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Dettaglio seduta n.151 del 26/04/73 - Legislatura n. I - Sedute dal 6 giugno 1970 al 15 giugno 1975

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Argomento:


PRESIDENZA DEL PRESIDENTE OBERTO


Argomento:

Congedi


PRESIDENTE

La seduta è aperta.
Hanno chiesto congedo i Consiglieri Cardinali, Fassino, Franzi, Gerini Giovana, Simonelli.


Argomento: Celebrazioni Manifestazioni Anniversari Convegni

Rievocazione celebrativa del 25 aprile 1945


PRESIDENTE

L'ordine del giorno reca: "Rievocazione celebrativa del 25 aprile 1945".
Signor Presidente, signori Consiglieri, signor Commissario del Governo loro sanno bene che una norma del nostro regolamento attribuisce al Presidente l'onore e l'onere di essere l'oratore ufficiale del Consiglio Regionale: l'interprete cioè del pensiero di tutti e di ciascuno per esprimerlo efficacemente ed obiettivamente, quindi nel miglior modo possibile.
Mi rendo conto della responsabilità che l'assolvimento di tale compito comporta, reso particolarmente delicato e difficile in questa circostanza e comunque sempre altamente impegnativo.
Cercherò di assolvere il mio dovere ponendomi sulla strada maestra della verità: della verità oggettiva, che non fa velo ai giudizi. La verità fa l'uomo libero! Non una voce neutra, certo, ma una voce dai timbri compositi, che tenga conto delle assonanze e delle dissonanze, e, in qualche senso, le armonizzi.
Certo, se potessi parlare con il distacco dello storico - posto che la storia fosse già in grado di dire compiutamente la sua su vicende ed eventi che se anche possono apparire lontani sono in realtà ancora molto vicini con tanti protagonisti e testimoni viventi, - e ne avessi la capacità, il compito sarebbe meno difficile. Ma, pur parlando con quel tanto di vis politica ch'é in ciascuno di noi, e che ineluttabilmente porta a considerare sotto un particolare angolo visuale fatti e cause, mi consentano di dire che compio ogni sforzo per essere davvero la voce del Consiglio, e pertanto la voce del Piemonte di cui il consesso è espressione.
Di quel Piemonte che fu protagonista, ancora una volta, e quale protagonista! Le bandiere dei Comuni decorati di Medaglia d'oro, Alba Boves, Collegno, Cumiana, Cuneo, Domodossola, Grugliasco, Torino, alle quali m'inchino, ne sono eccelsa testimonianza.
Uno sguardo, pur rapido, al passato segna la lunga strada percorsa. Non sono, i miei, che accenni emblematici.
La strage di Torino del dicembre 1922 e gl'incendi della Camera del Lavoro sono eventi che coronano drammaticamente una lunga serie di violenze perpetrate in tutto il Piemonte dalle squadre nere. Alessandria, Novara Casale sono stati con- Torino, tra i centri più incandescenti. Uomini, di pensiero, politici, come Gobetti e Gramsci dovettero scomparire dalla scena: "render loro la vita impossibile", "impedire a questo cervello di funzionare per 20 anni" era il comandamento; aprire per l'uno il varco dell'esilio, per l'altro la galera, per entrambi avvio alla morte.
Renato Vuillermin, avvocato, Consigliere comunale di Torino, Duccio Galimberti, avvocato, eroe nazionale, massacrati. Renato Sclarandi, giovane sottotenente degli alpini, atterrato in campo di concentramento da una fucilata nazista. Sono nomi a me particolarmente famigliari, che ne evocano mille altri per ciascuno di noi.
Il processo di Torino e l'esecuzione al Martinetto con quel grido "Viva l'Italia" che ancora echeggia è una pagina di storia fra le più gloriose e dolorose.
Le stragi e i campi degli scontri: Boves, Cumiana, Grugliasco, Giaveno Collegno, Caluso, Forno di Coazze, Cudine, Traversella, La Difensiva, La Benedicta, Colle del Lys, Fondo Toce: sono soltanto alcune tappe del lungo calvario.
E infine come non ricordare le leggendarie figure di alcuni comandanti partigiani, morti e vivi; nomino per tutti i fratelli Di Dio, dell'eroica Ossola, guida a molti sulla via del riscatto.
E le donne, le coraggiose donne piemontesi partecipi generose alla dura lotta, alle quali dovrà essere dedicato un più approfondito capitolo nella storia della Resistenza.
E la partecipazione attiva dal 1922 al 1945 del mondo operaio, con gli scioperi di denuncia e di condanna, che segnarono per molti la strada della deportazione.
Nell'inchinarci dinnanzi a questi morti, caduti in combattimento o ghermiti nelle proprie case, trucidati con parvenza e simulacri di processi o offertisi in olocausto; - sublime Anello del Brigadiere dei Carabinieri Salvo D Acquisto, fra i molti sublimi, - consideriamoli pur presenti oggi con noi "Cui ch'a marcio in prima fila", dice Costa, poeta del Piemonte padre di un eroico giovane partigiano caduto combattendo, "a sun i mort, i nostri mort!' Ch'à marcio': al tempo presente, dunque qui, con noi.
Nell'onorarne la memoria intendiamo onorare tutti i morti, camminando verso un avvenire migliore con loro in testa, con i loro compagni vivi.
Ci sono certamente grati del ricordo, perché è espressione di popoli civili quella di ricordare e onorare i morti.
