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Dettaglio seduta n.12 del 05/11/70 - Legislatura n. I - Sedute dal 6 giugno 1970 al 15 giugno 1975

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Argomento:


PRESIDENZA DEL PRESIDENTE VITTORELLI


Argomento:

Approvazione verbale precedente seduta


PRESIDENTE

La seduta e aperta. Prego un Segretario Consigliere di dare lettura del verbale della seduta precedente.



MENOZZI Stanislao, Segretario

Dà lettura del verbale della seduta del 30 ottobre 1970.



PRESIDENTE

Poiché non vi sono osservazioni, il verbale si intende approvato.
I Consiglieri Besate, Sanlorenzo e Oberto chiedono congedo.


Argomento: Statuto - Regolamento

Esame del progetto di Statuto della Regione (seguito della discussione)


PRESIDENTE

Il Consigliere Oberto mi ha inviato una lettera nella quale fa alcune osservazioni su diversi articoli dello Statuto, che terrò presenti nel corso della discussione degli articoli Anzi, inviterei il suo gruppo, al quale trasmetterò la lettera, di formularli eventualmente in emendamenti sui moduli che sono appositamente preparati.
Comunico inoltre una lettera del sen. Forma il quale si scusa per non aver potuto assistere alla seduta del 30 ottobre.
Prima di riprendere la discussione sullo Statuto, vorrei fare alcune comunicazioni sul l'ordine dei nostri lavori. Come sapete, il termine di scadenza che ci eravamo proposti di rispettare per l'approvazione dello Statuto, è il 10 novembre p.v., cioè martedì prossimo. Disponiamo quindi della giornata odierna, di domani, dopodomani, eventualmente lunedì e martedì. Penserei di indire due sedute al giorno. Spero che non sia necessario di riunirci anche domenica, ma se l'esame degli articoli ci costringesse a ritardare l'approvazione dello Statuto saremmo costretti a tenere seduta anche domenica ed eventualmente la settimana prossima anche in sedute notturne perché dovremo fermare l'orologio martedì a mezzanotte fino a quando lo Statuto non sia approvato. Altre Regioni hanno tenuto conto dei termini che erano prescritti dalla legge. Ci eravamo noi stessi proposti di tener conto di questi termini. Siccome siamo vicini al traguardo, non c'è nessuna ragione di non raggiungerlo tempestivamente. Non ritengo, del resto, che saremo costretti a tali eccessi, perché penso che nella giornata di oggi, si possa probabilmente concludere la discussione generale sullo Statuto e che, appena conclusa, si possa procedere all'esame degli articoli. A questo esame si procederà nei modi che sono previsti dal Regolamento, ossia si prenderanno in esame gli articoli ad uno ad uno e, se occorre, quando vi siano emendamenti, si prenderanno in esame i singoli comma di ogni articolo.
Per quel che riguarda gli emendamenti ricordo ad alcuni presentatori, e soprattutto ai presentatori del maggior gruppo di emendamenti, i Consiglieri del M.S.I., di adeguare i loro emendamenti alla numerazione del progetto di Statuto ed eventualmente di far cadere quelli che non trovino più riscontro nel testo definitivo che è stato sottoposto all'esame del Consiglio.
Gli emendamenti già presentati verranno ordinati articolo per articolo e comma per comma. Altri eventuali emendamenti che potessero essere presentati nel corso di queste sedute, potranno essere formulati in appositi moduli che sono stati preparati dalla Segreteria Generale e che servono a presentare emendamenti su articoli interi o comma di articoli, o emendamenti ad emendamenti. Vi sono due moduli distinti: uno che riguarda gli emendamenti agli articoli o ai comma, l'altro che riguarda gli emendamenti a quelli già presentati.
Ricordo pure che gli emendamenti verranno esaminati, secondo quanto prescrive il Regolamento, in questo ordine: soppressivi, modificativi e aggiuntivi. Quando, perciò, ad un comma vengano proposti emendamenti di vario tipo, verranno presi in esame, quale che sia l'ordine di presentazione, prima gli emendamenti soppressivi dell'intero comma o dell'intero articolo, poi quelli modificativi e infine quelli aggiuntivi.
Al termine dell'esame di questi emendamenti e delle votazioni ad essi relative, il Consiglio procederà alla votazione sul complesso dell'articolo. Quando avremo concluso l'esame di tutti gli articoli procederemo ad una votazione finale sul complesso dello Statuto, che deve avvenire con la maggioranza qualificata della metà più uno dei componenti il Consiglio Regionale.
Al termine di questo esame, i gruppi potranno, se lo desidereranno procedere ad una dichiarazione di voto sul complesso dello Statuto, in cui facendo partecipare a questa parte dei nostri lavori un Consigliere per ciascun gruppo, ciascun gruppo potrà esprimere il suo giudizio finale sul complesso dello Statuto, ed indicare le ragioni per le quali esprimerà il proprio voto. Eventuali Consiglieri dissenzienti dal proprio gruppo potranno, se ritengono di esprimere un voto diverso da quello del proprio gruppo, darne conto al Consiglio mediante apposita dichiarazione di voto.
Ricapitolando, perciò, procederemo nella discussione generale nelle sedute di questa mattina e di questo pomeriggio; spero che, entro stasera potremo aver concluso la discussione generale, che, però, se non si concludesse oggi, potrebbe anche concludersi nella mattinata di domani.
Tenendo conto dei tempi di parola, che non farò rispettare rigorosamente perché ritengo che questa sia materia nella quale ciascun gruppo e ciascun Consigliere debbano avere la possibilità di esprimersi con tutta l'ampiezza che ritengano necessaria, penso tuttavia che, entro stasera o domani mattina al massimo, avremo potuto completare la discussione generale, per passare immediatamente, quando questa sia conclusa, alla discussione degli articoli.
Siccome quest'ultima discussione comporta anche l'inizio delle votazioni, farei cominciare la discussione degli articoli all'inizio di una seduta. Se, perciò, noi ci trovassimo, supponiamo, questa sera verso le 18 ad aver concluso la discussione generale, rinvierei la seduta al giorno dopo in maniera che tutti i Consiglieri possano essere avvertiti che da quel momento debbono essere presenti tutti quanti in aula per procedere alle votazioni.
Non inizierò, quindi, le votazioni di sorpresa, le inizierò al principio di una seduta, comunicandolo al termine della seduta precedente.
Anche perché le votazioni alle quali dovremo procedere sono così numerose che credo sia bene che tutti i Consiglieri siano avvertiti. Coloro che sono ora assenti dovrebbero essere avvertiti dai rispettivi capi gruppo che l'inizio delle votazioni è imminente, perché se concludiamo la discussione generale questa sera è evidente che domani mattina alle 10 inizierà la discussione degli articoli con le relative votazioni. Quindi da domattina è assai probabile che il Consiglio sia chiamato a votare i numerosissimi emendamenti che sono stati presentati ed è perciò opportuno che esso sia quanto più al completo possibile.
Ho avuto una serie di domande di parola dai vari gruppi e, secondo quanto consente il Regolamento, alternerò oratori di gruppi che possono avere posizioni diverse, in maniera da far procedere la discussione senza mettere insieme, uno dopo l'altro, gli oratori dello stesso gruppo.
Alternerò quindi gli oratori dei vari gruppi, secondo l'ordine delle domande che mi sono pervenute.
Per primo ha chiesto di parlare il Consigliere Petrini. Ne ha facoltà.



