realtà mancano i mezzi).
La fiducia la si potrà ricreare soltanto se ci si deciderà a dire chiaramente in quale sistema economico si vuol collocare questo nostro Paese e come la Regione Piemonte vuol contribuire a questa collocazione. Si vuole optare per un diverso sistema? Allora è comprensibile tutta questa lotta di classe, questo lento aggredire il sistema nelle sue componenti sfiduciando il tutto e lasciando poi che questa barca alla deriva sia facile preda di un arrembaggio di forze di destra o di sinistra, le quali daranno, all'equipaggio, alla ciurma ordini precisi; o si vuol promuovere una ripresa economica reale, secondo l'impegno che come democratici abbiamo ad un certo momento assunto di fronte all'elettorato, alle nostre coscienze, secondo l'impegno che ci è imposto dalle nostre naturali tendenze di uomini pubblici? E' inutile parlare di mancanze imprenditoriali, di incapacità della classe imprenditoriale ad utilizzare gli strumenti che le sono stati concessi: si sono fatti decreti, decretoni, decretissimi, si sono dette infinite parole, si è parlato di sintomi di ripresa, ma la realtà è che questa non c'era. Perché, mentre noi parlavamo di tasso agevolato, il tasso normale, naturale, quello su cui si commisura la possibilità vera e reale di investimenti produttivi, stava galoppando a livelli che non consentivano più margini adeguati di redditività. E allora, con onestà, in questa regione ad un certo momento, prevedendo la bufera che stava per abbattersi sul nostro tessuto nazionale, si è cominciato a cercar di imbrigliare certe velature e a compiere certe manovre politiche necessarie, non di reazione padronale.
Si sente dire che la difesa del livello occupazionale è una legittima difesa di fronte ad una speculazione padronale: è un vacuo gioco di parole demagogico, perché non è credibile che esista veramente la volontà di determinare una situazione così grave, così drammatica; soltanto per il gusto di poter mutare rotta. Quando le cose andavano appena discretamente bene, la classe padronale ha sempre accettato di inserirsi in qualsiasi contesto di discorso. La verità è una sola: oggi stanno riducendosi i posti di lavoro per un complesso di inadempienze di una classe politica che ha ritenuto di poter fare un discorso a mezzo invece di scegliere decisamente come ad ogni politico compete, fra un sistema economico democratico libero e un sistema collettivistico.
Questa mattina abbiamo sentito esporre le condizioni che il Partito comunista ritiene essenziali per un rilancio dell'economia. Una volta ancora si tratta di parole. A parte il richiamo alla fiducia, non so quale significato abbiano frasi come "far proprie le istanze delle masse lavoratrici", non so cosa si intenda dire con l'espressione "bisogna determinare quale atteggiamento dobbiamo tenere di fronte alla difesa del livello occupazionale". Siamo d'accordo nel senso di fare il possibile anche se l'intervento pubblico sarà a totale carico della collettività diseconomico, per mantenere i posti di lavoro. Ma al di là di questo signori, c'é un discorso di soluzione positiva che rimanga nell'ambito di questo sistema? "Bisogna incrementare i consumi del mercato interno", si dice ancora. E' un vecchio discorso, che è già stato fatto in Italia in un certo periodo, ed ha portato a misure autarchiche e di rallentamento del nostro processo produttivo. Vogliamo forse alzare di nuovo le barriere doganali per proteggere un'occupazione interna, mentre sia le masse lavoratrici sia i lavoratori del mondo imprenditoriale avevano dimostrato di essere perfettamente in grado di reggere la concorrenza ed i ritmi delle economie più evolute?



FURIA Giovanni

Io ho parlato di sviluppo del mercato interno, non di restringere il mercato estero....



ROSSOTTO Carlo Felice

Il mercato interno lo si sviluppa se si riesce ad attuare una sana chiara e precisa politica di redditi, che presuppone fondamentalmente una programmazione chiara e precisa.
Veniamo ai problemi della nostra Regione. Si lamenta una tendenza monocolturale, per il predominio nella economia piemontese di un colosso industriale. Ma che cosa è stato fatto perché questo colosso industriale non fosse una causa determinante di un certo processo economico? A questa monoindustria, l'unica ancora trainante, l'unica nei confronti della quale si possa ancora svolgere un certo discorso di condizionamenti da parte della classe lavoratrice (e il giorno in cui essa non riuscisse più a mantenere un certo suo livello il discorso sarebbe veramente di totale bancarotta) si contrappone l'alternativa del settore tessile, quando da anni sentiamo ripetere da tutte le forze che l'industria tessile e sull'orlo della crisi. E' logico che i sindacati rimangano decisamente attaccati alla ricerca di possibilità in quel settore. Essi propongono due tipi di interventi, a valle e a monte: a valle, attraverso uno sfruttamento ulteriore delle fibre chimiche, a monte, a quel che ho sentito dire attraverso una trasformazione delle aziende tessili normali in produttrici di beni strumentali. Questo è veramente un non volersi render conto che è opportuno fare anche un salto di qualità, perché soltanto un'industria tessile altamente qualificata può mantenere oggi una competitività, mentre a quella che non riesce ad adeguarsi a questo dev'essere consentito da parte degli organi pubblici, da parte di tutto il mondo imprenditoriale di rivolgersi verso settori che possano dare un livello occupazionale più produttivo nei confronti del contesto nazionale e più redditivo per coloro che vi partecipano.
In questo quadro, come proposte concrete suggerite dall'esame della situazione per una efficace azione della Regione, noi riteniamo che sia indispensabile non soltanto l'aiuto alle piccole e medie industrie, ma anche la predisposizione di strumenti atti, oltre che a venire in aiuto delle aziende malate, anche a sorreggere, determinare nuovi investimenti in settori altamente qualificati che il capitale privato, o non sa intravedere o non ha il coraggio di intraprendere dato il fortissimo esborso che richiedono; la Regione, insomma, deve non soltanto essere di aiuto e sussidio per coloro che sono malati, ma veramente partner, suggeritrice incentivatrice di nuove forme di realizzazione economica e industriale.
In questo quadro si pone anche l'altro problema fondamentale: quello dell'agricoltura. Su questo settore pesano tutte le conseguenze di una certa facile demagogia: da quella del Piano verde a quella della trasformazione dell'affittuario in proprietario del fondo, gravato degli stessi oneri di prima, ed in più di debiti per una durata di quarant'anni senza possibilità di ricavare dal suo lavoro un reddito maggiore. Questo non è trasformare: è fare un facile trasferimento di proprietà, forse tutto sommato, a vantaggio soprattutto del vecchio proprietario, venuto a trovarsi rapidamente in mano dei soldi, mentre colui che prima era affittuario non ha avuto che la soddisfazione di poter diventare proprietario della solita terra che da generazioni lavorava, senza alcuna ulteriore possibilità di manovra. Occorre guardare la realtà: bisogna dire che un ammodernamento dell'agricoltura non si realizza soltanto attraverso forme di accattivamento, di imbonimento, di trasformazione dell'affittuario in proprietario, o di concessione di piccoli aiuti.
Non è vero che il Mercato Comune Europeo abbia emarginato la nostra economia agricola: la verità è che la nostra classe politica è rimasta veramente insensibile al grosso processo di trasformazione che nel settore agricolo si stava imponendo.



FERRARIS Bruno

Ne mangi poca di politica agraria.



ROSSOTTO Carlo Felice

Sarai tu solo a mangiarne. Certo, dal momento che si continua a sostenere che l'agricoltura ha bisogno di capitali, ha bisogno di aiuti, ha bisogno di sovvenzioni, mi pare che il modo più assurdo di recarle aiuto fosse proprio quello di portarle via la partecipazione del capitale.
Perché, in ogni caso, i provvedimenti che sono stati votati da tutte le forze politiche in ordine all'accesso alla proprietà da parte dell'affittuario hanno portato a questa sola conseguenza: che i capitali sono stati dati al proprietario, e non al coltivatore, il quale ultimo si e ritrovato proprietario della terra che già lavorava, senza alcun altro vantaggio, gravato anzi da un bel po' di debiti.
Bisogna ricreare un clima di fiducia se si vuole che ritorni anche in questo campo la partecipazione, l'investimento privato. Soltanto attraverso nuove possibilità di intervento economico privato è possibile che l'agricoltura risorga, in quelle determinate forme che sono state chiaramente individuate nei piani economici europei, cioè con l'accorpamento, delle aziende in modo da avere entità agricole più consistenti: ma perché ciò avvenga occorre che si ritorni al rispetto della componente capitale-lavoro, con il gioco reciproco delle parti; altrimenti faremo dei grossi carrozzoni, dei grossi enti di intervento, ma non risolveremo i problemi. Grazie.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Lo Turco. Ne ha facoltà.