Ma essi ad una voce volgendosi a noi ci chiedono - a tutti, e in modo particolare a quanti ebbero ventura d'essere con loro e son qui presenti sui banchi del Consiglio, onorandolo - "che cosa avete fatto? Che cosa realizzato di quanto lasciammo in retaggio in un sacro testamento?" Che cosa avete detto di noi ai vostri figli? Sanno loro e rammentate voi stessi, perché siamo morti, per quali cause, che è più importante di come siamo morti? Invano celebrereste la ricorrenza del 25 aprile 1945, suggello del riscatto; invano, se non deste risposta agli interrogativi.
Se non spiegaste agli uomini delle generazioni che trovarono la libertà, come la libertà fu perduta, e come possa perdersi ancora....
Ecco perché questa data che celebriamo va ancorata ad altre date, ad altri eventi Se non si conoscono le cause non si possono valutare gli effetti nella loro essenza reale: se non si conosce da dove si viene non si può sapere dove si va, giacché ammonisce Leibniz "il presente è carico del passato e gravido dell'avvenire".
Mi consentano pertanto, signor Presidente, signori Consiglieri, una rapida sintesi, per cenni; sono tra i presenti dei pochissimi che abbia vissuto l'intero arco di tempo degli eventi che anno dai 1919 ad oggi.
Era terminata una guerra vittoriosa, definita inutile strage e considerata, negli effetti, come il completamento del nostro Risorgimento.
Guerra che aveva avuto interventisti di ogni formazione ideologica, e che aveva avuto dissensi e contrasti. Guerra che aveva visto rifulgere il valore del soldato italiano, consenziente o dissenziente, in obbedienza al dovere "La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino", sancisce la nostra Costituzione.
Il dopoguerra trovò l'Italia con i confini unificati, ma con gli spiriti e gli animi divisi sino alla lacerazione. Ed era pur stata la prima grande occasione di un reale incontro tra gli uomini delle varie parti d'Italia.
Gravi problemi economici e sociali venivano alla ribalta. La stessa trasformazione delle strutture che tendevano sempre più a fare dell'Italia un paese da agricolo ch'era a paese ad economia industriale, acutizzando gli squilibri tra Nord e Sud, incideva profondamente nel tessuto vitale.
Due eventi politici si affacciavano alla considerazione degli italiani: il sorgere del partito popolare italiano (che Federico Chabod afferma essere stato il fatto politico più importante della prima metà del secolo) e la costituzione del partito comunista italiano, staccatosi dai socialisti, rimasti incerti, indecisi, questi, e in definitiva contrari all'assunzione di responsabilità di governo.
La classe operaia e le masse contadine assumevano sempre più coscienza dei loro diritti e ne reclamavano il soddisfacimento.
Nei conflitti inevitabili che s'instaurarono, per responsabili carenze governative, s'inseriva, ammantato della toga del patriottismo, che faceva presa sui reduci sfiduciati e delusi, e con un piglio audace in apparenza di sicurezza, il movimento fascista, con le sue squadre d'azione, sostenute dagli agrari, che davano la parola anziché alla ragione alle bombe e al manganello e all'olio di ricino. Avevano tolto al canto degli arditi il loro motto "pugnal fra i denti, le bombe in mano", cui gli eredi restano fedeli.
Sicché è perfetto il giudizio di Eugenio Montale: "Che cos'e il fascismo? E' la sopraffazione al posto della convinzione", bene completato da quello del socialista Sandro Pertini: "il fascismo è la negazione della dignità umana".
I più stavano a guardare. Pochi illuminati denunziavano il pericolo.
La violenza li poneva a tacere, o li eliminava. L'istituto della monarchia, con la sua pavida assenza, denunziava chiaramente il suo destino di tramonto, ed apriva le porte del potere a chi, in pochi anni, passando attraverso la via del delitto politico, che si esalta nel nome del martire socialista Giacomo Matteotti - che aveva ammonito "la tirannia determina la morte della nazione" - assumendosene spavaldamente la responsabilità avrebbe fatto tacere ogni voce libera, impedendo qualsiasi espressione di pensiero, condannando attraverso i Tribunali Speciali con leggi speciali i reati di pensiero o di opinione, sopprimendo le libertà statutarie, ponendo il bavaglio alla stampa, le manette al dissenziente; con i decreti liberticidi del 1925-26 aprendo a molti la via dell'esilio, ed anche là colpendo proditoriamente a morte. Il nome dei fratelli Rosselli vien fatto qui per ricordare anche tutti gli altri.
Nasceva il partito unico.
E, non dimentichiamolo, lentamente, quasi senza avvertire la gravità insensibilmente, decine di milioni di italiani, - e ora son già 3 milioni i voti di scontenti, di illusi, di nostalgici: non sopravvalutiamolo ma nemmeno sottovalutiamolo - anche attraverso la burletta di elezioni plebiscitarie, esprimevano un consenso, non importa se più o meno formale automatica anche se non convinta acquiescenza - all'instaurarsi di una dittatura, non importa se più o meno truce (tale sarebbe diventata in ogni caso, disposandosi a quella hitleriana), accontentandosi del pane (che sarebbe venuto poi a mancare) e dei circenses. Regnava l'ordine: i treni viaggiavano, i tram circolavano, la posta era recapitata, le scuole funzionavano, non c'erano scioperi: tutto filava secondo la volontà di uno che pensava a tutti.
L'uomo in funzione dello Stato, non lo Stato in funzione dell'uomo.
Mancavano però due beni, quelli per i quali, soltanto è giusta e legittima la lotta, per i quali ha scopo la vita: la libertà nella giustizia e la democrazia.
Il mito aveva incantato quasi tutti. Ed anche fuori d'Italia non eran pochi i disinformati che inneggiavano e invidiavano coloro che dovevano trovare nella mormorazione e nelle barzellette la timida, e pur rischiosa manifestazione del dissenso.