PETRINI Luigi

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, è stato detto che la necessità di nuove idee politiche e sociali è dovuta all'incremento della nostra efficienza, sia dal lato buono che da quello cattivo. Ed è vero. Al di là di ogni polemica o spirito di parte, la Regione è nata sotto la spinta degli anni 60, quando cioè il crescere e l'affermarsi di tutti i fattori dello sviluppo indussero a togliere dall'ibernazione storico-teorica l'idea regionale, per rilanciarla in senso pratico, oltre le fasi preliminari avutesi con la Costituente prima e con la legge Scelba poi.
La "costruzione" dello Statuto regionale rappresenta quindi, nel dibattito di questi giorni, un aperto confronto delle nuove idee politiche e sociali prodotte dalla complessa e movimentata realtà piemontese dell'ultimo decennio. Un confronto che risente di matrici politiche diverse e non sempre omogenee, ma che non per questo è impossibile di sintesi.
D'altronde la relazione della Commissione per lo Statuto, nella parte finale così chiara intorno alla meccanica ed al sistema seguiti nella stesura del testo, già ci avverte della possibilità di condurre un dibattito costruttivo che porti dalla bozza al testo definitivo con altrettanta forza di sintesi.
Detto questo, occorre aggiungere che lo Statuto di cui ci stiamo occupando, proprio perché rappresenta la "charta magna" della Regione Piemonte, è nel medesimo tempo un punto di arrivo e uno di partenza. Punto di arrivo nel senso che nella redazione del testo termina un confronto tra le forze politiche che oggi debbono sapere interpretare il Piemonte reale per codificarne i lineamenti di base; punto di partenza nel senso che la Regione Piemonte comincia proprio dallo Statuto, da esso infatti trarrà vita, agirà e costruirà.
Si tratta quindi di un lavoro complesso, che non è solo di tecnica giuridica, ma è "anche di tecnica giuridica". Sarebbe, infatti, sterile cosa mettere in sesto uno Statuto regionale, perla e modello di tutti gli Statuti regionali, espressione di grande perizia nella compilazione e di eccellente senso del diritto nel commento e nell'approvazione se esso fosse distante dalla realtà del Piemonte. Meglio, a mio avviso, un sano empirismo; che lasci aperte possibilità di movimento entro cui appunto la democrazia trova spazio ed estensione, che una precettistica fonte di molti conflitti. Conflitti, si badi, non tanto politici quanto, in ultima analisi, formali e di attribuzioni.
Se è vero, come è vero, che le Regioni debbono rappresentare una occasione di rinnovamento e di progresso nelle strutture dello Stato secondo l'ideologia pluralistica della Costituzione repubblicana e secondo un sano e corretto principio di autonomia e di poteri locali, allora dobbiamo pur convenire che lo Statuto non può prescindere da due obiettive condizioni:, l'humus storico, economico, culturale, politico della Regione Piemonte nella sua individualità ed originalità; il momento contingente nel quale esso nasce; intendendosi per "contingente" l'attualità del quadro socio-economico della Regione tra gli anni 60 e gli anni 70, coi relativi problemi da risolvere sul piano dello sviluppo e del suo raccordo con i territori e le regioni finitimi.
E consentitemi ancora di fare qualche notazione introduttiva sull'insieme della discussione e dei problemi dello Statuto regionale ricordando che tutti noi, colleghi Consiglieri, abbiamo cercato di illustrare all'opinione pubblica in questi ultimi mesi, i nostri punti di vista sulla Regione e sul Piemonte. Dicemmo che la Regione avrebbe dovuto riorganizzare e ristrutturare lo Stato a livello di democrazia di base e di poteri locali, non solo secondo una dinamica di pura e semplice razionalizzazione del sistema, ma in funzione del suo rinnovamento; dicemmo che attraverso l'istituto regionale doveva passare la strada della programmazione economica; dicemmo pure che la Regione non doveva rappresentare né un elemento improduttivo né un trasferimento di meccanismi accentratori da Roma a Torino, né una sovrapposizione impropria di poteri locali ad altri poteri. Ebbene, se nelle dichiarazioni di massima possiamo trovare un accordo, sta alla nostra capacità di realizzazione politica tradurre questo accordo nella formulazione dello Statuto.
No, quindi, alla ricerca di un perfezionismo astratto e formale asettico al punto da non poter essere respinto poiché possiede i pregi del "modello"; sì, invece, ad una formulazione non rigida che lasci spazio all'inventiva politica della realizzazione anziché creare delle bardatura tanto pesanti da impedire le realizzazioni stesse.
Vi sono aspetti di fondamentale istituzionalizzazione, come quello appunto della costruzione giuridica della Regione Piemonte nelle sue strutture di base, ma vi sono aspetti di funzionamento e di intervento specie in campo programmatorio economico e di organizzazione dei poteri tra e con gli Enti locali minori che possono e debbono - a mio sommesso parere evitare rigide e definitive istituzionalizzazioni per non preordinare sviluppi a momenti e a tendenze di democrazia diretta e partecipata, molto controversi e certo mutevoli a scadenze medie e anche brevi.
D'altronde, nel redarre la bozza dello Statuto la Commissione sembra aver seguito, implicitamente, questa metodica. Essa ha inteso superare i limiti della legge 10 febbraio 1953, n. 62, partendo dal presupposto che deve essere riconosciuta la potestà di auto-organizzazione propria della Regione in sede di Statuto, essendo chiaro l'intendimento dei costituenti di consentire alle singole Regioni gli opportuni adattamenti della struttura interna e di non voler affatto che venisse proposto un qualsiasi Statuto tipo, al di là di un comun denominatore estraibile dallo stesso dettato costituzionale.
Ciò premesso, e sulla scorta delle osservazioni finora condotte, mi sembra di rilevare anche nella conduzione del lavoro della Commissione un indirizzo più pragmatistico che formalistico, indirizzo trasferibile nel libero confronto di quest'aula perché lo Statuto, in ultima analisi, pur essendo espressione - come ho già richiamato - dell'identità del Piemonte come Regione, non ne imbalsami con formalismi inutili e non richiesti la vita, le strutture, la libertà, ma riservi anche spazio all'evolversi ed al mutare delle situazioni contingenti.
Ora, uno sguardo ai titoli nei quali si struttura lo Statuto, ci consentirà di entrare nel vivo dei problemi. Problemi indicati anche da una vasta consultazione di Enti locali, in un atto altamente significativo, che la Commissione ha inteso compiere per dimostrare l'autenticità democratica della Regione Piemonte e delle sue nuove rappresentanze politiche, del quale, ovviamente, deve saper tenerne conto. Un'osservazione, di fondo potrebbe essere fatta sui principi ispiratori (all'art. 4) in modo da non far cadere l'intero articolo nella incostituzionalità per incompetenza.
Sarebbe infatti sufficiente inserire, ad esempio, l'inciso al quarto capoverso: "La Regione in concorso con lo Stato e gli Enti locali opera nell'ambito delle proprie competenze", lasciando il rimanente nel testo predisposto dalla Commissione per non correre questo grave rischio nel momento dell'esame della relativa legge di approvazione.
Mi sembra poi che gli articoli 4 e 5, così come sono formulati potrebbero recepire anche altre indicazioni di fondo del Piemonte reale; la montagna, prima fra tutte. Qualcuno mi potrebbe obiettare che la realtà della montagna piemontese è largamente adombrata nella politica di sviluppo economico e delle attività agricole cui negli articoli in parola si fa menzione specifica. A mio giudizio, proprio perché ai territori montani appartiene circa il 50 per cento dei comuni del Piemonte e perché la montagna piemontese è problema ecologico complesso, con svariate articolazioni, se ne dovrebbe fare precisa indicazione.
Il problema della montagna piemontese ha specifica rilevanza nell'ambito della politica del territorio, di duplice diramazione: una economica, l'altra geomorfologica.
Senza addentrarmi in ulteriori particolari ed analisi, ritengo quindi che l'indicazione della montagna valga una specificazione, almeno quanto ad esempio - quelle fatte in riferimento ad altri settori: associazionismo, attività commerciali , turismo, tempo libero, sport e così via.
Altro aspetto non chiaro, per esempio, è la formulazione dell'art. 6 sulla tutela delle minoranze, che mi pare non conforme ai principi della Costituzione. Ma è indubbiamente vero che minoranze etniche esistono in Piemonte e che meglio si possono individuare in quelle comunità con storia costumi, tradizioni, parlate naturali diversi da quelli generalizzati nella Regione, anche se con essa collegati e in essa bene inseriti. Si tratta allora, se si desidera - come noi desideriamo - un impegno del Piemonte a tutelare, a valorizzare, a favorire tutto ciò che alla sua realtà appartiene, di affermare all'art. 6 che la Regione tutela le tradizioni comunitarie piemontesi e ne salvaguarda il patrimonio culturale e linguistico, senza così scendere in altre distinzioni per patrocinare gli innegabili interessi evidenziati e per evitare di essere tacciati di poca chiarezza o, peggio, di incostituzionalità.
Sul problema di una moderna strutturazione degli organi della Regione dell'elezione del Presidente e della Giunta e del loro funzionamento, penso dobbiamo premettere una dichiarazione di volontà politica concepita in questi termini: dobbiamo evitare di ripetere il tradizionale sistema italiano che, a livello di Enti locali come di potere centrale, non sempre ha dato buoni risultati. Ciò vuol dire che occorre evitare che le Regioni siano in permanente crisi di poteri e di governo. Occorre rompere lo schema polemico secondo il quale la forza di controllo e di dialogo dell'opposizione è direttamente proporzionata alla debolezza dell'esecutivo. Nessuna componente di un disegno democratico può ricavare utilità da una instabilità istituzionalizzata del quadro di governo, perch tale instabilità indebolisce la dialettica, impedisce il confronto sopprime il vero controllo, riduce tutto alla ricerca di accomodamenti, di intese sottobanco, di clientelismi reciproci, che certo nulla hanno a che vedere con le novità democratiche che noi intendiamo perseguire con la Regione.
La proposta di un esecutivo al di sopra di ogni stormir di fronda è da noi sostenuta con la forza di queste convinzioni, prima ancora che con l'abilità di argomentazioni di varia natura. Appare, quindi, evidente la necessità di adeguare il processo di formazione dell'esecutivo regionale alla natura politica ed all'autonomia dei nuovi enti. Da qui anche la conseguente pubblicità dei procedimenti ispirati ai principi di responsabilità democratica, già affermati ed applicati in campo nazionale secondo la prescrizione dell'art. 94 della Carta costituzionale. Infatti storicamente e costituzionalmente, il nostro nuovo ordinamento regionale ristruttura, anzi, direi riconverte la costruzione e le logiche dello Stato accentratore. Da qui la necessità di adottare procedure diverse, da qui la volontà politica realmente autentica di fare, anche con le strutture regionali di governo, della democrazia di tipo nuovo senza recepire reminiscenze parlamentaristiche che, pure a quel livello, si dimostrano alla lunga, logorate e logoranti.
E, come dicevo, al centro della questione delle nuove procedure, stanno i meccanismi della pubblicità, che si concretano nell'adozione del voto palese, specie nell'elezione della Giunta e del suo Presidente voto segreto, in questo caso, non giova al prestigio ed all'autonomia del Consiglio Regionale. Infatti non protegge la libertà dei votanti, anzi, la espone a quella dei centri di potere extrapolitici ed extra-amministrativi o peggio, persino personali, sottraendola ad ogni possibile controllo dell'elettorato.
Altro importante aspetto è rappresentato dalla novità introdotta dall'art. 19 sui poteri di consultazione delle Commissioni. E' innegabile che essa appartiene alla logica regionalistica, imperniata sulla partecipazione e sul controllo, e contraddice, per vasta parte, ad una tradizione di formalismo parlamentare, che la classe politica ha amato cristallizzare nel nostro Paese.
Vi sono tuttavia, e sono recenti, illustri eccezioni di consultazione come quella a suo tempo indetta dal Presidente del Senato Fanfani, appunto a livello di commissione senatoriale integrata dalla partecipazione e dall'intervento dei rappresentanti degli Enti locali, in occasione delle alluvioni che, nel 1968, colpirono il Piemonte. Ciò che a me sembra importante, in questo caso, è di salvare il principio delle commissioni aperte, senza edulcorarne la validità con limitazioni tali da rendere superflua la partecipazione o da renderla paternalisticamente cooptata.
Infatti, tenendo conto della grande novità e del grande interesse che le Commissioni speciali e quelle permanenti investono a livello di consultazione e di partecipazione, è giusto lasciare spazio, come si è fatto, al Regolamento, per individuare le modalità di lavoro più opportune.
Un'osservazione di fondo mi sembra possa essere ancora fatta nel senso che, da tutta l'articolazione statutaria sugli organi e sulle commissioni forse non risulta chiaramente delineata l'azione di indirizzo della Giunta sul piano amministrativo. La Giunta può e deve esercitare l'iniziativa delle funzioni amministrative demandate alla Regione. La Giunta può e deve nella azione amministrativa, svolgere opera di propulsione e di proposta. E tutto ciò anche nei rapporti con le commissioni, che, in qualche punto sottraggono funzioni alla Giunta regionale. Basti pensare che è prevista una particolare commissione consultiva all'art. 23 per le nomine, anche per le nomine di competenza del Presidente e della Giunta.
La Regione Piemonte realizza la sua autenticità se sa sfuggire al formalismo, dicevo nell'introduzione, e se sa trovare valori autentici e permanenti da esaltare e da utilizzare. In questo senso, i temi del decentramento e della partecipazione, così come sono stati affrontati dallo Statuto in bozza, debbono essere approfonditi in sede di discussione per meglio essere compresi e perfezionati.
Il Piemonte presenta una tradizione di autogoverno e di serietà amministrativa, sì da farci dire che il decentramento e la partecipazione non sono vie per promuovere i partecipanti quanto sono vie per promuovere coloro che devolvono partecipazione. L'Ente Regione, intendo dire, sarà il primo destinatario dei benefici del decentramento e della partecipazione proprio per la carica di creatività che, con essi, riuscirà a incorporare e ricevere dalla lunga, meditata, costruttiva tradizione amministrativa della nostra gente e delle nostre comunità locali.
E qui ritengo opportuno dichiarare di condividere appieno l'impostazione data, perché realizza la più ampia partecipazione alle decisioni da parte degli Enti locali e delle forze sociali, anche attraverso l'esercizio della delega, che dovrà essere quanto mai ampio.
Altrettanto debbo aggiungere per le iniziative legislative popolari e per l'adozione, già esaminata, delle commissioni aperte, nonché per l'introduzione di un criterio molto vasto del diritto di interrogazione.
