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Dettaglio seduta n.118 del 12/10/72 - Legislatura n. I - Sedute dal 6 giugno 1970 al 15 giugno 1975

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Argomento:


PRESIDENZA DEL PRESIDENTE OBERTO


Argomento: Gruppi consiliari

Esame del progetto di legge sul funzionamento dei Gruppi consiliari


PRESIDENTE

La seduta è aperta. Prendiamo in esame il punto sesto dell'o.d.g.: "Esame del progetto di legge sul funzionamento dei Gruppi consiliari".
Ha facoltà di parlare, a nome della Giunta, l'Assessore Paganelli.



PAGANELLI Ettore, Assessore al bilancio

Signor Presidente, signori Consiglieri, questo disegno di legge presentato dalla Giunta ha un duplice scopo: dare formale ingresso attraverso un provvedimento legislativo, ai Gruppi consiliari, per i quali manca nel nostro Statuto piemontese una esplicita previsione; un meccanismo che consenta un regolare ed efficace funzionamento dei Gruppi medesimi.
Il disegno di legge, che consta di non molti articoli, è stato stamani esaminato dalla I Commissione, che vi ha apportato alcuni ritocchi a mio avviso migliorativi, sui quali la Giunta non ha particolari obiezioni da muovere. Penso pertanto che la cosa migliore sia passare all'esame e all'approvazione dei cinque articoli di cui si compone questo disegno di legge.



PRESIDENTE

Il Presidente della Commissione ha qualche considerazione da fare?



FASSINO Giuseppe

A nome della I Commissione, confermo quanto ha dichiarato l'Assessore Paganelli: stamani la Commissione si è riunita, ha esaminato articolo per articolo la proposta di legge della Giunta e all'unanimità l'ha approvata.
Credo di non dover aggiungere altro.



PRESIDENTE

Qualche Consigliere chiede di parlare sulla relazione dell'Assessore Paganelli e sulle dichiarazione del Presidente della Commissione? Nessuno? Allora possiamo procedere alla votazione del disegno di legge, che deve essere fatta, come loro sanno, per appello nominale. Pregherei i signori Consiglieri di rimanere in aula, per evitare difficoltà nell'accertamento dei voti.
L'art. 1 recita: "Nell'ambito del Consiglio Regionale sono costituiti in conformità alle norme del Regolamento del Consiglio, i Gruppi consiliari. Agli oneri per il funzionamento dei Gruppi consiliari si provvede in base alle norme della presente legge".



(Si procede all'appello nominale)



PRESIDENTE

La votazione ha dato il seguente esito: presenti e votanti 27 Hanno risposto SI 26 Consiglieri Si è astenuto 1 Consigliere.
L'art. 1 è pertanto approvato.
Vorrei rinnovare vivamente la preghiera ai Consiglieri di restare in aula, per non creare situazioni d'imbarazzo alla Segreteria, oggi per di più ridotta ad un solo Segretario.
Ari. 2: "A ciascuno dei Gruppi consiliari è assegnata nell'ambito degli Uffici del Consiglio Regionale, a carico del bilancio del Consiglio, la disponibilità di una sede proporzionata alla sua consistenza numerica.
L'Ufficio di Presidenza del Consiglio provvede a dotare le sedi dei Gruppi consiliari delle attrezzature e degli arredi necessari all'esplicazione delle loro funzioni".
Qualcuno chiede di parlare su questo articolo? Nessuno? Si passa alla votazione.



(Si procede all'appello nominale)



PRESIDENTE

La votazione ha dato il seguente esito: presenti e votanti 31 Hanno risposto SI 31 Consiglieri.
L'art. 2 è approvato Ari. 3: "Per il funzionamento dei Gruppi consiliari sono previsti, a carico del bilancio del Consiglio, contributi mensili, rappresentanti: a) da una quota fissa di L. 300.000 per ciascuno Gruppo indipendentemente dalla sua consistenza numerica b) da una quota variabile ragguagliata a L. 100.000 per ogni Consigliere regionale iscritto al Gruppo".
Qualcuno chiede di parlare su questo articolo? Nessuno? Allora si passa alla votazione.



(Si procede all'appello nominale)



PRESIDENTE

Ecco l'esito della votazione: presenti e votanti 33 Hanno risposto SI 33 Consiglieri.
L'art. 3 è pertanto approvato.
Art. 4: "Ogni Gruppo provvede autonomamente, in base ad apposito regolamento interno, ed a cura dei propri organi direttivi, alle spese inerenti il proprio funzionamento, ivi compresi gli oneri per il personale e per eventuali collaborazioni".
Qualcuno chiede di parlare? No? Allora si procede alla votazione.



(Si procede all'appello nominale)



PRESIDENTE

PRESIDENTE



PRESIDENTE

Ecco l'esito della votazione: presenti e votanti 35 Hanno risposto SI 35 Consiglieri.
L'articolo è pertanto approvato.
Art. 5: "All'onere di L. 82.000,000 per l'attuazione della presente legge, dal 1° gennaio '72 si provvede mediante la corrispondente riduzione dello stanziamento di cui al capitolo n. 1018 del bilancio di previsione per l'anno 1972. Il Presidente della Giunta Regionale è autorizzato a portare con proprio decreto le occorrenti variazioni di bilancio A decorrere dall'anno 1973 all'onere di L. 82.000 000 si provvede con le entrate di cui all'art. 7 della legge 16 maggio 1970 n. 281 e con i proventi di cui alla Legge regionale 29 dicembre 1971 n. 1 a carico del capitolo di spesa iscritto nel titolo 1, Sezione 1, Categoria 1 del bilancio della Regione".
Qualcuno chiede di parlare su questo articolo? Nessuno? Si passa allora alla votazione.



(Si procede all'appello nominale)



PRESIDENTE

Ecco l'esito della votazione: presenti e votanti 34 Hanno risposto SI 34 Consiglieri.
L'art. 5 è pertanto approvato.
Si deve procedere adesso, ancora per appello nominale, all'approvazione dell'intera legge nel testo risultante dai cinque articoli testé approvati singolarmente.



(Si procede all'appello nominale)



PRESIDENTE

Ecco l'esito della votazione: presenti e votanti 35 Hanno risposto SI 35 Consiglieri.
La legge è approvata.
Esame situazione Università in Piemonte



PRESIDENTE

Passiamo ora al punto settimo dell'o.d.g.: "Esame situazione Università in Piemonte".
Secondo le intese intervenute, vi sarà una breve relazione introduttiva al lavoro di discussione e di disamina da parte della Giunta. Do pertanto la parola all'Assessore Visone.



VISONE Carlo, Assessore all'istruzione

Signor Presidente, signori Consiglieri, il problema meriterebbe una ben più ampia trattazione da parte mia, ma mi limiterò ad alcune notizie di carattere informativo che ritengo necessarie perché si possa procedere alla discussione.
Anche in Piemonte, nell'ultimo decennio, le strutture universitarie sono state investite da un intenso processo di crescita della popolazione scolastica. Al 1961 l'Università e il Politecnico registravano 14.660 iscritti, che salivano a 36.530 e sono oggi 42.869, con un incremento complessivo del 173 per cento, analogo a quello verificatosi a livello nazionale.
A fronte di questo rilevante aumento delle domande d'istruzione universitaria, le infrastrutture non sono sensibilmente migliorate sotto il profilo quantitativo e qualitativo: attualmente sono intorno ai 14.000 posti studio, 1.000 posti camera e 1.000 posti letto. Il divario da colmare è quindi ingente, ed ancor più ingente se si considera che è prevedibile che nei prossimi anni il tasso d'incremento della popolazione universitaria si manterrà elevato, sicché è possibile prevedere 50.000 universitari al '75 e 70-75.000 al 1980.
Si pone quindi un primo ordine di problemi relativo agli investimenti da effettuare per realizzare standard soddisfacenti nelle infrastrutture (più 36.000 posti studio, più 3.000 posti camera, più 11.000 posti mensa): questi investimenti sono stimati dall'IRES nell'ordine di circa 87 miliardi.
Il secondo problema che si pone riguarda le scelte di localizzazione degli insediamenti universitari.
Al riguardo bisogna considerare: la dimensione ottimale per una Università è generalmente ritenuta non superiore alle 20.000 unita l'attuale dispersione delle strutture dell'Ateneo torinese compromette ogni seria possibilità di strutturare l'Università su basi dipartimentali, dato che dovrebbero venire collegate discipline impartite in facoltà che oggi distano anche alcuni chilometri fra di loro (tipico il caso di Scienze politiche, localizzate in via S. Ottavio, e di Economia e Commercio, che ha sede in piazza Arbarello) all'interno della città di Torino mancano oggi aree disponibili per un insediamento universitario dotato di adeguati servizi.
Una collocazione interna della città non può inoltre disporre di possibilità d'espansione e rappresenta il fattore non solo di animazione sociale, ma anche di congestione le altre sedi universitarie verso le quali si rivolge la domanda di diverse province piemontesi sono altrettanto congestionate quanto quella di Torino.
Da questi elementi si possono trarre le seguenti conclusioni: a) diventa urgente la creazione di almeno una seconda sede universitaria in Piemonte. Questa sede deve avere un carattere universitario; bisogna quindi contrastare la disseminazione di facoltà singole in vari centri, come invece sta avvenendo. Disseminazione che si presenta negativa sotto diversi punti di vista: ripropone una struttura per facoltà che è arretrata ed impedisce nello stesso tempo un'articolazione su basi dipartimentali presenta costi più elevati - non potendosi fruire di economie di scala nelle infrastrutture e nei servizi - e ciò si risolve in attrezzature inadeguate, non potendosi garantire a questi insediamenti dotazioni ottimali rende queste facoltà delle pure "succursali" delle corrispondenti facoltà torinesi con ripercussioni negative sullo stesso livello della ricerca e della didattica.
Bisogna, quindi, bloccare questo processo e progettare nuovi insediamenti che dovrebbero rivolgersi alle province di Alessandria ed Asti da un lato, Vercelli e Novara da un altro. In queste province risiede oltre il 30 per cento della popolazione universitaria piemontese, cioè circa 15.000 studenti; di questi il 38 per cento sono iscritti all'Università di Torino ed il 62 per cento presso altri Atenei (in particolare Milano Genova e Pavia).
Al 1975 si può valutare in 18.500 unità la domanda universitaria proveniente da queste tre province, che dovrebbe essere soddisfatta attraverso la creazione di una seconda Università.
b) Le province di Torino ed in parte di Cuneo continuerebbero a gravitare sulla sede di Torino: al 1975 si tratterebbe di 30.000 studenti Anche ridimensionando la popolazione dell'Università di Torino, si manterrebbe un forte divario fra le strutture esistenti e quelle occorrenti, divario che può essere superato articolando su basi dipartimentali l'Università e collocando nuove strutture dipartimentali fuori del centro storico.
Questa problematica dovrà comunque ricevere il necessario approfondimento con la formazione del Piano di sviluppo regionale, nel quale gli insediamenti universitari costituiranno uno specifico capitolo.
Un terzo aspetto del problema è quello più generale della riforma degli ordinamenti e dei contenuti dell'istruzione universitaria.
Al riguardo non possiamo che auspicare una sollecita ripresa del travagliato cammino di questa riforma, che dovrà trovare i suoi punti qualificanti nei dipartimenti, nella figura del docente unico, nella democratizzazione degli Organi di Governo e nel pieno riconoscimento dell'autonomia dell'istituto universitario. Autonomia che non deve per significare chiusura corporativa dell'Università, ma anzi suo pieno inserimento nel contesto sociale e culturale della comunità regionale Questo inserimento dell'Università nella vita della Regione deve tradursi in una distinzione tra la gestione didattica e la gestione politico-amministrativa: se la prima è di spettanza delle componenti universitarie, la seconda deve vedere una presenza determinante degli enti locali.
Tutta questa complessa tematica non può essere ora approfondita. Mi limito quindi ad un'ultima osservazione: il cospicuo incremento degli universitari non risponde soltanto ad esigenze di formazione culturale, ma è anche sollecitato dall'attuale ordinamento dell'impiego pubblico e para pubblico, che fa della laurea una condizione per gli avanzamenti e le progressioni nell'attività lavorativa. La laurea continua così ad essere vista un privilegio, fonte e strumento di promozione sociale ed economica.
Quanto sia distorta questa concezione è evidente, ma essa si ripercuote sull'Università, ed induce ad una grave dequalificazione della didattica.
Bisogna quindi agire per dare all'Università una funzione diversa da quella che viene assumendo, di fabbrica di disoccupati intellettuali. Oggi non vi è, infatti, alcun rapporto tra dinamica delle iscrizioni universitarie nei vari rami e dinamica degli sbocchi professionali, e da queste divergenze si originano la sottoccupazione o la disoccupazione dei laureati. Ristabilire un corretto rapporto tra sviluppo socio-economico e strutture formative diviene quindi essenziale per porre l'Università al servizio della crescita globale del nostro Paese e della nostra Regione.



