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Dettaglio seduta n.4 del 23/07/70 - Legislatura n. I - Sedute dal 6 giugno 1970 al 15 giugno 1975

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Argomento:


PRESIDENZA DEL PRESIDENTE VITTORELLI


Argomento: Statuto - Regolamento

Statuto Regionale Adempimenti (seguito della discussione)


PRESIDENTE

La seduta è aperta. Proseguiamo nella discussione del n. 4 dell'o.d.g.
"Statuto Regionale, Adempimenti".
Ha facoltà di parlare il Consigliere Minacci.



MINUCCI Adalberto

Signor Presidente, signori Consiglieri, devo confessare un certo disagio nel prendere la parola non solo perché l'aula è un po' vuota, ma anche per il carattere che ha assunto finora, a mio avviso, il dibattito un carattere che ha suscitato in me molte perplessità perché ha avuto un contenuto e un tono prevalentemente giuridico, con qualche venatura, mi si permetta, di formalismo disquisitorio e col sospetto sempre incombente che ad una certa esibizione di formule o ai frequenti richiami dottrinari corrisponda poi, e non per un difetto dei colleghi, indubbiamente, ma per la natura stessa del nostro dibattito che non può essere quello di un convegno di studi, ma è e deve essere quello di un'assemblea politica corrisponda dicevo, un certo grado di improvvisazione, di pressappochismo di cui è assai improbabile che la commissione che nomineremo per la formulazione dello Statuto possa trarre degli elementi molto utili.
E' evidente che anch'io ritengo ovvio che la commissione dello Statuto dovrà addentrarsi sul terreno proprio delle discipline giuridiche costituzionali, avvalendosi anche dell'apporto formale di esperti, di professionisti di discipline giuridiche. Ma non spetta assolutamente a quest'Assemblea e a questo dibattito confezionare un bagaglio di formule e di nozioni da consegnare bell'e pronto a questa commissione che sta per partire. Io credo che a noi spetti invece il compito di delineare le premesse politiche, le coordinate politiche da cui deve muovere il nostro lavoro e l'elaborazione stessa dello Statuto. Dobbiamo cioè calare questo atto iniziale primario della nostra assemblea e della vita della Regione nella realtà politica, vorrei dire nelle temperie, nel clima politico di cui siamo del resto espressione perché eletti dalla volontà degli elettori dobbiamo cioè affermare con chiarezza che gli stessi indirizzi della elaborazione statutaria, per quanto debbano necessariamente tradursi in formule aride e apparentemente neutre, non potranno non essere impregnati di questo clima, di questa realtà politica.
Addentrarci oggi in una contrapposizione di schemi formali, può forse dare a qualcuno l'illusione della concretezza, di portare cioè un contributo preciso alla commissione, ma a mio avviso si tratta solo di una pseudo concretezza. In realtà segna un distacco tra l'edificio che vogliamo costruire e i processi sociali e politici di cui questa assemblea è espressione e su cui questa assemblea è chiamata ad intervenire. Ed in questo senso io ritengo che l'intervento del mio compagno di partito e di gruppo Lo Turco, sia stato di una pregnanza eccezionale nel quadro del dibattito che si è svolto ieri. Forse qualche collega avrà, storto la bocca, qualcuno non l'ha detto ma avrà pensato che cosa c'entra col tema io credo che ci sia entrato più di molti altri interventi che avevano la pretesa di suggerire le norme alla commissione che prepara lo Statuto, che ha creato un collegamento diretto, fisico con la realtà con cui vogliamo davvero confrontarci, come assemblea eletta dal popolo. Io penso che noi tutti avvertiamo la responsabilità enorme che grava su di noi nel momento che ci accingiamo a dar vita a quella che abbiamo convenuto di chiamare la fase costituente del nuovo istituto regionale e a definire, anche attraverso la formulazione dello Statuto, la forma e la sostanza del mandato che vogliamo e che dobbiamo esplicare, il ruolo dell'Ente Regione la sua funzione di guida e di governo non soltanto di fronte alla popolazione piemontese che direttamente rappresentiamo, ma anche di fronte alle esigenze e al destino di tutta la società nazionale. Responsabilità enorme, dicevo, in primo luogo perché siamo consapevoli e con noi è consapevole l'opinione pubblica democratica, le grandi masse popolari, che l'avvento della Regione non significa, non può significare, anche se da qualche intervento mi è sembrato che questa fosse, tutto sommato, la concezione, non può significare una semplice aggiunta quantitativa alla vita democratica del nostro Paese, una sorta di ingranaggio in più che si viene ad aggiungere a una macchina già formata, già collaudata e di cui si ritengono immodificabili nella sostanza, le strutture di fondo. L'avvento della Regione significa e deve significare un mutamento qualitativo, un rinnovamento profondo di tutto il quadro istituzionale che regola lo sviluppo della società e le funzioni dello Stato. L'avvento della Regione in altre parole, deve significare una ristrutturazione e, se vogliamo, una rifusione del complesso di istituti su cui si regge la nostra democrazia repubblicana. E del resto così vollero i costituenti che disattesi per ventidue anni avevano però collocato l'istituto regionale al centro di tutto il sistema di relazioni istituzionali e così vuole, credo, la realtà di oggi, i compiti che ci piombano direi quasi addosso per la realtà dei processi sociali e politici di cui siamo testimoni e protagonisti.
In secondo luogo io credo che la nostra responsabilità sia oggi accentuata, acuita dalla peculiarità e se mi consente l'espressione, dalla drammaticità della situazione politica odierna. Dal punto critico a cui è giunta la vita del nostro Paese, l'inquietudine che oggi circola in tutti gli ambienti politici e nell'opinione pubblica, prima per le improvvise dimissioni del governo Rumor, la crisi al buio, come si è detto all'esterno dei partiti, all'esterno dello stesso Ministero, inquietudine perché è stato un tipo di crisi che forse più di ogni altra ha rivelato un malessere molto profondo, una sorta di male oscuro che sta oggi circolando negli equilibri, negli ambienti politici italiani; inquietudine anche per gli sviluppi ultimi, alcuni dei quali noi giudichiamo positivamente, basta leggere le notizie di oggi, il fatto che finalmente si delinei la possibilità di un confronto aperto e non al buio sui destini del governo nazionale, sui rapporti fra le forze politiche, anche sui rapporti all'interno delle singole forze politiche. Ma questa inquietudine, questo malessere, noi avvertiamo che non è un problema collegato alle vicissitudini di una formazione ministeriale, di questo o eventualmente di un altro governo, se fosse solo questo non si tratterebbe che di aspettare che si giunga ad un sia pur stentato accordo in sede governativa e che il governo lo sancisca e si ricomincia come prima. Non è così e credo che tutti lo avvertiamo e ormai lo avverte la grande opinione pubblica: il travaglio ministeriale, le crisi a ripetizione che si sono avute in questi ultimi due anni, soprattutto nel corso dell'ultimo anno, senso di instabilità e di vuoto di direzione se non di potere; c'e chi parla di vuoti di potere, io ritengo che quando c'é un vuoto di direzione governativa il potere anzi sia più pressante che mai perché viene esercitato da altre centrali. Ma queste vicissitudini a livello ministeriale non sono che un sintomo di una crisi molto più profonda, che investe tutta la società italiana e io ritengo la più acuta crisi, la più drammatica che il Paese abbia attraversato dalla Liberazione ad oggi ed e una crisi molto profonda perché si tratta di una crisi insieme sociale e politica, che comincia anche a investire le istituzioni, destinata a durare; non so se l'on. Andreotti riuscirà nel suo tentativo, ma anche se si formasse in fretta un nuovo governo, come è auspicabile del resto, la crisi durerà proprio perché se si tratta di una crisi sociale che è al di sotto, è molto più profonda degli equilibri che si possono raggiungere a livello politico parlamentare.
Se abbiamo chiara la natura di questa crisi di fondo e se affrontiamo in questa prospettiva il discorso sulle sue possibili soluzioni comprendiamo quale ruolo può davvero assolvere la Regione, quale peso pu avere nel determinare uno sbocco democratico, una risposta avanzata al malessere, alle inquietudini della società di oggi, l'avvento di un nuovo istituto che sia davvero centro di promozione ed espressione di una spinta democratica che oggi è in atto nel Paese. E comprendiamo anche, con maggiore chiarezza, su quali linee occorra procedere per l'elaborazione stessa dello Statuto, di uno Statuto che corrisponda pienamente a questo ruolo che noi vogliamo assegnare all'istituto che sta nascendo. Io credo che la questione centrale, punto di analisi da cui occorre partire consista in questo: stanno venendo oggi al pettine nodi di un ciclo ventennale della nostra storia, stanno venendo al pettine sul piano economico, siamo di fronte alla fine delle illusioni che pure ebbero tanta fortuna nel corso degli anni '50 e che qualcuno poi si è portato dietro come proiezione ormai superata anche in questi ultimi anni, illusioni fondate su una espansione risolutrice del capitalismo moderno, capace di risolvere tutti gli squilibri del Paese, di tradurre il progresso sociale in progresso produttivo. A Torino noi abbiamo avuto una filosofia, una pubblicistica, abbiamo avuto i poeti di questo mito del progresso tecnico del capitalismo moderno e quindi ne sappiamo qualcosa. A vent'anni dalla nascita di queste illusioni ci ritroviamo con tutti gli squilibri nazionali più acuti che mai, ci ritroviamo con la questione meridionale che è diventata più grave e se vogliamo più cancrenosa di quanto non sia mai stata, del resto testimoniata da un distacco di fatto che si è accresciuto tra il nord e il sud, ci ritroviamo con un rapporto città-campagna più squilibrato e più squilibrante che mai anche all'interno di Regioni che vengono ritenute avanzate come il Piemonte e ci ritroviamo con un fatto nuovo, con un'aggravante in più che vent'anni fa non poteva essere considerata e forse neppure dieci anni fa, che anche le cosiddette aree industriali, le aree forti che venivano indicate da certi iniziali cultori della programmazione economica, come i poli che dovevano rappresentare non solo un esempio ma anche un traguardo per le Regioni sviluppate, (parlo della nostra zona, dell'area metropolitana di Torino, delle grandi aree del nord) in realtà sono piombate anche esse in una crisi acutissima e di tipo nuovo. Le tensioni sociali che oggi stanno vivendo città come Torino, come Milano sono espressione di città che stanno, come qualcuno ha detto esplodendo, cioè che stanno caratterizzandosi per una somma drammaticissima di contraddizioni vecchie e nuove della società italiana. Crisi della città, congestione, servizi sociali del tutto insufficienti; a questo punto anche una strozzatura di fondo allo stesso sviluppo produttivo. Perché si ha un bel dire che la Fiat può ancora svilupparsi nell'area metropolitana di Torino, ma a questo punto deve fare i conti con un mercato del lavoro che è diventato teso e difficile non soltanto perché manca la manodopera qualificata ai livelli necessari, ma perché mancano le case per ospitare questa manodopera. E si possono certo far dormire degli operai sulle panchine della stazione, ma a questo punto anche le panchine della stazione saranno occupate. A questo punto c'é una strozzatura di fondo oggettiva al tipo di sviluppo che è stato portato avanti finora.
Io vorrei citare come indice generale che a me sembra molto impressionante, il fatto che dal 1/4/1969 al 1/4/1970, 480.000 persone hanno abbandonato il Mezzogiorno e le campagne, il doppio della media annuale finora raggiunta, senza che si sia verificato nessun aumento sensibile di attività in agricoltura. E quindi tutti i modernisti che ritengono che l'Italia sarà un Paese moderno solo quando la maggioranza della popolazione che vive nelle campagne sarà finalmente venuta ad abitare nelle congestionatissime città industriali, non hanno niente da dire.