Non sarà fuor di luogo, per la migliore conoscenza del fenomeno ricordare il giudizio pronunciato da Winston Churchill il 17 febbraio 1933 con quale definiva Mussolini "il più grande legislatore vivente" attribuendogli il merito di avere, con il fascismo stabilito un centro di orientamento dal quale i popoli che sono impegnali nella lotta con il socialismo non devono esitare a essere guidati.
Tali possono essere gli abbagli anche per chi essendo al vertice di un grande osservatorio non guardi a fondo nell'essenza delle cose.
La paura, l'amore del quieto vivere, a volte il bisogno, l'esigenza di sopravvivere, avevano indotto la massa degl'italiani, anche di taluno che pur aveva dissentito contrastando e subendo la violenza fascista, ad accettare quella che veniva definita, sussurrandolo sottovoce e sospirando la tessera del pane. Passerà, si diceva: e ci vollero vent'anni, con quel bagno di sangue di cui sembra che ci si scordi.
Gli spiriti forti che nelle galere ed in esilio pagarono primi lo scotto della rinascita denunziando l'errore del totalitarismo sono i primi che in queste celebrazioni vanno ricordati.
Il fuoco della Resistenza viene attraverso a quella miccia. E non soltanto come espressione di pensiero, ma anche come assunzione di responsabilità diretta, esempio ed insegnamento Nel 1936, dopo l'avventura abissina, la guerra di Spagna vede a fianco dei combattenti spagnoli per la libertà i volontari italiani: ed essi saranno ancora tra gli animatori della nostra lotta di Liberazione.
Non aveva scritto e vaticinato Carlo Rosselli: "oggi in Spagna, domani in Italia"? Il tiranno, qualunque sia la maschera che assume, finisce sempre per essere vittima di se stesso, accecato da una gloria fittizia, e in cerca di effimeri trionfi: la sua strada è quella della violenza, fisica e psichica questa a volte peggiore dell'altra, e scivola fatalmente nella guerra. E' la logica brutale della tirannide.
Africa, Spagna, Francia, Albania, Grecia: quanto sangue, quante vite quanti lutti.
Tutto questo e a monte di quel 25 luglio 1943 che ricordiamo e ricorderemo ancora, con le parole di Duccio Galimberti pronunziate 30 anni ad oggi sulla piazza grande di Cuneo: parole il cui significato è motivo anche ora di attenta meditazione. Alla caduta del fascismo il maresciallo Badoglio aveva annunciato il tanto equivoco "la guerra continua", non dissentito dal re, ch'era tornato ad essere il capo responsabile dell'Esercito cessando la conduzione mezzadrile portata innanzi con l'altro maresciallo del crollato impero.
E Duccio Galimberti riprendeva il 26 luglio: "Si, la guerra continua fino alla cacciata dell'ultimo tedesco, fino alla scomparsa delle ultime vestigia del regime fascista, sino alla vittoria del popolo italiano che si ribella contro la tirannia mussoliniana, ma non si accoda ad un'oligarchia che cerca, buttando a mare Mussolini di salvare se stessa a spese degli Italiani.
La visione politica era chiara, nitida, precisa: era il suo testamento che gli sarebbe costata la vita.
Quello che avvenne nella notte tra il 25 e il 26 luglio, e poi in questa giornata, è incredibile. Un popolo ritrovava se stesso, o almeno credeva di ritrovarsi, non tanto nell'abbandono frettoloso dei distintivi e nella distruzione delle tessere e delle effigi mussoliniane, quanto nella gioia di poter respirare la libertà o pure ancora in clima di guerra.
Il 25 luglio segna la caduta del fascismo, ma non la data della nascita della Resistenza, anche .se ne è l'ormai prossima genitrice.
In quei giorni la classe dirigente commise, come dopo la guerra 1915 1918, l'errore di restare distante e persino distaccata dal popolo. Alcuni esuli rientrarono, ma pochi li conoscevano, e i loro stessi movimenti erano resi difficili. Non si volevano grane.
La guerra, che già aveva martoriato l'Italia, continuava a dare morsi feroci. Che cosa si attendeva a dissociarsi dall'innaturale amplesso hitleriano? Ecco, incipientemente si attendeva che l'amplesso si facesse mortale, di lì a poco, al momento della proclamazione dell'armistizio, l'8 settembre, nulla facendo nemmeno per sbarrare i passi stradali e ferroviari del Brennero, consentendo l'affluire di altre forze naziste facendo l'Italia terra occupata e rendendo possibile la rapina di centinaia di migliaia di soldati e di inermi cittadini, avviati per quella via rimasta inspiegabilmente aperta, ai campi di concentramento, dove si sarebbero trovati in seicentomila, raccolti su tutti i campi di battaglia traditi almeno sotto il profilo della disinformazione, quando anche dagli ordini di resa.
Quei 600.000 accrescevano il numero dei reclusi nei campi di sterminio dove ebrei e politici esperimentavano drammaticamente la nuova sopraffina civiltà barbara del forno a gas.
Non era stato Hitler stesso a parlare di "spietatezza barbarica" compiacendosene? Conobbero quegli uomini la politica del bastone e della carota, questa ultima rappresentata dall'iniziativa, allettante, suggestiva dell'offerta possibilità di uscire dai campi, rivendendo, con la propria dignità, la libertà appena riconquistata, aderendo alla repubblichina sociale di Salo, (che li abbandonò poi alla loro sorte, che per 35.000 fu di morte, per tutti di patimenti inumani, i cui segni restano in ciascuno come indelebile ricordo), giurando a Hitler, arruolandosi.