PRESIDENTE

Mi risulta ora iscritto a parlare il Consigliere Revelli. Per riuscire a disciplinare bene la discussione, vorrei pregare quanti intendono intervenire in questo dibattito di darsi in nota: Bianchi, Zanone, Benzi Rivalta, Nesi. I Consiglieri consentiranno a che io, come di consueto modifichi questo ordine in modo da alterare le esposizioni delle diverse parti politiche.
Prima di dare la parola al Consigliere Revelli ricordo che noi ci eravamo proposti di avviare oggi un primo dibattito, di approccio ad un successivo momento ulteriormente approfondito e decisionale.



REVELLI Francesco

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, noi affrontiamo oggi questo primo dibattito sulla situazione universitaria in Piemonte partendo non solo dalla relazione che ci è stata fatta qui dall'Assessore, dai dati che ci sono stati portati, ma avendo anche come punto di riferimento la mozione che lo scorso anno, proprio a quest'epoca, all'incirca, era stata approvata in Consiglio in modo unitario ed aveva impegnato la Giunta ad alcuni compiti precisi.
Quella mozione si legava anche ad una serie di altri documenti precedenti che avevano qualificato, pur in modo stentato, pur tra molte difficoltà, la posizione del Consiglio Regionale su questi importanti problemi.
In primo luogo, c'erano i pareri che avevamo dato ai decreti sulla formazione professionale e a quello sull'assistenza scolastica: avevamo già svolto allora tutta questa problematica nei termini di non poter ritenere che le Regioni venissero completamente tagliate fuori, nei loro poteri, dal grande tema dei diritto allo studio, quindi anche della situazione da un lato delle opere universitarie, dei grossi problemi, dall'altro, della formazione professionale e di tutto il campo della programmazione, anche dei nuovi insediamenti.
Pochi mesi più tardi, proprio nel maggio del '71, inserendoci nel dibattito in Parlamento, allora abbastanza vivo, sulla riforma universitaria, avevamo svolto una discussione approdata in un ordine del giorno in cui rivendicavamo come compiti specifici della Regione il diritto allo studio, la pianificazione universitaria e la formazione di nuove università, l'organizzazione della ricerca scientifica finalizzata alle scelte di piano, la programmazione di una politica di educazione permanente, di orientamento e di formazione professionale.
Lo scorso autunno, alla mozione il Consiglio è arrivato attraverso una pressione venuta non soltanto dalle nostre richieste ma dal movimento sviluppatosi all'interno dell'Università, che si caratterizzava non più soltanto nel movimento dei giovani, degli studenti, ma anche nella diretta entrata in campo, per richiedere che la Regione fosse un interlocutore politico valido dell'Università in rapporto alla situazione gravissima di crisi, degli stessi docenti. Allora, non avevamo voluto andare a fondo di tutti i problemi, e, dato l'urgere della crisi, lo stato di paralisi in cui l'Università versava, avevamo ritenuto opportuno, accogliendo la proposta del Consigliere Bianchi, di varare una mozione più succinta, impegnata e particolare, che desse modo alla Giunta di agire proficuamente, con impegno essenzialmente su due punti: che si preparasse una visione abbastanza generale e programmata di quello che poteva essere lo sviluppo dell'Università, partendo dai problemi immediati, attraverso la prassi che lo Statuto ci invita a seguire in queste questioni, e cioè di una consultazione con tutte le componenti universitarie, per vedere appunto di evitare, con provvedimenti immediati anche in merito al diritto allo studio, l'ulteriore deterioramento, la minacciata paralisi dell'Università.
D'altro canto, avevamo chiesto la presentazione al Consiglio da parte della Giunta di alcune proposte concrete, per il che avevamo concesso ampio tempo: è passato più di un anno e la relazione odierna dell'Assessore Visone, anche se indubbiamente positiva, non contiene quegli elementi concreti che noi ci attendevamo, dopo l'ampia consultazione partecipativa delle componenti universitarie, degli enti locali, delle forze sociali interessate, per adottare soluzioni conformi alle reali dimensioni del problema universitario, all'esigenza di vedere in modo organico lo sviluppo dell'Università nella Regione, secondo la linea della programmazione proprio per sottrarci a quelle tendenze pericolose che, presentatesi gia l'anno scorso, si sono andate aggravando negli ultimi due-tre anni nella nostra Regione, nonostante le affermazioni di principio di oggi: tendenze alla creazione delle famose facoltà decentrate, che poi non sono facoltà ma corsi, non si sa bene da chi istituiti, da chi autorizzati, se d'iniziativa cosiddetta privata, in un certo senso, non nel senso stretto privatistico ma per lo meno pubblico-privata, molto equivoco ed ambiguo, in cui più o meno le università, le facoltà si concedono più per ragioni, abbiamo detto noi con termini grossi di decentramento di baronie (la quantità del decentramento, per vero dire, è così minima, soddisfa un fabbisogno così irrisorio); e abbiamo visto sorgere facoltà a Vercelli, adesso a Novara abbiamo i lettorati a Cuneo, la richiesta di Magistero per Alessandria un'altra richiesta per Asti, la facoltà di Medicina in due città, a Novara e Alessandria, e il caso emblematico di Cuneo, che addirittura, come provincia che si vuol sempre distinguere nelle sue iniziative, è riuscita addirittura a trovare 250 allievi cui far frequentare il primo corso di medicina, di cui 200 erano infermieri dell'Ospedale di Cuneo.
I problemi che già lo scorso anno ci erano stati posti in modo diverso da come li poniamo ora, che ci erano stati posti forse con spirito di parte, giusto anche ma che poteva essere sospetto, da gente non vicina a noi, estremamente preoccupata per la situazione dell'Università, quest'anno ce li ritroviamo tutti di fronte, in una situazione dell'Università aggravata, ulteriormente deteriorata. Era deteriorata molto nel mese di luglio, quando il compagno Minucci intervenne nel primo battito sul piano in cui, pur collocando tutto il problema dell'Università all'interno del Piano di sviluppo, non poté non soffermarsi sull'urgenza che questo problema aveva anche nell'immediato.
Allora, però, da quell'intervento, cui mi rifaccio per cercar di far compiere un passo avanti alla discussione e alle soluzioni che dovremo presentare alla consultazione sul piano, si ricavava non certo la soluzione di dar vita a spezzoni di facoltà o a corsi strani nelle varie province, ma di promuovere la scelta, da verificarsi nel dibattito sul piano, di due ipotesi di lavoro molto concrete, che qui oggi sono state riprese: una Università nel Nord-Est del Piemonte (e quando si dice Nord-Est si sa benissimo a che cosa ci si riferisce, senza voler fare del campanilismo, a Novara e Vercelli), ed una nel Sud Piemonte, vale a dire nella zona Asti Alessandria-Casale. Purtuttavia, veniva evidenziata l'urgenza di affrontare i problemi connessi ai dati che qui l'Assessore Visone ha riportato, tratti in parte dall'Ires, in parte dalle informazioni ultime sull'andamento delle iscrizioni: c'è una progressione spaventosa di queste iscrizioni anche quest'anno, al punto che, a iscrizioni non ancora chiuse, mancando un mese all'inizio dell'Anno Accademico, si supera già il numero di 42.000, e in più nell'attuale stato delle strutture universitarie dell'Ateneo di Torino e del Politecnico, che sono per 14 000 posti alunno, 1000 posti camera e 1000 posti mensa (e sono addirittura sproporzionate, dico dando un primo giudizio critico della mia parte, le previsioni che in questo senso vengono avanti per il '75 da parte dell'Ires, perché evidentemente non si capisce come, accettato per elemento determinante il diritto allo studio visto non più sotto l'aspetto assistenziale caritativo ma con interventi che vengano ad incidere su tutta la panoramica dei problemi, quindi su tutti i tipi d'interventi urbanistici, di assetto del territorio ecc. - nelle Università europee tra le più povere si dispone di tanti posti mensa e camera da fronteggiare le necessità di almeno la meta degli studenti iscritti ad ogni corso universitario -, si possa ipotizzare ridicolmente solo 3000 posti mensa e 3000 posti letto In questo modo faremmo senz'altro un grave passo indietro, perch l'Università, senza che nessuno voglia licealizzarla, ma riconducendo all'interno di essa quei processi - credo che lei, Assessore, volesse dir questo - di ricomposizione della funzione didattica e di ricerca in funzione anche delle scelte del piano, implica un ben altro impegno di investimenti, diventa già una scelta programmatoria di sviluppo anche dell'occupazione e degli investimenti della nostra Regione.
Una prima spiegazione, qualunquistica, certo, ma molto diffusa oggi nell'opinione pubblica, dell'enorme crescita della popolazione scolastica in generale, ma soprattutto di quella universitaria, consiste nel dare la colpa a quel provvedimento del Governo - allora di centro-sinistra -, che votò la legge 910 del '69 con la quale si liberalizzò l'accesso all'Università. Allora noi, assumendo una posizione che era difficile da sostenere, avevamo detto: siamo per la liberalizzazione degli accessi all'Università, ma questo deve procedere contemporaneamente, o almeno con la prospettiva a breve termine, della sospirata riforma. Altrimenti andando avanti con interventi settoriali si arriverebbe a fare quello che oggi fa Scalfaro: da un lato ci si dimostra persino troppo democratici quindi spesso demagogici, e dall'altro si chiudono tutti gli spazi per la riforma e si finisce con l'aumentare le tensioni e le contraddizioni. Con questa spiegazione, che pure trova larghi consensi, si apre la strada al ritorno di una vecchia politica all'interno dell'Università diretta a ristabilire quegli equilibri che sono saltati con le lotte studentesche con le lotte degli insegnanti democratici e del movimento operaio, nel tentativo di evitare di misurarsi sul terreno essenziale, cioè quello della responsabilità di non essere andati sulla strada della riforma.