Certo, l'abbandono delle campagne ha un senso, ma se i contadini si lasciano dietro un'agricoltura più moderna, più produttiva. In realtà non c'é stato nessun aumento della produttività in agricoltura, in corrispondenza con questo disastroso abbandono delle campagne italiane.
Quindi fine delle illusioni di un certo tipo di filosofia e di un certo tipo di sviluppo economico. Ma fine delle illusioni anche sul piano politico, fine delle illusioni riformistiche che hanno preso corpo soprattutto negli anni '60, che sono state personificate soprattutto dal centro sinistra. Anche qui l'illusione che si potesse portare avanti una politica di correttivi politici a questi squilibri quando poi lo sviluppo economico è del tutto diretto da centrali esterne dalle assemblee politiche, dalle forze politiche. Questa illusione è finita e semmai c'è il rischio che qualcuno non presti troppo occhio al significato di fondo della schizofrenia dei socialdemocratici o di certe forze di destra in questo periodo e si illuda che sia solo un problema di rapporti diplomatici. Non capire invece che questa schizofrenia e questa riattivizzazione delle forze di destra ha luogo proprio perché si tocca il fondo di questa crisi delle illusioni riformiste. E siamo di fronte a scelte nuove.
Questa realtà, il fatto che siamo a conclusione di un ciclo ventennale io credo che sia particolarmente evidente in una città come la nostra, che è stato uno dei nodi più significativi, più importanti e che oggi direi che è uno spaccato preziosissimo per chi voglia osservare che cos'é la società italiana nel 1970. Fine di un ciclo e quindi necessità di aprire un capitolo nuovo nella storia del nostro Paese. A questo punto dobbiamo chiederci: ma in quale direzione dobbiamo aprirlo? Io credo che se si guarda ai fatti, se si abbandona il metodo degli a priori ideologici, delle divisioni fissate in partenza, allora noi vediamo che la società italiana nella sua realtà e non nella sua realtà rappresentata da etichette siano esse politiche o d'altra natura, ma nella sua realtà com'é in cui trovano posto tutto, le lotte dei lavoratori, i contrasti di classe, i partiti politici, le idee, i grandi ideali e così via, la società italiana ha delineato una risposta precisa in questi due anni, cioè da quando la fine di tutto un ciclo è venuta alla luce. L'ha delineato per esempio anche con l'andamento, con gli spostamenti che si sono verificati sul terreno politico elettorale. Non a caso nel 1968 si è avuto quel forte spostamento elettorale che è stato poi, grosso modo, confermato dalle elezioni del 7 giugno. Non a caso sono stati due anni di lotte operaie popolari senza precedenti per continuità, per consapevolezza, per il carattere avanzato degli obiettivi, per i fenomeni unitari a cui hanno dato luogo. Questi due anni hanno già indicato in che direzione si può uscire dalla crisi di fondo che travaglia la società italiana.
In altre parole, siamo entrati in una fase di maturazione accelerata di una svolta di fondo nei rapporti sociali e politici. E credo che se osserviamo attentamente quello che succede sotto i nostri occhi, si delinino anche le prospettive concrete su cui questa svolta sta andando e vuole andare avanti. In primo luogo questa svolta tende a un mutamento profondo e radicale nell'organizzazione del lavoro, nelle grandi fabbriche soprattutto. I lavoratori non si accontentano più dei contentini salariali.
Guardiamo alle lotte di questi mesi, di questi anni, vogliono contare di più nella fabbrica e il compagno Lo Turco ieri ce lo ha testimoniato direttamente. Vogliono contare di più, non si limitano ad agitare questa esigenza, costruiscono nuovi organismi di presenza e di democrazia nei luoghi di lavoro, contestano efficacemente l'autoritarismo tradizionale delle gerarchie aziendali e vogliono una nuova organizzazione del lavoro che si fondi sulla dignità, sulla libertà, sulla libera espressione della personalità di chi lavora.
Questa svolta tende anche a un mutamento radicale e profondo nell'organizzazione della società, la lotta per le riforme di struttura per cambiare cioè le strutture su cui poggia l'attuale organizzazione sociale. Mi sembra che sia anch'essa un'indicazione molto precisa che viene dalla realtà e dai processi in atto in questo momento, la lotta per un'espansione decisiva dei grandi consumi sociali, per dare la priorità al posto dei consumi privati che hanno dominato la scena di questi vent'anni ai consumi sociali collettivi. E infine, una terza direttrice su cui questa svolta si sta muovendo, è quella di un mutamento dell'assetto istituzionale e in questo senso certamente la conquista della Regione rappresenta il fatto più importante e più significativo. Ma dobbiamo ricordare che questo fatto avviene in un momento in cui altre novità interessano direttamente le istituzioni repubblicane, il ruolo nuovo che hanno assunto le organizzazioni sindacali di fronte alle istituzioni e il rapporto nuovo che va stabilito con esse e poi ha assunto questo sviluppo di un processo di formazione di nuove forme di democrazia di base che interessa le fabbriche ma ha interessato le scuole, interessa i quartieri e così via.
Ora, proprio perché avanzano tendenze ed esigenze di una svolta di fondo che tende a cambiare qualcosa che non è alla superficie della società attuale, quindi colpisce, tende a colpire interessi e privilegi estremamente radicati e forti, proprio per questo siamo oggi a una stretta politica, proprio per questo ci sono le convulsioni del governo, ci sono le crisi a ripetizione, c'é un elemento di stabilità che va al di là dall'episodica quotidiana della vertenza politica e parlamentare. C'è una stretta politica perché, ripeto, i socialdemocratici che hanno assunto questo ruolo così congeniale del resto nella crisi ministeriale e altri settori della destra, i gruppi padronali che si muovono attraverso la stampa e altre forme e così via, hanno la dichiarata volontà di ricacciare indietro questo mutamento, questo processo in atto nella società italiana di impedire che la svolta si esprima fino in fondo, di colpire quindi le punte più avanzate di questo processo, il movimento operaio organizzato e di colpire però poi le stesse istituzioni, impedire che le stesse istituzioni possano essere un canale di espressione di queste necessità e di questa volontà di svolta. E gli obiettivi immediati sono, da parte di queste forze di destra, quello di mortificare certe forze all'interno della vecchia maggioranza governativa, certe forze più avanzate, il partito socialista, le sinistre democristiane. Ma ci sono anche altri obiettivi l'obiettivo più o meno dichiarato di utilizzare le difficoltà economiche sino al limite di una crisi manovrata, di un processo di inflazione e dei contraccolpi consueti della deflazione, minaccia di svalutazione della lira (che poi sarebbe una minaccia ai livelli di occupazione probabilmente) e quindi di portare a fondo il processo di degenerazione anche sul piano economico, al fine di far degenerare lo scontro sociale politico in atto e al fine di colpire, ripeto, le stesse istituzioni repubblicane. E credo che fra gli obiettivi non nascosti della manovra di oggi ci sia anche la volontà di impedire alle assemblee elettive uscite il 7 giugno di funzionare. Chiediamocelo perché in altre Regioni dove le maggioranze sembrano fatte non si fanno le Giunte, non si nominano nemmeno le presidenze; chiediamoci perché si porta avanti una tattica dilatoria, si parla già di eleggere Giunte spesso di Comuni di non grande importanza a settembre, dopo le ferie. Perché questa vacanza dei poteri democratici perseguita attraverso una scelta precisa e del resto in molti casi dichiarata? Ma se questa è la realtà in cui ci troviamo, la domanda da cui dobbiamo partire, signori Consiglieri, è questa: da che parte si deve schierare la Regione, come deve collocarsi di fronte a questa crisi e a questo scontro che è in atto nella società italiana? Io credo che la risposta non possa essere che una: bisogna schierarsi con la Costituzione repubblicana e con lo spirito che dalla stessa emana. Cioè bisogna schierarsi lungo l'asse fondamentale che per le Regioni è stato già indicato dai costituenti. Oggi è in atto un movimento che per molti aspetti, sia pure su un terreno del tutto nuovo, si collega al grande movimento che hanno fatto la Resistenza e la Costituzione. Io dò atto al Presidente delle splendide parole con cui ci ha ricordato questa realtà. Ma bisogna essere consapevoli che la Regione deve inserirsi in questo movimento, deve inserirsi in questa grande proiezione storica che è ancora così viva nella realtà del nostro Paese. La scelta dunque non può essere che una e non può essere di una sola parte politica. Io sono contrario a questa terminologia giornalistica: le Regioni rosse, le Regioni bianche. Io voglio sapere se le Regioni sono davvero quelle della Costituzione repubblicana, se sono espressioni di un'autonomia e di un processo democratico nuovo. E allora la scelta è chiara per tutti per i rossi e per i bianchi direi, sotto questo profilo, cioè deve essere quanto meno una scelta di tutte quante le forze regionaliste e autonomiste.
Non mi illudo che gli schizofrenici di oggi accettino una scelta come questa, ma credo che in tutti i Consigli, nella maggioranza dei Consigli regionali il prevalere delle forze autenticamente regionaliste sia un fatto, si tratta solo di portarlo alla luce, di esprimerlo fino in fondo sul piano politico.
In concreto quale ruolo la Regione deve assumere di fronte ai problemi attuali dello sviluppo economico sociale che sono posti dal movimento dei lavoratori, ad esempio? Perché questo è il termine più immediato del grande scontro che abbiamo di fronte. E come lo Statuto può determinare soluzioni forme che rendano la Regione la più aperta possibile in partenza, la più disponibile possibile all'incontro con questa realtà? C'è, voi sapete, una tesi vecchissima ma che viene riproposta, che di fronte alle difficoltà economiche di oggi, che non sono ancora segno di una crisi reale, di una recessione ma che esistono sotto forma di inflazione, di difficoltà nella realizzazione dei piani produttivi da parte di molte aziende, c'é la tesi che bisogna ritornare al modulo antico secondo cui queste difficoltà vanno prima superate (poi parleremo delle riforme). Chi ha un po' più di vent'anni se l'é sentito ripetere, dalla Liberazione ad oggi, almeno quattro o cinque volte in occasione di ogni congiuntura difficile, di ogni recessione. Le riforme vanno sempre comunque rinviate, sia quando l'economia e in crisi, sia quando è in sviluppo, se no arrestiamo lo sviluppo. Ma questo modulo antico, se non vogliamo rinunciare alla Regione alla capacità di giudizio, abbiamo visto a che cosa ci porta, al fatto che si, nei cicli economici ci sono sempre le cadute e poi le riprese, ma se andiamo oltre alla realtà momentanea di un ciclo vediamo che questo modulo ci porta a delle strozzature sempre più gravi; per cui la crisi ciclica non è più la crisi di un andamento economico, ma diventa la crisi di una società intera, come quella che sta vivendo il nostro Paese oggi. Allora queste strozzature di fondo, vogliamo eliminarle o no? Vogliamo andare sulla vecchia strada, ma si sappia che domani la crisi sociale sarà più acuta, più grave, più drammatica di oggi e forse non ne potremo uscire se non con delle rotture laceranti. E allora credo che se ci dobbiamo chiedere, se ci dobbiamo porre la domanda da che parte si schiera la Regione, credo che si debba schierare contro questa tesi, che la Regione abbia come premessa, come indirizzo fondamentale del suo intervento nell'economia il rifiuto di questa scissione tra congiuntura e riforme, e che la Regione invece intervenga subito perché si crei una congiunzione organica tra i due momenti del processo economico. E quindi si operi subito nel senso delle riforme e si superino le difficoltà stesse che ci propone la congiuntura attraverso misure riformatorie. Il che non vuol dire affatto tutto e subito, ma misure riformatorie che abbiano un significato preciso e indichino una direttrice di marcia molto precisa.