Dichiarando di condividere appieno quanto proposto dalla Commissione non intendo affermare che non si debba andare oltre, desidero asserire che oggi, la realtà regionale, viene già impegnata e provata a fondo, nelle sue componenti, protagoniste di questa innovazione, in un esperimento di vasto respiro democratico. Per questo, sul terreno delle possibilità di realizzare strumenti relativi al Piemonte degli anni 70, in questi nuovi suggestivi e difficili campi della partecipazione e delle deleghe, ritengo che andare oltre ci farebbe correre il rischio di frustrare in commistioni di poteri energie che, invece, nei modi e nelle forme proposti, trovano sostanziale valorizzazione ed esaltazione.
Teniamo conto, infine, che nella formulazione dello Statuto e nel governo della cosa pubblica a livello regionale noi non siamo impotenti ma neppure onnipotenti; abbiamo alcuni poteri ben definiti nel quadro costituzionale entro cui ci muoviamo; se sappiamo usarne con oculatezza e disinvoltura insieme, ci accorgeremo che si tratta di poteri sorprendentemente vasti persino; dobbiamo però ricordare che non sono infiniti, che non sono grandi neppure quanto noi vorremmo.
Esaltare al massimo l'istituto regionale, a mio sommesso parere, vuol dire avere anche il senso di questa scala delle gerarchie di rappresentanza e di potere. Così come, ordinariamente, il Deputato nazionale non è il costituente, noi Consiglieri regionali apparteniamo ad una sfera diversa da quella del Parlamento nazionale.
In questo quadro di rapporti sta il senso, l'autorità, la capacità della nostra scelta e del nostro saper legiferare, esplorando cioè sino in fondo le nostre energie e le disponibilità dell'Ente Regione, offrendo ad enti e cittadini nuove occasioni per concorrere ai processi decisionali e non esserne soltanto passivi destinatari, o di disporre cioè di nuovi e adeguati livelli di partecipazione popolare alla vita della Regione ed alle sue scelte, senza peraltro sfasare rapporti di fondo che il cittadino deve continuare ad esercitare in modo diretto verso lo Stato ed altri enti democratici, non surrogabili dalla Regione.
Negli scorsi anni abbiamo assistito poi al moltiplicarsi di istituti consortili per il conseguimento di molte e difformi esigenze, ma soprattutto per la realizzazione di opere pubbliche o di servizi. Queste strutture hanno dato quasi sempre buoni risultati, dimostrandosi atte a conseguire gli scopi con un minimo di costi di gestione e servendosi di personale ed attrezzature esistenti. Queste strutture presentano una collocazione intermedia tra Regione e Comuni: alcune sono state create per scopi permanenti, altre per scopi temporanei. Nell'ambito della Regione esse vanno utilizzate, nazionalizzate, promosse. E nel quadro promozionale di queste forme ed istituzioni spontanee di enti intermedi, intendo collocare l'istituzione del Circondario, proprio come momento di utilizzazione e di razionalizzazione delle istanze intermedie.
Vorrei richiamare però l'attenzione proprio sul capo III, che appunto tratta, all'art. 68, dei Circondari, per notare come sia necessario darne più completa specificazione, nel composito quadro dei rapporti tra essi e la Regione ed essi e i Comuni. E' realtà storica, economica, persino geografica l'esistenza in Piemonte di zone aventi una vocazione intrinseca all'autonomia amministrativa e al decentramento di questo grado. Una realtà, in taluni casi, già codificata in Consorzi di Comuni, già viva o, per meglio dire, mai morta - nella realtà di base della vita amministrativa e politica locale, dove i partiti, i sindacati dei lavoratori subordinati e di quelli autonomi, le associazioni tra imprenditori ed ogni iniziativa sovracomunale, hanno strutturazione ed attuazione di per sé naturalmente autonome, al punto che ciò che manca ad una situazione di fatto è soltanto il riconoscimento di diritto. Un riconoscimento però, che non sia soltanto di blasone, ma che corrisponda in istituti e decentramenti, in servizi e in rappresentanze, alla reale dinamica autonomistica dei poteri locali promossa proprio dalla Regione.
A questo punto signor Presidente, per parlare di programmazione non ripeterò i concetti, già esposti, di autonomia, di gestione, di partecipazione democratica che l'Ente Regione rappresenta negli anni 70 dirò soltanto che la programmazione sarà il banco di prova dell'Ente Regione e viceversa. C'è, infatti, su questo terreno, una verifica di reciprocità! E mi pare che gli estensori della bozza di Statuto abbiano colto nel segno quando hanno specificato, prima nell'art. 70 e poi nell'intero Titolo VI, strumenti, momenti, procedure ed altre meccaniche della programmazione regionale. Orbene, mi sembra che la programmazione debba essere considerata "modulo fondamentale" di comportamento della Regione nelle opzioni economiche, nella politica del territorio e dello sviluppo. Nella sua articolazione comprensoriale si intende poi realizzare una forma di democrazia partecipata tra mondo del lavoro e della produzione ed Enti locali, individuando come comprensorio l'insieme di territori comunali contigui, con caratteristiche ed esigenze similari, per risolvere il problema complesso degli squilibri, sia territoriali che sociali.
In sostanza, si tende a riaffermare, anche nello Statuto, il principio che la politica di piano deve guidare la condotta della Regione (e degli altri Enti locali) e che essa va dotata di strumenti adeguati per controllare gli investimenti, disciplinandoli all'obiettivo della diffusione di eguali condizioni di vivere civile e sociale su tutto il territorio della Regione. Tutti sappiamo come la programmazione nazionale abbia inciso in misura minima sulle linee dello sviluppo e pure ognuno di noi sa come la funzione dei Comitati regionali per la programmazione economica fosse, di fatto, limitata a pochi obiettivi. Qualche passo innanzi è stato fatto per quanto riguarda la parte consultiva, ma di fatto la legislazione nazionale non ha saputo affrontare il problema della programmazione regionale in termini più vasti di quelli necessari. Ora, a livello di Ente Regione, finalmente operante e capace di rappresentare il territorio e proprie autonome scelte, pur senza perdere di vista i collegamenti con il quadro nazionale, è giunto il momento dell'attivazione regionale della programmazione. Statuire, in questa materia, vuol dire dichiarare una precisa connotazione del Piemonte, una chiara volontà politica, un'assunzione di responsabilità e di impegno che tutto hanno a che vedere con una corretta concezione dell'autonomia regionale e nulla hanno da spartire con le polemiche, anodine e spurie, di contrapposizioni e dicotomie tra Stato e Regione.
Alla luce di questa regolamentazione normativa è ben individuabile come, a livello regionale, si intenda partecipare all'elaborazione ed alla realizzazione del piano nazionale, presentando la programmazione regionale come un momento di incontro con gli obiettivi generali del piano nazionale e come saldatura di quello al piano regionale, in reciprocità di giudizio ed in contrattazione delle scelte, con perfetta adesione ai modelli più avanzati della democrazia dello sviluppo. Infatti, mentre la programmazione nazionale opera le grandi scelte, delineando per linee generali gli obiettivi dello sviluppo, la programmazione regionale cura le particolari specificazioni, tenendo conto delle varietà e complessità delle situazioni ambientali. Secondo questa visione, che mi sembra ampiamente recepita dalla bozza di Statuto, le procedure di piano, l'inserimento in esse degli Enti locali e delle forze sociali rappresentative, sono problemi ancora in sospeso ma già di soluzione fin d'ora ben delineata. D'altronde, la metodica del Comitato regionale per la programmazione economica del Piemonte già ebbe modo di incorporare momenti molto interessanti sia pure a livello di studio e di indicazioni solutive, non cioè sul piano applicativo ed esperienze locali nell'attività programmatoria che condusse alla redazione del primo piano di sviluppo regionale del Piemonte. Chi, come me fu partecipe di cinque lunghi anni di lavoro in sede di C.R.P.E., ben sa che abbiamo alle spalle questa metodica democratica, che può ben definirsi ormai una tradizione, con tutta la forza positiva e quasi prescrittiva del termine.
Il primo piano di sviluppo economico del Piemonte scaturì, infatti dalla collaborazione di forze rappresentative del lavoro, della produzione dei commerci, delle pubbliche amministrazioni della Regione e da dibattiti ed incontri su problemi settoriali e locali, in numerose sedi e città del Piemonte.
Con queste premesse, resta del tutto consolidato il principio di una gestione di base della politica di programmazione regionale, che appunto la legge regionale, secondo le indicazioni dello Statuto, dovrà precisare sia intorno alle partecipazioni, che alle procedure, che alle scelte.
Signor Presidente, colleghi Consiglieri, oltre a questo excursus sull'articolazione dello Statuto regionale, nella bozza oggi in discussione, consentitemi di concludere con alcune osservazioni di insieme.
Spesso a taluno sembra che ripetiamo, grosso modo, quasi tutti le stesse cose; almeno tra le forze politiche che si riconoscono nella matrice costituzionale che promana dalla Resistenza e dalla guerra di liberazione.
Può anche essere vero, per uno spettatore poco attento, che la nostra esposizione, in genere pacata e concreta, sia sovente costruita su problemi molto noti e dibattuti; chi però non guarda alla nostra attività come distaccato e semplice spettatore, bensì come cittadino partecipante, sarà d'accordo con noi nel sostenere che in politica vale l'antico " rapetita juvant", perché la politica è realizzazione di scelte, la politica è affermazione di volontà, la politica, infine, è, anche e soprattutto verifica degli impegni assunti con il corpo elettorale e dei doveri contratti con la più vasta realtà della "res publica", delle cose e dei beni comuni.
Non è quindi fuor di luogo richiamare in questa sede, ancora una volta ai regionalisti di oggi e a quelli di sempre, che con la Regione intendiamo creare, nell'ambito costituzionale dello Stato democratico, un momento di autonomia, di partecipazione, di controllo non fini a se stessi ma promotori dello sviluppo, secondo i connotati storici e la realtà attuale del nostro Piemonte. La Regione tuttavia non deve essere assunta a mito essa risolverà i problemi per i quali è stata formata, li risolverà in senso progressista se la nostra carica di realizzazione guarderà al futuro li affronterà con moduli conservatori, se, per avventura, dovessimo formalizzarci sul presente. Sarà momento dialettico ma di costruzione nell'ambito dello Stato, se in essa noi sapremo trasfondere appunto il senso dello Stato, senza lasciarci offuscare dal campanilismo di ideologia o di territorio. La Regione, perciò, pur potendo essere molto, non potrà essere tutto. Quindi noi abbiamo il dovere di dire anche questo ai cittadini.
Le considerazioni finali sullo Statuto mi conducono ancora a due rilievi. Il primo rilievo è che la formulazione autonoma dello Statuto, al di là di leggi cornice o - peggio - di moduli precettivi, che la Costituzione - tra l'altro - né indica né consiglia, rappresenta di per s un fatto di importanza fondamentale, poiché il Consiglio esercita la propria attività ed i propri poteri fin dall'inizio, elaborando una " magna charta" che risponde alle esigenze vere e attuali della Regione, sulla scorta delle condizioni reali del territorio e dei suoi abitanti. A questa formulazione, mi sembra, la bozza di Statuto risponde nel suo insieme, in modo corretto, aperto, positivo, soltanto che si sappiano apportare quelle modifiche necessarie senza giungere a tentazioni di perfezionismo che, in ultima analisi, agirebbero come risposta rigida, non necessaria né utile a statuirsi.
La seconda considerazione, o meglio, il secondo rilievo, vuol rispondere a battute polemiche che, se già non vi sono state, certamente vi saranno, non importa se in quest'aula o a livello di pubblica opinione.
Infatti, esaminato lo Statuto della Regione Piemonte e confrontatolo magari con altri, non saranno in pochi - tra gli avversari veri della Regione come Ente - a dichiararne i lineamenti troppo accentuatamente autonomistici, più vicini a quelli di una Regione a Statuto speciale che una a Statuto normale. Ebbene, io penso che occorra precisare, al di là della quasi platonica dichiarazione dell'individualità di ogni Regione e della singolarità dei rispettivi quadri di realtà socio-economiche, che il Piemonte è - ed ancor più diventerà - una regione italiana molto diversa dalle altre. Le Regioni a Statuto speciale hanno dovuto affrontare e risolvere problemi di carattere specifico, per lo più legati ad una situazione allogena che esigeva speciali autonomie e speciali poteri per difendere patrimoni etnico-linguistici esistenti, per facilitare l'intesa e l'amalgama tra popolazioni di ceppo linguistico diverso e - è il caso delle isole - per affrontare eccezionalissime realtà socio-economiche politiche, storiche.
Il Piemonte non ha alcuno di questi problemi da affrontare, ma la sua centralità europea, la sua posizione strategica nell'ambito della Europa dei Sei - che ci auguriamo presto Europa dei Dieci - la sua appartenenza all'asse trainante dell'economia nazionale (che è il cosiddetto Triangolo) ne mettono in evidenza un profilo di singolarità e soprattutto una prospettiva di sviluppo non paragonabili alla situazione media delle altre regioni italiane.
Il nostro Statuto, pur non registrando - come del resto è ovvio - sul piano istituzionale questa realtà di fatto, si è arricchito di contenuti che tengono conto di questa singolarità del Piemonte e che, quindi esprimono modalità, pratiche amministrative, strumenti di avanguardia. Il discorso, in questo caso, verte soprattutto sulla programmazione economica regionale e sul suo ruolo fondamentale nella più ampia politica di piano del Paese. Non quindi fughe in avanti, non travalicamenti di barriere, ma semplicemente un'acquisizione dell'esistente e delle sue potenzialità di sviluppo.
Ecco, signor Presidente, colleghi Consiglieri, la sottolineatura che intendo infine proporre all'insieme della bozza di Statuto, esprimendo il giudizio che tale singolarità va spiegata, compresa, sviluppata. Dopo lo Statuto verrà la vera attività pratica della Regione: in tal senso dovremo approfondirne le implicazioni, sperimentarne i contenuti proprio a livello dei problemi da risolvere. Indubbiamente, come già ho detto, tutto dipenderà dalla carica politica che metteremo nelle nostre opzioni e nelle realizzazioni successive. Uno Statuto che rispecchi, tuttavia, in partenza le individualità del Piemonte, come appunto ravviso nel nostro caso, è già valida base ed efficiente premessa per un positivo operare. Con la sua approvazione avremo compiuto un nuovo grande passo innanzi, e non sarà un fatto di poco significato politico e pratico. Infatti, se i mesi trascorsi dal 7 giugno ad oggi sembrano appartenere ai tempi brevi se paragonati al lungo ed estenuante cammino della storia italiana dall'unità nazionale ad oggi, appartengono senz'altro ai tempi lunghi della attesa della nostra generazione, i cui problemi divengono sempre più gravi ed insolubili ed esigono rapida ed articolata risposta, proprio come potrà e saprà darla la Regione Piemonte, al di sopra e al di là di ogni mito.
Oggi, quindi, è nostra consapevolezza di trovarci in un momento e in un punto cruciale della società nei suoi sviluppi e nelle sue percorrenze quindi è nostro il dovere e la volontà politica di svolgervi un ruolo di classe politica democratica ed efficiente, nelle migliori tradizioni del Piemonte, per rimanere, ora e sempre al servizio della comunità regionale.