PRESIDENTE

LO TURCO Giorgio



PRESIDENTE

Signor Presidente, signori Consiglieri, nel leggere, molto attentamente, la relazione sulla situazione economica, e seguendo ancora con viva attenzione, la lettura che ne ha fatto stamani l'Assessore, mi è sorto un dubbio: che in tutti i dibattiti che si sono svolti in aula in questo anno e mezzo di attività non si sia detto nulla sulle condizioni di lavoro e di vita nelle fabbriche, sulla crisi che avanzava; che le stesse organizzazioni sindacali siano diventate dei cervelli elettronici capaci soltanto di buttare giù nei loro documenti cifre e dati. Sono andato a ricercarmi i verbali di altri dibattiti, documenti delle organizzazioni sindacali e la cosa è ben diversa dalla realtà delle lotte operaie, dai dibattiti avvenuti in Consiglio Regionale, dalle documentazioni delle Organizzazioni Sindacali, rispetto al documento della Giunta Regionale di centro destra: ho riscontrato freddezza, lontananza, divisione dalla realtà drammatica nella quale si sta vivendo nel nostro Paese.
Ho spesso occasione di prendere parte ad assemblee operaie, nei momenti di lotta, di occupazione delle fabbriche, ed ho notato che attraverso queste lotte, che portano spesso alla denuncia di crisi, alla chiusura di fabbriche, e quindi alla loro occupazione da parte dei lavoratori, si rivendica da taluni di essi una revisione dei premi di produzione, da altri una revisione delle qualifiche, dei cottimi. Queste diverse rivendicazioni hanno però sempre un minimo comune denominatore: sono dirette alla creazione di nuove strutture di organizzazione sindacale dentro la fabbrica, al controllo delle condizioni ambientali di lavoro nella fabbrica. Queste richieste fanno scattare la molla della repressione, o meglio, per non usare una espressione che tanto infastidisce l'avv. Oberto provocano l'intervento della polizia sotto forma di "assistenza armata".
Un caso tipico di questo andamento, per cui si scopre la crisi a breve distanza dalla presentazione della piattaforma rivendicativa dei lavoratori è quello della Oreal. Pochi giorni prima il Consiglio di fabbrica della Oreal presenta un insieme di rivendicazioni: cottimi, qualifiche, controllo sull'ambiente, libretto dei dati biostatistici, libretto sanitario libretto di rischio, strutture sindacali. Ventiquattr'ore più tardi la Direzione organizza un'assemblea di impiegati ed afferma che non pu accogliere rivendicazioni di questo genere, scopre la crisi, dice che dovrà passare ai licenziamenti. Una impiegata che in questa assemblea ha il coraggio di dare del buffone al direttore viene licenziata in tronco.
L'organizzazione sindacale di fabbrica chiede immediatamente un incontro con la Direzione. Il rappresentante degli impiegati dopo l'incontro riunisce gli impiegati e riferisce. Dal verbale originario cito testualmente: "La Direzione chiede ai presenti chi ha messo in circolazione una notizia secondo la quale durante la riunione questa impiegata licenziata e le rappresentanze sindacali sarebbero state offese maltrattate. La risposta é: 'La cosa è stata riferita dal signor Catuzzo' " (l'impiegato che riferisce all'assemblea). Risultato: l'impiegato Catuzzo viene licenziato in tronco.
Nello stesso verbale vi sono altre affermazioni abbastanza precise, che sono in contraddizione l'una con l'altra: "Nessun intervento del Governo è consentito sulla proprietà, sulla gestione della nostra impresa. Di conseguenza, non è consentito n possibile alcun assorbimento della gestione dell'Impresa da parte di società o istituti finanziari pubblici italiani".
In un'altra pagina si dice però che "la nuova unità produttiva che la Oreal si appresta a costruire a Pescara sarà per l'80 per cento finanziata con denaro pubblico".
Nello stesso momento in cui programma una unità produttiva a Pescara che dovrà creare 800 posti di lavoro - e si dice in questo verbale non solo che quella unità non creerà pregiudizio alla occupazione di Settimo ma che riceverà il finanziamento dell'80 per cento dalla Cassa del Mezzogiorno (l'intervento di danaro pubblico è bene accetto, evidentemente) -, la Oreal procede a 115 licenziamenti.
Ma c'e un dato che, secondo me, bisogna aver presente per capire bene fino in fondo la situazione che noi abbiamo di fronte, alla quale ci richiamano i lavoratori venuti qui, a farci rilevare che da parte della Regione non sono state ancora prese decisioni concrete in direzione dell'occupazione, in direzione dei problemi del lavoro. Noi abbiamo per primi dato atto al Consigliere Conti, quando reggeva l'Assessorato al lavoro, di essersi mosso con tempestività in rapporto ad alcuni problemi, e dobbiamo dare atto anche oggi che l'Assessore Visone, sul piano personale una attività la svolge: però, è un fatto che fino a questo momento manca un progetto preciso da parte della Giunta, mancano iniziative precise e concrete sul piano politico. Dobbiamo avere presente che proprio nei periodi in cui, come Rossotto declamava poco fa, tutto andava bene, fra il '64 e il '69, mentre la produzione industriale si raddoppiava, gli investimenti industriali non solo non sono stati incrementati ma hanno regredito, passando dal 21 per cento del periodo '58-'63 al 15 per cento del periodo '64-'69, secondo dati citati dal Ministro Giolitti. In queste condizioni sono aumentati notevolmente gli "omicidi bianchi" - cinque ne sono stati denunciati ieri soltanto dai giornali -, proprio in questi ultimi anni.
Si è dunque cercato di acquisire capacità concorrenziale attraverso un particolare tipo di sfruttamento, secondo il metodo tipico delle famose "brache bianche": aumento dei ritmi, bassi salari alla giapponese (ma la classe operaia italiana non è quella giapponese e non tollera il trattamento alla giapponese), manovra di un immenso esercito di riserva.
Ecco così i lavoratori cacciati via dalle campagne, dalle terre, l'uso speculativo della spesa pubblica, tutto lo sviluppo del capitalismo di Stato, la spesa pubblica ingigantita. Lì nasce la questione meridionale: non è un fatto del passato, è un aspetto del presente, è un aspetto soltanto della questione meridionale.
La scelta compiuta e rinnovata nel dopoguerra è quella dei metodi del passato: e per seguire quella strada c'é bisogno di una colonia, come allora, e si colonizza il Mezzogiorno, condannandolo ad essere fondamentalmente fornitore di mano d'opera, di un esercito di riserva (quattro milioni sono gli immigrati in questi ultimi vent'anni), fornitore di materie prime, di semilavorati (materie prime per la chimica e la metallurgia, semilavorati agricoli, come i vini da taglio della Puglia per fare i vini qui nel Nord, grano duro della Sicilia per fare la pasta a Bologna, olio ad alta acidità della Calabria e della Puglia per produrre l'olio a Genova) Basti un solo dato: la spesa alimentare del nostro Paese è stata quest'anno, in Italia, di 14 mila miliardi; ma di tale cifra ai contadini italiani, in gran parte del Mezzogiorno, sono andati 4500 miliardi; il resto se lo sono fagocitato i padroni, questa è l'essenza della crisi economica del nostro Paese, se lo sono involato proprio i "signori dalle braghe bianche". Se andate in Puglia, a Martinafranca, non trovate cooperative di contadini: trovate la Fiat, che compra le fabbriche di liquori e monopolizza il prodotto locale per fare vini da taglio da spedire al Nord; trovate la Montedison, con i suoi centri di distribuzione dei generi alimentari. Attraverso questa forma di rapina, via via, tutti i grandi monopoli dell'industria alimentare si son presi migliaia di miliardi.
Ora il Mezzogiorno non è più lasciato nell'antico abbandono, nella immensa disgregazione sociale di cui parlava Gramsci. Per esso vi è stato un enorme aumento della spesa pubblica. Grandi investimenti sono stati fatti negli impianti di base: negli ultimi dieci anni sono stati investiti nel settore industriale nel Mezzogiorno ben 15.000 miliardi. Ma l'effetto è questo: nello stesso decennio la classe operaia del Mezzogiorno è aumentata di 50.000 unità, quella del Nord di 500.000 unità. Badate che il rapporto dell'investimento industriale nel Mezzogiorno non è di 1-10 ma del 30 e più per cento. Ecco come si forma l'apparato industriale italiano: lo vedete nella faccia degli uomini, nel problema dell'occupazione, nel tipo di forza lavoro, investimenti industriali, lavori pubblici, soprattutto pubblica amministrazione, spesa pubblica nell'agricoltura. Per il 70 per cento gli investimenti nell'agricoltura sono soltanto dello Stato. Questo da una idea delle proporzioni del fenomeno del capitalismo di Stato. E lo Stato non spende questi soldi per la trasformazione delle strutture agrarie ma per sostenere i prezzi, per dare crediti ed incentivi indifferenziati, cioè data la struttura sociale, alla grande proprietà; e sostenere i prezzi lasciando la struttura qual'è significa rendere sempre più forte l'elemento parassitario dominante, capitalistico, arretrato, e strangolare il contadino non dandogli la possibilità di trasformare. In questo modo, il capitalismo italiano del Nord condanna la struttura del Mezzogiorno a fornitrice di mano d'opera e di semilavorati, condanna il contadino, che non può trasformare, alla miseria, o all'emigrazione, o a produrre vini da taglio perché non ha alcuna possibilità di lavorarli direttamente, ed al tempo stesso favorisce il proprietario terriero, che in questo modo pu sfruttarlo, ed anche la Fiat, che così prende il suo vino e fa il vermouth.
E' questa la realtà del Mezzogiorno.
Di questa situazione noi ritroviamo il segno nella classe operaia di Torino, ritroviamo il segno sulla città, su questo tipo di città. Il risultato per Torino non sta solo nel fatto che gli uomini del Mezzogiorno vi si trasferiscono in massa, ma anche nel tipo di sviluppo della città.
Perché la conseguenza di tutto questo è il drenaggio delle risorse, è l'emigrazione, è la formazione di quel tessuto urbano che è una delle caratteristiche fondamentali dello sviluppo dell'Italia di questi anni: un tessuto urbano parassitario, fondato sulla speculazione. Le città diventano centri di raccolta della popolazione cacciata dalle campagne, luoghi di speculazione. Un tessuto urbano in cui gli uomini sono costretti a consumare in un certo modo, anziché indotti a chiedere beni strumentali.
Così nasce il problema dell'automobile, la necessità per tutti di disporre di un'automobile, magari acquistata con cambiali, come dicevo prima, interrompendo il Consigliere Oberto. Se oggi la classe operaia dovesse accordarsi per fermare la motorizzazione privata, ne rimarrebbe paralizzata l'economia del Paese, poiché non vi sono mezzi di trasporto pubblico per portare i lavoratori nelle fabbriche. Con le sue considerazioni, avvocato Oberto, lei finisce con il riconoscere valide le obiezioni che noi muovevamo tempo addietro, nel senso che non era quella della motorizzazione privata la direzione da dare alla politica dei trasporti. Oggi non è più tempo di fare il discorso che faceva De Gasperi venticinque anni fa agli operai: in fondo, avete tutti la motocicletta, o la "vespa". Certe variazioni sul tema del benessere dei lavoratori dimostrato dal fatto che essi hanno l'automobile sono insulse: il lavoratore è costretto a comprarsi l'automobile se vuol garantire la sua presenza al posto di lavoro.
Queste città diventano luoghi in cui gli uomini sono costretti a certi consumi, a chiedere non beni strumentali ma beni di consumo. Anche il più miserabile fra gli emigrati, fra gli operai, deve pur consumare: dovrà pur comprare l'Omo, comprarsi la radiolina; e se proprio non vuol morire di noia in questa città dormitorio dovrà pur comprarsi anche un televisore. Ma questo significa ricchezza? Il più delle volte si addormenta davanti al televisore prima ancora che finisca il programma, perché al mattino alle cinque deve arrivare al posto di lavoro in tempo per bollare puntualmente la cartolina. A ben guardare, è assai poco quel che può permettersi l'operaio, confrontato con ciò che egli dà nella fabbrica. Eppure, molti di quelli che amano ripetere ad ogni piè sospinto che i lavoratori sono i produttori della ricchezza hanno il coraggio di rinfacciare loro questi...
lussi indispensabili.
Quando le cose andavano bene, nel periodo delle cosiddette vacche grasse, quei famosi "padroni dalle brache bianche" i guadagni li mandavano in Svizzera. Bisognerebbe chiedere a Lugano, alle banche svizzere, per sapere dove sono andate a finire le economie. Ecco perché i lavoratori dicono oggi: quello che hai guadagnato, caro datore di lavoro, caccialo fuori, perché quello è denaro della collettività, sudato da noi, mentre tu non hai fatto nulla per guadagnarlo. Per capire quanto costi la ricchezza del Paese andate al CTO, andate a visitare quella fabbrica di mostri, di lavoratori senza braccia, grandi ustionati: non vi troverete certamente i Riva, né i Marzollo, né gli Agnelli. Andate a vedere a quale prezzo tanti lavoratori producono ricchezza per il Paese. E quelli che hanno la fortuna di non uscirne distrutti nel fisico, ricevono beffe, calunnie, danni, e si vedono, magari a cinquant'anni, privati del posto di lavoro. Non rimane loro, in tali condizioni, che scendere in piazza, per informare l'opinione pubblica, perché troppo spesso la stampa cosiddetta benpensante e indipendente deforma la realtà della tragicità della vita che si conduce in fabbrica. I lavoratori hanno necessità di scendere in piazza per avere un contatto diretto, umano con l'opinione pubblica. E la piazza diventa il teatro della nostra battaglia. Proprio domani mattina, sarà la volta dei lavoratori dell'Oreal a scendere in piazza, a Settimo, con delegazioni di tutte le fabbriche della zona, che andranno ad aiutarli, ad assisterli ed a sostenerli nella loro lotta contro i 115 licenziamenti.
Noi lavoratori non ci siamo mai ubriacati, a differenza di altri nemmeno di miracolo economico: abbiamo sempre badato al concreto. Spesso si sono persi di vista i veri obiettivi dei lavoratori: si puntava ad aumenti salariali anziché su conquiste più consistenti. Nel momento in cui è cresciuta la nostra coscienza di problemi molto più importanti, come quelli delle condizioni ambientali, della prevenzione, si comincia a mettere in discussione lo Stato, l'economia, si sostiene che un urto del genere è insostenibile.
In tema di repressione, vorrei darle un consiglio, avvocato Oberto. Lei ci ha detto stamani che soltanto qualche volta ha contatti con i lavoratori, in fabbrica. Ci vada il meno possibile. Perché gli operai sarebbero assai meno tolleranti di noi di fronte a discorsi come quello che lei ha fatto qui stamani. I lavoratori puntano molto al concreto e non rimarrebbero certo impassibili di fronte alla grave allusione che lei ha fatto alla rivoltella in mano a quel loro compagno finito in carcere.
Si dice: non c'è repressione. Ma allora il fatto della polizia che entra nell'ospedale, è stato inventato, oppure e successo a Praga, anzich a Catania? Allora sono infondate le notizie di centinaia di operai arrestati e processati? E non c'è stata la irruzione, pochi giorni fa, a mezzanotte di cinquecento "assistenti sociali armati" (per non usare gli termine di poliziotto, quello di repressione, che suonano sgraditi)? (Quello che mi diverte che anche il Sindaco democristiano di Venaria è stato preso per il bavero in quella occasione, perché soltanto ventiquattro ore prima la Direzione della Giargia gli aveva dichiarato di non poter pagare i lavoratori perché la Fiat non ritirava i motorini per i tergicristalli e quindi non pagava: alla mezzanotte, cinquecento "assistenti armati" sono andati, con ventiquattro camion della Fiat, a ritirare tutto, perché la Fiat ne aveva bisogno. L'unico dato di fatto positivo è che adesso incominciano a menare per il naso anche voi democristiani, non più soltanto i lavoratori).
Il caso della Sobrero, poi, dà ragione alla nostra argomentazione che è venuta a mancare la fiducia in una certa classe politica. L'estate scorsa il Presidente Calleri aveva personalmente assicurato di aver trovato dei finanziatori per la Sombrero. Quei lavoratori sono ancora disoccupati stanno sempre aspettando. Con il sistema di raccontar frottole è ovvio che si crea sfiducia, che si fanno degenerare le vertenze e si apre la strada all'eversione e alla involuzione politica.
Parliamo pure anche dell'assenteismo. L'unica proposta concreta che io abbia sentito venire dai banchi della D.C. questa mattina è stata non nel senso di procedere ad un controllo dei finanziamenti dati ai gruppi monopolistici o industriali ma al controllo degli operai che stanno a casa in mutua. Se qualcuno di voi avesse provato a fare il terzo turno alla Fiat, alle Ferriere, alla Pirelli, o alla Ceat, saprebbe che arriva il momento in cui proprio non se ne può più, e si avverte imperiosa la necessità di passare una serata in casa, a godersi l'intimità della famiglia, a riposare nel proprio letto, e ci si fa fare la dichiarazione medica da un compiacente dottore della mutua. E' vero che talvolta capita anche questo, ma c'è la giustificazione di tutto un lungo travaglio che ha portato al limite della sopportazione.
Lei, avvocato Oberto, va raramente in fabbrica: quando sono venuto qui questa mattina, io vi ero già stato per quattro ore, e in quelle quattro ore avevo trovato modo di fare anche un'ora di sciopero.