Anch'essi scrissero con "l'imprigionato no dell'uomo libero" pagine sublimi ed a volta cruenti, come toccò all'amico Renato Sclarandi torinese.
A ragione essi, tornati, assunsero come programma di azione "non più reticolati nel mondo"! E tuttavia quanti ancora ve ne sono! A settembre 1943 si costituisce in uno slancio folgorante, spontaneo la Resistenza armata. La sua storia militare è ormai abbastanza nota: meno approfondita la disamina critica della sua storia politica ed è quello che invece ci si propone di fare in questo scorcio di tempo celebrativo del quale, a grandi linee, è stato dato annuncio nella seduta del Consiglio di questa mattina. Un'affermazione va però subito fatta: la Resistenza è stata opera di popolo. La spinta squisitamente popolare consentì l'accostamento di uomini appartenenti a diversi schieramenti ideologici. Nessuna rinuncia alla propria idea: ma la carica volitiva diretta al compimento dell'opera di riscatto con la cacciata dei tedeschi e l'isolamento dei fascisti, per conquistare definitivamente la liberta, fu d'ispirazione popolare. Tina Merlin, una donna bellunese, così si esprime: "Soprattutto perché vedevo gli operai, i contadini del mio paese, tutti gli operai del mio paese che facevano la Resistenza, e allora mi domandavo che se la facevano loro, era segno che la facevano per una cosa importante, facevano la guerra per una cosa importante, volontariamente; importante per dopo, perché dopo forse qualcosa sarebbe cambiato per loro, e quindi anche per me".
Se non fosse stato così, se i cittadini, i montanari, gli agricoltori non avessero partecipato, c'è da chiedersi qual sorte sarebbe toccata ai combattenti armati. Era la ribellione alla legge dell'arbitrio, del terrore: era l'accettazione di rischi mortali per la difesa del bene supremo della libertà che animava gli ostaggi, rendeva forti nella deportazione, nelle torture, nei massacri, nelle rappresaglie, nei bagni di sangue, nelle fucilazioni, nelle impiccagioni.
Le ultime lettere dei condannati a morte, "morti per dignità, non per odio", sottolinea Calamandrei, dovrebbero essere tra i libri di testo della scuola italiana.
Popolare l'ispirazione e generosa la partecipazione delle maestranze operaie, efficace in maniera determinante.
Alcuni scioperi nelle fabbriche torinesi, che si ricollegano a quelli ammonitori prefascisti, da quello del marzo 1943 a quelli del 1945 sono stati delle vere battaglie combattute, alle quali si deve annettere una rilevante importanza per la vittoria finale del 25 aprile 1945. E' stata una partecipazione volontaria e spontanea, attiva e cosciente, ed anche rischiosa. Era un alto anelito alla libertà che muoveva quegli operai che entravano da protagonisti, nella storia. Un popolo è la sua storia! Dalla Resistenza, si dice solitamente, ed è vero, scaturisce la Costituzione.
Si può giustamente affermare che la data di entrata in vigore della Costituzione, 1 gennaio 1918, chiude il ciclo politico dell'attività resistenziale, e apre la strada alla ricostruzione democratica, materiale politica, civile.
Chi ricorda la tensione del 2 giugno 1946 quando il popolo italiano partecipò al primo referendum, quello istituzionale, e designò i costituenti; chi rammenta le condizioni ancora gravi e pesanti della vita quotidiana che faticosamente riprendeva, riemergendo da rovine e distruzioni immani, da lacerazioni che s'erano formate nell'arroventata vicenda della guerra di liberazione che assunse anche aspetti di guerra civile; chi non ignora le difficili condizioni di paurosa insicurezza per la criminalità che stentava a ridimensionarsi; chi sappia che cosa significasse ancora in quegli anni 1946-1947 il procurarsi il pane e assicurarsi il companatico, si colloca nella dura realtà contingente in cui operarono i costituenti; e non può non restare, ammirato ed essere grato del loro lavoro.
Ma se non si-risale, andando ancora a monte, non si trova il metro giusto, per esprimere un giudizio e valutare gli sforzi di volontà che i costituenti hanno compiuto.
La risposta repubblicana del 2 giugno 1946 non era soltanto scelta, era giudizio; e giudizio di condanna che seguiva a quello pronunciato da un popolo che si era riscattato, nei confronti del fascismo, e che toccando la monarchia e rifiutandola suonava condanna essenzialmente perché essa aveva consentito e tollerato che poco a poco, giorno per giorno, il pur largito Statuto venisse manomesso e tradito.
In tal modo la Corona aveva avallato il regime, e non aveva potuto affrancarsi con il 25 luglio 1943 che l'aveva colta quasi di sorpresa estranea, succuba e non dominatrice degli eventi, rimanendo assente alle sorti della Patria, sino ad abbandonarne il suolo alla mercé degli occupanti, mentre la guerra rovinosa portava ovunque morte e distruzione lutto e sangue, lasciando che i resti dell'esercito risalissero la penisola con gli alleati, pur dignitosamente ma acefali, per riunirsi ai combattenti volontari, ai resistenti, ai partigiani. Era un altro anello che si aggiungeva alla catena degli errori, a cominciare da quello fatale dell'ottobre 1922.
E nacque la Costituzione. Nacque come patto costituzionale.
Nel crogiuolo dell'Assemblea Costituente fu possibile mettere molti dissensi e divergenti punti di vista, e quel fuoco purificò molte cose riscaldò molte idee, illuminò molti propositi.
Dettò norme di principio sacre e solenni.