Tutto questo ci impone alcune riflessioni, seppure rapide per non tediare nessuno, sulla situazione che si è venuta a creare in rapporto ai problemi della scuola, ed in particolare a quelli dell'Università. Si potrebbe dire, a prima vista, che oggi niente è cambiato: dalle contraddizioni del centro-sinistra siamo passati alle volontà contraddittorie del centro-destra. La realtà è invece che l'interlocutore politico è cambiato sostanzialmente: ci troviamo di fronte ad un Governo di centro-destra, che ha portato emblematicamente alla guida del Ministero della Pubblica Istruzione un uomo come Scalfaro, l'uomo che - non voglio assolutamente mancare di rispetto ad un illustre personaggio come Scalfaro nel dire ciò - indubbiamente tranquillizza non solo tutti coloro che all'interno del Governo, dell'attuale maggioranza, sono per una linea di destra, ma tutta la destra, anche quella reazionaria ed eversiva in generale.
Quest'anno, dunque, alla riapertura delle scuole come alla prossima riapertura dell'Università, ci ritroviamo di fronte alla crisi in cui versa la scuola italiana, alle sue carenze spaventose sul piano quantitativo e qualitativo, in ruta la sua profondità. D'altronde, non possiamo non considerare in primo luogo che la svolta a destra della DC, dell'attuale Governo, segna un profondo arretramento. Perché non ci è stato detto che pur con la svolta a destra, pur con un Governo di destra, la riforma sarebbe stata ripresa e condotta in porto: è stata invece affossata subito con un atto significativo Non si discute più di niente; anzi, si annunciano soluzioni efficientistiche, che vanno nel senso di quella risposta qualunquistica che tanta parte dell'opinione pubblica crede di poter dare alla domanda di istruzione che sale soprattutto dalle classi popolari e che ha aumentato a dismisura i quadri degli studenti dell'Università e quello degli studenti di tutte le scuole in genere, determinando un problema di massa.
Viene annunciata, ad esempio, una politica di interventi settoriali volti a dividere il movimento: riapriamo i concorsi, aumentiamo gli stipendi agli insegnanti, soprattutto ai docenti, e per chi si comporta bene ci sarà un passaggio di status, e via discorrendo. Dimenticando che questi interventi, anche se visti solo in questo ambito settoriale, non possono andare disgiunti da altri problemi di fondamentale importanza quali la ridefinizione delle funzioni e dei compiti dei docenti, la revisione degli ordinamenti didattici, la modifica - che è poi il nodo sostanziale di tutto, in senso democratico - dei criteri di composizione degli organi di governo dell'Università, proprio per affermarne l'autonomia.
Ma dietro la demagogia spicciola sulla funzionalità e sull'efficienza dietro le mediocri concessioni corporative a questa o a quella categoria di insegnanti, la linea dell'attuale Governo e del Ministro Scalfaro si rivela estremamente pericolosa, dobbiamo prenderne atto. Perché, mentre non è in grado di dare una risposta positiva alla crisi della scuola ad alcun livello, in particolare a livello universitario, vuole però imboccare la strada della crescita della tensione. Si va ad un'intensificazione, quindi dell'azione repressiva, si gioca la carta della crisi proprio nella scuola un settore che preoccupa vivamente, anche a livello universitario, un numero grandissimo di famiglie di lavoratori, del ceto medio, commercianti artigiani, per far passare la linea di destra, per stabilizzare questo Governo.
Questa svolta a destra, questa linea dell'efficientismo sono indubbiamente la conseguenza del fallimento del centro-sinistra, dello scarto enorme tra capacità di analizzare cosa era successo nell'Università nella scuola in generale, e l'ampiezza degli obiettivi che ci si erano dati; dall'incapacità, cioè, di programmare veramente una riforma nel senso di andare a soddisfare i grandi bisogni sociali collettivi e di vedere i problemi della scuola nel quadro di una ripresa economica diversa, di un altro meccanismo di sviluppo, di evitare l'ulteriore diffondersi della piaga, molto vasta nel nostro Paese, con livelli non riscontrati in altri Paesi europei, della disoccupazione intellettuale, sia a livello di fine della scuola media secondaria superiore sia a livello di diploma universitario.
Dicevo gia prima che l'atto qualificante di questo Governo è stato di mettere del tutto da parte la riforma universitaria. Quali linee vengono avanti? In primo luogo la linea dell'ordine, che tutti ormai conoscono quella della riaffermazione dei criteri di selettività, di disciplina, non intesa in senso gramsciano, come la intendiamo noi, cioè per una seria scuola, non dequalificata e di massa, ma di una disciplina questurina legata alla tradizione culturale più retriva, senza più spazio, senza più sfogo, neanche in una possibile espansione in questo senso dell'Università.
Vi è poi una seconda linea che è ancor più pericolosa: la linea tecnocratica. Si riconosce cioè che è necessaria una programmazione, per una programmazione dell'Università, come in generale della scuola, analoga a quella che si ha nell'industria, e che quindi vada finalizzata ad un particolare profitto, ad una particolare concezione della sua redditività.
In terzo luogo, la linea, più popolare, forse, nel senso in cui la intendono molte forze cattoliche che sono presenti nella maggioranza di Governo oggi, di tenere aperto il discorso sul problema della riforma dicendo però: l'Università e la scuola in generale non sono più le uniche sedi del processo formativo, ce ne sono molte altre. Se è vero, com'è vero che è necessario realizzare il diritto allo studio, l'autonomia di gestione della scuola; se è vero, com'è vero, che bisogna aumentare la sperimentazione, la gestione sociale, la democraticità, questo non è possibile in queste istituzioni. Bisogna tener conto che c'è la scuola ma che possono esserci molte altre istituzioni, e che quindi non è solo lo Stato, inteso qui come fatto pubblico comprendente oltre allo Stato le Regioni e i Comuni, a gestire la scuola. Si apre così la strada alla pericolosa tendenza ad eliminare il valore legale del titolo di studio andando ad una pluralità di iniziative che sono poi, in questa situazione del nostro Paese, in questo rapporto di forze che c'è tra classi dominanti e movimento democratico, essenzialmente le iniziative dei grandi monopoli dei grandi gruppi, come verifichiamo già qui in Piemonte, anche se a livelli arretrati, ai livelli più deteriori, per quanto concerne l'istruzione professionale (in genere la formazione professionale a livelli superiori non viene neppure presa in considerazione).
Noi rifiutiamo queste ipotesi, e affermiamo che, se da un lato non vi è dubbio che il processo della scuola, in particolare dell'Università, non può essere lasciato a fattori spontanei ma esige una programmazione, una visione chiara dei fini, è su questa visione dei fini che si apre il dibattito, in un quadro di pluralismo, di confronto nel nostro Paese politico, culturale e democratico. E quindi poniamo anche l'esigenza che una programmazione non deve essere dall'inizio finalizzata ai ruoli subalterni che ha concesso fino ad oggi a tutto l'arco della scuola, in particolare finalizzando l'Università negli ultimi anni a questi ruoli.
Il compagno Minucci, nel suo intervento di carattere generale effettuato nel corso del primo dibattito svoltosi qui sul piano, quando ha affrontato la questione dell'Università, ha sottolineato che è necessario compenetrare al massimo il ruolo dell'Università nella programmazione regionale, chiedersi quale funzione ha l'Università nella programmazione e quale sbocco essa possa avere come crescita all'interno delle scelte programmatiche, e quindi di andare ad una programmazione che sia già essa stessa un elemento di trasformazione in funzione di un'ipotesi di sviluppo della società, non soltanto in funzione dell'ipotesi di sviluppo di questo settore. E qui si pone la questione dei rapporti fra Università e Regione che non possono essere solo in generale rivendicati, come facevamo un anno e mezzo o due fa, quando non avevamo i decreti delegati, quando non eravamo nel merito anche di andare a toccare con mano tutte queste questioni dando alla Regione un ruolo di interlocutore politico soltanto verso l'Università. Vengono al nodo del pettine tutte le questioni che avevamo posto in precedenza con i nostri documenti, e quindi i problemi specifici che erano questi: la Regione non può essere esclusa, né sul piano della riforma né sul piano della programmazione, dal programmare il diritto allo studio globalmente anche per l'Università; non può essere esclusa dalla programmazione universitaria in senso stretto, e quindi da un'organica localizzazione delle nuove Università, per le evidenti connessioni che tutto ciò ha con i progetti generali di sviluppo del territorio; né pu essere esclusa dal problema della formazione professionale a livelli superiori, e qui acquista significato la richiesta che avevamo fatto già nel decreto delegato di assumere anche la formazione degli insegnanti, e il ruolo inoltre della ricerca scientifica e il rapporto che questa ha con lo sviluppo economico.