Credo che sotto questo profilo il discorso possa anche diventare più concreto. Non mi addentro perché non siamo in sede di discussione programmatica, ma penso che proprio per corrispondere a una sua natura di fondo, la Regione deve essere oggi un nuovo e direi il primo e fondamentale interlocutore della domanda di riforme che nasce dal Paese, che nasce dal movimento dei lavoratori. E deve raccogliere questa domanda sia dalle grandi organizzazioni sindacali che certo ne sono la più grande, autorevole espressione, sia da tutte le altre forme di partecipazione popolare. Questo è possibile in tutti i settori su cui l'Ente regionale ha dei titoli di competenza e su cui oggi, fra l'altro, si esercita particolarmente concentrata la pressione rivendicativa delle grandi masse popolari: politica della casa e assetto del territorio. Su questo punto non si pu sfuggire, quali risposte diamo, che cosa scriviamo sullo Statuto che apra la strada ad una politica nuova, di intervento reale della Regione, nelle strutture urbanistiche ad esempio? Organizzazione sanitaria, politica scolastica e in particolare (capitolo decisivo per una Regione come la nostra) preparazione professionale e poi tutto quel nodo di problemi che ci riconducono a un'unica questione, che è quella oggi drammaticamente all'o.d.g., del costo della vita, dell'aumento continuo dei prezzi. Io credo che qui la Regione abbia subito la necessità di approntare una politica organica a livello regionale che tenda a unificare gli obiettivi di una nuova politica agraria, agli obiettivi di una trasformazione democratica del settore distributivo, sia coordinando l'attività degli enti locali, che sono direttamente investiti di compiti nel settore distributivo, sia anche creando eventualmente enti propri a livello regionale di intervento in questo settore.
Ma questo ruolo della Regione credo che sia possibile su tutti i terreni e su tutti i problemi dello sviluppo economico sociale, al di là dei titoli di competenza specifici, proprio nella misura in cui la Regione e qui sono d'accordo completamente col collega Gandolfi - è oggi, e non solo istituzionalmente il punto di passaggio obbligato di una politica reale di programmazione. Però da questi problemi emerge un dato su cui forse non concordo più pienamente col collega Gandolfi, e cioè il fatto che questo ruolo programmatorio della Regione non può emergere da una discussione bizantina su formule, su procedure, ma non può che emergere appunto da una presa d'atto dei problemi reali che ci stanno di fronte. La discussione sulle procedure e sulle formule non può che essere conseguente.
Occorre prendere posizione subito sui grandi nodi dello sviluppo che si pongono oggi e che ci vengono posti appunto dalle grandi tensioni sociali e dalle pressioni consapevoli delle masse popolari.
Su questo punto la commissione dello Statuto, se non vuole limitarsi a delle formulazioni asettiche, lontane dalle tempeste reali in cui poi ci troviamo a navigare, ha bisogno di avere da noi delle indicazioni di contenuto. Io non dico che troveranno poi corrispondenza nelle formule statutarie, ma bisogna che lo Statuto nasca profondamente impregnato di questo spirito e cioè nasca profondamente consapevole della serietà della natura dei compiti che il nostro impegno ci propone. E quindi deve precisare campi di intervento, deve aprirsi all'intreccio necessario tra le reali funzioni e le competenze formali della Regione e gli obiettivi di contenuto su cui vogliamo che avanzi una politica di piano a livello regionale. E dobbiamo essere, almeno su questo punto, chiari nel senso - e qui ho forse un altro punto di dissenso col collega Gandolfi - che il piano regionale se nasce davvero non dalle formule ma dalle esigenze reali che la Regione ci pone, non può essere considerato una semplice articolazione del piano nazionale, ma deve stabilire col piano nazionale un rapporto dialettico in cui se davvero ci deve essere un prima e un poi (non credo che sia necessaria questa discrepanza) prima deve essere la Regione. Un rapporto dialettico tra i due livelli di pianificazione, in modo che il contributo della Regione al piano nazionale sia davvero un contributo non burocratico, un contributo che tenda a risolvere davvero i compiti che ci troviamo di fronte. E credo che questa necessità di stabilire un rapporto reale tra piano regionale e piano nazionale sia tanto più evidente e urgente oggi nel momento in cui viene anche qui a fine un mito del recente passato, cioè quella sorta di orgia europeistica di cui i programmatori torinesi e i giornali amici di quelli che poi i programmi li fanno davvero ci hanno gratificato in questi anni. Cioè questa concezione del Piemonte come appendice dell'Europa forte dell'occidente, delle aree forti dell'occidente europeo, della cosiddetta Europa carolingia, che qui noi avremmo incontrato le nostre fortune, la soluzione di tutti i nostri problemi regionali e che proprio di fronte all'esplodere delle contraddizioni di Torino e della Regione piemontese, dell'accentuarsi degli squilibri regionali, ci riporta a un discorso molto più serio e molto più puntuale oggi. E cioè che lo sviluppo del Piemonte non può essere visto se non attraverso un rapporto primario col Mezzogiorno d'Italia e con le esigenze di uno sviluppo equilibrato del nostro Paese e che a questi fini deve essere anche utilizzato e valorizzato l'apparato produttivo delle nostre Regioni, altrimenti non si farà altro che andare verso un distacco crescente fra nord e sud che non rimane un distacco, che non si traduce soltanto nella miseria e nell'abbandono del Mezzogiorno, ma si traduce anche in congestione e miseria al nord, in crescenti contraddizioni nella nostra Regione. E' evidente allora che se programmare significa partire dai problemi reali dello sviluppo, diventa fondamentale il discorso sul rapporto fra l'istituto regionale e le grandi masse, il rapporto fra il Consiglio Regionale e le grandi organizzazioni e forme di democrazia attraverso cui si esprimono le masse popolari e le loro rivendicazioni, e cioè il problema della partecipazione che qui è già stata affrontata da altri colleghi particolarmente del mio gruppo e su cui non voglio insistere molto. Voglio solo dire questo: ai fini di fare della Regione un centro reale di promozione della democrazia, è molto importante lo sviluppo massimo dei rapporti esterni e quindi io saluto, come già altri colleghi con grande simpatia, con grande piacere il fatto che il primo incontro che la Presidenza regionale ha avuto è stato con le grandi organizzazioni sindacali. Ma dobbiamo essere consapevoli che il modo come la Regione diviene appunto un centro reale di democrazia e di partecipazione, di autogoverno, questo modo si pone prima degli incontri esterni, si pone cioè nel modo stesso con cui funziona l'istituto regionale, nei metodi di direzione e di lavoro del Consiglio Regionale, nel rapporto fra il Consiglio e la Giunta. E non a caso questo problema è stato così cruciale già in questo primo scorcio di discussione.
Nell'insistere (e concludo rapidamente) sulla nostra posizione espressa lucidamente dal mio compagno Sanlorenzo, vorrei precisare che per noi questa questione oltre che di principio è, anzi, prima ancora che di principio un'azione politica, squisitamente politica. Uno degli aspetti più gravi delle difficoltà, delle strozzature che oggi incontrano le istituzioni democratiche e per cui si parla da tante parti di crisi dell'istituzione, è rappresentato non da limiti proprii delle istituzioni ma dalla volontà di determinate forze politiche di fare degli esecutivi una sorta di corti separate dalle assemblee, dotati di potere che non rispondono a una logica di autonomia ma a una logica di separazione. Ed è appunto la logica delle delimitazioni, dei gruppi di potere contrapposti delle paratie stagne stificate con degli apriori ideologici che finiscono per paralizzare la vita delle assemblee e per impedire una libera dialettica democratica che è poi la funzione primaria delle assemblee elettive.
La logica dei gruppi di potere degli esecutivi forti è poi in realtà l'illusione del potere, l'illusione della forza. E infatti, se si guarda le esperienze reali che abbiamo vissuto in questi anni nel nostro Paese, è una logica che porta a situazioni politiche, a decisioni che sfuggono sempre di mano agli stessi gruppi politici che si fanno promotori di questa logica.
Siamo arrivati appunto alle crisi di governo decise non dai partiti, non dico dal Parlamento perché questo non si usa da tanto tempo, non dai partiti, nemmeno dalle segreterie dei partiti, neppure dai ministri che fanno parte di quel Ministero e quindi resta il mistero di questi gruppi di potere che decidono di mettere in crisi il governo in qualche momento all'insaputa di tutti.
Il gioco dei gruppi di potere, delle delimitazioni, degli esecutivi forti è quello che consente a dei centri di potere esterni alla vita politica e dalla vita democratica di decidere realmente, di esercitare il potere reale. E un Consiglio imprigionato in questa logica sarebbe un Consiglio del tutto chiuso anche alla partecipazione popolare. Questa è una considerazione che ci viene imposta dalla realtà, credo che valgano anche questioni di principio su cui non mi soffermo perché Sanlorenzo è stato chiarissimo a questo proposito. Gandolfi diceva ieri: gli esecutivi non eseguono soltanto ma hanno anche una loro autonomia. Io credo che in questo caso l'etimologia coincida con il dettato costituzionale; gli esecutivi eseguono, se no si chiamerebbero in un altro modo. Ma l'art. 121 della Costituzione precisa nettamente che è il Consiglio a decidere e l'esecutivo a eseguire e non viceversa. Quindi su questo bisogna saperlo, se si sceglie un'altra soluzione si violenta il dettato costituzionale e invece su questo noi dobbiamo essere intransigenti perché significherebbe mortificare in partenza il ruolo che il Consiglio e l'assemblea regionale può assolvere di fronte ai compiti che ci spettano di sviluppo e di promozione della democrazia in generale. E io dico ai compagni socialisti in primo luogo, ma anche agli amici repubblicani, agli amici della sinistra D.C. delle forze cattoliche popolari, state attenti perché di fronte agli schizofrenici che vorrebbero mettere le camicie di forza (in questo caso non a sé stessi, ma agli altri) di fronte a chi tende a porre delimitazioni, ostacoli, gabbie che imprigionino una società che invece tende a crescere magari tumultuosamente, che subisce oggi una crescita che magari va guidata indirizzata, ma non certo ostacolata, non si può rispondere, di fronte a chi vuole le camicie di forza, o i colonnelli, con la scelta delle camicette di forza, delle soluzioni ambigue, delle mezze soluzioni, dei compromessi. Bisogna essere chiari su questo, la strada è un'altra, è radicalmente diversa. Occorre dare una risposta molto netta, consapevoli che se noi non siamo capaci di dare attraverso un certo ruolo che dobbiamo consegnare, affidare alla Regione, di dare la risposta che a noi compete alla crisi di crescita della società, e alle tensioni drammatiche che questa crisi sta determinando oggi, allora andremo verso rotture e lacerazioni forse irreparabili. E voi sapete che noi pensiamo che la crisi della società moderna, della società capitalistica di oggi abbia bisogno di soluzioni rivoluzionarie, ma non concepiamo in società, come la nostra le rivoluzioni come rotture e lacerazioni, bensì come un processo di sviluppo di guida, di espansione continua della democrazia, dell'autogoverno, dei processi di sviluppo che stanno nella nostra società. Ma dobbiamo essere consapevoli che o si va in questa direzione oppure le rotture saranno davvero irreparabili. E io credo che gli amici, non parlo di etichette di partito, gli amici regionalisti, i Consiglieri che con noi condividono l'idea dell'autonomia regionale e le preoccupazioni che abbiamo oggi sulla vita democratica del Paese, non potranno non essere d'accordo sulla necessità di impedire che fin dall'inizio il nostro istituto nasca formato caratterizzato da paratie stagne da divisioni precostituire, da gabbie che potrebbero impedire questa funzione, che potrebbero impedire al Consiglio Regionale di raccogliere fino in fondo le tensioni che oggi ci vengono dalla società e di indirizzarle nel modo giusto, nel senso di un progresso crescente e di una democrazia crescente nel nostro Paese.