Poi avvenne quel che avvenne. I compromessi raggiunti denunciarono presto la loro precarietà che, perché tale non fosse, occorreva una concorde volontà, soprattutto sul piano legislativo, assai presto venuta meno: com'è del resto nella logica umana, non sorretta da una ragione unitaria preminente.
Sicché mentre giustamente può ripetersi che dai freddi paragrafi di legge traspare tuttora la straordinaria umanità dei problemi sociali e politici affrontati e affermati con linee di indirizzo, normative e precettive, chiare, cammin facendo non si è sufficientemente rafforzato l'impegno personale e morale che i principi enunciati comportano, con gravi sacrifici e rinunzie, per una soddisfacente soluzione.
Onde, ancora una volta, è agli uomini più che alle idee che si deve far risalire la colpa di un'inazione che certamente non volevano le energie che hanno espressa la Carta Costituzionale, pur nel contrasto fecondo delle opinioni: alle quali, come principi categorici non si può e non si deve rinunziare, ma che possono, nel contingente, dare il passo ad altre.
Che ne resta dunque, potrebbe taluno chiedersi, in un momento di stanchezza, di delusione, di malumore, della Costituzione? Ebbene direi che resta tutta, anche se in parte disapplicata e inapplicata: resta nella lettera come nello spirito; resta quale espressione di volontà. Che è ciò che conta per correggere gli errori, per vincere l'inazione. Resta come impegno sacro e solenne. Resta come dovere resta come patto.
Se tutti gli Italiani provassero a rileggerla come la lessero allorch rimase per tutto un anno, il 1948, nell'aula consiliare di ciascun Comune della Repubblica "affinché - dice la disposizione - ogni cittadino possa prenderne cognizione"! Rileggere è un'operazione di solito faticosa, quando si crede di sapere e fa invece un gran bene.
Forse gioverebbe assai questo prenderne cognizione da parte di ogni cittadino, nel testo cristallino e semplice, meglio che nelle letture a volte più sapute che sapienti di commentatori, che si sono venute moltiplicando in volumi, in riviste, su giornali, sì da formare delle vere biblioteche.
Si può riproporre nella ricorrenza venticinquennale una nuova esposizione del testo in ogni aula consiliare, e, perché no, in ogni scuola, in ogni fabbrica, in ogni ospedale, in ogni caserma, in ogni aula ove si amministra la giustizia? Bere alla fonte è sempre dissetarsi prima che le impurità volutamente o no, inquinino le acque nel loro corso.
E' un modo per essere fedeli alla realtà della Costituzione, per non farla diventare un luogo comune di formale riferimento, con il rischio di logorarne l'essenza, che non sta tanto negli articoli - taluni anzi modificabili - quanto nel pensiero ispiratore, che resta valido.
E' un modo per determinarci tutti, ad ogni livello, a lavorare costantemente perché le istituzioni si rafforzino, compiendo ciascuno il proprio dovere per aver titolo pieno ed insopprimibile a rivendicare il riconoscimento del proprio diritto.
Non dimentichiamo in questa sede, che dalla Costituzione trassero origine le Regioni, che avrebbero dovuto nascere entro un anno, rimaste invece in incubatorio per oltre vent'anni, sicché la tardiva realizzazione manifestò subito non poche difficoltà per quella che veniva posta al centro del nuovo assetto statuale, innovazione fondamentale, pacificamente rivoluzionaria.
E, a proposito di Regioni, è doveroso ricordare come nel periodo della lotta di Liberazione si ebbero, nel nostro Piemonte, chiare e coraggiose espressioni di concrete volontà autonomistiche, la cui vita, anche se breve, merita attenzione e approfondimento. Sono "gli incunaboli" che han nome Ossola, Val Maira, Langhe, Nizza Monferrato, che si dettero ordinamento di autonomia, assumendo responsabilità attuali e in prospettiva, che meritano considerazione, come rilevanti atti politici realizzati in concomitanza con la lotta combattuta.
E, sempre a proposito di Regioni, non può esser dimenticato l'incontro clandestino di Chivasso già nel dicembre 1943, conclusosi con la dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine, contenente principi e linee indicative di azione tuttora valide, e di cui fu grande parte Emil Chanoux, il martire valdostano.
Signor Presidente, signori Consiglieri, nonostante il molto che venne pur fatto in questi anni, e nessuno lo può contestare, è innegabile l'esistenza di uno stato di insoddisfazione. Io penso che in gran parte ci derivi dall'ansia che vi è in tutti e in ciascuno degl'Italiani, di chi soprattutto è investito di responsabilità politiche, di fare di più, di fare meglio, di fare più in fretta: ma è certo che talune cose, taluni adempimenti non hanno trovato soddisfacimento.
Allontaniamoci dall'ipocrisia delle parole, dalla retorica delle frasi fatte, non facciamo diventare un luogo comune il ripetere termini resistenziali.
Il fascismo - "non riguarda la tessera, rilevava De Gasperi, ma l'animus, i metodi della vita politica" - credette di coprire con molta retorica il vuoto tremendo della sua affermazione "qui non si fa politica" sostituendola con le grandi scritte murali, molte delle quali, non cedendo all'usura del tempo, restano ironicamente ad ammonire ed evidenziano all'esterno la realtà di una trama interiore che tende a riaffiorare.
Io qui affermo che se una colpa vi é, oggi, è quella di non fare abbastanza politica: non nell'accezione deteriore del termine, ma in quella politica di prender parte attivamente, tutti, alla vita della "polis" .Non si delega con il voto elettorale anche la personale responsabilità della partecipazione, che ogni cittadino deve coscienziosamente attuare, nella pienezza dell'esercizio dei suoi diritti e nell'adempimento generoso dei suoi doveri, perché ai problemi non si diano soluzioni autoritarie ma democratiche.