OBERTO Gianni

Io avevo già fatto una causa: è questione di mestiere.



OBERTO Gianni

LO TURCO Giorgio



OBERTO Gianni

Vede, c'e una differenza, dovuta appunto alla diversità di mestiere: non so quanto a lei renda una causa; a me le quattro ore in fabbrica, che si sono poi ridotte in effetti a tre, hanno reso solo duemila lire I controlli, dicevo, non vanno fatti tanto sugli operai in mutua quanto su come vengono investiti i capitali pubblici, e bisogna avere il coraggio di dire di no a quei padroni che dimostrano di non essere in grado di dirigere le loro aziende, se necessario cacciarli via dalle loro aziende.
Perché la fabbrica non è più quella tipica dell'ottocento, da padrone delle ferriere: la fabbrica oggi è di tutti, è un bene sociale di tutti.
Chiedo scusa per la mia ignoranza, ma di Alceo non avevo mai sentito parlare prima d'ora. Se però è vero che questo Alceo ha detto che tutto si fa se si colgono le occasioni, io dico: noi del Gruppo di opposizione l'occasione l'abbiamo già colta, scegliendo di schierarci dalla parte della classe operaia, avanzando le proposte concrete che ha fatto il compagno Furia; l'occasione l'avete anche voi, componenti della Giunta, di dire cosa volete fare. Aggiungo ancora una cosa: che si aspetta ad applicare l'art. 6 dello Statuto? Perché la Giunta non programma un suo intervento nei luoghi di lavoro, per costatare direttamente la drammaticità della situazione dandone per esempio il compito alla IV Commissione? Se così farà, non le mancherà certo il contributo di tutto il nostro appoggio; se farà qualcosa per mutare le condizioni all'interno delle fabbriche non le verrà meno il sostegno di tutta la classe operaia.
I lavoratori esigono una risposta concreta, che assicuri loro condizioni umane nella fabbrica e la conservazione del loro posto di lavoro. Posto di lavoro che sono costretti a difendere spesso con l'occupazione, in quelle fabbriche che ventisette anni fa difesero sparando contro i nazifascisti che volevano smantellarle. E' un problema di cui bisogna prendere coscienza, per risolvere il quale non bastano i bei discorsi, ma ci vogliono proposte precise e concrete. Noi comunisti non verremo certamente meno all'impegno morale e politico che abbiamo con i lavoratori, di condurre avanti la battaglia, su questo terreno, in modi anche più duri, se sarà necessario, perché le loro giuste aspirazioni ottengano pieno riconoscimento.



PRESIDENTE

Ha chiesto di parlare il Consigliere Oberto, per fatto personale. Ne ha facoltà.



OBERTO Gianni

Desidero soltanto fare una precisazione, ad evitare equivoci. Il Consigliere Lo Turco ha ripreso una mia battuta in risposta al Consigliere Berti a proposito di un operaio arrestato: parlando di rivoltella, io facevo una ipotesi astratta, perché ignoro in modo assoluto in quali circostanze e per quali ragioni sia avvenuto l'arresto. Il mio discorso dunque, non attingeva particolarmente al caso che si stava prospettando.
Ribadisco ancora, perché risulti ben chiaro, che la mia era una ipotesi meramente astratta, non applicabile al caso concreto.
l



FURIA Giovanni

Rimane comunque inaccettabile.



OBERTO Gianni

Non ha importanza, quella è materia opinabile. Se io la applicassi falsamente ad un caso concreto mi considererei indegno di sedere in questo Consiglio Regionale. E' una precisazione che sentivo di dover fare come imperativo della mia coscienza. Tutto il resto discutiamolo pure oggi qui o fuori di qui, quando e come volete.