In una prima panoramica sul documento Ires e sul piano di sviluppo avevamo indicato già alcune scelte prioritarie: i problemi del potenziamento della piccola e media impresa, le questioni dell'agricoltura le questione delle riforme sociali, la casa, la sanità, la scuola stessa (e qui balza evidente il ruolo che l'Università deve avere in tutte queste questioni), la ricerca in funzione della piccola e media impresa, la ricerca applicata, il ruolo dell'Università e di altre forme di preparazione a livelli superiori con l'agricoltura, ma in particolare con le riforme sociali. Farò un esempio per tutti: pensiamo solo all'Università come formatrice in un processo nuovo, ricondotto al suo interno di rapporto corretto fra didattica e ricerca, del personale insegnante e della scuola.
Se, come andiamo ipotizzando, c'è un rapporto concreto che si stabilisce oggi dall'asilo-nido alla scuola materna a quella dell'obbligo di formazione degli insegnanti a livello universitario, ecco che diventa positiva tutta una serie di esperienze, di sperimentazioni portate avanti nelle Università, anche all'interno di quelle facoltà che sono state spesso le più bersagliate, come le più arretrate, che oggi però si presentano come quelle maggiormente suscettibili di uno sviluppo (parlo della stessa Facoltà di Magistero, ugualmente si potrebbe dire per il complesso della Facoltà di Scienze eccetera).
In questo senso, in quest'ottica, noi dobbiamo confrontarci con i problemi concreti. E oggi sono più gravi, lo dicevo già prima di come li abbiamo lasciati l'anno scorso, quando abbiamo approvato quella mozione: da parte della Giunta vi è stata inadempienza totale, non essendosi dato alcun seguito all'azione proposta dal Consiglio.
Anche sul fabbisogno quantitativo, ampiamente dimostrato dai dati qui riportati dall'Assessore, che ormai sono patrimonio comune, e di fronte all'impossibilità di continuare su questa strada per l'Università di Torino, come si è risposto in concreto? Si auspica che succedano queste e quelle e quelle altre cose, che si facciano queste, quelle e quelle altre scelte. Ma in concreto, intanto, bisogna cercare, con un giudizio non solo politico ma preciso, di vedere come si interviene per impedire che vada avanti un certo tipo di sviluppo e di decentramento, di cui abbiamo esempi a Vercelli e Novara. Si dice: è per favorire gli studenti, per cercar di alleggerire la pressione che pesa gravemente sull'Università di Torino...
Ma che senso ha che si iscrivano alla Facoltà di Medicina a Novara cento poniamo, in un domani, duecento studenti, in rapporto ai 42.800 che premono sull'Università e sul Politecnico di Torino? E' abbastanza ridicolo vedere l'impostazione in questo senso sapendo che i giovani che frequentano già dallo scorso anno l'Università a Vercelli hanno tutti i problemi di diritto allo studio che hanno in grande quelli che frequentano l'Università di Torino, che si ripercuotono in piccolo, perché non c'è una programmazione neanche di tutta questa parte che è indispensabile perché l'Università funzioni ed abbia un suo ruolo. E' ovvio che noi non possiamo condividere un giudizio positivo, o una rinuncia ad affrontare queste questioni andando a discuterne con quelle stesse Amministrazioni, dando un taglio a questo tipo di iniziativa.
E' poi da valutare anche la scelta qualitativa: perché creare facoltà di Medicina e Politecnico? Forse perché sono due facoltà - in particolare Medicina, più arretrata - che si prestano particolarmente ad un decentramento, e nelle quali sono più forti certe spinte. Spinte che non sono tutte insane: si tratta spesso di aspirazioni di elementi che non hanno un inquadramento, una collocazione precisa all'interno dell'Università, che fanno l'assistente senza averne il ruolo, a titolo volontario, o in altre forme, che non vengono pagati; c'è gente che ha lo statuto del ricercatore, del borsista, che deve attendere magari sei-sette mesi prima di ricevere i compensi, pur avendo una famiglia da mantenere. Ma a queste spinte non si può rispondere dicendo agli aspiranti: continua a strisciare per questi corridoi, e una volta o l'altra ti premieremo; non essendo disponibile una docenza, ti sistemeremo a Novara, e a quarantacinque anni avrai finalmente un ruolo, dopo tanta attesa riuscirai ad essere qualcuno, a farti valere. Questa non è l'ipotesi culturale e neanche di sviluppo dell'occupazione che deve essere oggi alla base del problema dell'Università, della sua crescita e della sua qualificazione. Il Politecnico, poi, si presta perché è anche abbastanza incontrollabile da parte di tutto il resto dell'Università; è un'entità a se stante, alquanto in crisi per molti aspetti, che cerca pure di portare avanti il tipo di discorso che si è fatto per Medicina.
Se la scelta fosse stata orientata anche verso altri tipi di facoltà che si collocassero già in modo dipartimentale, sarebbe emerso che si voleva già fare un tipo d'azione che, pur essendo intermedia, si collocasse nel processo di riforma e portasse a livelli più avanzati tutta la proposta di due nuove Università in Piemonte. Ma questo non avviene, si opera un decentramento ridicolo, non di facoltà ma semplicemente di corsi, dando motivo anche a certi sospetti, tra l'altro più che fondati: a Novara ci saranno prossimamente le elezioni, e da parte della D.C. si è voluto aggiungere questo fiorellino, questo abbellimento che mancava al proprio programma. Ma, colleghi Consiglieri, queste sono questioni estremamente gravi: non si tratta di concedere un piccolo incentivo o qualche piccolo favore a questo o quell'amico in questa o quella Amministrazione Provinciale, ma di decidere su fatti programmatori determinanti, che condizioneranno anche tutto il piano di sviluppo, se vogliamo finalizzarlo a quelle grandi prospettive, su cui non chiediamo che tutti siano d'accordo con noi ma che purtuttavia vengono avanti dal movimento delle lotte, da un ampio consenso che c'è oggi sulla problematica delle riforme.
Cosa proponiamo noi, per tagliar corto? Noi proponiamo che l'ipotesi formulata dal P.C.I. tramite l'intervento di Minucci vada a livello più avanzato: le due Università, Piemonte Nord-Est e Piemonte Sud-Est, devono essere due punti precisi da verificare all'interno della consultazione, e si devono investire di questa scelta tutti gli enti locali, tutte le forze sociali, t me scelta prioritaria già all'interno del piano. Evidentemente se arriviamo alla fine del piano con queste ipotesi verificate, ci sono anche i mezzi, oggi, per creare queste due Università.
Perché è vero che si è approvata la Codignola 2, è vero che si è detto: non si faranno più insediamenti universitari fino a che non vi sarà la riforma. Ma la riforma è stata affossata, e quindi ci sono validi motivi per proseguire in tale prassi.
Il Consiglio Regionale si faccia promotore, alla fine di questo dibattito - un dibattito chiaro, in cui tutto questo sia portato a verifica e ottenga un ampio consenso popolare, e sia radicato nelle scelte del piano di due progetti di legge regionale al Parlamento per l'istituzione di due Università. Questa è l'unica strada che si possa seguire: facendo questo non si sposterebbe a livello più vasto, regionale, un campanilismo che esiste a livello delle varie Province, ma si riprenderebbe tutto il dibattito sulla riforma universitaria andando ad una concreta proposta, si reinvestirebbero il Parlamento e le forze dominanti all'interno del Parlamento che non vogliono la riforma di questo problema della necessità di misurarsi con i problemi e con le scelte che sono uscite dalla programmazione, così come dovranno misurarsi con tutte le altre scelte del piano di sviluppo a livello nazionale che verremo facendo e deliberando, e non soltanto con quella universitaria. Questo pare a noi un modo corretto e in questo senso dovremo agire ed affrontare il dibattito sul piano.
Ma non ci possiamo accontentare di ciò: bisogna che in rapporto agli esperimenti in corso a Novara e Vercelli ci sia un chiaro pronunciamento negativo. Non ci si deve ridurre ad una guerra fra Novara e Vercelli per avere la Facoltà di Medicina. Il problema è, invece, quello di avere un'espansione sul territorio, su tutta la zona di queste due Province, di insediamenti universitari che realmente rispondano alla strategia di sviluppo del Piemonte, alle esigenze dei giovani, senza che si giochi sulle necessità degli studenti per fare scelte che non convengono neppure ad essi e che aprono la strada a soluzioni di università di serie B e via discorrendo. Chiedo pertanto che il Consiglio Regionale si pronunci, oltre che sulle dichiarazioni dell'Assessore, in modo preciso sull'esigenza che non si lascino progredire esperimenti di questo tipo, di un falso illusorio decentramento, che degrada persino il ruolo della Regione. (Ho letto su un giornale che l'altro giorno al Consiglio Provinciale di Novara si è affermato che nel Consorzio dovrebbe entrare anche la Regione: questo sarebbe veramente un degradare la Regione dal suo ruolo programmatorio di interlocutore non solo politico ma anche di interlocutore degli altri enti locali, capace di rappresentare la loro volontà in sede di programmazione.) Queste sono scelte estremamente gravi, che, se lasciate procedere finirebbero con il compromettere completamente la possibilità di due nuove Università anziché favorirla, e soprattutto vengono a sconfessare in pieno quanto l'Assessore ci ha detto poco fa.