PRESIDENTE

Ha facoltà di parlare il Consigliere Bianchi.



BIANCHI Adriano

Signor Presidente, signori Consiglieri, la nostra discussione preliminare e preparatoria al lavoro di formazione e stesura dello Statuto si avvia , mi sembra, a conclusione e se non fosse servita ad altre (ed è servita sicuramente a molte cose) è servita a creare un primo rapporto tra di noi, dialettico, di conoscenza, di reciproca presentazione.
Noi modestamente e brevemente abbiamo già enunciato alcuni dei motivi fondamentali che ci guidano nell'affrontare le responsabilità che sono molte, gravi ed urgenti, per dare all'istituto regionale la sua esatta fisionomia e per far sì che le attese popolari, politiche che si muovono per chiedere che questo istituto concorra a risolvere i molti problemi che si affollano sulla scena della nostra società, trovino soluzione e risposta.
Noi ribadiamo il nostro atteggiamento quindi, secondo il quale lo spirito che ci muove, la volontà cioè che noi abbiamo, è quella di dare rapida ed efficiente realizzazione all'istituto regionale in tutta la sua complessità, in tutte le sue virtualità formali, istituzionali e sostanziali di rapporto con la società. Abbiamo constatato che occorrono due elementi per venire a questi risultati: innanzi tutto la nostra volontà, la nostra coerenza e la nostra capacità di assumere delle decisioni concrete. Non c'è nulla di peggio che l'atteggiamento velleitario del proclamare cose serie e importanti senza farsi carico di tradurli in strumenti precisi, concreti, rispondenti alle esigenze di lavoro e di attività. Noi constatiamo che malgrado la presente crisi di governo, che certo risponde anche ad una più vasta crisi che investe la nostra società e della quale noi ci sentiamo in senso positivo autori come motori e promotori di libertà e di modificazione di situazioni nel nostro Paese, in questo momento, pur nelle difficoltà così serie, si è riproposta con tempestività, l'indicazione di una volontà politica al centro, in sede di un partito importante almeno sulla scena politica italiana e nella società italiana di cui si sente così largamente proiezione, e da parte di persone responsabili, l'indicazione del carattere primario che ha ai fini di avviare una politica risolutrice delle difficoltà che toccano l'istituzione, la società, l'economia del nostro Paese, l'indicazione primaria di realizzare le autonomie locali in tutte le loro possibilità e di dar corso a quella riforma dello Stato che in esse si identifica.
Quindi, quando noi ci preoccupiamo dell'approvazione non solo sollecita da parte nostra degli statuti, ma sollecita con l'approvazione successiva e definitiva del Parlamento, già troviamo una prima risposta che non è momentanea, che non è transeunte, non è occasionale come mezzo e tentativo per risolvere una crisi politica, ma è la manifestazione ripetuta e convinta e quindi non eliminabile in qualsiasi soluzione in cui la D.C. sia presente in futuro, di un indirizzo chiaro; quindi anche del problema che è stato toccato della delega delle funzioni del decentramento e della delega di funzioni amministrative dello Stato, della sollecita approvazione delle leggi cornice che riducano al minimo il periodo di quarantena o meglio di preparazione e di attesa in cui l'istituto regionale può permanere. In questo momento di difficoltà vogliamo cogliere gli aspetti positivi, perch credo che valga essere realisti e non nascondersi dietro il dito per non vedere tutte le gravi contraddizioni che sono davanti a noi. Noi abbiamo anche il dovere di guardare con virilità, con senso di responsabilità agli aspetti positivi che ci stanno di fronte.
Questa priorità dell'azione di riforma dello Stato come atto capace di fornire una risposta efficace a problemi antichi e ad ansie recentemente accentuate nell'opinione pubblica, è un fatto non contingente legato alla persona di un Presidente del Consiglio designato, ma è un motivo permanente di valutazione politica che noi rifacciamo nostra qui, perché qui dobbiamo darne testimonianza. E così riteniamo che operando con serenità di discussione, con serenità di confronto dialettico, con rapidità di decisioni per far marciare il nostro istituto verso la completezza della sua efficienza, della sua attività e della sua vita, noi concorriamo ad offrire al Paese dei termini di riferimento positivi, capaci di tradurre certe spinte che possono apparire negative e distruttive e disgregatrici in spinte costruttive, in atteggiamenti ottimistici che vedano la realtà delle difficoltà, ma vedano gli sbocchi delle soluzioni democratiche.
Noi siamo disponibili ed impegnati per l'elaborazione e l'approvazione dello Statuto nei 120 giorni. L'appello che il Presidente ci ha fatto in questo senso è per noi un impegno assoluto, un impegno politico e di onore come Consiglieri. Uno statuto che esprima tutta l'organica capacità di autonomia ed in concreto tutta l'efficiente capacità operativa della Regione e attraverso la Regione degli enti locali, affermando subito che non vogliamo certo che si crei qui quella situazione di sovrapposizione dell'Ente Regione sulla testa degli enti minori quasi a svalutare quanto il collega Armella ci ha detto in ordine alle deleghe di funzioni alle Province, in ordine al problema che altri hanno toccato dell'opportunità di aver come riferimento, in ordine alla politica urbanistica, le aree ecologiche che trovano delle coincidenze nell'ambito delle aree provinciali che ci danno un'indicazione di indirizzo e di marcia per la soluzione di questi problemi.
Sulla legge n. 62 del '53 e su ogni altra norma vigente, noi ribadiamo che la consideriamo intanto superata nel tempo, ma il nostro atteggiamento non è quello di chi vada a ricercare puntigliosamente l'esistenza di norme da contestare quasi ad affermare in questo modo, negativamente, la nostra autonomia. Noi non vogliamo cadere in questo vizio italiano di contrapposizione di competenze, perpetuando e isterilendo l'azione. Noi abbiamo come limite di riferimento la Costituzione che ci è guida, ci è indicazione, ci è programma (e ribadiamo che vogliamo sia occupato tutto lo spazio costituzionale che ci è stato riservato), ma abbiamo come limite l'efficienza, l'operatività, la capacità di rappresentare e di essere proiezione delle ansie, delle aspettative, dei desideri che salgono dal nostro Paese. Noi abbiamo ben presente che l'autonomia regionale è un modo di realizzazione dell'unità nazionale, è un modo di diffusione, di distribuzione del potere che ci fa partecipi della responsabilità della guida dello Stato. E quindi non accetteremmo mai un'impostazione che ci veda in contrapposizione con l'interesse generale, centrale dello Stato perché ci sentiamo anche investiti di questa responsabilità.
E' vero, a proposito del regionalismo che ci vede così convinti attraverso le letture giovanili e di Sturzo, che ci ha visti titubanti nel momento in cui le Regioni si prospettavano, venivano intese nel nostro Paese quasi come la riedizione di vecchi Stati, di vecchie tradizioni, è vero, collega Zanone, che un regionalismo che nasca o sia fondato su di uno spirito di piccola nazionalità, un regionalismo fondato sulla Regione storica solo come tale, può essere uno strumento di conservazione, potrebbe essere uno strumento di disgregazione ma mi sembra che già questa discussione, mi sembra che ormai l'atteggiarsi di tutto l'indirizzo culturale e politico più qualificato abbia largamente assorbito e superato questo momento che poteva costituire momenti di difficoltà e di perplessità nel nostro Paese. Peraltro dobbiamo avere ben presente anche che l'evitare livellamenti, l'evitare statalizzazioni culturali, il salvare modi e concezioni di atteggiarsi di vita che si esprimono persino, a volte, nei nostri paesaggi, l'evitare la distruzione di peculiarità e di originalità che si riflettono e che costituiscono la varietà della nostra vita nazionale, è un modo per salvare, per tutelare e valorizzare le basi del pluralismo politico, che è la sostanza, che è la base della libertà. Noi crediamo che sia molto più facile costruire e salvare la democrazia nella diversità dei modi e nell'unità dei fini che non nel livellamento e nella massificazione di un Paese che consegna rapidamente, per uno sviluppo degenerativo, a forme involutive di libertà. Diciamo che la crisi delle istituzioni, che la crisi della democrazia rappresentativa può trovare e trova soltanto attraverso l'autonomia che la Regione realizza per una parte e non integralmente, attraverso l'autogoverno, la corresponsabilità, la diffusione del potere, trova qui i suoi correttivi. Noi sappiamo bene che attraverso questo strumento tendiamo a restituire ai vari corpi sociali nel loro modificarsi, nel loro atteggiarsi, la sovranità che è stata progressivamente confiscata. Perché è anche crisi di fiducia? Perché in una democrazia formalmente anche troppo ampia a volte per riferire tutto a termini rappresentativi e elettorali, in concreto si è pervenuti, col livellamento centralizzatore, con la burocratizzazione di tutti i processi di decisione, con l'affermarsi di una lentocrazia che ha creato una spaccatura tra le aspirazioni e le realizzazioni, si è giunti a una forma di espropriazione della sovranità che noi vogliamo vedere restituita ricostituita, perché questa è la base su cui uno Stato democratico pu prosperare.
Partecipazione. A proposito della partecipazione è facile far bella figura, fare un discorso alla moda. Io penso che rivedendo fra qualche anno questo discorso, qualcuno cercherà di dimenticare (io stesso forse) certi aspetti ingenui di parata, questa mitologia moderna per cui, a ondate tutti quanti si brucia incenso a un qualche cosa, a un mito, a un'affermazione, a un modo di esprimere le cose senza approfondimento senza chiarimento degli esatti termini in cui il problema va posto, sentito e sofferto. Io non sono certo in condizione di dare delle risposte definitive, pongo solo dei problemi, li pongo a me stesso. Io penso che questa assemblea, per rispondere a questa domanda politica, a questa attesa che a volte sembra veramente pressante, a volte sembra sollecitare totalmente assenze là dove invece dovrebbe essere presente, questa assemblea debba avere rigido il senso della responsabilità che porta, del ruolo che deve svolgere, del significato dell'istituzione che ciascuno di noi impersona con umiltà, ma senza alcun spirito di dimissione verso ciascuno, perché se c'é un'esigenza nella vita contemporanea nell'evolversi delle istituzioni democratiche, questa esigenza è determinata dalla carenza della capacità di sintesi degli organi politici.
Guai a farci sovrapporre da sollecitazioni declamatorie momentanee che facciano perdere di vista questa capacità che deve avere un'assemblea rappresentativa di essere sintesi equilibrata di tutte le esigenze, anche le più riposte, anche le più nascoste, anche le meno clamorose, anche più importanti a volte destinate a distanza di qualche tempo ad emergere come fatto primario tenuto invece in ombra da chi avendo megafoni più potenti ha coperto tutta l'area auditiva che era a nostra disposizione. Quindi primissimo compito di questa assemblea più che ascoltare chi ha già voce potente, è quello di sapersi piegare ad ascoltare tutte le infinite piccole voci di cui è rappresentanza. Perché la tentazione di corrispondere immediatamente a chi ha la capacità clamorosa di imporsi è troppo forte per ciascuno di noi, mentre più potente deve essere la spinta morale a piegarci a dare una rappresentanza vera, autentica a tutti coloro che versano veramente in una posizione di autentica debolezza.
Ho sentito dal collega Lo Turco delle affermazioni e io l'assicuro che l'ho ascoltata con grande simpatia, al di là del fatto se fosse totalmente pertinente o meno la testimonianza che lei ci ha portata qui. Io ne ho gradito pienamente la sincerità di accenti. In ogni caso mi è stata utile mi è stata di indicazione, di sollecitazione perché una realtà così potente, così viva, così umana quale quella che lei ha espresso è in ogni caso di interesse, e non ho perso sicuramente il quarto d'ora (lei è stato così discreto) che lei ha dedicato a questi argomenti. Ma lei sa bene che di fronte a questa realtà del mondo operaio che ogni giorno attraverso la stampa, attraverso organizzazioni sindacali...