PRESIDENTE

Gliene dò atto.
Ha chiesto di parlare il Consigliere Giovana, ne ha facoltà



GIOVANA Mario

Signor Presidente, signori Consiglieri, nel prendere la parola di fronte alla eletta minoranza di colleghi della maggioranza che assiste a questo dibattito, desidero dichiarare subito che cercherò di attenermi il più strettamente possibile ad un esame della sintesi dalla Giunta presentata e della rilevazione sulla situazione economica piemontese nel corso di questi mesi. Naturalmente con gli ovvi riferimenti a ciò che questa sintesi contiene o non contiene e che ci chiama a compiere con il quadro nazionale della realtà economica e sociale del Paese.
Mi sono fatto scrupolo (non me ne faccio un merito. Era mio dovere. Lo dico soltanto perché mi serve a sottolineare come ciò mi abbia offerto la possibilità di annotarmi tutti gli interventi che si sono svolti in quelle riunioni) di seguire le consultazioni condotte dalla Giunta in ciascuna delle province del Piemonte. Devo intanto premettere che quelle consultazioni sono incominciate sotto una pessima stella, in quanto si è avuta l'immediata sensazione, marginalmente corretta nelle successive udienze, di come la Giunta non avesse orientato (non nel senso di fornire delle indicazioni di indirizzo specifico) né stimolato una presenza responsabile delle forze chiamate alle riunioni, tali da permettere che la consultazione assumesse quei contenuti che era lecito attendersi essa dovesse assumere. Tant'é che i colleghi ricorderanno, (devo darne atto tutti i Consiglieri presenti a quella consultazione rimasero sconcertati) come ad Asti ci siamo trovati di fronte a una diserzione totale delle forze economiche confindustriali locali, le quali hanno fatto sentire, non casualmente, in quegli stessi giorni, la loro voce attraverso un articolo di stampa d'intonazione nettamente fascista di un ex rappresentante del Governo, e attraverso un feroce attacco del Vicepresidente della Confindustria Vallarino Gancia. Asti fu la prima conferma che si era andati alle consultazioni in modo un po' dilettantesco. Si poteva anche pensare che ciò fosse dovuto a impreparazione della Giunta; a una sua incapacità ad organizzare una così importante forma di rapporto con le forze economiche sociali, se le successive udienze, e soprattutto il documento che di tutte queste udienze ci da conto, non confermassero noi dell'opposizione di sinistra nel sospetto, che questo apparente dilettantismo aveva dietro di sé un disegno politico. Dirò poi come dal documento presentato dalla Giunta proprio per ciò che manca (ed è vastissima la parte che manca) venga fuori nettamente qual è il disegno politico che muove la maggioranza del Consiglio Regionale.
In ogni caso, bisogna riconoscere un merito alle consultazioni: hanno fornito da un lato (per quelli, come me, non sufficientemente addestrati al confronto con queste componenti periferiche del padronato) un ritratto quanto mai interessante del livello intellettuale, di preparazione politica e di senso di responsabilità delle forze imprenditoriali delle singole province piemontesi (e non siamo certamente l'ultima regione industriale e commerciale d'Italia); dall'altro lato, hanno recato una serie di puntuali conferme, sul piano della verifica, di quelli che sono gli elementi reali da cui è caratterizzata la crisi economica e sociale del Paese in questo momento.
Non credo, da quanto mi risulta, che il collega Petrini abbia ritenuto di farlo stamani: ma io avrei amato vedere in questa relazione, riportato almeno in termini notarili (come in generale la relazione si sforza di fare per gli altri argomenti, che non dovrebbero comunque essere registrati in termini notarili) un riassunto degli atteggiamenti che hanno caratterizzato una serie di personaggi venuti a questa consultazione, non rappresentanti se stessi ma forze e organizzazioni economiche di rilevante importanza e di rilevante peso. Certo, le modulazioni che si sono avute sullo spartito dei signori rappresentanti il mondo imprenditoriale piemontese, sono state di tono diverso, a seconda delle vocazioni e delle capacità personali. Esse hanno avuto però un tratto abbastanza comune che è del resto tipico della classe dirigente industriale italiana nel momento in cui va a confronto con le forze politiche) quello di fare di ogni erba un fascio, di porsi di fronte alla classe politica come di fronte a delle persone che hanno la responsabilità di quanto nel Paese non funziona, o funziona male, o va a rovescio, e di intentare loro un processo con forti risvolti ricattatori dicendogli: queste sono le esigenze, o provvedete o noi, che per parte nostra abbiamo fatto e dato quanto era possibile fare e dare, non assumiamo nessuna responsabilità di ciò che accade, non solo, ma denunciamo la gravità delle responsabilità di una classe politica che ci fa pagare il prezzo di ciò che sta avvenendo. Le modulazioni diverse sono andate dall'atteggiamento scopertamente, rozzamente fascista del Vicepresidente se non erro, dell'Unione Industriale di Biella, il quale nella consultazione a Vercelli esordì col dire che gli industriali biellesi non avevano più alcuna fiducia nella classe dirigente politica all'atteggiamento persino puerilmente ingenuo (se tale era nella sostanza) del Vicepresidente dell'Unione Industriale di Novara, il quale registrando che nella sua provincia, nel mese di ottobre, tre milioni di ore lavorative erano state a cassa integrazione, affermò la situazione non essere preoccupante, in quella fase; all'atteggiamento, infine, del Presidente (o Vicepresidente) dell'Unione Industriale di Cuneo il quale, con un candore veramente eccezionale (lo ricorderanno i colleghi della Giunta che erano presenti) ci informò di non capire come mai nel corso di questi ultimi 10/15 anni la Provincia di Cuneo avesse assistito, e assista tuttora, ad un continuo processo di diminuzione della sua popolazione, mentre non c'è immigrazione. Affermazione che lasciò tutti quanti stupefatti, perch bastava leggere i dati dello sviluppo industriale, della crisi dell'agricoltura, soprattutto nei settori montani della provincia di Cuneo per immaginare perché dalla provincia di Cuneo medesima si ha un continuo deflusso di gente e ad essa non s'indirizza immigrazione.
Su quest'arco di modulazioni si arrivò ad un atteggiamento molto più responsabile ed accorto, direi intelligente, del Presidente (o Vicepresidente) dell'Unione Industriale di Alessandria, il quale dimostr di avere un'accorta intelligenza quanto meno di certi problemi di razionalizzazione del sistema capitalistico, non sposò (e fu certamente un fatto significativo) la causa dell' industria monopolistica in Italia e di sicuro per fattori di sollecitazione locale che credo abbiano largamente condizionato il suo atteggiamento - portò avanti in una maniera estremamente pericolosa, per ciò che riguarda le nostre prospettive, un discorso sulla piccola e media industria al quale devo tuttavia riconoscere dei fondamenti di notevole serietà.
Vorrei sottolineare come questa panoramica del livello di responsabilità politica, di capacità concettuale, di volontà e di serietà della classe dirigente di una delle Regioni più avanzate dal punto di vista industriale italiano, ci abbia fornito la misura (e non possiamo non considerarlo un dato di notevole rilevanza) di quanto questo livello riporti nel presente una lunga eredità del passato, che è l'eredità di una classe dirigente industriale cresciuta, nella sua stragrande maggioranza non già ai cimenti di un confronto reale con le forze del libero mercato caro collega Rossotto, come ci dice tutta la storia della crescita industriale del nostro Paese, (salvo la storia di alcuni capitani di industria che appartengono ormai ad un passato tramontato) bensì all'ombra del protezionismo statale. Una storia di parassitismo, una storia di prezzi costantemente fatti pagare alla comunità nazionale per riuscire a marciare sulla linea dei propri profitti.
Il secondo elemento emerso fuori da queste consultazioni è certamente quello di maggior peso dal punto di vista delle conclusioni che dobbiamo trarre dalla nostra ricerca, sia pure attraverso le lamentazioni, i riconoscimenti fatti a mezza bocca da gran parte degli esponenti del mondo imprenditoriale e delle Camere di Commercio (istituzioni che non mi convincono davvero come si possa ancora negli anni '70, in un Paese moderno, far vivere. Ma questo è un discorso che potremo fare in altra sede). Dalle ammissioni di questi signori o dalle loro mezze ammissioni, è venuto fuori un primo elemento a conferma di tesi che noi abbiamo sin dal primo giorno sostenuto in quest'aula, noi dell'opposizione di sinistra colleghi comunisti, colleghi socialisti, io per la parte che mi compete cioè che la crisi che attraversa il Paese non è di carattere congiunturale ma ha elementi strutturali sui quali sono venuti ad inserirsi elementi di natura congiunturale i quali ne hanno esasperato vecchi nodi irrisolti contraddizioni giunte a un grado estremo di tensione, e che quindi hanno approfondito, reso più violenti, tutti i dati generali di tensione del quadro economico e sociale del Paese. Questa è stata un'ammissione venuta ripeto, a mezza bocca o timidamente anche dagli esponenti dei ceti imprenditoriali. Quindi, crisi di carattere strutturale. Che cosa significa "crisi di carattere strutturale"? Dalla panoramica dei singoli settori produttivi, siamo riusciti a trarre una serie di notazioni abbastanza puntuali su che cosa significa un quadro di "crisi strutturale" e come questo quadro non sia insorto negli ultimi tre o quattro anni, ma sia il prodotto di un lungo cammino, di una lunga serie di problemi irrisolti e quindi, di un certo tipo di meccanismo di sviluppo che ha continuato e continua ad agire nella realtà economica e sociale del Paese.
Parlerò in ultimo dell'atteggiamento che hanno assunto, rispetto alle consultazioni, le forze sindacali con le quali abbiamo separatamente colloquiato. Da ciascuna di queste consultazioni è emerso che l'elemento di gigantismo del polo torinese, della sua area metropolitana, è il fattore determinante di tutti gli squilibri della regione e delle province piemontesi. La sigla "Fiat" si è pronunciata assai poco nel corso di quelle udienze. Si sono fatti accenni a un'entità astratta, come sempre non afferrabile, non concretizzabile; ma la Fiat, in effetti, era sempre presente. Se non avessimo acceduto ad una sorta di tacita intesa, che credo possa essere riconosciuta come elemento di grande senso di responsabilità a noi dell'opposizione, di non intervenire, per quanto era possibile, in quelle discussioni (e io personalmente, salvo che ad Asti, per ragioni che credo gli stessi rappresentanti della Giunta abbiano ritenuto giustificate non sono intervenuto) dico se noi fossimo intervenuti avremmo pronunciato ripetutamente la sigla Fiat; avremmo detto che cosa significa la Fiat, e credo sarebbe stato estremamente interessante sentire quale tipo di contestazione veniva alle obiezioni che avremmo avanzato rispetto alle loro denunce che non trovavano mai un punto di riferimento concreto. Era presente l'ectoplasma; la Fiat, era presente in ciascuna di queste udienze che abbiamo avuto con le forze economiche, perché ciascuna di queste forze ripeto, ha denunciato, nel gigantismo di Torino la causa preminente degli scompensi, degli squilibri della realtà economica e sociale del Piemonte.
Tutti quanti sappiamo che il gigantismo di Torino è il prodotto delle caratteristiche monoproduttive degli Agnelli, è il prodotto di un'egemonia economica, sociale, politica che da decenni quella società esercita senza avere mai incontrato contestazioni effettive e operanti in una strategia alternativa da parte delle forze politiche di Governo nell'interesse della collettività, cioè in quell'interesse che la Fiat calpestava in ragione delle proprie prospettive di profitto aziendale.
Un secondo elemento uscito in modo quasi corale da questa consultazione, è il grado di degradazione del quadro agricolo piemontese.
Il collega Rossotto ha fatto in materia uno strano discorso (mi spiace che non sia presente). Forse non ho afferrato la complessità delle sue argomentazioni in tema di problemi agricoli, ma ho avuto la sensazione che egli sostanzialmente negasse quello che oggi la stessa pagina dell'agricoltura (che benignamente la Fiat affibbia tutte le domeniche ai contadini) non osa quasi più negare: e cioè che il modo in cui i Governi italiani hanno presentato i problemi agricoli nell'ambito del MEC portando al confronto con agricolture estremamente più evolute un'agricoltura di tipo arretrato come quella italiana, in stato di completo disarmo nella proposta di contrattazione con questi Paesi a più alto livello di sviluppo e di razionalità agricola, quel tipo di linea seguito dai Governi italiani ha sostanzialmente fatto sì che questo settore produttivo italiano sia stato "svenduto" al più basso prezzo ad economie europee più forti. Oggi ci troviamo - e questo è un segno alla portata di chiunque, anche non esperto (come io non sono) di problemi agricoli - nella paradossale situazione di un Paese che ha un tasso di consumo bassissimo della frutta particolarmente in certe regioni e che denuncia carenze vitaminiche impressionanti in un alta percentuale di bambini di molte regioni, dovute a denutrizione o al consumo di alimenti fortemente avitaminici, e che invece distrugge la frutta. Noi premiamo gli agricoltori perché distruggano la frutta. Abbiamo una crisi della zootecnia enorme; ebbene importiamo la carne e premiamo chi ammazza le bestie.
Ora io chiedo al collega Rossotto, nella mia notevole ignoranza in materia di agricoltura, se ritiene questa una linea di salvaguardia del quadro agricolo italiano, ritiene che nel corso di questi decenni di Governi di centro e di centro sinistra, l'esodo dalle campagne sia stato anche qui, come tante volte mi è occorso di dire, una fatalità biblica, una predizione di Nostradamus la quale naturalmente doveva avverarsi o non piuttosto il prodotto di un deliberato disegno della classe dirigente politica italiana, che ha seguito due direttrici essenziali nelle sue scelte: una, quella di un indiscriminato e permanente sostegno di tutte le scelte che portavano avanti processi di integrazione monopolistica del grande capitale finanziario e produttivo del Paese, l'altra, quella che favoriva sul piano dell'agricoltura la costituzione della grande azienda capitalistica e la liquidazione quindi di estesissime fasce di piccola e media azienda contadina. I risultati si vedono oggi. Il collega Rossotto non credo possa sostenere con alcuna cifra attendibile quel che è andato asserendo sui problemi dell'agricoltura. Io sono convinto che il compagno e collega Ferraris, il quale, in materia ha ben più grande esperienza e conoscenza di quanto io non possa avere, illustrerà poi in modo documentato l'infondatezza delle tesi di Rossotto. Comunque, sta di fatto che dai dati di cui abbiamo preso nota nel corso di quelle consultazioni, dai dati del reddito medio delle province agricole del Piemonte, dai dati della crisi della piccola e media impresa, ricaviamo un quadro che è di distruzione e di smobilitazione. Ora, collega Rossotto, queste cose non sono accadute per l'insipienza dei contadini italiani, né sono accadute perché parte di quei contadini (purtroppo, dico io, non gran parte) votano i partiti di sinistra. La maggioranza dei contadini italiani vota i partiti di centro e di destra, votano soprattutto la D.C., sono raccolti in una gigantesca organizzazione che si chiama la Coltivatori diretti la quale, da 25 anni, è paladina del riscatto contadino, mentre da 25 anni i contadini, per quello che a me modestamente risulta, vanno abbandonando i campi, vanno perdendo terreno sul piano del reddito. L'agricoltura che abbiamo portato al confronto con le altre colture del MEC è in condizioni di minorità tale da preludere, se i piani del signor Mansholt andranno in porto, alla sua definitiva liquidazione. E non penso poter essere tacciato di eccessivo pessimismo.
Il terzo elemento scaturito dalle consultazioni è stato quello della dilagante crisi della piccola e media industria piemontese. E' stata una denuncia, anche questa corale, che ci è venuta con accenti e intenti diversi dalla parte padronale e dalla parte sindacale: distruzione decadimento, liquidazione di un tessuto connettivo fondamentale per la realtà produttiva ed economica della nostra Regione. Ecco: quando gli amici liberali (lo hanno fatto più volte in quest'aula) rivendicano la funzione del piccolo e medio imprenditore, come se di questa funzione il P.L.I.