La democrazia è scomoda, certamente, ma essa conserva il grande bene della liberta, per tutti, anche per i non democratici.
Ma perché vi sia davvero la libertà, bisogna che le si accompagni la giustizia, altrimenti si riduce a parvenza la libertà: quella, a volte pur rischiosa, di portare fiori ai tumuli dei caduti.
Abbiamo visto come sia facile e in certo senso anche comodo porsi sul piano inclinato della rinunzia, come si finisca con il consentire e cedere alla suggestione, e come il tollerare significhi in buona sostanza concorrere nelle responsabilità. Stiamo attenti a non tagliare un'altra volta, con le nostre mani, il ramo su cui siamo seduti.
Si credette allora che non contrastare il passo al fascismo non fosse poi gran male; e si giunse là dove oggi nessuno vuole ritornare, costi quel che costi. Ma bisogna allora, innanzitutto, isolare il fascismo risorgente.
Non è una proposizione velleitaria, è un preciso adempimento costituzionale, al quale non ci si può sottrarre, se non si è disponibili all'eversione.
E che il fascismo, con il carico della sua violenza, riemerga anche da noi, non è fisima di visionari, se ancora di questi giorni il Capo dello Stato, sia pure con espressione finale di fiducia condivisa, ha detto: "sebbene una certa rinascita del fascismo ci sia, il fascismo non potrà più prevalere in Italia, perché vi si opporrebbero tutte le forze dello Stato".
Tra le quali vi è la Magistratura, pur essa con le sue crisi interne ed esterne, alla quale manifestiamo i sensi della nostra convinta fiducia giacché noi crediamo nell'ordine della legge, non in quello sopraffattore.
Servi legum sumus, ut liberi esse possimus.
La ferma ed aperta presa di posizione - dei Magistrati - i quali pronunziano le loro sentenze "in nome del popolo italiano" - in questi ultimi giorni è degna di grande rilievo. Una acuta e penetrante indagine porterà certo a scoprire il bacino e ad applicare la legge, e, ripeto, la Costituzione innanzi tutto, che nella dodicesima delle norme finali vieta la riorganizzazione, sotto, qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.
Si sono avute in questi giorni, ancora ieri a Milano, questa notte a Torino, contro sedi socialiste e comuniste, rinnovate manifestazioni che riconducono le azioni in modo certo alle origini del fascismo.
Si è levata in un congresso la voce di un parlamentare che farisaicamente affermo: "sono contrario alla violenza, ma la storia è un atto di volontà e quindi di violenza! " Nessuno si lacererà le vesti: ma tutti dovremo prender atto che si vuole scrivere con la violenza un'altra pagina di storia: cosa che non deve avvenire. Siamo per gli scontri delle idee, non per quelli frontali degli uomini.
Nessuno vuole certo ritrovarsi per ignavia, per tolleranza, per miopia storica e politica a un nuovo 28 ottobre.
E pienamente condividibile il giudizio severo di Leo Valiani (uno dei protagonisti della lotta partigiana) quando afferma: "uno Stato che vieta per legge la ricostituzione del fascismo ma poi ne tollera le manifestazioni pubbliche, anche violente, abdica alla propria autorità, e non può essere uno Stato forte, neppure se è in condizione di mobilitare imponenti forze d'ordine pubblico, per evitare o far cessare disordini". De Gasperi aveva ammonito: "l'antifascismo è una pregiudiziale ricostruttiva".
I cittadini come tali, i partiti - espressione pluralistica, anche se troppo frantumata, della società - nella loro altissima responsabilità che l'art. 49 della Costituzione riconosce finalizzandoli a "concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale", i sindacati, che manovrano potentissime leve di guida, le organizzazioni del mondo del lavoro, gli operatori economici, debbono fare la loro parte; e il Governo nell'attuazione dei suoi molteplici gravi compiti deve avere alta la mira del bene comune.
Ascolti la voce popolare e agisca.
Agisca con fermezza e decisione: troverà il consenso per affrontare le difficoltà e risolvere i problemi politici, sociali, economici, che urgono e premono nel crescere rapido, tumultuoso, per ciò solo disordinato, di questa civiltà dei consumi, che ha pure punte di diamante per il progresso culturale, civile, morale, sì da giungere attraverso ad una programmata ripresa economica ad una situazione di reale benessere per tutti; inseriti nella realtà della Comunità Economica Europea nonostante le non poche difficoltà che si frappongono all'integrazione politica, non oltre differibile, dell'Europa, traguardo irrinunciabile.
Un sincero, sereno, responsabile esame di coscienza da parte di tutti e di ciascuno - con il proposito di riformare innanzitutto se stessi, - più e certo meglio del palleggio delle responsabilità, per controllare ciò che è stato fatto, come è stato fatto, e quanto non è invece stato fatto, e perché, che porti alla comune volontà ed al fermo intento di realizzare insieme la Costituzione, è necessario e doveroso.
Si èe in tempo, solo che lo si voglia, a rimediare in tal modo a errori, a deficienze che la gracile ed inesperta democrazia italiana insidiata da varie parti, non seppe o non poté evitare. Non siamo di fronte ad un crollo di valori, pur se una sorta di "coesistenza dei tempi" pu indurre anche ora taluni ad invocare l'uomo forte e la mano dura. Forti e duri dobbiamo essere ciascuno di noi; la società è fatta da ciascuno di noi, e da tutti noi: forti nelle opere, duri nel resistere.
Non dimentichiamolo: ogni rinunzia singola, ogni defezione funzionale incrina la consistenza della società.