SANLORENZO Dino

Non ha neanche riportato l'incontro con i sindacati "La Stampa".



BIANCHI Adriano

Io parlavo di tutta la stampa.
Noi non apparteniamo a quel novero di cittadini che leggono un solo giornale, ne leggiamo più di uno e facciamo il quadro completo. Attraverso un'infinità di motivi una sua voce riesce giustamente a far sentire e ad attualizzare i problemi, ad acutizzarli nella sensibilità pubblica e questo non deve essere motivo per sottovalutarli o ridimensionarli se c'é anche una qualche maggiore possibilità per altre categorie. Ma io, proprio in occasione di questa campagna elettorale (e del resto non è un fatto nuovo non è che io sia uscito da un salotto o sia andato a fare la campagna elettorale incontrando delle realtà concrete e vive che conosco per origine, provenienza e per interesse vivo a queste cose) ho visto tutta la realtà terribile e nello stesso tempo serena ed edificante del mondo rurale, la situazione della gente della montagna, delle valli minori, il dramma delle trasformazioni in corso; qualsiasi regime, qualsiasi sistema il più perfetto, il più sensibile non riuscirebbe ad evitare i drammi delle trasformazioni che la tecnologia applicata in tutto il mondo, a tutti i livelli, in tutti i paesi che non vogliono bloccare le situazioni ha comportato e ha portato. Daremo voce adeguata; ristabiliremo regolando il volume delle registrazioni, diremo voce egualmente clamorosa se non più clamorosa a quanti sono dispersi oltre tutto, a quanti non hanno la compattezza, la possibilità di sentirsi una comunità così viva come è quella della fabbrica nella quale, sì, molte cose sono da fare, mi piace sentir parlare di dignità da restaurare, di nuove condizioni di vita, di mettere avanti le condizioni dei servizi sociali rispetto ai problemi del consumo, ma questo corrisponde ad una visione della vita dalla quale arrischiamo di allontanarci tutti, una visione della vita profondamente cristiana che mette l'uomo in cima alle cose e mette i risultati materiali in secondo piano e ci compiacciamo che per un seguito di evolversi di situazioni si arrivi a questo punto. Così come constatiamo che non siamo noi a doverci dolere del fatto che la società sia in uno stato così tumultuoso e qualche volta di contrasto e cammini verso nuovi equilibri e verso nuove conquiste. Noi non siamo in una posizione pessimistica, non siamo nell'atteggiamento di coloro che in vista del mille pensavano che crollasse tutto, no, noi ci sentiamo perfettamente a nostro agio in questo fiume che cammina e che va. Sentiamo con dolore qualche volta le responsabilità, le incapacità di corrispondere a tutte quante le attese, ma siamo perfettamente a posto sotto questo profilo. Noi abbiamo visto delle altre esperienze quando le istituzioni, si diceva, vengono superate dalla società che cammina. Ma noi stessi abbiamo messo in moto questo cammino tutti insieme se volete, certo noi in parte non indifferente, nello spingere a muovere questa ruota della storia. Ma noi non ci preoccupiamo che la società sopravanzi le istituzioni e cerchiamo e cercheremo e opereremo qui perché le istituzioni corrispondano nella loro elasticità e nella loro modernità alle attese della società, al nuovo atteggiarsi della società. Ma noi sappiamo che c'è un'altra tecnica quando le istituzioni sembrano superate, c'è un mezzo: bloccare, congelare la società, questo mezzo, questo strumento, questa tecnica di governo così ampiamente realizzata in tanta parte del mondo, che non fa rivelare ed emergere alla superficie contraddizioni profonde che esistono sotto una dura crosta questo dare ordine, questo dare eccessiva unità, questo dare uniformità di atteggiamenti alle situazioni non ci convince che possa essere risolutore perché non crediamo che nel congelamento a un certo momento ineluttabile che attraverso un atto autoritativo si avrebbe della società, si possano ottenere le soluzioni che vengono così bene richieste là dove si esprime con spontaneità umana un'aspirazione che, non può che vederci comuni.
Quindi strumenti chiari, strumenti netti, adeguati per la partecipazione.
Viviamo nel centro di una città industriale, di una città che però sente da vicino la spinta ai bisogni delle campagne, viviamo nel centro di una Regione che è collegata (e non sarà motivo di preoccupazione e scandalo) ad altre aree europee che sono motivo di sollecitazione e di possibilità di sviluppo che certamente non vorremo realizzare ed attuare in contrasto e in danno delle Regioni più deboli e più povere del nostro Paese. Ebbene, io penso che dovremo esercitarci a prestare molto orecchio a tutto quello che ci muove attorno, evitando di essere facili vittime di accaparramenti che possono toccare il contingente e farci perdere di vista la funzione permanente e finale che questa assemblea ha di condurre e realizzare in armonia la difesa degli interessi di tutti quanti che sono a noi affidati.
Quanto alla stabilità dell'esecutivo, non è questione di presidenzialità in senso proprio, non abbiamo l'elezione di un Presidente della Regione diretta con facoltà poi di nominarsi i propri assistenti in generale e con un distacco dall'assemblea, ma con eguale dignità e posizione egualmente ripetente la propria autorità dalla elezione popolare l'una con i poteri legislativi, l'altra con tutti i poteri di iniziativa di programmazione e di indirizzo amministrativo e politico. Il problema è di dare a ogni organo della Regione, il massimo dell'efficienza e della capacità di realizzazione che allo stesso deve essere conferito. Il problema non è di configurare una contrapposizione tra l'esecutivo e il legislativo della Regione, non l'esecutivo dell'assemblea, è l'esecutivo della Regione e il legislativo della Regione e che l'esecutivo sia ripetibile, sia formato nell'ambito dell'assemblea è già una maggiore garanzia che non ci sia una divaricazione di finalità e di atteggiamenti.
Quindi io non coglierei una contraddizione di questo genere. Noi non vogliamo certamente un esecutivo stabile, pensando con ciò di mascherare delle crisi politiche che in ogni caso vengono fuori, se ci sono, per mascherare o comprimere delle pressioni sociali che se ci sono vengono fuori e sono ancor più travolgenti, lo so bene che il bicameralismo che è stato riportato nella nostra Costituzione, ahimè secondo il mio avviso ma con tutto rispetto per l'esperienza del nostro Presidente senatore, era il frutto di una concezione che voleva, in un regime liberale a suffragio sostanzialmente ancora ristretto, evitare che gruppi singoli di pressione prevalessero rispetto all'interesse dello Stato ecc. Sappiamo benissimo che questo correttivo ha reso solo più impacciato la vita, l'attività, la funzionalità di una nuova democrazia che ha visto l'avvento delle grandi masse popolari e l'accelerazione di tutti i movimenti, di tutti gli interessi, ma non avrebbe costituito la remora di un giorno di fronte all'assalto di una forza totalitaria. Sappiamo benissimo che di fronte all'assalto della forza totalitaria, all'accamparsi in queste istituzioni di una forza autoritaria capace di esercitare il potere in maniera egemonica, tutte queste garanzie saltano in un minuto. Noi vogliamo invece che nell'ambito di questo sistema si esprima la maggiore capacita di realizzazione. Noi vogliamo non essere al riparo dalle crisi politiche e neanche interne, ma vogliamo essere al riparo ad esempio da quelle debolezze umane di cui la democrazia deve realisticamente far conto, per cui un sedicesimo su trenta per improvvisa impennata personale possa, nel segreto dell'urna, mettere in crisi un intera istituzione e con questo consentire che le aspettative democratiche popolari vengano facilmente frustate. Quindi io penso che se quelle affermazioni che sono state fatte poc'anzi, di grande preoccupazione perché lo sviluppo avvenga in termini democratici e non di rottura, perché si dia efficienza all'autonomia regionale, perché le attese che ci sono trovino rispondenza concreta, sono veramente sincere, si dovrebbe cooperare affinché un esecutivo chiaramente e bene controllato dall'assemblea e dai suoi organi, abbia tutta la capacità di rapidamente decidere, di efficientemente realizzare, di svolgere appieno le sue funzioni.
Quindi nessun tentativo di mascherare crisi, di mascherare pseudo concezioni totalitarie. Del resto l'Inghilterra, che ha saputo superare una crisi storica gravissima di trasformazione, se avesse i nostri sistemi elettorali sarebbe in crisi permanente, non sarebbe in condizione di affrontare i problemi gravi che ha sul tappeto, in modo unitario: vedrebbe come spesso si vede nel nostro Paese, la stessa volontà popolare, la stessa volontà delle forze politiche frustrate dall'insufficienza dei meccanismi rispetto alle nuove esigenze. E quindi la nostra impostazione a questo riguardo che ci vede concordi con molti altri colleghi che sono intervenuti, è costruttiva ed è perfettamente coordinata ed armonizzata con le finalità di autonomia e di efficienza di questa assemblea, la quale deve semmai accentuare le sue possibilità, il suo spazio di attività legislativa, accentuare le sue capacità di recepire ogni realtà esterna.
E a questo riguardo esprimerei (a titolo personale) il mio avviso che l'istituto del referendum, tanto utile, tanto opportuno per collegare i cittadini alle istituzioni, deve essere impiegato con grande senso. Se si è riconosciuto da tutti che non può ad esempio essere esteso alle norme urbanistiche, penso che non debba neanche essere esteso allo Statuto di questa assemblea, penso che non si possa decapitarla dandole già una patente di totale irresponsabilità, tale da considerarla incapace di modificare i proprii statuti poiché le procedure ci sono e ci saranno e semplici e facili a questo riguardo. Perché il sottoporre a un momento di malumore, magari di una minoranza che partecipa a un voto su una questione la cui rilevanza potrebbe non essere colta dalla generalità dei cittadini e far sopprimere lo Statuto di una Regione e farci trovare in una situazione bianca di impossibilità di operare sarebbe veramente pericoloso.
Qualcuno ha detto, seguendo ancora il filone di una disputa teorica che però mi sembra si sia dissolta a contatto con la realtà viva, che non si dovrebbe pervenire alla elezione della Giunta e del Presidente della Regione prima di avere approvato i Statuti. Noi abbiamo osservato prima come, per collaborazione dichiarata e certa, tra la Regione e gli organi centrali dello Stato, per la coincidenza di volontà politiche, si dovrebbe arrivare rapidamente a risolvere questi problemi. Ma voi pensate che la Regione possa restare senza rappresentanza, senza chi abbia capacità di iniziativa, senza chi possa essere interlocutore di fronte allo Stato, di fronte al Parlamento, senza chi possa essere interlocutore in ordine all'attività di programmazione economica, di programmazione ospedaliera e che si possa andare avanti prima i quattro e poi gli altri due mesi che potrebbero per una crisi di governo diventare sei, otto mesi, un anno e andare avanti in un limbo di questo genere? Io credo che questo non sia praticamente concepibile. Certo, una Giunta quale noi ci accingiamo ad eleggere dovrà operare in questo periodo con la consapevolezza delle responsabilità, dei limiti, dei caratteri di questo periodo e quindi accentuando l'atteggiamento della collegialità, tenendo un atteggiamento che possiamo anche preventivamente dichiarare tale da non infirmare, da non pregiudicare, da non creare nessuna ipoteca sulle soluzioni che lo Statuto vorrà dare alla migliore formulazione dell'esecutivo e dei suoi compiti.
Tutto questo mi sembra perfettamente pacifico, ma non che si possa con notevole fondamento obiettare davvero che non si debba procedere a questa soluzione.
Noi siamo soddisfatti delle molte convergenze che si verificano, noi ricerchiamo le convergenze, ma non le cerchiamo sistematicamente come bene unico. Noi pensiamo che non è una sconfitta per noi se dobbiamo registrare anche sovente, delle sistematiche divergenze. Il problema è dell'atteggiamento da portare quando si è in posizione divergente, del confronto che deve essere costruttivo, dello sforzo per capire, per recepire tutto quanto ci sembri perfettamente valido e coerente perché ci sono delle cose egualmente valide ma coerenti rispetto a sistemi che non sono compatibili. Ecco, tutto ciò che è valido è coerente al metodo, al sistema che ciascuno intende adottare. Sappiamo che non esiste una sola via per raggiungere risultati egualmente buoni. Noi constatiamo che uno dei pericoli politici di questa situazione è la svalutazione sistematica che si fa del ruolo dell'opposizione; io per quel che mi riguarda anche come stato d'animo personale, preferisco essere in una posizione chiara di opposizione se occorre, (non è scandaloso andare all'opposizione) che non in una posizione equivoca di maggioranza, o peggio, l'equivoco peggiore è l'unanimità, e il confluire generico attenuando ogni possibilità di tutte quante le forze, perché ciò facendo si inserisce nella democrazia il germe della sua dissoluzione, non c'è soluzione peggiore che far venir meno le garanzie costituite dal controllo che deve essere verificato in maniera efficace da chi ha anche la forza politica per esercitarlo, che farlo cadere in una specie di partecipazione generale al potere che prepara magari per successori diversi da quelli che sono stati i promotori, prepara le condizioni ideali per un esercizio autoritario del potere. Guai a svalutare così l'opposizione, guai a pensare che si eserciti una funzione efficace solo inserendosi in qualche modo a livello di decisione esecutiva.
Questo inserimento c'é a livello del controllo, della dialettica, della contestazione e del suggerimento, ma non attraverso questa politica progressiva per la quale si fa apparire che sì, ci sono delle difficoltà ma c'é qualcuno che ha la compattezza, che ha la disciplina, che ha il senso della unità per restare nell'ambito delle istituzioni per risolverne momentaneamente le contraddizioni e caso mai alludendo nella società un'autorità tale da ricondurre le cose a tranquillità. Noi non desideriamo questa tranquillità, in questo senso preferiamo l'instabilità, il pericolo la testimonianza di ogni giorno, il contributo che ciascuno di noi pu fare, il confronto dialettico. Penso che se su questo piano sinceramente ci confronteremo, faremo molta più strada che se ci sforzeremo a confondere le carte, a mescolare le responsabilità, a stabilire delle forme indirette non volute, di connivenza che tutto poi facciano nell'uniformità scomparire e soprattutto scomparire la funzione essenziale della democrazia che è confronto dialettico, che è assunzione chiara, netta di responsabilità da una parte e dall'altra di controllo e di stimolo.
Con questo spirito - e poiché ho concluso con questa differenziazione non vorrei che prevalesse l'aspetto negativo - sul quale prevale assolutamente il nostro spirito positivo di collaborazione e di recezione e di capacità, di volontà di ascolto, di confronto sereno, noi ci accingiamo ai lavori per stendere lo Statuto, nel quale dovremo sforzarci, ahimè, non si può svalutare, non si possono considerare formalismo le norme statutarie, lo Statuto non può essere un programma, può consentire nella sua formulazione che i programmi più avanzati, che i programmi più coraggiosi, più adeguati alla realtà trovino espressione nella volontà politica di chi, in queste istituzioni, assumerà determinati ruoli e i ruoli sono egualmente importanti. Ma mi sembra che non possiamo fare un generico Statuto programmatico che potrebbe trovarsi molto facilmente superato, ma uno Statuto che risponda alle funzionalità, alle possibilità che abbia un'intelaiatura nella quale la nostra politica trovi possibilità di rispondenza e le attese popolari trovino la migliore espressione.