fosse stato e fosse tuttora l'alfiere si muovono in una contraddizione che è fondamentale, che va dalla radice della falsa oggettività della loro posizione. Perché chi ha portato all'arretramento ed al progressivo decadimento del tessuto della piccola e media industria italiana intanto non sono stati i Governi dei rossi. (In Italia di Governi di rossi, per quanto mi risulta, non ne abbiamo avuti); non sono stati certamente (e non credo che questo riconoscimento possa essere dato) parecchi piccoli e medi imprenditori i quali hanno speso, nella loro attività, energie intellettuali e finanziarie nel modo migliore e secondo intenti che certamente erano speculativi ma che avevano occhio alla possibilità di una continuità e di una redditività della loro azienda. Quel che ha portato a questo stato di marcescenza, di decadimento di vasti settori della piccola e media industria, è proprio il tipo di scelte di politica industriale che si sono fatte a monte di tutto il settore, ancora una volta lasciando ai grandi centri di potere oligopolistico privati produttivi e finanziari di giocarsi tutte le carte sulle spalle anche dei piccoli e medi industriali operando permanentemente, a livello politico, delle scelte utili soltanto alla Fiat, alla Pirelli, ai grossi gruppi finanziari, i quali oggi vanno acquistando dimensioni multinazionali e mettono sull'orlo del fallimento le possibilità delle aziende minori. Durante le consultazioni, i piccoli e medi industriali e i rappresentanti delle loro organizzazioni ci dicevano che stanno andando in rovina perché hanno poche possibilità di attingere al credito. Quando cercano di accedervi, trovano due ostacoli: l'alto tasso di interesse e il tipo di garanzie che vengono richieste e che spesso superano di cinque volte il valore del loro patrimonio produttivo immobiliare.
Tutti quanti sappiamo, i giornali l'hanno confermato ancora in questi giorni, che le banche italiane rigurgitano di quattrini. Io ho letto (mi spiace non sia presente colui che mi permetto di ritenere, senza offesa per nessun collega, il maggiore esperto in materia di finanza e credito del Consiglio Regionale, cioè il Presidente della Giunta) sui giornali, in questi giorni, che si è allargato notevolmente la forbice tra il volume dei depositi nelle banche e il volume dei prestiti erogati dal sistema creditizio. Siamo a 44.204 miliardi, con un incremento mensile di 531,6 miliardi pari all'1 per cento che nel '71 è stato il più elevato tra quanti si ricordino nella storia del nostro Paese. Nei primi undici mesi del '71 l'incremento dei depositi è stato del 10,4 per cento, vale a dire più 4225,4 miliardi, mentre il reddito nazionale è rimasto stazionario. Gli impieghi (parlo ancora di dati del '71, gli unici che abbiamo a disposizione) sono stati di 162,8 miliardi, salendo sempre in quegli 11 mesi, a 28.242,4 miliardi, cifra che rappresenta il 63,8 per cento di quella che eufemisticamente viene chiamata "raccolta" e che si riferisce evidentemente al rastrellamento di denaro e ai depositi nelle banche.
Scrive il quotidiano "La Stampa"- di Torino (che non è un quotidiano del mio partito né di altri partiti dell'opposizione, come è ben noto): "quello citato è il più basso rapporto mai registrato in un mese non feriale (parla del mese di novembre '71) nell'ultimo quarto di secolo ed è un dato estremamente contraddittorio con la scarsezza di capitali per investimenti ancora esistente in Italia. Il denaro liquido a disposizione delle banche, al netto degli aumenti delle riserve obbligatorie, a fine novembre del 1971 era a quota 1886,8 miliardi". Malgrado questo enorme volume di presenza di danaro nei forzieri delle banche, piccoli e medi imprenditori sono venuti a dirci: non riusciamo ad attingere a tassi possibili e a garanzie tollerabili al credito bancario.
Ma abbiamo un altro dato che ci riguarda e ci tocca molto da vicino, un primato che io ho avuto anche occasione di vedere notificato all'opinione pubblica dai giornali nei giorni scorsi: la Cassa di Risparmio di Torino (ecco perché, particolarmente in questo momento mi spiace che non sia presente il Presidente Calleri), durante il 1971 ha registrato (e un dato offerto dalla rivista "Politica Bancaria ") il più elevato incremento di depositi della sua storia, pari a 162,3 miliardi; tale incremento ha portato la raccolta (si parla sempre di raccolta, con un termine da Promessi Sposi, sembra la questua dei frati di Fra Cristoforo, ma evidentemente è qualche cosa di più sostanzioso) a 1095,5 miliardi risultato di un aumento che ha toccato tutte le principali categorie di depositi. Complessivamente il numero dei conti in deposito presso l'istituto (che è oggi al nono posto nel mondo e al terzo in Europa) ha raggiunto un milione e 800.000 unità. Queste sono cifre impressionanti, a fronte di una denuncia della difficoltà di accedere al credito dell'urgenza di avere dell'ossigeno da parte delle banche per continuare a vivere e a produrre.
Certamente, dietro a taluni discorsi di piccoli e medi industriali, noi siamo gli ultimi ad ignorarlo, vi sono elementi di antica natura ricattatoria: la richiesta di interventi dello Stato il tentativo di spremere permanentemente denaro dal potere pubblico. Sono spesso discorsi di natura giustificatoria, come ho già detto una volta in quest'aula, che discendono dal carattere avventuristico di molte piccole e medie imprese industriali, dalla loro gestione sprovveduta che abbiamo potuto constatare e constatiamo nelle occasioni in cui, come Regione Piemonte, andiamo a vedere i conti di certune di queste aziende, su pressione delle forze operaie minacciate di essere buttate fuori, per colpa appunto di queste cattive gestioni.
Tutti questi aspetti vanno debitamente considerati. Ma, nel quadro generale, c'è un indirizzo della politica creditizia che ancora una volta ci dà conferma di come la volontà politica che ha agito e agisce nel Paese non abbia mai tenuto occhio alle esigenze di questo importante tessuto produttivo, economico e sociale della realtà nazionale, ma le abbia sempre subordinate ad esigenze inerenti agli interessi di profitto dei grandi gruppi organizzati tipo Fiat, Pirelli e via elencando.
Del resto, la vicenda della Montedison direi che è esemplare. Questo colosso rappresentava fino a pochi anni fa una sorta di modello di efficienza, aveva alla sua testa una delle maggiori teste d'uovo dello staff manageriale italiano, il signor Valerio; ebbene esso è caduto, è crollato quasi, nel modo che tutti sappiamo, non soltanto perché l'ing.
Valerio aveva l'hobby fruttifero, assieme ad altri colleghi, di occuparsi delle radio dell'esercito, con i risultati che tutti conosciamo, ma perch si è dimostrato che egli, questa grossa "testa d'uovo" del capitalismo italiano ed i suoi colleghi (oggetto di reverenze alle assemblee della Montedison, alle quali spesso non mancavano alti dirigenti della classe politica italiana) avevano sperperato in iniziative folli, in gestioni avventate, in mancanza di capacità previsionali e in altre avventure finanziarie che non sappiamo ma che forse sono meno pulite di quelle che ho citato, un patrimonio enorme, e oggi hanno messo a repentaglio il posto di lavoro di migliaia e migliaia di lavoratori non solo della Montedison industria, ma di una fascia di industrie legate alla sua produzione, con una leggerezza che è criminale e che purtroppo, in una società come la nostra, nessun codice colpisce. Perché in Italia si va in galera se si ruba un libro tascabile in una stazione, o un paio di pantaloni, o un mandarino ma si va in Svezia o a Beirut se si rubano i miliardi, o al massimo si va in galera per qualche giorno, ma si ottiene immediatamente la libertà provvisoria.
Ecco un'altra realtà che ci riconduce alle scelte politiche della classe dirigente.
In sostanza, dalle consultazioni sono venuti fuori tutti i problemi che i drammatici squilibri prodotti dal gigantismo del polo torinese, del depauperamento delle risorse agricole, dallo spopolamento della montagna dal decadimento del tessuto della piccola e media fascia di produzione industriale hanno creato nelle infrastrutture e nei servizi. E non si è mai fatto in questi discorsi, nelle province, un riferimento esplicito (salvo in alcuni interventi che però non riguardavano le cosiddette "forze economiche responsabili") alle grandi scelte della politica delle autostrade e della gruviera, cioè dei trafori, che hanno presieduto alle scelte prioritarie dei governi centristi e poi di centro sinistra. Che cosa produce l'emarginamento di larghi settori della società piemontese; che cosa produce uno stato di scostamento dalle grandi linee di sviluppo economico, sociale, culturale e civile di plaghe intere della nostra Regione? Sono proprio queste grandi scelte di investimento, correlate a quella politica di priorità della concentrazione dei grandi gruppi industriali, a livello territoriale, finanziario, di indirizzo produttivo ignorando invece le esigenze di una diversa strutturazione, in primo luogo per esempio dei trasporti, della viabilità, per aiutare una crescita diversa ed equilibrata del tessuto economico e sociale del Paese.
Dalla nostra ricognizione è emersa la gravità della crisi edilizia ed è affiorata, in chiave anche qui di lamentazione, quasi che in questi anni il boom edilizio non si fosse caratterizzato più di ogni altro per una libera manovra speculativa lasciata all'arbitrio di gente che in larga misura erano anche loro avventurieri dell'iniziativa imprenditoriale; come se l'iniziativa sul terreno dell'edilizia non avesse portato il Paese ad avere un abnorme sviluppo in questo settore per cui abbiamo in ogni città (e la nostra ne è una dimostrazione impressionante) migliaia e migliaia di alloggi di lusso sfitti perché nessuno riesce a pagare i canoni richiesti mentre abbiamo lavoratori senza casa e che quando vanno ad occupare qualche casa dell'IACP (benemerita istituzione pubblica) trovano sempre un vice questore Voria il quale riesce a farli sfollare rapidamente, coadiuvato da quegli "assistenti sociali" cui accennava prima il collega Lo Turco. Questi pericolosi rivoluzionari che cosa chiedono? Chiedono un tetto per ripararsi, una casa decente e civile e niente altro che la possibilità di vedere i loro figli crescere non in un tugurio, come spesso accade, nelle banlieux dei nostri grandi centri urbani.
La somma dei problemi (e ne ometto altri) qui molto rapidamente accennati, avrebbe dovuto trovare un suo punto di ricucitura e di accenno di giudizio nella relazione presentataci dalla Giunta. Questo diafano papiro (me lo consentirà l'Assessore Petrini) che ci è stato somministrato per discutere sulla realtà economica e sociale del Piemonte, nelle condizioni di crisi in cui siamo e meno di una registrazione notarile, la quale già sarebbe stata un atto assolutamente intollerabile dal punto di vista politico, di fronte all'enormità, alla gravità ed alla pesantezza delle situazioni cui dobbiamo far fronte. E' una sorta di verbale molto stringato, direi addirittura un sommario che omette molte cose, ne immette qualcuna in modo significativo, non trae alcuna conclusione, non adombra il minimo giudizio. E' una sorta di cronaca, senza offendere nessuno e tanto meno i colleghi giornalisti (ho fatto per molti anni il cronista e so che cosa significhi svolgere questo lavoro. E' molto più difficile spesso di quello dell'editorialista) che poteva essere affidata benissimo alla puntuale registrazione di un funzionario il quale poi ci avrebbe dato conto di una verbalizzazione, con alcune amputazioni rese necessarie dalla voluminosità del documento che ne sarebbe risultato. Ma così non si produce un documento di politica economica. Non si ha neppure la rilevazione di una situazione economica e sociale che un gruppo dirigente politico, una Giunta investita di precise responsabilità possa presentare ad un Consiglio. Si ha, ripeto, un boccone di cronaca che riporta, anche malamente, le pure considerazioni udite durante le udienze nelle varie province piemontesi.
Che cosa c'é però dentro a questo diafano documento, a questa cronaca sommaria, stringata e monca? Ci sono alcune cosucce che sono anch'esse rivelatrici. Intanto, vorrei dire che il primo elemento rivelatore è proprio il fatto che questo documento tenda ad assumere un carattere neutro, di relazione di cose udite, messe lì, di fronte al Consiglio perché se le legga avendo degli spunti magrissimi per l'analisi. Ecco perché, forse, qualche collega ha spaziato sui problemi dell'universo finanziario. Non avendo elementi, non avendo potuto, anche per impegni personali, seguire le consultazioni, non era in grado di rendersi conto di quanto è veramente scaturito dal corso delle stesse. Dal documento si ricava un'altra considerazione sul tentativo di spacciare per "neutro" ci che "neutro non è". Tentativo rivelatore di una scelta politica, e nessuno più di noi era sicuro che ci sarebbe stata nella relazione una coerenza di sostanza con quello che è l'orientamento politico espresso dalla Giunta in primo luogo, nel tipo di maggioranza con la quale si regge, in secondo luogo con ciascuno degli atti che la Giunta di oggi (ma in larga parte anche la Giunta che la precedeva) ha sempre espresso nei fatti. Nelle parole si è detto qualcosa di più talora e anche qualcosa di diverso: ma nei fatti si sono sempre espressi orientamenti che indicavano chiaramente come non ci fosse neppure una linea di centro sinistra, anche se ho il dubbio che non sia mai esistita una politica di centro sinistra; ho la convinzione che sia sempre esistita una vecchia politica conservatrice di tipo centrista la quale si manifestava nella sua forma più limpida, quando aveva in sé la presenza degli amici liberali, quando aveva gli Scelba quando aveva quegli uomini che hanno dato vorrei dire un polso a questa politica di tipo fortemente, drasticamente conservatore, soltanto coperta da qualche brandello rosso alla sua sinistra. Un centrismo senza per aspetti di novità rispetto a una vecchia scelta che la D.C. (devo darle atto, con una coerenza notevole) ha fatto da 25 anni, e che è la scelta della restaurazione conservatrice, che è l'appoggio al grande capitale monopolistico, che è il freno alle rivendicazioni operaie (perché ogni conquista che in Italia si è avuta, sul terreno sociale ed economico, è il prodotto non già di atti di Governi, fossero essi Governi centristi o di centro sinistra; è il prodotto di una mobilitazione permanente delle masse lavoratrici, di una lotta che è costata e costa ogni giorno sacrifici enormi, che è costata sangue, che costa morti, signori Consiglieri. Voi come me, leggete i giornali. Consuntivo dell'Italsider: 288 morti. Ne abbiamo parlato nell'ultima seduta del Consiglio. Se scorrete le statistiche dei sindacati, i morti dell'edilizia nel corso di questi 25 anni mi pare siano attorno ai 60 o ai 70.000. Una media di quattro morti al giorno. Questo è il prezzo che la classe lavoratrice paga per le sue conquiste, che non sono conquiste corporative, bensì le conquiste che essa rivendica, che essa afferma per tutta la società.
Ognuna di quelle rivendicazioni che è passata nella realtà italiana di questi 25 anni e il prodotto di una lunga lotta, di enormi sacrifici; mai il prodotto di un atto autonomo, di una strategia autonoma della classe dirigente politica per venire incontro agli interessi della collettività e per risolvere i suoi problemi.
La Giunta che guida le sorti della Regione Piemonte, che ha espresso questo documento, è la Giunta che esprime questa linea. Non possiamo non riconoscerle, ho affermato, una coerenza. Dobbiamo dire però che essa non può mistificare i propri connotati di natura profondamente conservatrice totalmente legata alle vecchie scelte, ai grandi gruppi di potere economico, con alcune paroline che ogni tanto vengono spese dai banchi della Giunta. Basta vedere, del resto, nello stesso documento, in un brevissimo inciso, quando si parla della validità dell'insediamento della Lancia nel Biellese. E' un piccolo inciso. Forse è uno dei pochi passi in cui, in questo documento, si trova espressa una sorta di giudizio, perch per il resto veramente si tende a non esprimere giudizi.