PRESIDENTE

Ha chiesto di parlare il Consigliere Berti. Ne ha facoltà.



BERTI Antonio

Noi comunisti, con l'intervento del collega Sanlorenzo e con il comunicato del nostro Comitato regionale, reso pubblico, abbiamo espresso un nostro giudizio complessivamente positivo dello Statuto proposto sottolineato i limiti in esso presenti e auspicato che da questo dibattito che vogliamo sia vivo, costruttivo, reale (siamo d'accordo con Bianchi su questo) - emergano posizioni capaci di superare questi limiti per un pronunciamento unitario delle forze regionaliste. Questo nostro giudizio parte dalla valutazione dei contenuti degli articoli, ma anche dalle fasi che hanno preceduto questo importante momento che stiamo vivendo in quest'aula.
La strada per giungere allo Statuto della Regione piemontese è stata difficile: basta pensare che circa dodici mesi fa, appena, con l'atroce strage di Milano, con le bombe di Roma, col terrorismo della destra economica e politica, si metteva in moto il meccanismo ispirato e manovrato dal partito della crisi e dell'avventura. Chi ispirava questo contrattacco avvertiva (come del resto l'avverte oggi) che la grande spinta combattiva delle classi lavoratrici non si sarebbe esaurita con le pur notevoli conquiste contrattuali, ma che avrebbe inevitabilmente elevato la domanda politica, fatta di rivendicazione di maggior potere, di partecipazione, di riforme effettive e non di parole.
Non è stato per caso che una delle iniziative più gravi e pericolose del partito dell'avventura (come viene chiamato) ha avuto come obiettivo immediato la fine prematura della Legislatura del 19 maggio '68, la liquidazione delle leggi ancora non giunte al termine del loro iter parlamentare tra cui lo Statuto dei diritti dei lavoratori e la legge elettorale per la costituzione delle Regioni a Statuto ordinario. E fallito questo obiettivo, non è stato un caso che tutti i tentativi sono stati poi concentrati negli sforzi (in gran parte riusciti) per limitare i poteri delle Regioni, per negare ad esse i mezzi per funzionare rapidamente, per condannarle ad un periodo di attesa, ad una sorta di "limbo" incolore e distaccato dalla realtà del Paese.
L'altro obiettivo delle forze conservatrici era e rimane quello della emarginazione della classe operaia e delle forze più valide del mondo del lavoro. Era e rimane l'obiettivo dell'isolamento della parte più agguerrita ed organizzata di questa sezione viva della società nel ghetto di una opposizione cui, al massimo, si può concedere la funzione di "stimolo" e di critica al monopolio intangibile del potere delle forze economiche tradizionalmente dominanti.
Al Partito Comunista, appunto, questo solo è il ruolo che può e deve competere, secondo quel tipo di "filosofia...". E se il P.C.I. nonostante tutti gli attacchi, nonostante tutti i tentativi compiuti in questi 25 anni per emarginarlo, per isolarlo, per "tagliargli l'erba sotto i piedi" oggi si presenta non come una forza rinchiusa nel ghetto di un'opposizione sterile, ma come forza capace di esprimere valori validi per risollevare il Paese dalle contraddizioni e dagli squilibri che si presentano oggi quasi come un vicolo senza uscita, ecco allora che si alimenta l'ipotesi propagandata da destra e da gruppetti di sedicente collocazione a sinistra di un preteso inserimento del P.C.I. nella logica del potere di classe perché non si vuole immaginare altro per il Paese che una egemonia ininterrotta della grande borghesia monopolistica per cui, o all'avanguardia organizzata della classe operaia è riservato un ruolo di opposizione a vita, oppure al P.C.I. può essere concesso di inserirsi come forza subordinata, svuotata dal suo contenuto rivoluzionario e di classe nell'area del potere gestito dai gruppi monopolistici.
Il problema che noi comunisti abbiamo posto in questa fase di transizione e sottolineato nella prima parte del dibattito in Consiglio Regionale, caratterizzato dall'ampiezza, dai contenuti e dalla qualità delle lotte, dai problemi che investono la società del nostro Paese, da una fase quindi tra vecchi e nuovi equilibri e rapporti di potere, è questo: come in questa situazione riuscire a costruire una dialettica tra le forze politiche che restituisca un ruolo effettivo di intervento alle assemblee elettive? Noi abbiamo preso tutti atto, credo, della contestazione sorta (uso parole che altri Consiglieri hanno usato in questa Assemblea) negli anni '69-70 e che ha investito le Assemblee elettive locali, proponendone una diversa funzionalità, una diversa capacità di collegarsi alle masse dei lavoratori e alle istanze che emergono dal Paese; il problema è quindi: come si costruisce questa dialettica che parte da una situazione reale del Paese e va ben oltre i rapporti tra D.C. e comunisti. Qualcuno ha qui ancora parlato di Repubblica conciliare; chi scioccamente interpreta le questioni politiche è chi è distaccato dalla nostra situazione politica e può usare slogan che niente hanno a che fare con la realtà vera del nostro Paese. Quindi nessuna Repubblica conciliare, ma una politica con la quale tutte le forze che intendono essere collegate alla situazione del Paese devono collegarsi.
Noi ancora in questi giorni, con l'affermazione di un nostro autorevole dirigente che interpreta la posizione del nostro partito, abbiamo dichiarato l'esigenza di conferire un potere reale di decisione alle rappresentative, un potere che combatta la pratica a farne una pura camera di registrazione delle decisioni prese a livello dell'esecutivo. Ci richiede non solo una correttezza di rapporti con l'opposizione (che è una cosa già interessante rispetto a metodi antichi), non solo di tener conto delle proposte dell'opposizione, ma richiede un cambiamento sostanziale del metodo di lavoro e di decisione delle assemblee elettive, un atteggiamento nuovo delle forze politiche. Qualcuno ci può dire (già ci è stato detto): nessuna distinzione tra maggioranza e opposizione? No, noi non pensiamo affatto di cancellare il ruolo della maggioranza, perché crediamo profondamente alla necessità di un confronto e di una lotta su programmi generali. Il punto è un altro. Questi programmi generali su cui si formano le assemblee, si scelgono gli esecutivi, si aggregano le forze politiche devono essere concepiti come un pacchetto cristallizzato, oppure come linee di una azione politica che deve essere verificata in rapporto con la dinamica del Paese, nel confronto con le posizioni contrapposte e in base alla visione di assemblee elettive (Parlamento, Regioni, Province, Comuni) che non sia di corpo delegato, ma specchio dello scontro e del progresso che si sviluppa nel Paese? Noi comunisti siamo per la seconda via, l'abbiamo già affermato altre volte, intendiamo riaffermarlo con la massima energia e forza politica necessaria in questa Assemblea, perché sia colto il senso generale delle nostre posizioni, la nostra collocazione in questa situazione politica che è appunto caratterizzata dalle cose che nelle assemblee precedenti abbiamo chiaramente definito e che in atti politici avvenuti in questi giorni anche a livello nazionale, è stata chiaramente espressa. Noi siamo quindi per un lavoro nuovo, per una assemblea che abbia strumenti e forme proprie di collegamento con la realtà e quindi di analisi, di ricerca e di confronto in base a cui procedere alle scelte, selezionare i programmi svilupparli. Mi pare che tutto ciò abbiano compreso, in particolare, anche alcuni uomini politici presenti in questa Assemblea. Questo comunque è quello che tutti devono capire per fare della Regione uno strumento di rinnovamento, e che devono comprendere tutti coloro che affermano di volere fare qualcosa di nuovo ma si rendono conto che questo qualcosa di nuovo si fa nella misura in cui si recepiscono nuove esigenze, nuovi metodi, modi diversi di costruire le scelte di carattere economico e sociale.
Fatta questa affermazione, mi sembra di poter aggiungere che il dibattito che ha preceduto la fase finale della gestazione del nostro Statuto ha messo in evidenza non solo qui in Piemonte ma in tutte le Regioni dove si è giunti a risultati analoghi ai nostri, che l'apporto dei comunisti alla lotta e all'opera per il rinnovamento del Paese e delle profonde riforme strutturali che si pongono all'o.d.g., non è stato n poteva essere ambiguo, fondato su compromessi deteriori e su accordi sottobanco. Affermiamo ciò per sottolineare come nell'elaborazione dello Statuto è stata trovata conferma della possibilità esistente e funzionale di raccogliere da una dialettica vivace, spesso estremamente combattuta viva soprattutto, tutta una serie di valori positivi che non si esauriscono in affermazioni di principio contraddette dalla indicazione di strumenti superati, ma vedono unire le affermazioni di principio alla esaltazione e all'indicazione concreta delle varie forme di partecipazione democratica e popolare e alla precisazione di un contenuto programmatico che si fonda su una visione nuova, positiva di una Regione che vuole rappresentare un elemento importante nello sviluppo economico e civile dell'intero Paese.
Per cui noi ci sentiamo di affermare che a questa fase di dibattito sullo Statuto, se vi sono delle forze che escono isolate, sono quelle della destra politica ed economica.
Tali valutazioni non vanno intese come una presentazione ottimistica o trionfalistica addirittura, di una realtà che è sì, in movimento, ma che è dominata da una situazione pesante, incerta e preoccupante, così come appare alla luce di una offensiva condotta con tutti i mezzi e in tutti i campi da quelle forze che non rinunciano ai propositi di imporre la conservazione del passato, di imporre strutture che fanno acqua da tutte le parti, contro una spinta popolare democratica che si esprime in modo unitario da ogni settore della vita civile del Paese per il profondo rinnovamento dello Stato. Noi pensiamo che sarebbe sbagliato, che esprimendo una valutazione positiva del lavoro fatto attorno alla bozza di Statuto che si sta per votare, si perdesse di vista questa realtà e non si individuassero fin da questo momento dove sono gli ostacoli da abbattere dove si presentano i pericoli più seri e le minacce che hanno lo scopo preciso di trasformare in un banale pezzo di carta, in un nuovo libro dei sogni uno Statuto e un istituto in cui crediamo e che ci ha visti protagonisti attivi nella lotta per conquistarlo e nel lavoro per farlo nascere vivo e vitale.
Votando lo Statuto della Regione piemontese non è possibile non mettere l'accento su questi pericoli, sugli ostacoli che da oggi in poi, con molta maggiore puntualità e insidiosità, ci troveremo giorno per giorno sul nostro cammino. Andrebbe certamente oltre il limite di tempo assegnato per un intervento fare l'elenco degli aspetti più gravi e indicativi di propositi e di tendenze rivolti contro le funzioni e i compiti delle Regioni, così come noi abbiamo voluto riassumerli nel presente Statuto. Ne citerò soltanto alcuni. E' presente, mi pare e non si arrende la tendenza delle forze che dominano il governo di centro sinistra, a continuare a legiferare ignorando semplicemente che la Regione è ormai una realtà, un fatto compiuto e irreversibile. Prescindo qui dal decretone di cui abbiamo discusso e nei confronti del quale abbiamo anche espresso un o.d.g. che rilevava l'esigenza di conferire alla Regione quei poteri di intervento in materia di politica sanitaria che il decreto invece esclude completamente.
Prescindo anche dal fatto gravissimo della circolare ministeriale 1101 che rinvia il controllo delle Regioni su Comuni e Province, quando invece questo è un compito che oggi ci è già assegnato, che potremo esplicare e che viene a gran voce richiesto dai Comuni, dalle Province, da tutti gli Enti che abbiamo interpellato e che hanno risposto alla nostra richiesta di partecipazione alla formazione dello Statuto. Ne colgo altri, se volete più limitati, ma anche più attinenti a fatti concreti della nostra Regione.
Un primo esempio: il Parlamento aveva concluso nel maggio scorso il lungo iter della legge elettorale regionale che di fatto dava il via a questa riforma che credo noi tutti giudichiamo storica. Negli stessi giorni in cui la tipografia stava componendo il testo di quella legge, per la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, il Senato concludeva l'iter della legge istitutiva del fondo di solidarietà contro le calamità atmosferiche. Ebbene, neppure uno spiraglio venne accettato di aprire, da parte del Governo, alla funzione e ai compiti della Regione in una materia, l'agricoltura, che la Costituzione (art. 117) assegna come compito primario alle Regioni. Il ministro Natali obiettò allora che la legge che si stava per approvare non poteva riconoscere alla Regione nessun compito di direzione, trattandosi di organizzare una solidarietà nei confronti del mondo delle campagne, che non poteva che essere vista in chiave nazionale. Non furono soltanto voci comuniste o socialproletarie che si levarono contro tale assurdità: "Non si è tenuto conto - affermò il Presidente della Commissione agricoltura del Senato, il socialista Rossi Doria - del fatto che siamo alla vigilia dell'istituzione delle Regioni.
E' chiaro che una politica di questo genere deve e dovrà sempre restare una politica nazionale (quella della solidarietà contro le calamità naturali).