PRESIDENTE

Ha facoltà di parlare il Consigliere Simonelli.



SIMONELLI Claudio

Io credo, signor Presidente e colleghi del Consiglio, che in questo nostro primo dibattito - che ci ha visti impegnati nella giornata di ieri e stamattina in un modo che fa onore a questa assemblea - sia stato sottolineato da molti e sia presente a tutti noi il significato profondo di questo nostro inizio di attività; la consapevolezza che stiamo compiendo qualcosa di più che gli atti formalmente necessari per dare vita all'istituto regionale nella regione Piemonte.
Credo che ciascuno di noi abbia presenti soprattutto le attese che ci sono nel Paese, che abbiamo registrate durante la campagna elettorale, che registriamo anche in questi giorni, le attese che la Regione sia un qualche cosa di diverso, non un ente nuovo che si somma agli altri che già esistono nel nostro Paese, ma un'occasione profonda di rinnovamento, di riforma dello Stato, un modo diverso di affrontare i rapporti tra i diversi livelli di governo e i cittadini, un modo per dare vita, per innescare quei processi di partecipazione e di controllo democratico nei quali risiede l'unica speranza di una trasformazione delle nostre istituzioni.
Mi sembra perciò essenziale, proprio perché ci diamo e vogliamo darci carico di queste attese che vanno al di là di quest'aula, collocare i primi atti fondamentali della Regione piemontese - in particolare l'attività dei prossimi mesi e soprattutto la elaborazione dello Statuto - entro il contesto costituzionale, che è l'unico binario lungo il quale la nostra attività deve procedere.
Il dettato costituzionale sancisce l'autonomia legislativa ed amministrativa delle Regioni a statuto ordinario, ponendo ad essa dei limiti ben precisi che credo valga la pena di elencare perché questi - e solo questi - devono essere i limiti che l'autonomia legislativa ed amministrativa delle Regioni incontra nel suo operare.
I limiti sono indicati dall'art. 117 della Costituzione che, dopo l'elenco delle materie che costituiscono l'oggetto della competenza legislativa della Regione (e che poi sono le stesse per le quali si ha la competenza amministrativa, giacché l'uno e l'altro ambito di competenza si sovrappongono perfettamente), pone come limite a questa autonomia della Regione, oltre ovviamente alle norme costituzionali, i principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato e il rispetto dell'interesse nazionale e dell'interesse delle altre Regioni.
L'interpretazione del limite dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato ha subito un'evoluzione normativa, dal dettato della VIII disposizione transitoria della Costituzione, al famigerato art. 9 della legge n. 62 del 1953, fino alla nuova formulazione della legge 281 del 1970, contenente i provvedimenti finanziari per l'attuazione delle Regioni a statuto ordinario, Per noi, oggi, il limite dei principi è dunque tracciato dall'art. 17 della legge 281, secondo il quale i principi sono "quali risultano dalle leggi che espressamente li stabiliscono per singole materie e quali si desumono dalle leggi vigenti".
Una conseguenza di questa norma è che l'emanazione delle leggi-cornice non è più indispensabile per l'esercizio della potestà legislativa regionale, anche se, evidentemente, non ha perso del tutto importanza e possibilità di applicazione. Inoltre la legge ha fissato un termine di due anni, oltre i quali - anche in caso di inerzia del legislatore - le Regioni possono comunque esercitare la loro potestà legislativa.
Una seconda considerazione riguarda la necessità che il funzionamento del sistema fondato sulle Regioni trovi nella politica di piano un primo importante elemento di verifica, giacché una delle leggi vigenti, dalla quale si desumono i principi cui le Regioni si devono attenere, è certamente il documento col quale si approva il programma economico nazionale, il quale deve essere vincolante per le Regioni, almeno su alcune grandi opzioni, sugli obiettivi globali e settoriali dello sviluppo economico e sui criteri generali dell'assetto territoriale.
A questo punto si colloca il discorso sul quale si soffermavano in particolare Gandolfi ieri e Minucci stamani, del rapporto tra la programmazione regionale e la programmazione nazionale, un rapporto che mi sembra non possa essere correttamente inteso se non prevedendo un'attiva partecipazione delle Regioni alla stesura del piano nazionale ma riservando a quest'ultimo la definizione degli obiettivi di fondo, sull'uso delle risorse e sui criteri generali dello sviluppo e dell'assetto territoriale.
E questo perché, se i piani regionali fossero autarchici e svincolati dall'ossequio a queste grandi opzioni della collettività nazionale, si correrebbe il rischio di perpetuare ed aggravare il divario tra le Regioni più favorite, a più alto livello di benessere da un lato, ed il Mezzogiorno e le aree depresse dall'altro. Successivamente alla elaborazione del piano nazionale, la Regione deve avere il suo spazio per applicare, con piena autonomia, all'interno delle grandi scelte compiute dal piano nazionale, i criteri di sviluppo e di assetto territoriale nell'ambito regionale.
Quindi, si ripete, non necessariamente le leggi-cornice, ma le leggi vigenti ed i principi generali dell'ordinamento giuridico - e tra essi in modo particolarmente significativo le indicazioni del piano - sono gli unici limiti che secondo la Costituzione incontra, a livello di principi generali, l'attività delle Regioni.
Il secondo ordine di limiti, quello degli interessi, sposta il discorso su un terreno che è più propriamente politico.
Anche qui occorre guardarci da un rischio che ritengo grave, mortale anzi per l'autonomia delle Regioni, se il limite degli interessi nazionali anziché essere inteso correttamente, secondo il dettato costituzionale almeno in via normale come il presupposto per un giudizio che il Governo ed il Parlamento si riservano, a posteriori, sulle leggi e sugli atti fondamentali delle Regioni, viene dilatato sino a configurare un'arbitraria distinzione delle materie di competenza regionale, in settori di interesse nazionale e in sottosettori di interesse regionale. Con il risultato che nelle stesse materie dell'art. 117, lo Stato si riserverebbe una "fetta" di competenza per quelle sottomaterie ritenute di interesse nazionale. E poiché un parallelismo assoluto corre tra competenze legislative e competenze amministrative, questa interpretazione significherebbe che anche nelle materie dell'art. 117 lo Stato mantiene i propri uffici, la propria attività amministrativa, la propria quota di spesa pubblica anche con le Regioni pienamente funzionanti.
Il pericolo è particolarmente grave, considerando che - almeno finora nelle Regioni a statuto speciale è prevalsa questa interpretazione, e si è assistito - per questa via - ad una notevole limitazione dell'autonomia regionale. Giustamente è stata rilevata l'arbitrarietà di questo procedimento, che trasforma un elemento di valutazione ex post sul modo di esercizio delle competenze regionali in una delimitazione dell'oggetto delle competenze stesse. Su questo punto dovremo subito rifiutare, a livello di formulazione dei decreti delegati e delle eventuali leggi cornice, ogni interpretazione restrittiva dell'autonomia, dovremo subito fare sentire la voce della Regione e chiedere che la Costituzione sia applicata e che tutto l'ambito di autonomia di cui le Regioni possono disporre sia occupato. In questa materia un primo passo avanti è stato compiuto dall'art. 17 della legge finanziaria, là dove prevede che nelle materie trasferite alle Regioni la competenza dello Stato resti limitata in termini di funzioni di indirizzo e di coordinamento delle attività delle Regioni che attengono ad esigenze di carattere unitario, anche con riferimento agli obiettivi del programma economico nazionale.
Questa norma quindi contiene due importanti novità: la prima consiste nel riconoscere che il momento del coordinamento, il momento cioè dell'esigenza di ricondurre tutta l'attività della programmazione e non più il momento tradizionale della pubblica amministrazione accentratrice, cioè quello imperniato sul controllo prefettizio, sugli interventi e sulle ingerenze limitatrici dell'autonomia locale. La seconda novità consiste nel riconoscere che lo Stato (lo Stato e non il Governo) ha nei confronti dell'attività delle Regioni, anche nelle materie di interesse nazionale solo delle funzioni di indirizzo e coordinamento. Anche su questo punto sono necessarie molta attenzione e vigilanza, poiché è noto che esiste la tendenza, in certi ambienti della burocrazia ministeriale, a ritenere che l'indirizzo ed il coordinamento possano significare che l'amministrazione centrale esercita una sorta di controllo preventivo sugli atti amministrativi di maggiore rilievo della Regione, con ciò introducendo davvero una figura di Regione "minorile", di Regione sotto tutela, priva addirittura della capacità di agire, che deve essere risolutamente liquidata nella fase di formulazione dei decreti delegati.
A rigore, infine, troviamo nella Costituzione un terzo limite all'autonomia regionale, non più come i due precedenti, nei confronti dello Stato, ma verso gli enti territoriali minori: l'art. 118 della Costituzione, infatti, sottrae alla competenza amministrativa delle Regioni le materie di interesse esclusivamente locale e all'ultimo comma prevede che la Regione eserciti normalmente le sue funzioni delegandole agli enti minori. Io credo che non possiamo, sotto questo profilo, che prendere atto con favore di queste disposizioni costituzionali ed anzi adoperarci, anche attraverso la formulazione dello Statuto, perché l'istituto della delega sia largamente adottato e quindi promovendo, anche attraverso questa via un processo di crescita, di assunzione di responsabilità, di rinnovamento delle autonomie locali a tutti i livelli.
E' dunque soltanto in questo ambito ed entro questi limiti che si colloca il problema dell'autonomia organizzativa della Regione quale si manifesta fondamentalmente attraverso la predisposizione dello statuto. In questa fase, che abbiamo giustamente definito, a cominciare dalle parole del nostro Presidente, "fase costituente", tutto il Consiglio regionale senza differenze e senza distinzioni di gruppo e di aspirazione politica, è chiamato ad esercitare la propria attività, con autonomia e con responsabilità. In questo contesto si pone il problema della legge Scelba sulla quale non voglio più soffermarmi perché il discorso mi sembra ci trovi tutti d'accordo - la legge Scelba è, totalmente e parzialmente incostituzionale in quanto limita l'autonomia organizzativa della Regione che viceversa la Costituzione riconosce e tutela ampiamente. Occorre quindi, andare oltre la legge Scelba. In proposito mi limiterò a dire che tra le possibili soluzioni quali sono emerse dal dibattito, mi sembra che l'impostazione più realistica sia quella di procedere intanto ad una elaborazione dello Statuto che, senza essere meticolosa e spinta al dettaglio, sappia coraggiosamente introdurre tutti i possibili elementi di novità, ispirandoci unicamente alla norma costituzionale e dunque prescindendo, di fatto, da quello che dispone la legge n. 62.
Contemporaneamente, però, attivandoci all'elaborazione, se possibile, di uno schema legislativo da sottoporre al Parlamento, nel quadro dell'iniziativa legislativa che compete alle Regioni, per l'abrogazione, la sostituzione e la modifica della legge stessa; meglio se questa iniziativa può essere coordinata tra più Consigli regionali, in modo che abbia maggiori possibilità di successo.
Passando, poi ai possibili contenuti dello Statuto, anche qui raccogliendo gli elementi di valutazione che il dibattito ci ha offerto vorrei soffermarmi su alcuni di essi, che mi paiono i più importanti, ed in particolare sui problemi della Giunta, dei rapporti tra Giunta, Consiglio e Presidente, dei rapporti della Regione con gli enti locali, dei nuovi strumenti di partecipazione e dell'organizzazione della burocrazia regionale.
Io credo che tutti siamo d'accordo - ed il dibattito ha registrato questo sostanziale consenso - sul fatto che dobbiamo sforzarci di configurare la Giunta regionale essenzialmente come un organo di governo e di programmazione, che esercita perciò prevalentemente le sue funzioni in forma collegiale (oltre ad essere, evidentemente, anche organo di direzione delle attività esecutive dirette e di quelle delegate dallo Stato, sulle quali, tra l'altro, l'interpretazione della dottrina è nel senso che la Regione non possa a sua volta delegarle agli enti territoriali minori). Mi sembra anche che siamo d'accordo sul fatto che gli assessorati - quando lo Statuto li prevedrà - non debbano essere ritagliati sul modello di piccoli ministeri, con competenze tradizionalmente legate alle materie, secondo un modello di organizzazione amministrativa che risale ai primi anni dopo l'unità del Paese, ma che debbano essere invece organizzati per funzioni o addirittura per progetti sui grandi temi di intervento della Regione. Mi sembra anche necessario debba essere oggetto di meditazione da parte della commissione per lo Statuto il problema del numero degli assessori, oltre che, a mio personale avviso, quello della soppressione dell'anacronistica figura dell'assessore supplente, la cui stessa denominazione appare una reminiscenza di leggi superate.
Quanto poi ai rapporti tra Giunta, Consiglio e Presidente, io prendo le mosse da quanto il collega di gruppo consigliere Fonio ha dichiarato ieri: noi socialisti diciamo no ad una Regione presidenziale e diciamo no anche ad una Regione assembleare. E aggiungo soltanto poche considerazioni. La Regione presidenziale trova degli ostacoli, a nostro avviso insuperabili nel dettato costituzionale, anche perché manca nel nostro sistema, come ricordava il consigliere Bianchi poc'anzi, il presupposto fondamentale, per la sua configurabilità, cioè l'elezione a suffragio diretto del Presidente della Regione. Perché là dove esiste la figura del Presidente con rilievo autonomo rispetto all'assemblea, sempre Presidente ed assemblea traggono entrambi direttamente dal suffragio degli elettori il loro potere. Mancando questo requisito, ci sembra che comunque, al di là di ogni altra considerazione di carattere politico, sia impossibile introdurre nel nostro sistema costituzionale una figura parapresidenziale per la Regione. Ciò non toglie che il Presidente della Giunta regionale sia un organo previsto nella Costituzione, abbia delle sue specifiche attribuzioni, che sono quelle dell'art. 121 della Costituzione, abbia anche le funzioni di ufficiale di Governo per le funzioni amministrative delegate dallo Stato alla Regione, Ma, pur riconoscendo al Presidente questa posizione particolare, che ha rilievo costituzionale, è indubbio che l'amministrazione della Regione, nel sistema delineato dalla Costituzione è di tipo collegiale.