PETRINI Luigi, Assessore all'industria

Ripete soltanto quello che è stato detto a Vercelli.



GIOVANA Mario

Caro collega Petrini, se io leggessi qui le dichiarazioni programmatiche del Presidente della Giunta e le comparassi con le cose che la Giunta stessa ha fatto, credo che potremmo riiniziare un'altra discussione e con molti elementi per contestarvi le cose dette. Sono le cose fatte, e questa è una cosa fatta. L'insediamento nel biellese è una cosa che avete fatto. Il modo con cui si è fatta vegetare da un anno e mezzo la commissione di Crescentino, con cui si è tentato di non fare neppure le consultazioni al di là di quelle con la Fiat e con qualche sindaco di parte D.C. o comunque eletto dalla D.C., sono fatti, non parole.
Sono altrettanti elementi di riprova di un orientamento politico.
Sono questi i dati che voi avete inserito qua e là, per inciso, nel vostro documento, e suonano tutti conferma dell'indirizzo che perseguite.
E' chiaro come, nel momento in cui - e anche qui bisogna nuovamente darvi atto di una certa coerenza - avreste dovuto realmente affrontare delle indicazioni di carattere programmatico che fornissero in modo organico una diversa prospettiva ai dati di incremento, di crisi agli squilibri creati dal meccanismo di sviluppo oggi vigente nella realtà italiana e coperto dalla classe dirigente politica del centro sinistra; nel momento in cui avreste dovuto fare questo, dovevate indicare delle scelte che di per sé contestassero questo meccanismo di sviluppo. Non lo potete fare; non avete la volontà politica per farlo. E' questo il nodo della faccenda.
Ecco allora perché cercate di volta in volta di assestarvi sui fatti compiuti, come al solito, dai grandi gruppi di potere che la programmazione la fanno e la fanno ogni giorno. Dopodiché ci dite: signori miei, cosa volete, quelli hanno già provveduto; vediamo di correggere qualche cosa, di diminuire la gravità delle conseguenze sociali che queste decisioni privatistiche scaricano sulla comunità. Ma non c'é mai una previsione, una strategia programmata che tenda a contestare questo meccanismo di sviluppo.
Ecco perché voi, nel momento in cui prendete atto di queste situazioni regionali, che sono la denuncia patente di come il meccanismo di sviluppo non sia in funzione degli interessi della collettività ma sia in funzione di pochi interessi privati, non potete offrirci se non delle registrazioni di tipo notarile, e semmai spendere qualche auspicio per un avvenire lontano di riforme e di orientamenti nuovi, il quale però non si sa quando verrà e come e non si sa con quali atti si collocherà nella operatività politica per diventare concretezza e quindi alternativa reale agli orientamenti finora seguiti e tuttora in atto.
Credo che questo documento sia lo specchio proprio di questi aspetti. E devo dire che mi ha tanto più deluso in quanto, francamente, pensavo che pure nell'ambito di una coerenza di destra quale può esistere nella Giunta che voi rappresentate, ci fosse almeno una diversa capacità pratica di collocarsi di fronte a una serie di problemi così gravi e così ingenti.
Penso che la mancanza di ciò provenga anche da un dato di insufficienza nel promuovere in modo organico la politica di destra. Siete in grado di vivere un po' alla giornata, di fronte ai problemi; di cercare di ripararvi dai loro effetti peggiori; ma non siete nella condizione di dare una direttrice di orientamento a lungo respiro alle scelte fondamentalmente conservatrici che stanno alle vostre spalle. E' per questa ragione che, al di là del documento, al di là dell'occasione offerta dalla consultazione delle province per arrivare a questo dibattito, io credo che ciò che vale è il giudizio politico di fondo sul modo in cui la maggioranza del Consiglio Regionale si atteggia rispetto ai grandi problemi della Regione Piemonte. I quali sono sostanzialmente, se li prendete uno per uno, la rappresentazione in microcosmo di tutti i grandi problemi della realtà italiana. Ed è proprio il fatto che - siamo in una regione in cui ciascun problema è momento di verifica di una realtà nazionale più vasta, e quindi del meccanismo di sviluppo di quelle scelte di fondo alle quali accennavo prima, che mentre la pressione sociale sale, mentre le tensioni sociali esplodono in una direzione inversa alle scelte che volete compiere all'interno delle stesse forze che voi rappresentate ci sono aspirazioni spinte, sollecitazioni che voi non potete riassorbire tutte nell'ambito di una politica conservatrice. Voi allora cercate di presentarci dei documenti di questa natura, vi studiate di offrire alla Regione Piemonte non una linea di comportamento politico nell'affrontare i problemi, ma una linea di vivacchiamento a margine di quelle scelte che altri fanno: e sono quegli altri che le hanno sempre fatte e verso i quali la Giunta, presieduta dal conte Calleri, dimostra una singolare, spesso persino troppo scoperta arrendevolezza. E' manifesto, in ogni vostro singolo atto, quello che cercate di nascondere in questo documento. E' manifesto l'intento di procedere per una strada che può darsi vi dia ancora dello spazio per una azione politica di qualche tempo, ma che non è certamente la strada che va nella direzione degli interessi della collettività piemontese, né tanto meno quella che va nella direzione dell'avvenire della realtà italiana.


Argomento: Tutela dagli inquinamenti idrici - Tutela dagli inquinamenti del suolo - smaltimento rifiuti - Difesa idrogeologica

Interpellanza dei Consiglieri Fabbris e Besate sull'inquinamento dei corsi d'acqua Rio Ottina e torrente Cervo.


PRESIDENTE

Non ho altri iscritti a parlare per la seduta di questo pomeriggio. Vi sono alcune interrogazioni e interpellanze alle quali la Giunta è pronta a rispondere e vi sono qui gli interroganti e gli interpellanti. In particolare vi è un'interpellanza presentata dai Consiglieri Fabbris e Besate sull'inquinamento dei corsi d'acqua Rio Ottina e Torrente Cervo.
Ha facoltà di illustrarla uno dei presentatori.



BESATE Piero

Quando abbiamo presentato quest'interpellanza, la collega Fabbris ed io, si era nel mese di ottobre e non avevamo ancora fatto alcune esperienze che abbiamo avuto occasione di fare successivamente in tema di inquinamenti. E se anche questo Rio Ottina è un piccolo corso d'acqua che dalle parti di Cossato, scorre fino al torrente Cervo, ritengo sia giusto combattere per mantenerlo pulito per quelle popolazioni e per lottare contro gli inquinamenti. Il Rio Ottina, che un tempo era un corso d'acqua normale rispecchiante "le chiare e fresche acque" del Petrarca, oggi invece è diventato una fogna a cielo aperto, un corso d'acqua morta dove non c' più segno di vita, né ittico, né di microrganismi, nemmeno dei topi d'acqua, perché raccoglie gli scarichi nocivi delle industrie. Così le risorse naturali vengono utilizzate gratuitamente dagli industriali a scapito della collettività. Ma è avvenuto che, nella prima decade di ottobre, si siano avute morie di pesci persino nel Cervo, a causa di sostanze particolarmente tossiche scaricate nel Rio Ottina.
Io credo che noi tutti, la Regione e gli operatori pubblici dobbiamo porre la più grande attenzione a questi avvenimenti e intervenire in modo da far pagare i responsabili affinché non rimangono i soliti ignoti (perch le popolazioni della - località sanno benissimo chi sono e quali sono le industrie che provocano l'inquinamento e che prevaricando, non dico le norme di legge, ma persino ogni convenienza, compiono atti che gridano vendetta al cielo e rappresentano uno spudorato modo di rapinare le risorse della natura).
In una riunione che come Comitato di difesa abbiamo tenuto a Crescentino su questo problema, che è sempre in discussione e che è stato ricordato anche dal compagno Giovana, un eminente cultore di scienza in questo campo ci ha richiamati tutti alla grande importanza della difesa della natura e delle risorse naturali, della lotta contro gli inquinamenti e ci siamo accorti che bisogna combattere in ogni momento, anche per i più piccoli casi che si verificano, una battaglia irriducibile e rigorosa contro chi è responsabile di queste azioni contro l'umanità; così facendo si compie non solo un'opera umanitaria, ma si compie un'opera politicamente giusta di salvaguardia di un corretto sviluppo economico e dell'ambiente nel quale vive l'uomo.
Per questo abbiamo chiesto che la Giunta non solo ci dicesse qualche cosa sull'inquinamento del Rio Ottina, ma quali interventi intende promuovere non solo per impedire questi atti ma anche per accertare e colpire coloro che ne sono i responsabili.