Ma quando si dice che il fondo deve essere nazionale - aggiunge Rossi Doria - non è detto affatto che debba essere nazionale, centralizzata burocratizzata l'amministrazione della sua distribuzione, la quale più di ogni altra cosa dovrebbe essere integralmente trasferita alle Regioni o addirittura ai consorzi dei comuni danneggiati". Parole al vento. La delimitazione delle zone, la valutazione dei danni, la decisione sull'entità dell'erogazione delle provvidenze, tutto è stato riservato al Governo, ai suoi organi ministeriali che per l'accertamento dei danni e per valutazione della misura del contributo da concedere si valgono abitualmente non già del parere dei Comuni e delle Province ma delle informazioni sollecitate alle Stazioni dei Carabinieri i quali, per quanta buona volontà abbiano, non potranno mai trasformarsi in periti agrari e in tecnici. Questo esempio risale al maggio scorso. Da allora ad oggi non è stato che un susseguirsi di episodi analoghi. Presso la Commissione Sanità e la Commissione Lavori Pubblici del Senato è all'esame il disegno di legge del Governo contro l'inquinamento delle acque. E' una materia di attualità che richiede misure urgenti, autorità e strumenti efficienti, capaci di imporre una disciplina e un controllo che non consentono evasioni ad obblighi da cui dipende, per ammissione generale, la salvaguardia della salute e dell'esistenza futura degli uomini. Noi questo lo abbiamo affermato con molta forza in un articolo dello Statuto; di fronte a noi c'è tutto il quadro dell'inefficienza e dell'incapacità degli strumenti classici della burocrazia ministeriale. E' vero, leggi efficienti in materia di inquinamento delle acque non ci sono, oppure sono largamente superate, ma è pur vero che qualora ve ne fosse stata la volontà, lo Stato avrebbe potuto difendere in misura incomparabilmente maggiore la salute della collettività contro l'indiscriminato, incontrollato e spesso irresponsabile intervento di aziende private, di costruttori senza scrupoli e così via. Nonostante tutto questo al Parlamento il Governo in carica si presenta con un decreto legge in cui vengono ignorati il potere e i compiti della Regione, delle Province e dei Comuni; vengono concepiti nuovi carrozzoni rappresentati da comitati accentrati composti da ministri, da alti burocrati che si riservano ogni aspetto del problema, dai controlli alle sanzioni contro gli inadempienti. Ancora; da due anni è scaduta l'ultima proroga concessa dai Parlamento alla vecchia e superata legge per i territori montani. Per oltre sei anni è stata al lavoro una commissione ministeriale avente il compito di approntare un disegno di legge che avrebbe dovuto tenere conto degli errori compiuti nella vecchia legislazione, aggiornandola alle esigenze ed ai problemi nuovi che sono nel frattempo insorti nelle vallate di tutto d Paese. Il lavoro della Camera dei Deputati è da mesi bloccato dalla pretesa di conciliare con la volontà e con il giudizio espresso dal CNEL dell'UNCEM e da uno schieramento molto vasto, un disegno di legge governativo che è impostato in modo da riproporre il metodo vecchio superato; quello che continua a considerare la questione montana un "problema della bonifica montana" quello che continua e prospettare solo una politica di incentivi individuali dei quali arbitro assoluto, come nel passato, è l'eterno Ministro dell'agricoltura e foreste.
Come se le Regioni non esistessero, come se tutto il discorso sulla programmazione, sulla partecipazione dei cittadini e dei loro Enti rappresentativi alla gestione del piano di sviluppo, sia un'amenità che è concesso di esprimere soltanto nelle conferenze, nei convegni e negli o.d.g.
Non citerò, perché se ne è già parlato, della legge sulle procedure per la programmazione che assegna di fatto alla Regione un intervento puramente consultivo e che pertanto si scontra contro una impostazione statutaria che invece si propone di essere un grande momento partecipativo alla formazione del piano nazionale. Siamo di fronte a una legge ancora in corso. Ho citato prima provvedimenti già assunti, è quindi aperto il campo al nostro intervento per battere tentativi che ancora si vogliono fare per impedire alla Regione di operare concretamente.
Si è arrivati al punto di veder messo in discussione, la settimana scorsa, presso l'8a Commissione del Senato, un disegno di legge di iniziativa parlamentare del Senatore Lombardi ed altri della D.C. con il quale si ha la pretesa di impostare il riordino delle maggiori utenze irrigue della pianura padana, ignorando l'esistenza del Consiglio Regionale, rafforzando il carattere privatistico, e perciò vessatorio, di enti del capitalismo agrario, quali il famigerato Est Sesia, cui si vuol riconoscere il diritto di ricevere i finanziamenti dello Stato, di fissare i vincoli, gli obblighi, le decisioni di espropriazione, senza neppure fare un cenno almeno alla soppressione di quell'istituto reazionario di classe che è il voto plurimo.
Infine - e pongo termine a queste citazioni non per mancanza di esempi, ma per mancanza di tempo per illustrarli - ricordo il caso più recente: il decreto-legge in corso di esame presso il Parlamento concernente le misure da prendersi per far fronte alle conseguenze dell'ultima tragica alluvione, che ha inferto danni per centinaia di miliardi e perdite di vite umane a Genova ed in altre località della Liguria, del Piemonte e del Veneto.
Il Governo non ha fatto che riprodurre, talora in modo anche più sciatto ed insufficiente di quanto sia accaduto in occasione di leggi adottate in analoghe precedenti contingenze, la tradizionale impostazione che fa dei Ministeri gli arbitri assoluti dell'accertamento dei danni della fissazione dell'entità dei contributi da concedersi, della politica puramente assistenziale, che esclude tassativamente qualsiasi misura organica tendente non solo a riparare i danni ma soprattutto a creare le condizioni perché essi non possano ripetersi per l'avvenire.
Questi esempi non sono il frutto inevitabile di una situazione transitoria: sono il risultato di un orientamento preciso. Un orientamento che va individuato, denunciato e combattuto senza riserve né esitazioni perché se si affermasse condannerebbe ad una fine miseranda la Regione e l'intera riforma dello Stato che da essa consegue. E, a mio avviso, il pericolo più grosso, insieme con l'indicazione della dinamica politica che è aperta nel Paese, nei partiti, viene evidenziato dal Convegno di Montecatini della Democrazia Cristiana, che ha visto contrapposti orientamenti validi a queste intenzioni, espressi con chiarezza maggiore che per il passato, anche perché da quest'ultimo trae forse argomenti la nuova realtà rappresentata dalla fase costituente delle Regioni che stiamo vivendo attualmente, unita alla grande spinta verso il rinnovamento che è presente nel Paese, e che è sostenuta dalle classi lavoratrici.
Noi abbiamo sentito, nel Convegno di Montecatini della Democrazia Cristiana, accenti estremamente interessanti. Interessante mi è parso pure l'intervento in quest'aula del capogruppo democristiano Bianchi; un intervento certamente appassionato, che ha posto in evidenza i mali della nostra Regione, i mali della nostra struttura statale. Egli ha parlato della Regione, della sua struttura, dello Statuto che ci stiamo dando, e della capacità effettiva di renderlo efficace, come degli unici elementi a disposizione oggi per produrre nel Paese le condizioni necessarie per salvare veramente la situazione.
Noi di questo prendiamo atto. Certamente, qui non si tratta di repubbliche conciliari o cose del genere (credo di aver fatto giustizia prima di questi sciocchi slogan), ma di una realtà che emerge in sede regionale. Quando ci si investe di questa realtà non si può non prenderne atto, ed allora onestamente ci si propone di raccogliere tutte le forze che possono e vogliono dare un contributo per porre un rimedio, andare avanti per far avanzare questa nostra comunità regionale e nazionale verso una via di effettivo sviluppo. Perché l'alternativa, invece, è un progressivo decadimento, un progressivo impoverimento di quei valori sociali ed umani sui quali si fonda effettivamente lo sviluppo di un Paese, sui quali si fonda effettivamente l'emancipazione delle classi meno abbienti, e che pur tuttavia si impongono oggi prepotentemente nel nostro Paese attraverso istanze di rinnovamento.
Noi abbiamo sentito al Convegno di Montecatini, nella prima interessante relazione del prof. Elia, in cui il problema dello svuotamento era posto in termini inequivocabili, anche se le forme proposte per il superamento di questo erano in contraddizione, a nostro giudizio, con le espressioni iniziali, e nelle altre, che venivano dalla sinistra cattolica dal vice-segretario della D.C., De Mita, all'on. Donat Cattin, voci che parlavano in difesa della Regione, della validità della sua funzione. Ma io ne voglio citare una per tutte, quella del Presidente della Regione piemontese, Calleri (mi spiace di non vederlo neppure questa mattina in aula). Egli si è espresso in termini che a mio giudizio val la pena di sottolineare in questo dibattito generale, che ha pertanto un valore politico, in cui tutte le questioni devono essere espresse in termini su cui devono riflettere quelle forze politiche moderate che invece riterranno di poter operare in seguito contro una impostazione positiva che nello Statuto avanza. Sono frasi su cui deve meditare tutto il Consiglio, e che propongono, ritengo, a tutto il Consiglio una assunzione di posizione finale di carattere politico con la quale si prenda atto di questi pericoli e si riaffermi la volontà di superarli con una incisiva politica regionale e si dichiari la capacità di operare subito nel modo giusto, seguendo metodi nuovi.
Il Presidente della Regione Piemonte, con l'affermare che la posizione sua e quella di altri "nasce dall'esperienza dei primi mesi, che ha permesso di misurarsi con problemi pressanti e concreti proposti da una realtà politica in vivace movimento e non soltanto più immaginata o prefigurata", ha mostrato di saper cogliere una delle caratteristiche peculiari del nostro lavoro regionale in questo periodo. Egli ha aggiunto che "per capire le realtà regionali bisogna esserci dentro".
Sottolineo il fatto che queste parole sono state pronunciate dal dirigente di una forza politica piemontese, che è pure il responsabile, il Presidente della Giunta. Solo in seguito controllando come si collocherà questa posizione in rapporto ai problemi effettivi che la società e la comunità lavoratrice del Piemonte faranno emergere, ci potremo render conto se si sia trattato solo di frasi buttate là in un convegno, senza alcun intento di dare loro credibilità, di dare ulteriore sviluppo. Ma soprattutto mi preme sottolineare il concetto espresso successivamente perché vorrei avere la conferma che questo è un impegno politico che si assume nel momento in cui lo Statuto viene presentato per l'approvazione.
Ha aggiunto Calleri: "se così è, occorre individuare il momento storico in cui le Regioni nascono: un momento di crisi, di estesa divaricazione fra società civile e Paese legale, di disorientamento, di incertezza, di drammatici interrogativi. Ebbene, le Regioni sono, o meglio, possono essere, uno sbocco ed una risposta a questa situazione". Mi pare di poter cogliere attraverso questa affermazione anche il senso di altre affermazioni, fatte dal capogruppo democristiano Consigliere Bianchi. "Ma bisogna intenderci - dice Calleri, e diciamo anche noi - non le Regioni purchessia, non le Regioni pensate come semplice articolazione autonomistica dello Stato, che in questo caso non costituirebbero altro che un ulteriore elemento di confusione e di disorientamento: le Regioni devono assumere un ruolo di guida, momento autonomo di sintesi politica, strumento di rottura di una logica di sviluppo che è passata fin qui al di sopra e al di fuori delle istituzioni - noi diciamo al di sopra delle masse lavoratrici - e ne ha determinato scompensi, gravi conseguenze. Il discorso si collega al tema della programmazione: dal fallimento del piano quinquennale bisogna trarre le conseguenze, e, prima fra tutte, il pronto conferimento della pienezza dei poteri alle Regioni, proprio perché possano divenire elementi attivi di elaborazione ed attuazione del programma." Ho citato questa presa di posizione, scegliendola fra altre pure significative, perché mi pare riassuntiva di orientamenti che sono emersi nell'Assemblea di Montecatini. Ma c'è un pericolo vero, gravissimo, reale di cui noi e i democristiani e gli altri partiti rappresentati in questa assemblea, che credono veramente alla funzione autonomistica della Regione con i contenuti dello Statuto, ci rendiamo conto: ed è la risposta che a questi orientamenti è venuta dai massimi dirigenti della Democrazia Cristiana, da Colombo a Forlani, i quali per quanto hanno detto a chiusura del Convegno hanno ottenuto l'approvazione degli organismi della destra confindustriale ed economica. Essi hanno posto una netta chiusura a questi orientamenti, permettendo finalmente a "La Stampa" di pubblicare in prima pagina il tema della risposta: "Colombo e Forlani deplorano i rapporti ambigui con il PCI". (Poiché mi viene occasione di nominare "La Stampa" rilevo anch'io, come già ha fatto il collega Sanlorenzo, che l'atteggiamento della Fiat, quale traspare dal suo giornale, è certamente indicativo del fatto che lo Statuto, così come è stato elaborato dal Consiglio Regionale, certamente non è quale lo vorrebbe la Fiat.
Certamente, la Fiat non gradisce le inchieste sugli insediamenti di Crescentino ed altri, e pertanto ignora la Regione, per cui per il suo organo di informazione "indipendente" la Regione Piemonte non esiste).
Certo, il discorso sui rapporti con il Partito Comunista Italiano è tra i più importanti, oggi, è condizionante della vita politica nazionale, non per concessione di alcuno ma per il posto che noi comunisti, sostenuti dai lavoratori in lotta, ci siamo conquistato nel Paese. Il discorso è aperto ma io ritengo che tutte le persone onestamente sincere, in quest'aula e fuori di essa, possono dire che non si tratta di rapporti ambigui ma di una realtà concreta, che nasce dal Paese, che nasce dalla nostra società, con la quale occorre fare per l'appunto i conti. Questo è quello che emerge dalla situazione, è quanto noi proponiamo che si discuta anche in questa fase, anzi, direi, soprattutto in questa fase, di discussione generale dello Statuto, in cui non possono essere taciuti i momenti politici, le questioni che ci stanno di fronte.
Noi vogliamo una Regione che sia valida a tutti gli effetti, e la Regione che nasce con questo Statuto - noi auspichiamo anche migliorato in talune parti sulle quali abbiamo qualche riserva - è una Regione che nasce certamente bene, ma che può rimanere bambina, è come un neonato, nato bello, grasso e rotondo, che però non crescerà mai se gli verranno a mancare gli alimenti che sono il potere d'intervento, i mezzi finanziari la volontà politica di creare organismi che si avvalgano effettivamente di questi momenti partecipativi e si affermino, coscienti della propria forza coscienti del ruolo importante, essenziale che possono svolgere in questa realtà, da noi più volte affermata e che ho sottolineato con le parole del Presidente della Giunta.
Se con questa volontà politica intendono operare le forze regionaliste in questo Consiglio Regionale, allora veramente possiamo affermare con coscienza che si apriranno possibilità nuove. Noi siamo aperti a questo discorso, e lo abbiamo dimostrato collaborando attivamente alla elaborazione dello Statuto. Abbiamo fiducia che vi siano altre forze politiche disposte a muovere onestamente in questa direzione, e speriamo di averne conferma nel prossimo futuro: dal modo di gestire la Regione in questi anni non sulla base di una spartizione di potere a tutti i livelli dalla misura in cui si attueranno effettivamente tutti quei presupposti quei contenuti, quelle finalità che il nostro Statuto fino a questo momento si è dato nella sua bozza.