PRESIDENTE

Ha chiesto di parlare il Consigliere Bianchi. Ne ha facoltà.



BIANCHI Adriano

Il mio intervento, signor Presidente, colleghi, vuol essere un modesto contributo personale alla discussione più che non un intervento conclusivo a nome del mio Gruppo, pur se confido e penso che non sarò per esso radicalmente sconfessato da coloro che ne fanno parte.
Il Consiglio Regionale torna a discutere sul problema dell'Università che riveste un interesse generale e fondamentale per ogni cittadino e per la società nel suo insieme. Università: momento rivelatore del grado di sviluppo scientifico e culturale di una Comunità, luogo di formazione personale ed umana innanzitutto, ma pure luogo in cui si consegue accentuo subito questo aspetto - una qualificazione per corrispondere ad esigenze e a bisogni della società che ne sopporta i costi.
In questa nostra sede non possono essere ignorati i termini del dibattito culturale in corso sul significato, sui compiti, sulle prospettive ed il destino dell'Università e dell'insegnamento in generale.
Non ignoriamo come il concetto stesso di scuola, di apprendimento, di formazione sia messo in crisi radicale, sia messo in discussione. Vi è a questo riguardo un rapporto dell'UNESCO che dice cose addirittura sconvolgenti.
Se vogliamo però essere concreti, se vogliamo resistere alla tentazione ricorrente di evadere nel futuribile e nel sogno, svalutando la possibilità e l'utilità di un impegno hic et nunc - qui e ora, se si vuol meglio quasi fossimo tutti spettatori e non anche attori, dobbiamo vedere subito i punti, i momenti di concreto impegno della Regione secondo le sue competenze, dobbiamo vedere subito quali ruoli, quali competenze spettano alla Regione, in quali direzioni essa può muoversi, e come può contribuire alla soluzione della questione universitaria, secondo i termini e le dimensioni che tale questione assume in Piemonte.
Vi è, in primo luogo, la funzione d'interpretazione, coordinamento rappresentanza ed iniziativa politica generale che la Regione esercita al di la delle sue strette competenze istituzionali ogni volta che l'interesse generale della Comunità regionale viene impegnato. E le sorti dell'Università sono cosa strettamente collegate allo sviluppo umano culturale, civile ed economico della Regione da non consentire, anche se si volessero dimenticare gli aspetti quantitativi che investono la vita e le scelte di decine di migliaia di giovani, un disinteresse od una dichiarazione di incompetenza.
Quando parliamo di equilibramento regionale in tutti i suoi fattori, di estensione degli effetti urbani "di tipo benefico" (per non raccogliere subito un'obiezione che venne in occasione di un'altra discussione a questo riguardo) a tutta la Regione, di decongestione della metropoli, di rottura dell'isolamento e di sprovincializzazione culturale della periferia, di costruzione, in una parola, di una regione-città, - non una città-regione regione città tutta informata ad un livello di sviluppo culturale ed umano di tipo urbano elevato - non possiamo non aver presente che l'Università è uno dei nodi attraverso il cui scioglimento passano le soluzioni.
Vediamo come possiamo, in questa situazione e in questo momento realisticamente concorrervi.
1) La Regione è chiamata a formulare le sue osservazioni e proposte in ordine al programma economico nazionale.
Sul documento che per ultimo ci è stato distribuito, nella parte generale, vediamo richiamate le conseguenze e le innovazioni presumibilmente derivabili in sede di un'attesa riforma universitaria mentre prudentemente si riconosce che, in ogni caso, occorre fornire risposte tempestive e concrete a questioni che l'eventuale riforma può non affrontare e che comunque si sviluppano da sé nel protrarsi di una fase di incertezza, o, se benevolmente si vuole, di ripensamento.
Un primo indirizzo riguarda la definizione in forma legislativa dei tipi di laurea e di diploma anche in funzione dei fabbisogni professionali.
Un secondo indirizzo riguarda la legge di approvazione del piano pluriennale per le Università.
Un terzo indirizzo riguarda lo sviluppo delle attrezzature edilizie per la realizzazione delle quali viene formulata l'esigenza di un "progetto obiettivo" sull'edilizia scolastica ed universitaria, riportato nella parte speciale del programma economico nazionale.
Elementi significativi di questo progetto, sui quali ritegno dovrà essere portata una particolare attenzione - e qui raccolgo l'indicazione nel senso più costruttivo, del Presidente in ordine al carattere propedeutico di questa discussione, ma non in ordine ad un carattere elusivo che essa potrebbe avere - sono costituiti: a) dalla previsione di procedure che, a differenza da quanto indicato per l'edilizia scolastica in genere, non fanno cenno a competenze né a deleghe alla Regione, sia per la realizzazione dell'intervento ordinario sia per la realizzazione dell'intervento straordinario b) dalla previsione di investimenti reali per l'edilizia universitaria nel quinquennio relativamente esigui, tanto nell'ipotesi di spesa ad istituzioni immutate quanto nell'ipotesi programmatica, cioè di realizzazioni di iniziative secondo le indicazioni del programma.
La Regione è poi chiamata ad esprimere, oltre che su questa impostazione del programma economico nazionale, i suoi giudizi e le sue valutazioni sul Rapporto preliminare dell'Ires in preparazione del programma di sviluppo regionale.
Questo documento analizza in termini sintetici il problema dell'adeguamento dell'impianto di servizio ed il fabbisogno di infrastrutture universitarie al 1975 formulando una serie di ipotesi proposta che investano in qualche modo l'intera Regione e che rivelano però, là dove si analizzano le compatibilità secondo gli investimenti previsti nel periodo che va al 1975, l'esigenza di drastici ridimensionamenti, che assumono l'evidenza di vere e proprie strozzature rispetto ai fabbisogni, che l'intervento e l'iniziativa regionale dovrà applicarsi ad allentare per trasformare prospettive di soffocamento e di paralisi in prospettive fisiologiche, anche se improntate ad austerità e rigore nell'utilizzazione delle risorse.
Per quanto attiene all'enunciazione del Programma economico nazionale deve essere subito dichiarato che la Regione rivendica un ruolo determinante nella realizzazione delle strutture universitarie, e ciò non per mortificare il ruolo che la stessa Università, nella sua riconosciuta autonomia, può svolgere, e che dovrebbe essere solo integrato dall'intervento della Regione, né per strappare competenze allo Stato, ma perché le esigenze affermate per l'edilizia scolastica in genere, che postulano l'intervento della Regione per una funzione unificante, di coordinamento, di semplificazione e di accelerazione delle procedure esistenti, vale anche, ed ancor più, direi, per l'edilizia universitaria b) dalla definizione dei tipi di laurea e di diploma anche in funzione dei nuovi bisogni professionali che indica la Regione e segnatamente una Regione come la nostra - quale dimensione ottimale in cui svolgere un'accurata indagine sia in funzione delle linee naturali di sviluppo sia e soprattutto in funzione di quelle linee di sviluppo che si vogliono determinare secondo scelte politiche e sociali aventi per sbocco una società equilibrata ed autenticamente democratica e civile.
Questa ricerca e le determinazioni conseguenti sono compiti ai quali la Regione Piemonte non può sicuramente abdicare, e propongo che siano fra le conclusioni cui dovrà giungere questo dibattito. Penso anzi - ed anticipo qui ciò che potrebbe essere meglio collocato dopo l'esame delle proposte Ires - che la Regione debba far procedere ad un'immediata indagine che aggiorni e formuli le previsioni sulla domanda universitaria così come si verrà proponendo, sia nelle sue espressioni territoriali (luoghi d'origine della domanda), sia in quelle che riguardano le scelte per settori del sapere e delle applicazioni professionali. Tale indagine dovrebbe approfondire la conoscenza del sempre più imponente fenomeno dello studente lavoratore nei suoi aspetti positivi, che sono molti e certamente prevalenti, ma anche nei suoi aspetti negativi, derivanti dalle distorsioni del sistema e dalla ricerca di patenti per promozioni che nulla hanno a che vedere con l'autentica acquisizione di nuove conoscenze e di nuove capacità c) dell'intervento, ancora, integrativo della Regione per la realizzazione delle strutture universitarie in genere ed edilizie in particolare, dalla mobilitazione delle risorse messe a disposizione da enti locali, da istituti finanziari, da categorie ed enti economici, ed il loro efficiente impiego che trova quasi certamente nella Finanziaria regionale lo strumento più adatto per un azione tempestiva ed efficace. L'impegno gia assunto di approvare in tempi brevi la legge istituti va della Finanziaria e l'approvazione del bilancio di previsione 1973 costituiscono una costruttiva occasione ed una prima risposta che ci fa passare dalla fase della sensibilizzazione a quella dell'azione concreta.