PRESIDENTE

Ha facoltà di rispondere l'Assessore Chiabrando.



CHIABRANDO Mauro, Assessore alla tutela dell'ambiente e agli inquinamenti

Risponderò in particolare sull'approfondita indagine che abbiamo fatto in merito a questo inquinamento.
Per quanto riguarda l'ultima domanda posta dal Consigliere Besate e cioè quali iniziative la Giunta intende intraprendere in tema di inquinamenti, avrò modo di dirlo più ampiamente in occasione della risposta che darò nei prossimi giorni ad un'altra interpellanza che concerne in modo specifico gli inquinamenti.
In seguito alla presentazione dell'interpellanza dei Consiglieri Fabbris e Besate, l'Assessorato ha preso immediatamente contatto con il reparto chimico del laboratorio provinciale di igiene e profilassi e con l'Ufficio Caccia e pesca della Provincia di Vercelli, al fine di precisare la concreta situazione di inquinamento nel Rio Ottina e nel Torrente Cervo per conoscere gli interventi che quell'Amministrazione Provinciale nell'ambito delle sue competenze, ha intrapreso per porvi rimedio.
L'iniziativa dell'Assessorato si inquadra anche nell'indagine conoscitiva che, come comunicato in varie occasioni, la Giunta ha da tempo avviato e dalla quale dovrà emergere il quadro della situazione regionale relativa agli inquinamenti, al fine di proporre poi coordinate iniziative di prevenzione e di lotta. Come riassunto nella premessa dell'interpellanza, il giorno 8 ottobre nel Torrente Cervo, nel tratto fra il Rio Ottina e il ponte autostradale, era stata accertata un'improvvisa moria di pesci; il personale tecnico, intervenuto poche ore dopo constatava che sulle acque del Cervo, in prossimità del ponte sulla strada crocicchio Buronzo, galleggiavano senza vita numerosi pesci, che l'acqua aveva un colore giallognolo ed un odore sgradevole. Si prelevava di conseguenza un campione d'acqua per gli esami di laboratorio. Dai risultati analitici emergeva che l'acqua prelevata non risultava tossica per l'ittiofauna, anche se il Cervo si doveva considerare inquinato per la presenza di 2,38 mmg, di ammoniaca e di altre sostanze nocive. Il fatto che le acque del Cervo al momento del prelievo non fossero più tossiche per l'ittiofauna è facilmente spiegabile: il Cervo ha di solito un inquinamento medio ancora accettabile per l'ittiofauna e non risente troppo, in regime normale, delle giornaliere immissioni inquinanti scaricate dalle industrie al termine di ogni ciclo di lavorazione. Nel mese di ottobre, a causa della scarsità delle precipitazioni atmosferiche, il torrente aveva una portata ridotta e ogni scarico industriale, anche se di breve durata, causava un massiccio inquinamento ed una conseguente moria di pesci. Trattandosi di scarichi discontinui provenienti da industrie difficilmente identificabili il suo inquinamento rientrava nei limiti normali entro breve tempo.
Fatta questa necessaria precisazione, la situazione specifica richiamata nella premessa dell'interpellanza, si deve dire che già prima ma specialmente dopo l'inquinamento descritto, Rio Ottina e il Torrente Cervo sono sotto attento controllo del laboratorio chimico di Vercelli; non appena terminata la serie di controlli attualmente in corso, verrà predisposta una relazione dettagliata sul tipo di inquinamento dei due corsi d'acqua e sulle relative cause sulla base delle quali potranno essere adottati dalla Provincia, coordinatamente alla Regione, opportuni interventi, di prevenzione e di lotta.
A tutt'oggi la situazione è la seguente: il Rio Ottina riceve gli scarichi industriali di sei ditte che concorrono a determinare un certo inquinamento di fondo. E' stato però accertato che le sostanze veramente nocive per l'ittiofauna e dannose per l'agricoltura provengono da una sola industria, una slanatura collocata nel comune di Massazza che scarica circa 5000 mc. di acqua inquinata al giorno. Da tempo la Provincia ha chiesto che la ditta impianti un idoneo sistema di depurazione delle acque di scarico dopo la moria dei pesci dell'ottobre scorso, effettuati nuovi controlli sulla slanatura di Massazza, alla ditta è stata elevata contravvenzione in base all'art. 6 del T.U. sulla pesca e gli atti relativi sono stati trasmessi all'autorità giudiziaria.
Per quanto invece riguarda il Torrente Cervo la situazione è la seguente: le industrie in numero di 22 sono principalmente collocate nei comuni di Vigliano, Biella, Tollegno, Sagliano Micca e concorrono, insieme agli scarichi delle fognature comunali di Biella, a rendere inadatto, in alcuni tratti, il torrente alla vita dell'ittiofauna. La situazione del Torrente Cervo migliora leggermente in condizioni normali di portata scendendo verso la pianura vercellese. Nessuna delle 22 industrie dispone di impianti di depurazione. Ad un primo esame è risultato che 12 delle 22 industrie scaricano nel torrente prodotti nocivi. Finora soltanto due stabilimenti hanno ottenuto il permesso per il versamento delle acque di scarico, di cui all'art. 43 della legge del '55, e hanno accettato gli impegni richiesti dalla Provincia.
Come ho già detto, tutta la situazione è sotto attento controllo da parte del laboratorio chimico di Vercelli. Le analisi e le indagini proseguono e contiamo di conoscere al più presto i dati definitivi relativi alle condizioni di inquinamento analitici che per ogni scarico di industrie e di fognatura comunale permettano precisi interventi di prevenzione, di lotta e di repressione degli inquinamenti. Mi riservo pertanto di riferire nuovamente al Consiglio sull'argomento. Per altro verso è opportuno precisare che il problema degli scarichi industriali è attualmente oggetto di studio e auspichiamo presto l'intervento da parte del Consorzio per il risanamento delle acque biellesi recentemente costituito dalla locale Associazione Industriale.
Ritengo di poter concludere richiamando quanto il mio predecessore avv.
Fonio ed io stesso abbiamo più volte avuto occasione di riferire in Consiglio in merito al contributo che la Regione può dare alla lotta contro l'inquinamento; compito fondamentale della Regione è fare opera di incentivazione, di coordinamento delle iniziative comunali e provinciali ai fini di rendere più omogeneo l'intervento pubblico su tutto il territorio della Regione. Inoltre la Regione, avvalendosi dei suoi indiscussi poteri in materia di polizia urbana e rurale, deve assumere ogni iniziativa per adeguare e coordinare i regolamenti dei comuni piemontesi anche agli specifici fini della prevenzione, dell'accertamento e dalla lotta agli inquinamenti.
In particolare la Regione deve arrivare a promuovere la formazione di reti di depurazione anche per gli scarichi civili, favorendo la costituzione di Consorzi fra gli Enti locali e ogni altra iniziativa utile a tal fine. Lungo le sopraccennate direttrici operative si sta muovendo l'attività del mio Assessorato e aggiungo, a conclusione che nei prossimi giorni riferirò più dettagliatamente su tutta l'attività dell'Assessorato Regionale in merito agli inquinamenti, riferendomi a due interpellanze giunte successivamente e dove il problema è trattato ampiamente.



PRESIDENTE

Ha facoltà di dichiararsi o meno soddisfatto l'interpellante.



BESATE Piero

Mi dichiaro soddisfatto, ma invito l'Assessorato e la Giunta a volere sollecitare il laboratorio di igiene e profilassi di Vercelli a riferire sull'indagine che ha in corso. Prego l'Assessore di volermi riferire cortesemente in merito.


Argomento: Bilancio - Finanze - Credito - Patrimonio: argomenti non sopra specificati

Interpellanza dei Consiglieri Besate e Ferraris delle divergenze tra il Consorzio irriguo Angiono Foglietti e gestione Cogne circa pagamento tariffe (Rinvio)


PRESIDENTE

Prendiamo ora in esame un'altra interpellanza presentata dai Consiglieri Besate e Ferraris sul tema "Divergenze tra il Consorzio irriguo Angiono Foglietti e la gestione Cogne circa il pagamento tariffe".
Ha facoltà di illustrarla, se lo ritiene, un interpellante.



BESATE Piero

Dovrei illustrarla un po' a lungo, se la può rinviare è meglio perch penso che sarà abbastanza elaborata.



PRESIDENTE

Allora la rinviamo ad un altro giorno.



BERTI Antonio

Quando lei lo ritiene opportuno, avrei una dichiarazione da fare.



PRESIDENTE

Tra poco terminiamo la seduta e le darò la parola.


Argomento: Pianificazione territoriale - Urbanistica: argomenti non sopra specificati

Interrogazione dei Consiglieri Nesi, Giovana e Rivalta sui problemi posti nell'area del comune di Verolengo dal previsto insediamento della Fiat in Crescentino


PRESIDENTE

Prendiamo ora in esame l'interrogazione presentata dai Consiglieri Nesi, Giovana e Rivalta sui problemi posti nell'area del comune di Verolengo dal previsto insediamento della Fiat in Crescentino.
Risponde l'Assessore Cardinali, il quale ha facoltà di parlare.



CARDINALI Giulio, Assessore all'urbanistica e all'assetto territoriale

Il gesto del collega Giovana mi ha in parte tranquillizzato perch l'interrogazione è di parecchio tempo fa, anche se in realtà eravamo pronti da molto, ma si segue un certo ordine inserendo nei lavori del Consiglio di tanto in tanto, anche le interrogazioni.
I fatti contenuti nell'interrogazione sono stati superati da una riunione che ha avuto luogo nei giorni scorsi, tenuta dalla Commissione per l'insediamento di Cresentino, nella quale, presenti il sottoscritto, il Consigliere Giovana e altri componenti della Commissione, abbiamo ascoltato gli amministratori di Verolengo che fanno parte dell'attuale maggioranza del Comune. Abbiamo così appreso che in realtà non si è fatto un passo avanti per quel che riguarda la definizione del loro rapporto con la Soc.
Fiat ed il suo insediamento. Il solo elemento emerso è che il Comune di Verolengo ha fatto predisporre (sembra l'abbia pronto) il programma di fabbricazione, che però non ha ancora esaminato a livello di Consiglio Comunale.
Il fatto positivo che si è acquisito, è l'impegno da parte degli Amministratori di Verolengo (impegno del resto che siamo in grado di verificare con gli strumenti di cui già siamo in possesso per l'art. 7 della legge 865) di rivedere insieme con la Regione le caratteristiche precipue che si riferiscono alla parte insediativa conseguentemente alla costruzione dello stabilimento Fiat.
Il problema quindi è tuttora aperto in quanto saremo in grado di influenzare determinate decisioni del Comune di Verolengo, al quale in sede di Commissione abbiamo già raccomandato la ricerca di soluzioni urbanistiche che tengano conto, nel momento in cui l'insediamento abitativo venga determinato, anche di certe caratteristiche come lottizzazione e convenzioni conseguenti che lo mettano in condizione di ottenere il massimo di garanzia da parte della Fiat.