PRESIDENTE

Ha chiesto di parlare il Consigliere Cardinali. Ne ha facoltà.



CARDINALI Giulio

Signor Presidente! Signori Consiglieri! Lo Statuto, o meglio, la bozza di Statuto, che stiamo esaminando, è il risultato di incontri in sede di Commissione di Statuto che hanno, a parer nostro, sanzionato il tentativo di elaborare una carta costituzionale aderente alle nuove realtà che scaturiscono dal Paese e quindi anche dalla Regione Piemonte. Da ciò deriva, a mio modo di vedere, allo Statuto stesso una certa genericità nelle affermazioni, che sottintende il rinviare alla pratica successiva il conferimento di efficaci contenuti.
In sede di dichiarazioni preliminari sullo Statuto avevamo messo in guardia i Consiglieri dalla suggestione di ricercare formule più valide in senso generale, che hanno nella interpretazione di ogni forza politica un significato particolare ed anche tendenzioso. Abbiamo assistito, del resto in questa fase dei lavori, anche a scavalcamenti singolari, che non possiamo approvare proprio perché siamo alla ricerca di soluzioni sostanziali, non formali da proporre solo perché assicurate dal presente controllo di maggioranze sicure di sé. E' evidente che elaboriamo una carta costituzionale che vale per qualsiasi tipo di maggioranza che potrà essere rappresentata in questo Consiglio: certi indirizzi teorici, quindi, possono valere in una dichiarazione programmatica, non, a nostro modo di vedere nella stesura di uno Statuto che è legge per tutti, sia per la maggioranza che per la minoranza.
La bozza che esaminiamo ha corretto alcune delle fughe in avanti, ed a parere del nostro Gruppo rappresenta lo schema di un buon Statuto. Così è stato dichiarato dal capogruppo del Partito Socialista Unitario, ed in questo senso abbiamo avuto dichiarazioni pressoché unanimi, sia pure con sfumature diverse, da molti Gruppi di questo Consiglio. La sua approvazione consentirà alla Regione di uscire dallo stato di inferiorità in cui si trova e di iniziare ad operare per la risoluzione dei problemi della Regione, di fronte ai quali siamo oggi impotenti, incapaci, come maggioranza ed anche come minoranza, di offrire soluzioni.
I comunisti, questa mattina, per bocca del Consigliere Berti, hanno prospettato l'eventualità che lo Statuto possa rappresentare un libro di sogni o una carta priva di contenuto. Non hanno torto: neanche dalla Costituzione di Weimar, che pur era eccellente, si poterono trarre elementi capaci di impedire il successivo 1933 hitleriano. La responsabilità quindi, compete a tutti, P.C.I. compreso, ma soprattutto alla maggioranza.
E' un dato di fatto dal quale non ci si può estraniare, al di là delle opinioni fumose o degli ammiccamenti interessati.
In proposito, abbiamo fatto dichiarazioni precise al momento della discussione generale sullo Statuto. Si avvicina pertanto il momento in cui occorrerà fare il salto di Rodi, e sarà soprattutto la programmazione a qualificare tale salto. Lo Statuto, nei tre articoli dal 71 al 73, fissa le norme della programmazione. Sono norme, a parer nostro, un poco generiche.
Molto è demandato alle future leggi regionali. Ebbene, su questo argomento noi riteniamo che tutto sia consentito, tranne l'astrazione e la genericità; questo, infatti, è il terreno in cui si qualificherà la Regione, è il terreno su cui effettivamente noi potremo dar prova di essere aderenti alle realtà che scaturiscono dal Paese e dalla nostra Regione.
Vorrei qui dire ora qualche cosa su quello che sotto questo profilo pu essere il rapporto con il Partito Comunista. Credo che se liberiamo il campo dalle cosiddette ipotesi, dalle supposizioni di cui oggi effettivamente si fa largo uso nel campo della propaganda, vedremo con chiarezza che c'è nella posizione del Partito Socialista Unitario - e si è tradotta anche nella elaborazione di questa bozza di Statuto - una chiara precisa, determinata volontà di creare una situazione nuova, sulla quale il Paese possa costruire effettivamente temi nuovi di democrazia, temi nuovi di partecipazione, temi nuovi di risoluzione dei problemi fondamentali.
Tutto questo viene ad ogni pié sospinto condizionato, ipotecato dal problema dei rapporti con il Partito Comunista. Di questa situazione ha parlato stamani, in termini molto precisi, il Consigliere Berti. Non esiste, evidentemente, una operazione implicita, tacita, sotto banco, che debba portare a rapporti diversi con il Partito Comunista, ma esiste, a nostro modo di vedere, una corretta interpretazione della posizione che ciascuno di noi sceglie e che è rappresentata dall'impegno chiaramente assunto nei confronti del corpo elettorale. E' evidente che al corpo elettorale noi abbiamo detto alcune cose che dicevano anche i comunisti; ad altre abbiamo dato un significato diverso da quello che davano compagni del Partito Comunista. Ebbene, pure su questo noi dobbiamo, dopo l'approvazione dello Statuto che regolerà la vita della Regione, avere idee ben chiare ben precise, indicare esattamente ciò che vogliamo.
Credo sia errato vincolare in termini di compromesso permanente una situazione di proposte, o una situazione che domani sarà, nell'ambito della legislazione regionale, di attuazione pratica, attraverso una preventiva elaborazione insieme al Partito Comunista. D'altra parte, non comprendo perché si debba adottare oggi, per una democrazia come quella italiana, il concetto invalso per quella di tipo sud-americano, che o si è tutti nella maggioranza oppure non si è affatto. Questo problema non esiste: esiste invece il problema della collocazione che ciascuno deve avere e delle responsabilità che ciascuno può assumere. Attraverso lo Statuto possiamo operare per realizzare importanti obiettivi. Alcuni sono chiaramente analoghi a quelli che si prefigge il Partito Comunista, e si sono tradotti negli articoli dello Statuto, hanno rappresentato un passo in avanti considerevole per quello che riguarda la partecipazione degli Enti locali la loro possibilità di intervenire in sede legislativa, così come nel campo della programmazione. Occorrerà però che sia precisamente delimitato e definito il criterio con il quale la maggioranza, se una maggioranza esiste, intende operare in questo senso. Non esiste una maggioranza costituita dall'intero Consiglio Regionale: esiste una maggioranza che si esprime attraverso una confluenza di valutazioni, di programmi, di tendenze che devono portare alla risoluzione dei problemi del nostro Piemonte nel contesto della situazione generale nazionale, ed è su questa maggioranza che le minoranze dovranno far convergere la loro attenzione; è questa maggioranza che dovrà dimostrare se opera o non opera, ottiene o non ottiene risultati.
Mi pare questo il solo modo corretto di porre il problema, perché solo così lo Statuto non avrà la caratteristica fumosa del libro dei sogni ma sarà realmente un qualcosa di concreto e di efficace.
Si è detto e scritto molto da parte di tutti, in questo periodo, e in molte circostanze le parole sono andate oltre le stesse intenzioni. A mio parere c'é un poco l'abitudine a soggiacere al fascino della formula cosiddetta più avanzata: credo che se dovessimo scegliere a nostro piacimento una collocazione nell'ambito di questo Consiglio i seggi nel settore di destra rimarrebbero pressoché vuoti, perché tutti cercheremmo di stringerci vicino alla sinistra più estrema, allo scopo di qualificarci in questo senso. Questo è un modo errato di agire perché il problema di fondo è oggi quello di interpretare correttamente la realtà che scaturisce dal nostro Paese, dalla nostra Regione. Credo tuttavia che sotto questo aspetto non si possa non essere d'accordo con il Consigliere Berti quando egli mette in evidenza la discrepanza che esiste tra le possibilità che oggi la Regione deve avere e ciò che invece le viene concesso come campo di competenza: non è più possibile che la Regione continui ad essere ignorata occorre che la Regione Piemonte, approvato il proprio Statuto, prema con decisione perché vengano approvate dal Parlamento le leggi-cornice, che le permettano di veramente operare. Altrimenti vivremo in un permanente stato d'impotenza di fronte a problemi come quello dei trasporti, già affrontato in precedenti sedute del Consiglio, o dell'agricoltura, di cui parleremo prossimamente, ed altri, sui quali appare evidente l'esigenza di intervenire subito e di programmare, perché altrimenti non faremmo altro che deteriorare ulteriormente situazioni che sono già in fase di deterioramento. Vi sono situazioni che ci portano a renderci conto che il piano quinquennale testè scaduto, e che ci accingiamo a rinnovare, è un piano rimasto virtualmente sulla carta, perché non è stato quasi mai osservato, neanche dai piccoli comuni, i quali si sono ad un certo punto arrogata la prerogativa di adottare soluzioni di qualsiasi tipo in contrasto con il piano stesso pur di realizzare determinati loro obiettivi.
Noi dobbiamo invece intervenire rapidamente, ma con la intenzione e la volontà programmatica che caratterizzano la maggioranza presente in Consiglio Regionale: maggioranza certamente aperta ai contributi di tutte le forze politiche, alla ricerca di una soluzione che sia la più adatta, la più vantaggiosa, la migliore per le popolazioni del nostro Piemonte.
I Gruppi si sono espressi qui in maniera più o meno generica, con affermazioni più o meno fumose o generali ma hanno detto chiaramente qual è la loro volontà. Lo Statuto è una carta sulla quale, ripeto, ci siamo impegnati tutti per creare gli elementi atti a permettere un avanzamento della nostra democrazia nel modo più completo, nel modo più aderente alle sue esigenze.
La Regione Piemonte, ne siamo pienamente convinti, può dare un apporto fondamentale al rinnovamento del Paese attraverso la propria azione, che non può giustamente limitarsi al solo decentramento amministrativo ma deve dare un contributo teso a raddrizzare le storture evidenti nel Paese, a creare situazioni nuove e soprattutto a rispondere alle grandi aspettative delle masse popolari. Noi riteniamo, come partito facente parte di una maggioranza, di poter dare risposta a queste esigenze, una risposta già annunciata durante la campagna elettorale e che ci ha portati a costituire una maggioranza in questo Consiglio. Lo Statuto rappresenta un primo passo in questo senso. Ma dallo Statuto occorre che scaturisca una chiarezza di intendimenti, soprattutto la volontà politica di portare avanti un preciso programma, una precisa indicazione, attorno alle quali noi potremo verificare se esistono maggioranze, e conseguentemente quali minoranze potranno configurarsi.



PRESIDENTE

Ha chiesto di parlare il Consigliere Paganelli. Ne ha facoltà.