A questo punto, presa che fosse la decisione di addivenire ad una rapida indagine di aggiornamento su "natura e dimensioni" - aggiornate perché in alcuni anni, dopo l'ultimo studio compito anche dall'Ires, tutto è stato modificato, e quasi stravolto - della futura domanda universitaria in Piemonte, capace di offrire elementi più decisivi per le scelte alternative che ora vengono proposte e discusse; avanzata ancora la richiesta allo Stato di considerare, nei termini in cui è stato detto poc'anzi, la Regione come protagonista anche della fase di realizzazione delle infrastrutture universitarie, e ciò senza alcuna mortificazione, sia ripetuto, ma come supporto, della stessa autonomia universitaria prospettato l'intervento integratore e di mobilitazione di risorse finanziarie aggiuntive da parte della Regione a mezzo della costituenda Finanziaria regionale fatto questo, occorre pur esprimere alcuni giudizi, partendo da ciò che non si vuole che l'Università sia o possa diventare: 1) non un recinto od un ghetto della cultura, in cui si esasperi lo stato di frustrazione di giovani che, sempre più precocemente sviluppati dal punto di vista intellettuale e fisico, soffrono per un tardivo inserimento nella vita creativa, produttiva e nell'assunzione di responsabilità reali di azione e di decisione 2) non la suddivisione in centri universitari di serie A e di serie B aggravanti gli squilibri tra il centro e la periferia e tra i ceti e le categorie sociali, con accentuazione della tendenza rovinosa alla mitizzazione del titolo, come passaporto per l'automatica promozione sociale, che deve invece sostanzialmente dipendere dalla reale acquisizione di una maturazione culturale e critica e da un'acquisizione di una competenza e capacità che valorizzi ogni talento e si traduca in benefici effetti sociali 3) non larve di scuole, in cui le cattedre e l'insegnamento rischiano di divenire una semplice copertura per delle segreterie efficienti, questo sì, nello scrivere e nel rilasciare certificati o diplomi di laurea, ma centri vitali di studi, di ricerca di formazione.
Ognuno sa come un centro universitario efficiente, secondo le linee fondamentali dello sviluppo storico italiano ed europeo in particolare - e le recenti clamorose crisi di cosiddetti "campus" gia prestigiosi ci confermano nella convinzione - ha bisogno di trarre stimolo, nutrimento humus, da un contesto sociale ed umano in cui il processo culturale, nei suoi stimoli e nelle sue strutture, sia validamente sostenuto La più recente liberalizzazione formale dei "curricula", l'aspirazione a scelte libere ed ampie costituiscono un'esigenza insopprimibile e non reversibile, che può trovare diverse ed adeguate risposte tecniche, sulla cui scelta e bontà possiamo per un momento sospendere il giudizio. E' certo però che questa fondamentale esigenza di liberalizzazione non si soddisfa affatto con la disseminazione di corsi e di iniziative non organicamente collegate fra di loro e con una realtà sociale territoriale ed urbana.
L'Assessore Visone ci ha ricordato alcuni dati, che io non sto a ripetere, dai quali emerge in modo clamoroso che l'Università torinese scoppia, sicché tutti i fattori positivi dell'inserimento in un tessuto urbano capace di offrire le maggiori opportunità culturali divengono meramente virtuali ed illusori, almeno per la maggior parte delle facoltà specie tecniche e scientifiche.
Del resto, l'Università stessa è uno dei fattori più efficace per la creazione e lo sviluppo di quella serie di elementi organizzativi, sociali umani e culturali che elevano un territorio, una zona, una città, da uno stato di sopore provinciale per inserirli nel flusso più vivo del progresso in tutte le sue manifestazioni.
Ed allora, se vogliamo, come fermamente vogliamo, estendere progressivamente a tutta la Regione gli effetti di un armonico sviluppo umano e sociale, dobbiamo operare affinché quanto meno una zona prescelta per un insediamento universitario, e dotata di quei complessi servizi effetti ed opportunità civili ed urbane che assicurano l'ambiente più propizio per la vita e lo sviluppo di un centro universitario, tanto più la nuova iniziativa deve essere organica, completa, autonoma, autopropulsiva sì da vincere ogni inerzia iniziale ed ogni rischio di involuzione.
Sappiamo che l'asse Novara-Vercelli, come quello Alessandria-Asti costituiscono direttrici verso le quali si possono progressivamente costituire nuove articolate sedi universitarie, che devono però essere complete in senso non assoluto, ma relativo.
Le realtà che si muovono da sé hanno già creato delle teste di ponte verso la direttrice Novara-Vercelli. Ora è giunto il tempo di inquadrare queste iniziative in un programma di più vasto e sicuro respiro, che impedisca il consolidarsi di eventuali vizi d'origine, quali quelli nascenti dal carattere di succursali, o di sedi di mero sfollamento.
Una seconda Università, articolata fra Novara e Vercelli? Ebbene, sia una vera e completa Università. La necessaria gradualità della realizzazione sia legata ad un programma preciso, inteso al duplice fine di risolvere il problema della domanda universitaria e dell'armonico sviluppo regionale e non lasciata al caso o alle spinte intese a creare o ad occupare cattedre.
In ordine alla terza direttrice, quella Alessandria-Asti, è evidente che i tempi si allungano, ma anche qui non saranno mai sufficientemente lunghi per preparare le cose in modo adeguato e non farci sorprendere da iniziative frammentarie.
E così come pensiamo che l'effetto, chiamiamolo così, universitario debba diffondersi per quanto possibile su tutta l'area della Regione-città così pensiamo anche che istituti post-universitari particolarmente specializzati possano trovare idonea collocazione in città che hanno una loro storia, una loro fisionomia, una loro organicità, anche se non hanno il peso della quantità demografica.
Tornando per un momento all'Università di Torino, dobbiamo riconoscere che qui debbono essere spiegati gli sforzi maggiori, intanto, a breve termine. Alcuni dicono: un'Università centrale, che serve anche a valorizzare e utilizzare il complesso di strutture che il centro storico offre; un secondo centro universitario nell'area metropolitana, quasi a riproporre soluzioni, come, ad esempio, quella di Nanterre o di altre grandi metropoli. Io non saprei pronunciarmi su queste proposte di soluzione. Penso che il problema non sia tanto di sdoppiamento dell'Università come tale quanto di moltiplicazione delle strutture, delle cattedre dei dipartimenti. Non è nelle mie possibilità scendere in particolari, ma è certo che, ordinando tutto quello che è effetto universitario nell'ambito della città, si potrà ottenere rapidamente utilizzando tempestivamente e con rigore i mezzi limitati e scarsi di cui si dispone, di coprire dal 10 al 20 per cento, nei cinque anni che ci separano dal '75, del fabbisogno identificato dalle indagini che sono state condotte.
Noi contiamo che, applicandosi la Regione ad operare nelle direzioni che sono state considerate, senza evadere in tentativi di affrontare la sede - per il che non abbiamo competenza specifica al di fuori di quella che ognuno di noi ha di discutere di ogni cosa -, potremo dare un contributo concreto per far si che l'Università si inserisca in modo pluralistico in una società pluralista, riproponendone i problemi ed offrendo un contributo per la loro concreta risoluzione.