La quale, e val dunque la pena di ripeterlo, non è ancora esattamente e compiutamente quella prefigurata e voluta dai Resistenti.
Uno di essi, un operaio, comunista, Eusebio Giambone, torinese - la figlia lo definisce "un uomo che amava gli altri uomini" - al momento del commiato estremo dai suoi, scrisse: "sono certo che vedrete il mondo migliore per il quale ho dato tutta la mia modesta vita e sono contento di averla data". In una cella accanto, nelle stesse circostanze un professore universitario, Paolo Braccini, scriveva: "il mondo migliorerà, siatene certe: e se per questo è stata necessaria la mia vita sarete benedette".
Il mondo migliore. Non una visione ristretta quindi, particolare, della piccola e grande Patria italiana.
Il mondo! Ed è in questa presa di coscienza che meglio celebreremo le ricorrenze, traendo da esse ammaestramento.
Nulla di quanto nel mondo, in ogni parte del mondo, accade può essere estraneo a noi. Le guerre, le violenze, i campi di concentramento, i ghetti, le libertà conculcate, i processi politici, le occupazioni armate le dittature, ovunque e comunque siano, sono mali di tutti, non soltanto di coloro che ne sono vittime dirette; e come tali vanno inesorabilmente e senza riserva, condannati.
Sono malanni carichi di germi capaci di contaminazione, derivanti tutti, sempre, dalla violenza: di quella violenza per la quale, da qualunque parte venga, il nostro Consiglio ha espresso ferma e totale condanna, con il proposito di eliminarne le cause.
Guardando in casa nostra oggi non si può, non avere dinnanzi agli occhi la realtà italiana dell'aprile 1945.
I giovani che non ne ebbero diretta contezza debbono essere informati.
Non si può giudicare senza conoscere.
Era la distruzione e la rovina delle case, era la mancanza del pane era l'odio tra i fratelli. Erano giorni d'ira e di vendetta, contro la cui realtà cozzavano i propositi di rinascita.
Erano i giorni dell'umiliazione anche da parte di chi aveva accolto tra le sue file i soldati italiani che combattendo risalivano la penisola. Era difficile comprendersi. L'umiliazione inflittagli e la dignità dimostrata da De Gasperi al momento del trattato per la pace restano scritte nella storia d'Italia e della Resistenza.
Poi si affrontarono problemi immensi: la ricostruzione di case, di strade, di ponti, di scuole, di ospedali, di opifici, di chiese.
Poi s'innestarono i problemi sociali, i contrasti, le lotte, i conflitti.
Problemi insoluti, tali lasciati dai governi liberali e da quello fascista, si affacciarono prepotenti alla ribalta: uno fra tutti gigantesco, ancora irrisolto, nonostante il molto che è pur stato fatto quello del Sud. Il mondo del lavoro che aveva molto dato, generosamente avanzava le sue giuste rivendicazioni: il mondo della scuola si agitava per riforme che non sono ancora approdate ad un porto sicuro; i problemi della sanità di un popolo in crescita continua reclamavano soluzioni, che ancora non sono state raggiunte; gli aspetti economici, in una politica europea incerta, si presentavano difficili. Gli stessi rapporti tra i partiti ovviamente e logicamente su posizioni antagonistiche, si sono venuti volta a volta deteriorando, rendendo difficile quella "concordia discorde" che facilita molte soluzioni concrete.
Responsabilità assunte, responsabilità addebitate. Agitazioni protesta, contestazione. Riforme invocate e non attuate. Interrogativi inquietanti, conflitti e controversie di lavoro logoranti.
Ma il fatto solo di avere coscienza di una realtà che sotto molti profili non soddisfa, è positivo. Esprimere la volontà di non cedere al lassismo e men che meno alla violenza, strade entrambe sbagliate, e già collocarsi sulla buona via.
Ma poi bisogna percorrerla. E percorrerla insieme,unendo tutte le forze, compiendo tutti gli sforzi. Restando uniti. Confortati dalla certezza che faremo anche noi Consiglieri regionali del Piemonte, per quanto ci compete, il nostro dovere.
La nostra, a ben guardare, èe essenzialmente una crisi di crescita. Di crescita sociale, di crescita civile, di crescita democratica, e, in definitiva di crescita morale.
Se consideriamo questi 28 anni che ci separano dalla radiosa giornata del 25 aprile 1945 con occhio sereno, al di là ed al di sopra delle polemiche, troviamo pure delle grosse cose compiute.
Tra queste, due essenziali.
E' il periodo più lungo dall'Unità di Italia, raggiunta con Roma capitale, trascorso senza guerre. E' un fatto certamente positivo quello di conservare la pace. E con la pace conservare la libertà. Sono le condizioni essenziali perché una democrazia possa prosperare "Non ci può essere giustizia sociale se non c'e libertà" ammonisce ancora Sandro Pertini proprio in questi giorni.
Quei morti che ci chiedono conto di che cosa si sia realizzato certamente si allietano per il fatto che si sia saputo conservare due dei beni che furono in cima ai loro ideali: la pace appunto, e la libertà.
Se, come taluno afferma, e non senza ragione, l'opera della liberazione è "incompiuta" nessuno negherà che con la pace e la libertà tutto pu essere ancora compiuto.- Occorre un solidale sforzo, al quale il Piemonte nel nome dei morti e dei vivi, non si sottrae.
Ne è testimonianza anche questa seduta straordinaria del Consiglio che prefigura un ciclo rievocativo di celebrazioni, non sterili, non vaniloquenti, non retoriche, che si sta elaborando con le Associazioni resistenziali.