PAGANELLI Ettore

Signor Presidente! Signori Consiglieri! Intervenendo nella discussione generale, desidero soffermarmi sul ruolo che gli Enti locali avranno nella nostra realtà regionale, sulla considerazione che degli Enti locali viene fatta nella proposta bozza di Statuto, bozza che, pur lasciando ancora al dibattito finale la soluzione di alcune impostazioni, rappresenta il frutto della meritoria fatica di tanti nostri Colleghi, e soprattutto desidero soffermarmi sul nuovo sistema di controlli.
Per la verità, l'argomento è stato già trattato, in quest'aula, dalla voce autorevole del Presidente del Consiglio, che nella seduta del 30 ottobre, in sede di presentazione della bozza di Statuto, ha pronunciato in tema di autonomia degli Enti locali ed in tema di controlli, espressioni che non solo pienamente condividiamo, ma che ci auguriamo abbiano rapido seguito, proprio in considerazione della sede e della persona da cui provengono.
Ho preso la parola non certo con la presunzione di poter portare elementi nuovi - al massimo potrò riprendere argomenti che tanto hanno appassionato Province e Comuni nella nostra fase costituente - ma nella speranza di portare la voce di una vissuta testimonianza, la testimonianza di chi è stato, come sindaco di una città della nostra Regione, giorno per giorno, per oltre sette anni, a contatto con quella realtà che vogliamo tenacemente superare.
Toccando il problema degli Enti locali in questo Consiglio, ove siedono Colleghi che sono stati presidenti di Amministrazione provinciale, sindaci amministratori provinciali e comunali, Colleghi che quasi tutti, penso hanno "sofferto" l'esperienza della pubblica amministrazione, so di toccare un problema che trova la più viva rispondenza in ognuno di noi.
La nostra bozza di Statuto, nei principi generali, presenta l'art. 3 che, pur se suscettibile di qualche miglioramento tecnico, è di ampia considerazione dell'autonomia e del decentramento così com'è proposto: "La Regione opera per l'effettiva autonomia degli Enti locali e per rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla sua realizzazione, informando la propria attività legislativa, regolamentare ed amministrativa a criteri di ampio decentramento".
E' il proposito che, sancito domani nel nostro Statuto, diventa l'impegno di questo Consiglio di fare, naturalmente per quanto ci compete ma senza nulla tralasciare, quello che da troppo tempo in sede nazionale non è stato fatto: dare un senso alla autonomia locale, svincolare da assurdi ed umilianti controlli di burocrati le volontà liberamente espresse da consessi democraticamente eletti.
E l'impegno programmatico di pieno riconoscimento ed esaltazione dell'Ente locale trova subito pratica realizzazione quando nell'art. 40 si parla dell'iniziativa legislativa riservata anche ad ogni Consiglio provinciale, a Consigli comunali in numero non inferiore a 5 oppure a uno o più comuni rappresentanti non meno di 25 mila elettori; quando nell'art. 52 si parla del referendum abrogativo con potestà di richiesta da parte di Consigli provinciali e comunali quando nell'art. 60 si afferma la possibilità di interrogazioni di Comuni e Province; quando nell'art. 64 e seguenti si affronta il problema delle deleghe.
Ma indubbiamente uno degli argomenti su cui maggiormente sono puntati gli sguardi dei cultori dell'autonomia locale è quello dei controlli. Ed è proprio riguardo ai controlli che il Presidente Vittorelli ha parlato a chiare lettere. I controlli attuali - cito a memoria poiché non possiedo il testo stenografico del discorso del Presidente, ma penso di avere bene afferrato i concetti - non tengono in alcun conto le esigenze degli Enti locali ed i tempi necessari per operare. Bisogna restituire all'Ente locale l'autonomia che è scritta ma contraddetta dagli organi di controllo. Ed ancora: il nostro controllo deve andare verso l'Ente locale. La Regione per quanto le compete, non intende "convocare", ma creare Enti decentrati.
Mentre il nostro Presidente parlava io non pensavo alle mie esperienze degli anni passati. Insomma, una certa forma, con i rappresentanti di Enti di una certa consistenza territoriale o demografica, la usano tutti, anche quei funzionari (per fortuna non tutti) che si sentono molto investiti della loro funzione di controllo. Pensavo, ad esempio, ai Sindaci di tanti piccoli comuni delle nostre vallate, i quali o vengono convocati o addirittura devono andare a sollecitare le pratiche dei loro comuni.
Lasciano il loro lavoro, percorrono a loro spese decine e decine di chilometri, e ritornano spesso con scarse soddisfazioni. Per tutti, ma in specie per questi amministratori, si apre l'epoca delle grandi speranze. La Regione non intende "convocare", ma andare verso gli Enti.
Il problema dei controlli viene affrontato nell'art. 67 della bozza di Statuto che riporta praticamente l'art. 130 della Costituzione della Repubblica: "Un organo della Regione, costituito nei modi stabiliti da legge della Repubblica, esercita, in forma decentrata, il controllo di legittimità sugli atti delle Province, dei Comuni e degli altri Enti locali. In casi determinati dalla legge dello Stato può essere esercitato il controllo di merito nella forma di richiesta motivata agli Enti deliberanti di riesaminare la loro deliberazione".
Un primo passo, dunque, una premessa. Il controllo passa dai Prefetti dalle Giunte provinciali amministrative, ad un organo della Regione.
E quasi tutti gli Enti locali, che con tanto fervore e sollecitudine hanno partecipato al dibattito e risposto ai quesiti proposti dalla Commissione Statuto, intanto hanno espresso in grande maggioranza alcuni concetti che attengono a principi di efficienza e di democraticità: a) decentramento dell'organo di controllo a livello anche comprensoriale b) possibilità di interpello degli Enti locali per la designazione o quanto meno per la indicazione di alcuni membri della Commissione controllo c) esclusione di membri designati dall'Amministrazione statale.
Ma, per avviarsi su questa strada, per realizzare appieno l'autonomia degli Enti locali occorre una nuova, chiara, completa legislazione. Le Commissioni previste dagli artt. 55 e 56 della Legge n. 62 del 10 febbraio 1953, se pure rappresentano una evoluzione nel sistema degli organismi di controllo, certo non recepiscono appieno l'afflato completamente rinnovatore che proviene dalla richiesta degli Enti.
E circa i controlli specie per quanto concerne i controlli di merito ed i cosiddetti controlli atipici la legge n. 62 del 1953 non si è certo staccata dal T.U. della Legge comunale e provinciale.
E' un opportuno richiamo quello che ci viene dalle osservazioni della Provincia di Torino circa i controlli atipici: tra le molte osservazioni che sono venute dai Comuni e dalle Province mi pare molto interessante quella dell'Amministrazione provinciale di Torino. E' proprio sotto questa forma infatti che sono stati in passato esercitati i più sfacciati controlli di merito da parte dei più disparati uffici dello Stato. La mia modesta esperienza mi insegna che sono stati proprio questi uffici ad angustiare maggiormente gli Enti locali. Sono per lo più i rappresentanti di questi uffici, cui sono demandati pareri, stime, valutazioni autorizzazioni, che si compiacciono tante volte di tenere in scacco, è la parola esatta, le volontà degli Enti locali.
Su questo punto, dei controlli atipici, scrive molto giustamente l'Amministrazione provinciale di Torino nelle sue osservazioni, fatte pervenire: "Non sono ammissibili sotto un duplice profilo. Da un lato infatti, non sembra materialmente configurabile la possibilità di effettuare le complesse procedure ed istruttorie che caratterizzano appunto i controlli atipici, a meno di trasformare nei limiti di un tempo rigorosamente determinato dalla Legge n. 62 in un defatigante espediente dilatorio il ricorso al già citato sistema della richiesta di chiarimenti o elementi integrativi, e d'altro lato sarebbe quanto meno di dubbia correttezza costituzionale l'eventuale ricorso dell'organo di controllo regionale ad uffici sia pure tecnici dello Stato ai fini dell'esercizio di una prerogativa che la Costituzione riconosce come esclusiva della Regione".
Affinché gli principi stabiliti dagli artt. 3 e 67 della nostra bozza di Statuto abbiano una reale portata, occorre una legge che precisi e limiti i controlli, - e mi pare che in questo senso si sia espresso il Presidente della Giunta, Calleri, nel suo già citato discorso di Montecatini - specie quelli di merito, che tolga le ombre dei controlli atipici, che stabilisca i termini invalicabili entro cui esercitare il controllo.
Dicendo questo, non diciamo di non volere alcun controllo; diciamo soltanto che gli stessi devono sì stroncare eventuali abusi, ma non lasciare che un qualsiasi funzionario giudichi unilateralmente la convenienza e l'opportunità dell'atto e la sua adeguatezza ai fini da conseguire.
Vi è da augurarsi che, lasciate subito alle Regioni le competenze costituzionali, il Parlamento predisponga queste leggi. Ma se non lo facesse non per questo dovremmo arrenderci alla situazione. Dovremmo allora fare uso della facoltà prevista dal secondo comma dell'art. 121 della Costituzione e far presentare dalla Regione sulla materia una proposta di legge alle Camere, eventualmente d'intesa con altre Regioni, in modo che notevole sia il riflesso pubblico della nostra iniziativa. In questo modo potremo dare concretamente vigore, ove non sia lo Stato a farlo, al nostro impegno autonomistico.
Il Presidente del Gruppo consiliare cui appartengo, il collega Bianchi nel felice ed appassionato intervento con cui ha chiuso la prima seduta di dibattito sul presente punto dell'ordine del giorno, ha detto che ogni Consigliere avrebbe dovuto farsi partecipe di questa discussione, affinch il giorno della votazione finale ciascuno (anche chi non ha partecipato ai lavori della Commissione) possa sentire ugualmente proprio questo Statuto.
Ho inteso appieno questo richiamo, e sono intervenuto su uno degli argomenti che ritengo vitali. Ho cercato di scavare e di vedere al di là della stessa lettera degli articoli: ho cercato di vedere quello che la gran parte di noi certo desidera.
Lo Statuto che noi a giorni approveremo avrà infatti notevole rilevanza non soltanto per quanto, e non è poco, ivi sarà scritto, ma anche e soprattutto per la sincerità e l'impegno che porremo poi nel realizzare il nuovo sistema di vita democratica che con tanto entusiasmo abbiamo prefigurato.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Gerini. Ne ha facoltà.