PRESIDENTE

Ha chiesto di parlare d Consigliere Simonelli in vece del Consigliere Nesi, che, dovendo assentarsi, ha rinunciato a svolgere il suo intervento.
Gli darei senz'altro la parola.



SIMONELLI Claudio

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, credo che giustamente i colleghi che sono intervenuti prima di me abbiano preso le mosse, in questo dibattito sulla situazione dell'Università in Piemonte, dalla mozione che il Consiglio Regionale ha approvato il 2 dicembre dello scorso anno. Una mozione che era impegnativa nella sua enunciazione per la Giunta ed indicava una serie di iniziative che avrebbero dovuto essere prese proprio per riuscire ad evitare quelle scelte particolari e dispersive cui purtroppo in questa materia siamo avvezzi e ad addivenire invece alla formulazione di proposte organiche di interventi.
Ma il tempo trascorso dal dicembre '71 ad oggi ci ha consegnato una situazione ancor più pregiudicata sul piano dell'organicità delle soluzioni. Dobbiamo dunque ricordare l'impegno che allora il Consiglio solennemente prese e ribadirlo in questo dibattito. Anche perché il momento in cui torniamo a parlare dell'Università è un momento caratterizzato dall'approssimarsi di alcune scadenze l'imminenza dell'apertura dell'anno accademico, l'imminenza della nomina del Magnifico Rettore dell'Università di Torino e il pullulare di iniziative volte a creare non altre università ma bienni staccati, soluzioni provvisorie, di carattere locale, che, ove si generalizzassero, renderebbero obiettivamente difficile una programmazione seria dell'istruzione universitaria nella nostra Regione.
Io credo che sarebbe opportuno in questo nostro dibattito non dimenticare un documento che non è giuridicamente legge dello Stato ma che ha una grossa importanza politica, anche perché, bon gré mal gré, quando si tornerà a discutere di riforma è ad esso che occorrerà fare riferimento: il disegno di legge sulla riforma dell'insegnamento universitario approvato dal Senato nella seduta, del 28 maggio '71 e poi modificato dall'VIII Commissione della Camera (il cosiddetto "progetto Codignola"). Il disegno di legge stesso e la relazione che su di esso fece, a nome della maggioranza di centrosinistra, il relatore Elkan contengono una serie di indicazioni di grosso interesse in relazione proprio al rapporto fra Regioni e Università. Credo che sia il testo, nella sua formulazione originaria, sia soprattutto gli emendamenti che poi la Commissione della Camera dei Deputati vi apportò, consentano di mettere a fuoco il ruolo che la Regione ha in questa materia, che non è, evidentemente, di per se materia compresa nelle competenze regionali secondo il disposto costituzionale, ma che si interseca con svariate materie di competenza regionale; tanto è vero che il disegno di legge di riforma, attribuiva un ruolo notevole alla Regione. Basti ricordare l'art. 1, che recita: "L'Università è il centro di educazione permanente per l'aggiornamento culturale e professionale dei cittadini. La programmazione universitaria d'intesa con le Regioni prevederà le misure necessarie all'adempimento di tale compito"; e poi le altre norme, che prevedono che le nuove Università siano istituite "sentite le Regioni ed i Comuni interessati", e le norme degli articoli 37, 38, 40 e 42 che riguardano le competenze della Regione in ordine ai diritto allo studio e al le nomine nelle opere universitarie e nei consigli di ateneo, e poi ancora l'art. 51, che attribuisce alla Regione il compite di coordinare e approvare i piani di ateneo al fine di formulare il programma universitario regionale.
Tatto questo io credo non sia caduco, e se certi aspetti della riforma possono essere messi in discussione - per noi a torto - da alcune forze politiche, a mio avviso questo aspetto del problema non è da revocare in dubbio da parte di nessuno. Perciò noi non stiamo facendo qui dell'accademia inutile ma stiamo discutendo di cose di cui ci troveremo ad essere investiti, come oggetto di competenza funzionale della Regione, tra non molto.
Dobbiamo allora dire francamente che le informazioni di cui disponiamo su questa materia, i dati su cui articoliamo i nostri dibattiti, sono estremamente lacunosi e carenti. Direi che l'unico materiale che a livello regionale possediamo è costituito dallo studio dell'Ires, fatto ancora per il Comitato regionale di programmazione economica, una prima volta nel '67 una seconda nel '68; lo studio per gli insediamenti universitari in Piemonte, che è in larga parte superato dalla realtà nuova che è venuta avanti, e a mio giudizio non sufficientemente ricco di dati. Soprattutto carente di indicazioni in ordine alla localizzazione delle nuove università piemontesi appare la parte che viene dedicata all'Università nel rapporto preliminare dell'Ires per il piano di sviluppo di cui abbiamo recentemente preso visione.
Mi sembra, in particolare, che il discorso che pure si faceva, che anzi era l'ipotesi fondamentale da cui era partito lo studio dell'Ires nel '67 e nel '68, quello cioè di verificare le possibili altre localizzazioni universitarie nel Piemonte, sia stato completamente abbandonato strada facendo ed oggi ci si limiti ad un discorso di adeguamento di infrastrutture e di indicazione di investimenti globali, senza più affrontare il vero nodo centrale, il vero problema da risolvere, che è quello delle altre sedi universitarie nella Regione Piemonte.
Anche perché il discorso sull'Ateneo Torino, che aveva 36.000 studenti escluso il Politecnico, nell'anno '71-'72, che ne avrà 40.000 quest'anno ed è destinato ad una paralisi crescente, ripropone, anche sul terreno universitario, una tematica non diversa da quella che abbiamo discusso non molto tempo fa a proposito dell'area metropolitana. Ci troviamo a fare i conti con una struttura di istruzione superiore, che è una delle caratteristiche della civiltà urbana, della "città", dell'area metropolitana nel suo complesso, che tende continuamente ad espandersi sotto l'urto dell'aumento di popolazione, e dell'aumento di studenti che ne consegue. Il problema non si pone pertanto solo in termini di mero decentramento di alcuni corsi, di tronconi facoltà e neppure di creazione di succursali in altre aree del Piemonte, perché in questo modo non soltanto faremmo delle università di serie B, ma lasceremmo che l'accentramento e la congestione dell'Ateneo di Torino, come dell'area metropolitana, permangano, ed anzi si accentuino.
Il problema deve porsi chiaramente come un problema di autolimitazione ad un ulteriore ed indiscriminato sviluppo dell'Ateneo torinese, deve porsi come problema di programmazione a livello regionale e quindi di diffusione a livello regionale delle strutture universitarie. Ormai, al punto in cui siamo arrivati, è indispensabile che le scelte da fare siano coerenti a questo disegno d'insieme, e quindi che anche le scelte parziali che vengono fatte e le iniziative che vengono assunte siano ricondotte a questo disegno, che da un lato abbia come punto di riferimento le linee generali della riforma universitaria e dall'altro le esigenze di programmazione della Regione Piemonte. Allora è chiaro che tornano, e tornano non come indicazione campanilistica ma come esigenza di fondo, quei discorsi, che abbiamo fatto tante volte al Comitato di programmazione e anche qui, sulla necessità di potenziare alcune aree di riequilibrio all'interno della nostra Regione, capaci di rappresentare in concreto alternative allo sviluppo indiscriminato dell'area metropolitana torinese. E ritornano il discorso Novara-Vercelli, il discorso Alessandria-Asti, in termini, questa volta, di attualità e di imminenza: e non solo perché a Novara e a Vercelli sono già stati insediati dei tronconi di università, o degli anni di corso perché, vivaddio, se bastasse istituire un anno di Medicina o di Magistero per avere le carte in regola al fine di richiedere un'intera Università allora davvero chi, come gli enti alessandrini, ha rinunciato a porsi sul terreno delle soluzioni campanilistiche, dovrebbe concludere di aver subito i danni e le beffe. Il problema non è quello di acquisire dei punti di vantaggio istituendo dei tronconi di facoltà, o dei singoli corsi: il problema è di collocare seriamente tutte le esigenze nel quadro della programmazione regionale. E allora, come abbiamo individuato, lungo la direttrice Novara-Vercelli e lungo la direttrice del basso Piemonte Alessandria-Asti due possibili soluzioni alternative di sistemi urbani che devono contrapporsi allo sviluppo indiscriminato dell'area metropolitana torinese, così dobbiamo indicare per queste due zone la realizzazione della seconda e della terza università del Piemonte. Discorso che l'Assessore Visone ha già fatto oggi, discorso che il Consigliere Minucci ha fatto, a mio avviso bene, collocandolo anche nel contesto del discorso del piano regionale, quando si discusse qui il rapporto preliminare dell'Ires per il piano regionale.
Ma non si tratta di problemi da porre in tempi diversi, come mi sembra abbia adombrato poco fa il collega Bianchi nel suo intervento: non è che si debba far subito l'università a Novara-Vercelli perché c'è già qualcosa, e rimandare invece a tempi lunghi per Alessandria-Asti perché non c'è ancora niente. Occorre investire globalmente il Consiglio, nel quadro della discussione sul piano di sviluppo, di questa problematica, che evidentemente non può prescindere dalla gradualità delle soluzioni, che l'impegno finanziario e la programmazione universitaria esigono, ma non deve contenere nel modo più assoluto alcuna forma di premio per i fatti compiuti, perché in caso contrario stravolgeremmo veramente la logica di questo discorso.
Soprattutto, vogliamo che questo discorso vada avanti in coerenza con la logica di piano, investa tutta la società regionale, non solo, cioè, il mondo della scuola in tutte le sue componenti, dagli studenti agli insegnanti al personale dell'Università, ma gli enti locali, i lavoratori gli utenti dell'Università e le popolazioni che vivono nelle diverse zone del Piemonte; sempre che riteniamo che questo sia un fatto di programmazione e non invece un problema da discutere nel chiuso dei Consigli d'Amministrazione dell'Università, fra i "baroni" che finora hanno deciso queste cose, oppure da affrontare con quell'altra soluzione veramente da "terzo mondo", quella del preside di facoltà che va peregrinando in cerca di enti locali disposti ad accollarsi le spese per ospitare in quattro stanze una sedicente università decentrata (soluzione che ha costituito uno degli aspetti deteriori, meno nobili del cosiddetto "decentramento universitario" che abbiamo conosciuto in questi anni).
Facciamone veramente un fatto di programmazione e anche di democrazia coinvolgiamo nelle scelte la società regionale nel suo complesso liquidiamo le situazioni di baronato, di accentramento, di egemonia, che sono legate anche a questo disegno di un preteso decentramento che lascia in realtà inalterati l'accentramento e il potere nell'Ateneo torinese. Se la popolazione universitaria del Piemonte arriverà, come gli studi e le previsioni ci dicono, nel 1980 ad oltre 60.000 studenti (il che significa tra l'altro, diecimila addetti all'Università) è chiaro che non possiamo organizzare il sistema universitario attorno ad un mostruoso corpo centrale che abbia solo qualche gracile ramificazione in periferia.
Anche perché - e questo gli studi dell'Ires l'hanno detto a sufficienza, ed è cosa che non e possibile contestare - queste università che sorgono come iniziative cosiddette spontanee, proprio perché sono costituite da una sola facoltà, o magari da un solo biennio, alterano le propensioni degli studenti, e quindi provocano una scelta di facoltà artificiosa, non corrispondente né alle vocazioni né alle esigenze, che evidentemente possono essere valutate solo su scala regionale. Perché è ovvio che chi ha l'Università di medicina in casa è più facile che si senta indotto a scegliere medicina piuttosto che una facoltà diversa la cui frequenza lo obbligherebbe a sobbarcarsi un viaggio di cento chilometri. Si determina quindi una distorsione anche nell'accesso alle diverse Facoltà universitarie, con fenomeni che, ove fossero moltiplicati e non corretti provocherebbero crisi anche a livello delle strutture socio-economiche delle singole città. Perché io non so cosa succederebbe a Novara e Vercelli quando la maggior parte degli studenti si avviasse a conseguire la laurea in medicina, quali conseguenze questo porterebbe alla struttura professionale di quella città. Ed altrettanto avverrebbe se in altre località - vista la tendenza in atto non vi sarebbe da stupirsi se si creassero università anche a Cortiglione, a Carmagnola, o chissà dove ancora - si sfornassero a getto continuo avvocati o commercialisti.
Dobbiamo puntare su complessi - in questo concordo con Bianchi - che pur seguendo una certa gradualità di realizzazione, siano programmati per essere vere università e non spezzoni, ognuno nato da una sua logica ristretta e quindi incapace di servire questo disegno di articolazione e di decentramento. Entro queste linee credo vada cercata la soluzione del problema universitario in Piemonte: nello spirito della riforma, che non può essere tradito, che vede le Università come istituti autonomi, secondo l'art. 1 del progetto, in quanto comunità di studio e di ricerca. Anche il modo diverso attraverso il quale dobbiamo articolare l'Università in Piemonte può essere un mezzo per arrivare a realizzare questa nuova Università autonoma: anche il metodo democratico, aperto alla partecipazione, attraverso il quale dobbiamo realizzare le nuove sedi universitarie del Piemonte, può essere utile ad aprire la strada alla riforma.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Zanone. Ne ha facoltà.



ZANONE Valerio

Signor Presidente, signori Consiglieri, limiterò il mio intervento al tema della situazione universitaria in Piemonte, senza allargare molto il discorso sui temi di politica generale dell'Università che sono stati toccati negli interventi di Revelli e di Simonelli. Incidentalmente, dovrei dire, per quanto riguarda l'intervento del collega Revelli, che non credo che l'attuale Governo si proponga di affossare il disegno della riforma universitaria, anzi, ho ragione di pensare che un nuovo testo sia allo studio e che esso possa anche essere accompagnato dall'indicazione di una serie di provvedimenti-stralcio passibili di attuazione immediata.



MINUCCI Adalberto

Questo è proprio il miglior modo di affossare.



ZANONE Valerio

Non è vero, perché sappiamo bene che se non si prendono alcuni provvedimenti-stralcio la riforma non metterà le gambe.



MINUCCI Adalberto

Mettere allo studio vuol dire affossare la riforma.



ZANONE Valerio

Io ho parlato dell'ipotesi della presentazione contestuale di uno schema di riforma universitaria dal quale sia possibile enucleare alcuni provvedimenti di particolare urgenza, che corrispondono a problemi attuali che non possono certo venire ulteriormente dilazionati. Mi pare sia una linea di soluzione abbastanza ragionevole per un problema che si trascina da decenni con i risultati che tutti sappiamo.
Anche per quanto riguarda l'accenno di Revelli all'abolizione del valore legale dei titoli, non credo che questa ipotesi si debba interpretare come una macchinazione dei ceti privilegiati, meglio, di quelli tanto privilegiati da non aver bisogno del passaporto di cui parlava il collega Bianchi, da poter fare a meno dell'emblema dottorale. Questo sarebbe stato veramente, forse, il provvedimento più efficace di liberalizzazione che si potesse assumere, e c'è da dolersi che la contestazione non sia arrivata ad investire anche i titoli dottorali.



RIVALTA Luigi

Qualche volta anche i liberali ammettono il valore della contestazione.



ZANONE Valerio

C'è un aspetto liberale della contestazione che è rimasto occulto solo per carenza di attività propagandistica nel divulgarlo.



MINUCCI Adalberto

Adesso è Scalfaro che porta avanti questo aspetto liberale della contestazione.