A questo punto si colloca il problema del rapporto tra Giunta e Consiglio, sul quale abbiamo registrato nel dibattito uno dei punti di più marcato dissenso, come del resto era prevedibile, date le note posizioni dei vari gruppi politici. Io non credo che possiamo essere d'accordo con l'affermazione che la Giunta debba essere l'organo esecutivo, nel senso che essa dovrebbe limitarsi ad eseguire, quasi materialmente, le decisioni del Consiglio; non credo che ci si possa soffermare su dati di tipo lessicale o terminologico, ("esecutivo" si chiama anche, nel linguaggio costituzionale il Governo nei confronti del Parlamento, potere legislativo) ma che si debba fare uno sforzo per introdurre una normativa che consenta i più funzionali e corretti rapporti tra Consiglio e Giunta, senza la pretesa di far venire meno quelle che sono - e non possono non essere - le competenze dell'organo collegiale di governo rappresentato dalla Giunta. Occorre che le Regioni abbiano un governo e che questo governo sia espressione della dialettica tra maggioranza e minoranza; secondo quelle che restano le ispirazioni della nostra Costituzione e del nostro regime, occorre che la maggioranza governi secondo il suo programma e la minoranza controlli l'operato della maggioranza. Ma quando dico maggioranza e minoranza non intendo necessariamente Giunta e Consiglio, perché non direi che solo la Giunta governa ed il Consiglio si limita a controllare, in quanto l'indirizzo di fondo sul programma deve essere stabilito dal Consiglio regionale con il voto di investitura e con gli eventuali voti di fiducia al Presidente e alla Giunta. Io penso che anche sugli atti rilevanti della Regione e il Consiglio debba esprimersi e quindi ritengo che il Consiglio in quanto tale, partecipi all'elaborazione ed alla fissazione delle linee di governo. E non direi neppure che il Consiglio fa le leggi e che la Giunta compie tutti gli atti amministrativi perché mi sembra che per alcuni atti amministrativi, soprattutto in tema di programmazione economica generale, ma anche di interventi di settore, piani urbanistici, piani di lavori pubblici, debbano essere riservate al Consiglio le decisioni relative. Occorre dunque soprattutto innescare un meccanismo nel quale il Consiglio sia quanto mai attivo nelle sue funzioni e si abbia un costante confronto pubblico tra maggioranza e minoranza su tutti i temi di rilievo per l'attività della Regione, pur nel rispetto di quelle competenze specifiche che la Costituzione assegna a ciascuno dei tre organi della Regione. Quindi un sistema equilibrato di funzioni, distribuite tra Presidente, Giunta e Consiglio.
Direi che è anche importante il modo attraverso il quale il Consiglio organizza i propri lavori e perciò occorre prevedere e valorizzare il metodo di lavoro per commissioni permanenti, da costituire non solo per materia, sul modello delle analoghe commissioni parlamentari, ma anche per progetto, per singolo problema, come sono in fondo le prime commissioni che stiamo per costituire, quella per lo Statuto e quella per il regolamento.
Le Commissioni consiliari, oltre a mobilitare, attraverso una larga partecipazione, tutte le forze del Consiglio, dovranno essere aperte ad apporti esterni, di tecnici ed esperti e alla più ampia consultazione delle forze economiche e sociali (consultazione che, molto opportunamente, la presidenza dell'assemblea ha già iniziato a fare). In questo quadro si colloca anche il ruolo che dovremo deciderci ad attribuire al Comitato Regionale per la programmazione economica e al Comitato regionale per la programmazione ospedaliera, organismi che, anche per il patrimonio di esperienze e di conoscenze che hanno acquisito, dovremo cercare di innestare nella nuova vita della Regione.
Nei confronti degli enti locali, a mio avviso, lo Statuto deve prevedere un controllo decentrato, attraverso la costituzione dei Comitati di controllo nei capoluoghi di provincia, così come la Costituzione consente di fare; la Regione Comuni e alle Province, anche per evitare qualsiasi appesantimento burocratico; infine, si dovrà dar carico dell'esercizio di un effettivo coordinamento degli enti locali essenzialmente attraverso la politica di programmazione, giacché tutte le grandi scelte che abbiamo di fronte, dall'assetto territoriale all'organizzazione del sistema delle aree ecologiche, ai problemi delle grandi infrastrutture, delle attrezzature e dei servizi collettivi, passano attraverso il necessario coordinamento da parte della Regione, da parte della Regione, argomento da discutere seriamente che si debba porre in prospettiva il problema di un bilancio regionale consolidato come uno degli strumenti essenziali della politica di piano, poiché senza un uso coordinato e consapevole delle risorse che la mano pubblica ha a sua disposizione nel contesto della Regione, diventa difficile, soprattutto a medio termine, fare una vera politica di programmazione regionale.
Lo Statuto deve anche prevedere gli strumenti di partecipazione, sui quali si sono già soffermati alcuni colleghi: il referendum, l'iniziativa legislativa popolare, il metodo dell'inchiesta pubblica come strumento permanente di consultazione delle categorie, delle forze sociali, in primo luogo delle organizzazioni dei lavoratori. Il successo di questi strumenti di democrazia dipende anche dal modo in cui sapremo inserirli e valorizzarli, nello Statuto prima, nella prassi della Regione poi.
Prevederli nello Statuto, infatti, non basta: questi strumenti sono elencati dalla Costituzione anche con riferimento all'attività legislativa dello Stato, ma non sono mai divenuti operanti. Bisogna fare in modo che questi strumenti funzionino e costituiscano un'ulteriore spinta verso il rinnovamento degli istituti democratici: per esempio, si può prevedere per l'iniziativa legislativa popolare, non soltanto la possibilità che ne siano titolari un certo numero di Consigli comunali e di elettori, ma anche un certo numero di Consigli di quartiere, con ciò portando su di un terreno concreto, di responsabilità e di potere, il ruolo dei Consigli di quartiere.
Per quanto riguarda poi l'organizzazione della burocrazia regionale, in sintesi dovremo ispirarci - su questo che è uno degli oggetti più importanti dello Statuto - alla esigenza del contenimento nel numero e della qualificazione della burocrazia regionale, in vista delle funzioni che la Regione è chiamata ad esercitare.
Io penso - d'accordo con quanto è stato proposto per la Regione Lombardia - che dovremmo anche verificare la possibilità di introdurre proprio per raggiungere questi obiettivi, un sistema articolato di regolamentazione giuridica del personale, non necessariamente accettando come un dato immodificabile che tutta la burocrazia regionale sia regolamentata dalle leggi sul pubblico impiego, ma esaminando anche la possibilità di introdurre il contratto di impiego privato, anche a termine nonché il ricorso a consulenze di tecnici esterni qualificati.
Molti altri problemi dovranno essere messi a fuoco dallo Statuto, ma avremo modo e tempo di discuterne ampiamente nel corso dei prossimi mesi.
Abbiamo dunque dinnanzi a noi, signori Consiglieri, un gravoso calendario di impegni, cui l'ufficio di presidenza ci ha del resto abituati fin dai primi giorni, a mio avviso molto opportunamente.
Ci sono molte cose da fare subito: lo Statuto, il regolamento, le iniziative per controllare e determinare, per quanto ci riusciremo, la stesura dei decreti delegati e delle leggi-cornice, le proposte da formulare per l'abrogazione o la modifica della legge Scelba, eventuali proposte per attivare subito la delega da parte dello Stato di altre funzioni alla Regione, e l'esercizio dei poteri regolamentari regionali per l'attuazione di leggi della Repubblica. A questo proposito, citerò come esempio una proposta formulata recentemente in un Convegno dal prof.
Bassanini, secondo la quale riforma della legge comunale e provinciale potrebbe essere attuata attraverso una legge-quadro, dalle "maglie" larghe che si limitasse a fissare le norme essenziali, consentendo alle Regioni di determinare attraverso l'esercizio del potere regolamentare, le norme più appropriate alla realtà socio-economica ed ambientale di ciascuna di esse.
Non dobbiamo stupirci se questa proposta rischia di apparire rivoluzionaria per un ordinamento che tende ad uniformare in modo meccanico tutti gli istituti giuridici, ma ciò non toglie che essa appaia degna di attenta considerazione.
Dovremo, infine, assumerci, e presto, le responsabilità che ci competono sul terreno della politica di piano; e ciò nei due momenti, di raccordo con la programmazione nazionale e di coordinamento e propulsione della programmazione locale degli enti minori.
E' necessario perciò che procediamo ad una verifica del primo schema di sviluppo regionale del Piemonte elaborato dal C.R.P.E.; non solo e non tanto per un controllo di tipo quantitativo, per controllare se i "trends" della popolazione, dell'occupazione, ecc., così come ipotizzati dal piano si sono realizzati, perché sappiamo già che non è stato così ma per una verifica degli obiettivi che il piano regionale si era dato e la messa a fuoco degli strumenti di attuazione del piano stesso. Sappiamo dai lavori del C.R.P.E, e dagli studi dell'I.R.E.S., quali erano gli obiettivi del piano regionale piemontese: lo sviluppo equilibrato della Regione, la correzione dei meccanismi cosiddetti "spontanei" di crescita dell'economia regionale, un freno all'espansione incontrollata dell'area metropolitana torinese, lo sviluppo del sistema delle aree ecologiche nelle quali è stata organizzata la Regione, l'apertura del Piemonte verso l'esterno, verso gli altri sistemi economico- territoriali.
Mi sembra che possiamo fin d'ora aggiungere, perché sono maturati ed esplosi con particolare forza ed evidenza negli ultimi tempi, almeno il grosso problema dell'organizzazione dei servizi collettivi, specie nelle aree urbane e metropolitane, e quello che si presenta ormai come una vera scelta di civiltà, la difesa dell'ambiente e della salute pubblica (di cui la denuncia del consigliere Lo Turco ha messo in evidenza un aspetto, cui si devono aggiungere gli altri, dall'inquinamento delle acque, dell'aria, e del suolo, ai problemi della difesa del paesaggio e della natura).
Partendo da questi argomenti, avremo ampia materia per incominciare ad esaminare lo schema di sviluppo della Regione e procedere alla formulazione delle nostre indicazioni. Così abbiamo ampia materia di dibattito sugli strumenti - che sono rimasti tutti sulla carta, o quasi - dall'ente di sviluppo agricolo alla società finanziaria pubblica regionale, all'ente regionale dei trasporti, all'organizzazione dei comprensori e delle aree di intervento. E non è escluso che alcuni di questi possano già trovare nello Statuto una prima formulazione; per esempio, è chiaro che dobbiamo muoverci presto sul terreno della programmazione, proprio per evitare che la stessa macchina finanziaria della Regione proceda al rallentatore, una volta che la Regione si sarà data il suo statuto ed i suoi organi definitivi. Non dimentichiamoci che la legge finanziaria all'art. 9 stabilisce che le Regioni fruiscano di particolari contributi dal fondo stanziato presso il Ministero del bilancio e della programmazione, che serve specificamente al finanziamento dei programmi regionali di sviluppo; e che all'art. 10 prevede che la Regione possa accendere mutui, tra l'altro, per partecipare a società finanziarie regionali, il cui oggetto rientri tra le materie elencate dall'art. 117 della Costituzione o tra quelle delegate a norma dell'art. 118. La previsione di uno strumento come la Finanziaria pubblica regionale perciò è contenuta già nella legge finanziaria e quindi dobbiamo essere in grado di decidere tempestivamente al riguardo anche perché la decisione relativa alla Finanziaria regionale non è senza conseguenze sul modo in cui imposteremo il bilancio della Regione.
Questo dibattito ci consentirà infine di approfondire, con una discussione più ampiamente programmatica rispetto a quella che stiamo conducendo oggi, i temi sui quali si incontra e si riconosce la maggioranza che, io mi auguro, si esprimerà in questo Consiglio e che potrà in tal modo nominare la sua Giunta definitiva e darsi il suo programma di governo.
In questo senso, mi sembra possano essere accolte le proposte che ieri faceva Gandolfi, quando ci parlava di una Giunta provvisoria, intendendo con ciò non soltanto l'ovvio riconoscimento che comunque prima dell'approvazione dello Statuto una Giunta non può che essere provvisoria ma sottolineando l'esigenza che l'organo di governo della Regione si formi intorno ad un completo ed articolato programma e con una sua precisa idea d'azione; la dignità stessa dei partiti che formeranno la maggioranza in questa assemblea regionale esige che - a Statuto approvato - intorno al programma di governo della Regione il dibattito politico si approfondisca si ampli e si concluda con l'autorevole avallo di un rinnovato voto di fiducia.
Signor Presidente, colleghi, abbiamo molte cose da fare, dobbiamo farle presto ed impegnarci anche a farle bene: le attese e le speranze che hanno accompagnato la nascita della Regione esigono da noi questo sforzo. Perch in definitiva, proprio le attese dei lavoratori, dell'opinione pubblica democratica sono la nostra forza, ma anche il tribunale a cui dobbiamo quotidianamente rendere conto del nostro lavoro.
Credo che - con questa consapevolezza - possiamo impegnarci a continuare, anche nei prossimi mesi, la nostra attività così come l'abbiamo iniziata in quest'aula, in un modo che - nei giorni difficili che il Paese sta attraversando - ha rappresentato - e non solo per il Piemonte - un esempio insieme di efficienza e di maturità democratica.