GERINI Armando

Signor Presidente! Signori Consiglieri! Premesso un doveroso ringraziamento ai membri della Commissione, il cui lavoro paziente, talvolta estenuante, e certamente non privo di dissensi interni, ci permette oggi di discutere su questo schema legislativo fondamentale che è lo Statuto della nostra Regione, ritengo altresì doveroso rilevare come la fretta imposta dalla Legge Scelba all'art. 75 possa incidere sulla precisione delle norme formulate.
Infatti, senza voler anticipare i tempi della discussione sui singoli articoli, devo dire che molte delle norme di questa forma di Statuto hanno un valore "programmatico" più che "precettivo". Ma, allora, sarebbe stato meglio attenersi ad una più concisa enunciazione di principi generali nelle parti programmatiche ed esercitare viceversa un tentativo di normazione più specifica nelle parti precettive.
In ogni caso, ribadiamo fin da ora da necessità che il nostro Statuto si uniformi a principi di chiarezza e di concisione, i quali affermino una esplicita garanzia di tutti i diritti e doveri contenuti nella Costituzione della Repubblica. L'art. 4, ad esempio, dimostra che può essere pericoloso voler scrivere tutto per paura di dimenticare qualcosa, in quanto, in base al principio "inclusio unius exclusio alterius", si corre il rischio di ottenere proprio l'effetto opposto, e di dimenticarsi, quindi, di tutelare i diritti di tutti in egual misura.
Entrando direttamente in argomento, limiterò il mio intervento ad alcune considerazioni sulla seconda parte dello Statuto essendo la prima parte già stata trattata dal collega Zanone.
Le considerazioni che desidero esporre nascono in primo luogo dalla lettura delle risposte date dagli Enti locali al noto questionario della Commissione. E' stata una fatica di cui non mi dolgo, interessante e proficua, anche se molte risposte mostrano chiaramente di essere ispirate a direttive uniformi, emanate dalle centrali regionali dei partiti.
In materia di controllo sugli Enti locali, lo Statuto potrebbe essere più preciso per quanto riguarda modalità, limiti e termini e la definitività del controllo, recependo le disposizioni contenute negli articoli 59, 60 e 63 della Legge 10 febbraio 1953 n. 62.
Il nostro Gruppo è favorevole, comunque, all'orientamento espresso dalla generalità degli Enti locali, i quali hanno richiesto l'esercizio del controllo in forme decentrate. Noi interpretiamo la dizione dell'art. 67 della norma di Statuto nel senso che sezioni del Comitato di controllo sugli atti dei Comuni possano, ad esempio, essere istituite nei capoluoghi di circondario indicati dalla legge regionale. Quanto alle deleghe, è positivo che il testo finale espresso dalla maggioranza della Commissione abbia rinunziato alla impostazione autoritativa presente in alcune proposte iniziali avanzate da autorevoli Consiglieri di maggioranza, e stabilisca invece in forma esplicita che sia l'esercizio delle deleghe sia l'amministrazione tramite uffici degli Enti locali devono attuarsi attraverso la concertazione e l'intesa con gli Enti locali interessati.
Suscita invece qualche perplessità la collocazione, nel titolo sugli Enti locali, di un articolo che riconosce i comprensori, rinviandone peraltro la descrizione ad una futura legge regionale, che potrebbe essere quella sulle procedure di piano ma potrebbe anche non esserlo. In realtà il comprensorio non corrisponde, a differenza dei Comuni, delle Province e dei circondari, ad una circoscrizione amministrativa rigida, ma dovrebbe rappresentare una dimensione flessibile da commisurarsi ad ogni quinquennio con le aree ecologiche del programma di sviluppo socio-economico.
L'articolo sui comprensori avrebbe, quindi, trovato una sistemazione più adatta nel titolo sulla programmazione.
Quanto agli Enti e agenzie regionali, noi preferiamo, in linea di principio, le seconde ai primi, sia perché sembrano meglio adatte a consentire la congiunzione della finalità pubblica con criteri di efficienza privatistica, sia perché, come è stato anche riconosciuto nel noto convegno sugli Statuti regionali a suo tempo organizzato dalle Province toscane, le agenzie hanno una più evidente connotazione di strumenti sottoposti alla supremazia e al controllo degli organi politici della Regione.
Premessa questa esigenza, noi riteniamo che la Regione, se vorrà fare una politica di interventi infrastrutturali più ampia dell'ambito assai ristretto consentito dalla propria capacità finanziaria, dovrà ricorrere largamente alla concertazione con gli enti economici pubblici ed anche privati, per finalità di comune interesse. L'economia, dissociata dalla politica, è cieca; la politica, dissociata dall'economia, è vuota. La ricerca di un corretto rapporto fra i due poteri è una necessità irrinunciabile e corrispondente alle finalità di entrambi, dal momento che sviluppo economico e sviluppo democratico sono due momenti indispensabili e concomitanti dello sviluppo civile.
Il problema si pone con eguale evidenza ai diversi livelli di vita pubblica, dalle municipalità allo Stato; ma forse esso trova oggi il momento più interessante e promettente a livello regionale. E' la natura e dimensione stessa dell'Ente Regione a sollecitare una adeguata formulazione del problema, in quanto la Regione non è la sede né della mera amministrazione né delle opzioni supreme, ma si colloca ad un livello intermedio ricco di realismo e aperto alla partecipazione, in cui è facilitata la connessione fra la scelta di obiettivi generali e il diretto intervento sulle cose.
Vi è un ultimo problema che desidero ricordare per quanto riguarda il titolo degli Enti locali: il problema delle Camere di Commercio, che non sono citate in alcuna parte della bozza di Statuto. Vorremmo avere la certezza che esse siano da ritenersi implicitamente richiamate ogni qual volta nello Statuto si faccia riferimento agli Enti locali. A nostro avviso, la regionalizzazione impone non il superamento o l'emarginazione bensì una profonda ristrutturazione delle Camere di Commercio, anche ai fini di garantire il metodo democratico nella formazione dei loro organi direttivi.
Per quanto attiene in generale alla programmazione, riconosco che non è possibile risolvere in sede di formulazione statutaria la questione dell'attuale incoerenza tra la programmazione e le rigide strutture nelle quali è impigliata la manovra della spesa pubblica.
Sulla base di una semplice identificazione degli oggetti di spesa per l'acquisto di beni e di servizi, e in assenza quindi, di una relazione diretta tra mezzi impiegati e fini perseguiti, risulta impossibile esprimere un giudizio economico sull'operare della Pubblica Amministrazione. Si dovrebbe invece stabilire che i bilanci devono contenere richieste formulate sulla base di progetti veri e propri, che precisino gli obiettivi da conseguire in termini di spese da realizzare e di servizi da rendere, sottoponendo ad una, analisi comparativa di costi e di ricavi i metodi possibili con le eventuali alternative.
In coerenza a quanto detto, per evitare che la realizzazione dei progetti avvenga in ritardo rispetto alle necessità di oggi, e, quindi, per evitare il superamento e la inutilità dei progetti, dovremmo richiedere allo Stato iniziative di ristrutturazioni di altri organi, quali, per esempio, il Genio Ovile e i Provveditorati alle Opere Pubbliche, che, con le loro lungaggini burocratiche, rischiano di frenare le iniziative di intervento. Queste iniziative di ristrutturazione sono del resto largamente richieste dagli Enti locali, sulla base delle esperienze negative finora sofferte.
Per quanto concerne più direttamente i sindacati e le categorie economiche, è opportuno quanto meno lasciare alle future leggi regionali la facoltà di istituire consulte dell'economia e del lavoro, allo scopo di sviluppare la concertazione e cooperazione fra le istanze economiche e sociali e di promuovere la partecipazione alla programmazione regionale. Si tratta, però, di valutare se queste istanze siano disposte a riconoscere (a differenza di quanto è avvenuto in sede nazionale, con il CNEL) nei propri rappresentanti designati in questi organismi il tramite istituzionale per esercitare la propria influenza sulla politica regionale; da questo punto di vista, però, tenuto conto delle più recenti tendenze manifestate dalle centrali sindacali, è difficile avanzare ipotesi ottimistiche.
Ma intanto forme di rappresentanza diretta delle istanze economiche e sociali potrebbero forse agire con maggiore efficacia al livello di comprensorio ecologico, e in questa direzione la formulazione finale proposta dalla Commissione ci pare incompleta e insufficiente.
Connesso al precedente è il problema di indicare i principi statutari sui quali devono essere organizzati gli strumenti per l'acquisizione e comunicazione dei dati occorrenti alla formulazione dei programmi economici regionali.
E' questo un terreno delicato, anche dal punto di vista dei rapporti di potere tra i diversi Gruppi politici di maggioranza. Alla parte politica che ho l'onore di rappresentare interessano unicamente le garanzie di oggettività ed accessibilità giustamente riconosciute al terzo comma dell'art. 73 dello Statuto.
E' essenziale che si possa distinguere tra la raccolta dei dati e la loro elaborazione, e che i dati allo stato "grezzo" siano disponibili non soltanto ai governanti delle Regioni, ma anche ai Consiglieri di opposizione che devono controllarne criticamente i programmi. La questione può essere meglio chiarita dalla seguente affermazione, tratta da un documento del Comitato scientifico dell'IRES, l'istituto che si occupa delle ricerche economiche e sociali per la programmazione in Liguria: "In relazione alla costituzione delle Regioni a Statuto ordinario, si sottolinea l'imprescindibile necessità che l'autonomia scientifica dell'Istituto abbia ad essere salvaguardata e potenziata, onde permettergli di svolgere una funzione di servizio per l'intera comunità regionale. Tale funzione non può essere efficacemente assolta da un ufficio studi emanazione dell'Esecutivo regionale, bensì da un istituto che sia in grado di porsi come interlocutore tecnico dell'Esecutivo regionale".
La cosiddetta "banca dei dati", diciamo noi, deve quindi tenere gli sportelli aperti non solo all'Esecutivo della Regione, ma agli Enti locali ed alle forze sociali operanti in tutta la comunità regionale.
Quanto alla connessione fra la politica di programmazione regionale e di obiettivi della programmazione nazionale, noi accettiamo, come il riconoscimento di una responsabilità sociale che non può essere elusa da nessuno, il richiamo allo sviluppo del Mezzogiorno e delle altre aree depresse contenuto nel primo comma dell'art. 71; ma riteniamo che questa responsabilità comune di tutta la Nazione non contrasti con la specifica vocazione del Piemonte, che è una vocazione europea. Il Piemonte è la regione italiana meglio predisposta alla connessione con l'asse del Rodano e quindi con le aree forti della Comunità Economica Europea. Il sistema delle grandi comunicazioni svilupperà la vocazione europeistica dell'economia piemontese. In termini politici generali, il discorso sul Piemonte come "regione europea" corrisponde alla prospettiva del superamento dello Stato nazionale centralizzato, non solo verso il basso attraverso il decentramento regionale, ma verso l'alto, attraverso l'integrazione sovranazionale.
Dagli esordi del centro-sinistra, Regioni e programmazione sono i due emblemi principali del riformismo verbalistico e inapplicato. Fra i piani regionali che scadono a fine anno (e che di fatto non hanno funzionato sovrapponendosi come altrettanti "quaderni dei desideri" al "libro dei sogni" nazionale) quello piemontese fu giudicato, a quanto si dice, uno dei migliori. Tuttavia, lo sviluppo spontaneo delle diverse aree è stato tanto difforme dalle previsioni che, in certi casi, gli andamenti di popolazione e di occupazione desiderati dai programmatori del CRPE si sono verificati per conto loro, senza alcun ricorso agli interventi che il piano dichiarava necessari per conseguirli. Nell'area di Torino lo sviluppo spontaneo effettivo è stato addirittura inferiore alle previsioni di sviluppo corretto, in base alle quali si suggerivano una serie di "colpi di freno" la cui attuazione avrebbe dunque prodotto effetti disastrosi.
La Regione piemontese è chiamata a contribuire allo sviluppo delle Regioni depresse, mediante il trasferimento di risorse pubbliche (che è in atto da Nord a Sud) dalle zone forti verso le zone sottosviluppate; ma proprio per consentire questo trasferimento, la programmazione regionale piemontese dovrà respingere ogni ipotesi di disincentivazione.
Per quanto riguarda il secondo capo del titolo VI, che concerne le finanze regionali, va osservato che studi e convegni hanno più volte sottolineato la mancanza di collegamento tra il progetto di riforma tributaria e la legge sulla finanza regionale. In altre parole, non risulta conferito alla Regione quello che avrebbe potuto essere lo strumento più efficace di perequazione infraregionale e di coordinamento delle attività degli Enti territoriali minori. Meglio sarebbe, a noi pare, se una parte considerevole dei trasferimenti statali agli Enti locali passasse attraverso la Regione, attribuendo a livello regionale la distribuzione di una parte di essi agli Enti locali insieme alla delega delle funzioni amministrative. In uno schema di questo tipo, le Province, o altri Enti ed istituti intermedi (quali i comprensori, le agenzie) potrebbero essere finanziati con contributi specifici regionali, mentre per i Comuni si dovrebbe studiare un opportuno equilibrio tra trasferimenti regionali, in quote variabili da Regione a Regione, un trasferimento perequativo statale basato su criteri uniformi in tutto il Paese, e tributi autonomi più consistenti di quelli oggi previsti.
L'ultimo punto sul quale desidero soffermarmi è il titolo relativo al personale. Noi condividiamo il testo proposto dalla Commissione, che ci pare conciliativo di esigenze diverse; desideriamo qui ribadire ciò che sosteniamo da sempre, e che oggi troviamo condiviso (almeno verbalmente) anche dalle altre forze politiche: la Regione non dovrà essere un nuovo carrozzone burocratico. Pertanto, gli uffici della Regione dovranno essere attrezzati per compiti di programmazione e di iniziativa, mentre l'esercizio dei servizi potrà essere delegato agli Enti territoriali minori e ad apposite "agenzie" amministrative. L'amministrazione regionale assolverà bene ai suoi incarichi se non diventerà una fabbrica di moduli e di "pratiche" cartacee, ma saprà coordinare ad un livello superiore di tempestività e di efficienza l'attività delle Province e dei Comuni, e concertare ai fini dell'interesse della collettività l'attività dei gruppi economici pubblici e privati. Per fare questo non occorrono plotoni di impiegati: basta un apparato di pochi funzionari ben qualificati, assunti con un rapporto di impiego mobile e selettivo.
Desidero infine concludere riprendendo il punto iniziale, cioè le osservazioni che si possono dedurre dalle risposte ricevute dagli Enti locali. Noi liberali accogliamo in pieno la "sfida" regionale per una coerente attuazione del principio di decentramento. Siamo stati contrari alle incertezze e ai pressappochismi del regionalismo di centro-sinistra: ma poiché, per volontà della maggioranza, le Regioni si fanno, chiediamo che il decentramento si estenda dalla Regione verso i poteri locali inferiori; che si abbandoni il sistema amministrativo di tipo latino, in cui l'organizzazione centrale dello Stato si dirama in tutti i settori fino al livello di base, per passare invece al sistema amministrativo anglosassone, in cui le materie di competenza locale sono autogestite da corpi elettivi locali.
La rappresentanza liberale in questo Consiglio si batterà perché il decentramento coincida davvero con l'estensione delle autonomie.



PRESIDENTE

Proseguiremo i nostri lavori questo pomeriggio alle ore 16. I Consiglieri sono quindi riconvocati per quell'ora.
La seduta è tolta.



(La seduta ha termine alle ore 12,30)



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