PRESIDENTE

Ha facoltà di replicare il Consigliere Giovana.



GIOVANA Mario

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, sono dolente di dovermi dichiarare totalmente insoddisfatto della risposta del Vicepresidente della Giunta. Essenzialmente per un motivo, quello che aveva già determinato la presentazione da parte nostra dell'interrogazione con carattere d'urgenza.
Si trattava di un'interrogazione da noi presentata in quanto avevamo inviato, in data 23 ottobre al Presidente della Giunta, nella sua veste di Presidente della Commissione mista per l'insediamento di Crescentino, un sollecito a convocare la Commissione stessa, stanti le notizie pervenuteci in merito agli atteggiamenti che il Sindaco di Verolengo (non la Giunta perché a quel momento risultavano essere atteggiamenti personali del Sindaco, il quale sembra avesse avviato delle contrattazioni con l'IACP e con la Fiat in merito soprattutto all'insediamento da realizzarsi a Borgo Revel) aveva assunto. Noi chiedevamo allora che la Commissione fosse urgentemente convocata per esaminare questo comportamento e per riaprire la fase delle consultazioni che di fatto, per quanto certamente era nella volontà della Giunta, doveva considerarsi conclusa. Invece la Commissione è stata convocata soltanto la scorsa settimana (e devo dire per merito dell'opposizione e del collega Garabello, presente anch'egli in quella Commissione) accedendo questa volta alla richiesta nostra di ascoltare non soltanto il Sindaco e la Giunta di Verolengo, ma tutti i Gruppi consiliari di quel comune, quello di Crescentino e quello di Saluggia.
E' evidente che il discorso inerente alle scelte di merito in materia lo riprenderemo nel momento in cui arriveremo a conclusione con i lavori della Commissione.


Argomento: Urbanistica (piani territoriali, piani di recupero, centri storici

Interrogazione dei Consiglieri Berti e Rivalta sull'assegnazione delle aree alle cooperative finanziate dal Bando Gescal.


PRESIDENTE

Esaminiamo ora un'ultima interrogazione presentata dai Consiglieri Berti e Rivalta, relativa alla sollecita assegnazione delle aree alle cooperative finanziate dal Bando Gescal.
Ha facoltà di rispondere l'Assessore Cardinali.



CARDINALI Giulio, Assessore all'urbanistica e all'assetto territoriale.

In merito a questa interrogazione, il problema è stato affrontato in una riunione che è stata tenuta presso l'Assessorato, a cui hanno partecipato rappresentanti delle cooperative e l'Assessore Picco del Comune di Torino. In questa riunione noi abbiamo richiesto che venissero rimossi da parte del Comune di Torino tutti quei motivi di arresto che non avevano consentito la cessione delle aree alle cooperative, fatto estremamente grave perché mentre ritardava la possibilità di costruire edifici di notevole importanza, faceva correre il rischio che se decorrevano i termini del 31.12.72 lo stanziamento Gescal potesse essere perso a questi fini.
Il risultato che abbiamo ottenuto è quello di un rapporto diretto fra cooperative e Assessorato del Comune di Torino e l'Assessore Picco ha dichiarato di avere ormai perfezionato gli atti relativi alle zone da cedere in base alla legge 167, in concomitanza anche con l'importo richiesto e deliberato per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria presentate alla Regione entro il 31.12.1971.
Noi riteniamo che questi rapporti tra l'Assessore Comunale e le Cooperative abbiano esito rapido e definitivo. E' evidente che non lasceremo trascorrere tempi lunghi per tenerci al corrente se la cosa si realizza, anche perché nella stessa riunione era stata sollevata da alcuni Amministratori dei Comuni della cintura torinese, la necessità di affrontare, anche ai fini degli insediamenti abitativi, il problema comprensoriale dell'area torinese. L'Assessore Picco si era dichiarato disposto a valutare la questione con i Comuni della cintura.
Io ho ricevuto in questi giorni alcuni telegrammi dagli Amministratori di quei Comuni che chiedono l'intervento della Regione, per favorire lo studio della risoluzione del problema del comprensorio. Dico subito che l'occasione che ci si offre non la lasciamo perdere e vedremo di individuare, ove vi fossero, residui ostacoli, al fine della collocazione certa, entro i termini prestabiliti, di tutte le cooperative edilizie che ne hanno fatto richiesta.



PRESIDENTE

Ha facoltà di parlare il Consigliere Rivalta.



RIVALTA Luigi

Accolgo positivamente l'informazione che l'Assessore Cardinali ci ha fornito; spero che il tutto abbia un seguito in tempi ravvicinati in quanto, per quello che mi constava fino a ieri, la questione non ha avuto una soluzione. Occorre anche tener conto che questo protrarsi dell'atteggiamento del Comune di Torino, oltre a impedire una ripresa dell'attività edilizia come richiesto da parte delle organizzazioni sindacali, pone gli appartenenti alle cooperative, cioè 800 famiglie, nella condizione di pagare un affitto elevato, 40/50.000 lire. Ciò significa 40/50 milioni al mese di affitti pagati ai proprietari privati, quando già i fondi della Gescal sono da più di un anno stanziati, in attesa di utilizzo.
Non posso esprimere il mio giudizio negativo sull'atteggiamento del Comune di Torino, che era stato sollecitato a predispone i piani per l'assegnazione delle aree a queste cooperative, fin dal novembre del 1970.
Allora le organizzazioni cooperative avevano preannunciato che essendo previsto per il marzo del '71 il Bando Gescal (che per Torino avrebbe significato appunto 50/60 cooperative) sarebbe stato opportuno predisporre i piani. Lettere successive sono state inviate senza esito.
Spero quindi che l'intervento della Regione abbia esito.
Per quanto concerne gli altri aspetti che l'Assessore Cardinali ha sollevato circa l'attuazione della legge, con riferimento all'impegno della Regione di seguire la vicenda, di promuovere una azione coordinata comprensoriale per l'attuazione della 167, li ritengo positivi, ma richiamerei l'attenzione sul fatto che quando l'Assessore Cardinali si riferisce alla Regione come strumento di una politica di questo tipo, deve anche definire in che modo la Regione interviene, in che modo il Consiglio le Commissioni possono essere partecipi di queste iniziative.


Argomento: Organizzazione regionale: argomenti non sopra specificati

Sulla presenza in aula dei Consiglieri e dei membri della Giunta Regionale


PRESIDENTE

La conferenza dei Capigruppo è indetta per domani mattina alle ore 9,30.
Ha chiesto di parlare, per fare una dichiarazione, il Consigliere Berti, ne ha facoltà.



BERTI Antonio

E' un appello che rivolgo alla sua autorità di Presidente del Consiglio Regionale.
Noi stiamo affrontando un dibattito che ha interessato moltissimo le forze esterne, soprattutto quelle dei lavoratori che se l'avessimo fatto a Palazzo Madama, sarebbero affluite in gran numero per sentire come il Consiglio affronta i problemi e propone le soluzioni alle loro questioni.
Devo dire che lo spettacolo che stiamo offrendo a chi ci segue è desolante. Noi conosciamo attraverso i giornali il modo di operare del Parlamento, è veramente un fatto negativo il sapere che molte volte in un'aula così grande ci sono solo l'interrogante ed il Ministro o il Sottosegretario che risponde, e in occasione anche di altri dibattiti pochissimi parlamentari in aula. Noi pensiamo di non dover seguire questo esempio. Certo non c'è l'obbligo di sentire quelli che parlano, non c'è neanche l'obbligo di stare in aula, ma c'è l'impegno morale di tutti i Consiglieri, soprattutto quando dalla tribuna decine di persone ci seguono di stare nell'aula. Io so che nella giornata si sono tenute una serie di riunioni e che certe assenze sono giustificate, tuttavia ritengo (e per questo mi appello alla sua autorità) che lei dovrebbe domani mattina, in apertura di seduta, invitare i Consiglieri e i membri della Giunta ad essere, per quanto possibile, presenti nell'aula. Il che non vuol dire che non ci si possa assentare per qualche minuto, ma in linea di principio dobbiamo stare qui dentro, perché il quadro è veramente desolante.
Per quanto riguarda il mio gruppo facciamo quanto è possibile perch tutti restino al loro posto, ma alla fine anche noi finiamo per essere contagiati e qualcuno se ne esce.
Concludendo questo appello che faccio personalmente, neanche a nome del Gruppo, la invito caldamente, lei che è molto rispettoso dell'atteggiamento che ogni Consigliere assume, a richiamarli a questo loro dovere. Ad un certo punto occorre che ognuno senta il dovere di stare nell'aula soprattutto quando c'è della gente che ci osserva. Dico questo perché ho avuto stamattina una discussione con alcune persone che erano in tribuna anche con un sindaco, con il quale ho dovuto aspramente difendere i doveri e i diritti del Consiglio Regionale.
Noi siamo già poco creduti per mille e una ragione, quindi prego caldamente che non si facciano delle riunioni mentre è in corso il dibattito, al limite sospendiamo il Consiglio per fare delle riunioni, ma per quanto è possibile stiamo in aula. La invito a dire questo a tutti i Consiglieri che ritengono invece di poter uscire durante un dibattito.



PRESIDENTE

Mi farò premura di rivolgere a tutti i Consiglieri questa raccomandazione, anche perché condivido il suo timore che il contagio possa invadere tutti i Gruppi e che finisca quindi per determinare uno stato di forte carenza nelle presenze in questo Consiglio.
Le faccio presente però che, nella seduta di questo pomeriggio, la riunione che è andata avanti parallelamente al Consiglio riguardava materie abbastanza affini, perché era la riunione congiunta delle Commissioni I^ e VIII^ che dovevano approvare il loro parere sullo Statuto dell'IRES, per consentire poi al Consiglio, domani, di prendere in esame questa questione urgente, onde attuare le cose che si stanno dicendo qui, mediante i pareri di cui ha bisogno la Regione. Credo che 15 o 16 Consiglieri siano stati presenti a quella riunione che è stata abbastanza complessa, ma tuttavia fruttifera perché ha permesso di concludere in Commissione l'esame di quello Statuto.
Le faccio anche osservare, per quel che riguarda l'invito alla Giunta che se ci fosse stata una contrapposizione fra tutto il Consiglio e tutta la Giunta oggi, quest'ultima sarebbe stata in maggioranza, non con i Consiglieri sul banco del Consiglio, ma con gli Assessori presenti qui perché la maggior parte dei Consiglieri erano impegnati in quella riunione.
Tuttavia, raccolgo il suo invito perché mi pare che avendo osservato finora abitudini abbastanza corrette in questo Consiglio Regionale, si possa, con un richiamo discreto al senso di responsabilità dei Consiglieri, ottenere che manifestino la loro presenza in aula.
La riunione dei Capigruppo essendo indetta per domattina alle 9,30, il Consiglio è convocato in quest'aula domattina alle ore 10,30 per la prosecuzione dell'esame dell'o.d.g. La seduta è tolta.



(La seduta ha termine alle ore 19,40)



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