Signor Presidente, signori Consiglieri, il mio, di trent'anni dopo, è stato un discorso amaro, o perlomeno con venature di amarezza.
Se non fosse stato così non sarebbe vero, non sarebbe sincero. Non rispecchierebbe realtà e stati d'animo.
Ma non è discorso di rassegnazione, peggio di rinunzia, o senza speranza. E' il discorso di uno che crede negli uomini, e crede in Dio, e che sa che l'ora più buia è quella più vicina alle luci dell'alba.
Del resto per il popolo italiano è stato sempre così: di essere più grande e unito e forte nei momenti difficili.
Sara così anche ora. Ma ad una condizione: che il ponte che unisce le due rive sia sorretto dai pilastri della libertà nella giustizia, e della democrazia, e che nessuno li scalfisca alla base o li insidi.
La Repubblica italiana, fondata sul lavoro, non scordiamolo mai, ha in questo la sua forza. Sia motivo per tutti di attenta e costante meditazione; per tutti, lavoratori e imprenditori.
Lavoro sicuro, lavoro generoso: lavoro degno di uomini che in esso tutti si ritrovino, con pari dignità.
Su quella forza si costruisce la grandezza della Patria.
Di fronte ai mali che minacciano questa ancor giovane nostra democrazia non è sufficiente gridare: basta! Bisogna operare. Bisogna recidere le radici del malessere, che minacciano quanto faticosamente si è pur costruito e ricostruito, in questi trent'anni.
I morti della Resistenza non si limitarono a dire: basta! Lavorarono, combatterono, alacremente, con fiducia, uniti.
Soltanto così le insidie che turbano oggi il Paese possono essere rimosse.
Non bastano carabinieri e polizia, non bastano nemmeno i loro morti figli del popolo, generosamente caduti nell'assolvimento del dovere, che ricordiamo e onoriamo e piangiamo.
Occorre tutta un'opera politica, attiva, intensa, convinta, di rinnovamento, di elevazione. Solo rimovendo aspetti sociali deteriori, si eliminerà il terreno ideale per lo sviluppo dei disordini. E' la vita politica, insomma, èe il costume politico che devono essere migliorati. E' una convivenza più civile e sicura che deve instaurarsi. E' il pieno rispetto della persona umana che deve realizzarsi, eliminando ogni forma di oppressione.
Solo così si reciderà la radice dell'odio che fatalmente genera violenza, e si sbarrerà la strada a chiunque se ne faccia strumento. I partiti sono responsabili della sopravvivenza della democrazia, sono la ragione della libertà; il loro ruolo è determinante; la gente, la gente semplice, quella che non s'intende di alchimie, vuole da loro un discorso chiaro, onesto, pulito. E azione consequenziale, coerente. Dal Governo questa gente semplice che ancora crede nei valori della Resistenza, li ricorda, li onora, li realizza, non vuole soltanto parole pur nobili di sdegno e di condanna; vuole delle risposte politiche e delle prese di posizione coerenti e coraggiose.
Dal Parlamento aspetta leggi, poche, meditate, che non passino attraverso a paralizzanti attese che la svuotano; vuole che si abroghino o si modifichino le leggi anacronistiche, sicché non sia ridicola l'espressione della certezza del diritto.
Il popolo italiano, erede della Resistenza, i giovani soprattutto passati attraverso a momenti d'incertezza e d'inquietudine sino al limite del sovvertimento, credono ancora nelle strutture sociali e politiche, ma esigono ch'esse siano capaci è vogliano affrontare i problemi che attendono soluzione. Le forze popolari sono disponibili, collaborano e collaboreranno; ma vogliono avere prove concrete non soltanto di dichiarata buona volontà, sterile per se stessa, ma di azione reale.
E da noi, dalle Regioni, sin da ora, in attesa che sia realtà l'Europa delle regioni, il popolo si attende il modo nuovo di far politica, se deludessimo anche noi, se non ci accreditassimo dinnanzi a coloro che siedono nella Regione, espressione di capacità legislativa ed amministrativa, sarebbe il fallimento.
La nostra responsabilità è grande: abbiamolo ben presente.
Signor Presidente, Signori Consiglieri.
L'appuntamento è al 25 aprile 1975: saremo allora al termine della nostra legislatura.
Ognuno dando in questo arco di tempo la prova della propria credibilità democratica vi giungerà con la coscienza di aver ascoltato il monito e la voce dei Resistenti, e di aver operato perché si compia il loro alto insegnamento.
Che è tutto quanto essi si attendono, da noi e per noi, perché la Patria, resa libera da loro, prosperi in un mondo migliore.
Sono rammaricato di non avere il campanello, altrimenti avrei dovuto pregarli di non accompagnare con il loro applauso il consenso a quanto è stato detto.
Il Consiglio è riconvocato presso il Palazzo delle Segreterie in Piazza Castello, 205, per il giorno 3 maggio 1913 alle ore 10 e alle ore 16.
Per intanto sono iscritti all'ordine del giorno i seguenti argomenti.
1) Approvazione verbali precedenti sedute 2) interrogazioni e interpellanze 3) comunicazioni del Presidente 4) nomina di tre rappresentanti della Regione nel Consiglio d'Amministrazione dell'IACP di Torino 5) esame della proposta di legge n. 36 relativa a "Proposta di legge al Parlamento del Consiglio Regionale del Piemonte per l'elezione unilaterale a suffragio universale diretto dei delegati italiani al Parlamento europeo.
Relatore Viglione".
Eventuali altri argomenti verranno comunicati telegraficamente.
La seduta è tolta.



(La seduta ha termine alle ore 19,15)



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