PRESIDENTE

Signori Consiglieri, siamo leggermente in anticipo sui tempi previsti nella conferenza dei capi gruppo. Io ho ancora sulla discussione relativa ai principi ispiratori dello statuto, due soli iscritti e parlare, i Consiglieri Berti e Calleri. Ho bisogno d'altra parte di consultare il Consiglio di Presidenza e la conferenza dei capi gruppo, per preparare la seduta di questo pomeriggio che potrebbe essere la seduta conclusiva di questa sessione. Ritengo che organizzando tempestivamente i nostri lavori sia possibile, dopo aver chiuso la discussione generale sui principi ispiratori dello statuto, procedere alla formazione delle due commissioni preannunciate, relative agli studi sullo Statuto e sul regolamento procedere successivamente al punto 6 e al punto 7 dell'o.d.g. e cioè l'elezione del Presidente della Giunta e l'elezione della Giunta previa determinazione del numero degli assessori effettivi e poi alle due altre elezioni e designazioni previste ai punti 8 e 9, che non dovrebbero portarci via troppo tempo. Penso che l'unica discussione, oltre i due interventi che sono previsti sullo Statuto, che potrebbe sorgere e che concorderemo adesso nella conferenza dei capi gruppo, è quella relativa alla determinazione del numero degli assessori effettivi. Ma anche questa non dovrebbe portarci via un tempo eccessivo. Ecco perché ritengo di dover convocare immediatamente il Consiglio di presidenza e la conferenza dei capi gruppo nel mio ufficio vicino a quest'aula e di rinviare la seduta plenaria a questo pomeriggio alle ore 16.
La seduta è tolta.



(La seduta ha termine alle ore 12)



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