ZANONE Valerio

Lo spero.
Per venire agli aspetti che ci concernono più direttamente, far anch'io riferimento al dibattito che si svolse in questo stesso Consiglio mi pare agli inizi di dicembre dell'anno scorso ed alla mozione che allora fu approvata, credo, all'unanimità, o con una larghissima maggioranza di Consiglieri; mozione che impegnava la Giunta ad avanzare proposte organiche al Consiglio per la soluzione programmata del problema universitario.
Infatti, anche dagli interventi che mi hanno preceduto emerge chiaro che il contributo della Regione alla questione universitaria dev'essere rivolto principalmente alla programmazione degli insediamenti universitari.
Ora, devo dire - credo che la Giunta non me ne vorrà per questo - che i dati statistici, la documentazione che è stata fornita dall'Assessore, sono un apporto molto preliminare all'impostazione di tutto il problema, sono un apporto, come ha detto lo stesso Assessore, di carattere pressoch esclusivamente informativo, Vorrei comunque aggiungere qualche considerazione su questi dati informativi forniti dalla Giunta per quanto riguarda la popolazione studentesca dell'Università di Torino, che è attualmente l'unica della Regione, insieme al Politecnico.
La considerazione principale che si deve fare sulla popolazione studentesca riguarda ovviamente la velocità ed i modi, non tutti equilibrati, della sua espansione. Il rapporto dell'Ires su questo dà alcune indicazioni apprezzabili, del resto molto note, molto evidenti: l'abbattimento delle barriere di accesso alle Facoltà, una politica di sovvenzioni finanziarie agli studenti, che, sebbene non totalmente attuata e non del tutto efficiente, ha comunque avuto un suo peso, una maggior flessibilità dei piani di studio, e anche, se vogliamo dire tutto, una certa carenza di possibilità di impiego al termine dell'istruzione secondaria, hanno costituito una serie di concause per il numero degli studenti all'università di Torino si è più che triplicato negli ultimi dieci anni, fatto che in se stesso può essere giudicato solo positivamente ma che preoccupa per gli squilibri che li sono verificati nella vocazione a determinate Facoltà universitarie rispetto ad altre.
Il collega Simonelli poco fa si poneva il problema di una scelta preferenziale verso la Facoltà di Medicina: un confronto dei dati ci dice che non è questo il pericolo maggiore, bensì la tendenza eccessiva verso le Facoltà umanistiche, in una regione che, in fondo, è, nel bene e nel male la più industriale del Paese. In realtà, non si tratta della fioritura di un nuovo Rinascimento, ma soltanto della maggior facilità di queste Facoltà umanistiche in termini di frequenza, di prosecuzione e di conseguimento del titolo di laurea. In dieci anni, gli iscritti alla Facoltà di Magistero sono passati da 1400 a 7300, quelli di Lettere da 1100 a 4500 e quelli di Scienze politiche da nessuno a 4200. Anche le iscrizioni a Medicina hanno avuto un incremento, da 1600 a circa 5000; ma, mentre io riesco ad immaginare cosa faremo di un numero cospicuo di medici, anche con l'aiuto delle istituzioni mutualistiche ed ospedaliere, che sono in periodo di eccezionale ampliamento, penso vi sia da chiedersi quali prospettive professionali avrà quell'esercito di sociologi, di letterati e di pedagoghi che fra poco investirà la Regione piemontese. Nel complesso, per contro, lo sviluppo delle Facoltà scientifiche è stato meno tumultuoso, e per quanto riguarda poi la Facoltà di Medicina, di cui parlava il collega Besate bisogna dire una parola di preoccupazione sulla condizione in cui versano gli istituti di questa Facoltà a causa delle ben note vicende giudiziarie degli ultimi tempi. Queste, condotte dalla Magistratura con la massima rapidità che fosse consentita dalla complessità dell'inchiesta, sono tuttora in corso, e il danno, senza voler entrare nel merito della questione, che questa situazione provoca alle cliniche ed agli studi universitari torinesi è incalcolabile, per la tradizione della scuola medica torinese, per il livello qualitativo dei futuri medici e probabilmente, quindi, anche per la situazione dei futuri pazienti. Per cui, da questo punto di vista credo che la Regione debba sollecitare per quanto possibile la definizione entro tempi brevi della convenzione che deve risistemare questo rapporto.
In relazione a questi indici di aumento della popolazione studentesca il numero del personale dipendente dall'Università non è stato sufficientemente adeguato, per lo meno per alcuni comparti, il che ha dato luogo ad una serie di disfunzioni ed anche di agitazioni di cui abbiamo già avuto modo di occuparci proprio nel dibattito del dicembre del '71. Ci sono alcuni servizi, come quelli delle Segreterie, che sono a contatto quotidiano con gli studenti, in cui gli organici sono rimasti tali quali erano mentre il numero della popolazione studentesca da seguire è aumentato; e quindi oggi vi sono impiegati di segreteria che hanno mediamente un carico di studenti e di lavoro superiore del 50 per cento a quello che avevano qualche anno fa. E siccome l'organico, come dicevo, è rimasto più o meno quello di dieci, quindici o venti anni fa, una buona parte del personale non insegnante si trova danneggiato da questa situazione sia dal punto di vista retributivo, dello sviluppo della propria carriera, sia dal punto di vista normativo, di riconoscimento delle mansioni che effettivamente svolge, e che molte volte sono di carattere superiore a quello riconosciuto nell'organico.
Si tratta, come si vede, di problemi non grandissimi, non insolubili, e va dato atto, credo, ai vice-rettori che reggono l'Università in questo periodo certo non facile ed al Consiglio d'Amministrazione nel suo complesso, di aver fatto, per risolverli, tutto quello che la legge consentiva, e talora forse anche qualcosa di più, esponendosi a responsabilità di ordine personale per cercar di ridare un tasso apprezzabile di funzionalità all'Università di Torino.
Il fatto è che, nonostante i discorsi che si fanno sull'autonomia Universitaria, i margini della medesima sono molto ristretti. L'incidenza del potere gerarchico del Ministero su questo tipo di amministrazione è notevole, e quindi, di fronte ad un'espansione come quella che si è verificata in questi anni, l'Università di Torino si è trovata chiusa dentro un vestito ministeriale troppo stretto.
Queste sono soltanto alcune delle difficoltà che dovranno essere affrontate dal nuovo rettore la cui elezione è prevista fra pochi giorni.
Questa elezione, forse per la prima volta nella storia dell'Ateneo, è stata preceduta anche da una vigorosa campagna elettorale da parte di alcuni organi di stampa. Non faccio nomi, perché non credo che spetti a noi entrare nel merito di queste indiscrezioni. Quel che possiamo fare è forse esprimere un'opinione di carattere politico, nel senso che concerne la riforma legislativa, di cui tutti, in un modo o nell'altro, abbiamo parlato: che il metodo di elezione del rettore, tuttora ristretta ad alcune delle componenti universitarie, è un problema che si pone in sede di riforma legislativa e che credo l'Assessore abbia voluto richiamare quando ha parlato di democratizzazione degli organi di governo. Io esprimo l'avviso che, essendo l'Università un patrimonio comune, all'elezione debbano partecipare tutte le componenti che in essa convivono e che costituiscono l'Università nell'antica nobile accezione del termine.
Ecco perché, non essendo sospetto di entusiasmi pansindacalisti, anzi avendo avuto anche in passato qualche occasione di cortese dissidio con alcuni rappresentanti del sindacalismo dei dipendenti universitari, debbo e posso dire che mi sembrano meritevoli di un attento esame le proposte avanzate in questa circostanza dai sindacati del personale, che mi pare siano anche state accolte con favore dal Senato accademico, nel senso che è forse opportuno, in questa situazione, che il nuovo rettorato si inauguri con alcune indicazioni di carattere programmatico, in favore di una pubblicità ampia, salve le riserve di legge, circa la gestione amministrativa dell'Ateneo, e per la formazione di una consulta in cui i docenti, gli studenti, il personale trovino una sede di collaborazione costante.
Questo è tanto più opportuno in quanto nei prossimi anni l'Università di Torino, che negli anni scorsi, pur essendo sottoposta a questo ritmo rapidissimo di crescita, non è stata in grado, dal punto di vista funzionale, di spendere tutti i contributi stanziati dallo Stato, nei prossimi anni dovrà essere amministrata con iniziative di grande espansione delle infrastrutture, se vorrà adeguarsi ai fabbisogni che sono stati calcolati nelle proiezioni dell'Ires al 1980 e che ora sono stati aggiornati nel rapporto preliminare al piano regionale. Li ricordo brevissimamente. Per la sola area di Torino occorrerebbero al '75 16.000 nuovi posti di studio, circa 1000 posti in collegio, 6500 posti mensa, pari ad un investimento di circa 40 miliardi; e, al di fuori dell'area torinese resterebbe, secondo il rapporto dell'Ires, la necessità di altri 18.500 posti per studenti, 2000 e più posti in collegio, 4600 posti mensa, per un investimento di altri 47 miliardi.
E' del tutto impensabile, io credo, che questo complesso di fabbisogni che sono calcolati al 1975, possa essere soddisfatto entro quella data soprattutto per quanto riguarda le attrezzature universitarie che dovrebbero collocarsi fuori dalla conurbazione torinese e che richiedono non soltanto disponibilità finanziarie ma tempi di studio e di realizzazione necessariamente non brevi. C'è però un punto che può essere stabilito fin da ora con molta chiarezza, e sul quale mi sembra siano concordi i colleghi che fino a questo momento sono intervenuti nel dibattito: l'Università di Torino, che è la sola nella Regione - il che distingue il Piemonte dalla gran parte delle altre Regioni italiane, che hanno un numero talvolta anche cospicuo di atenei - ha raggiunto ormai dimensioni che non tollerano ulteriori espansioni quantitative, anzi meriterebbero, almeno per alcune Facoltà, un sensibile ridimensionamento.
Questa ristrutturazione, questo ridimensionamento non può essere conseguito attraverso smembramenti o modeste operazioni di decentramento periferico capaci di soddisfare rivendicazioni locali anche legittime ma non adatte ad una soluzione razionale del problema; la soluzione razione non può essere quella di disseminare sul territorio regionale singoli istituti o parti di Facoltà per accontentare parzialmente le istanze locali, ma soltanto quella di costituire, sulla base della struttura dipartimentale, una o più nuove università in Piemonte: non c'è ragione perché la nostra Regione sia monoproduttiva anche nella produzione dei laureati.
Il discorso richiede delle specificazioni. Io ho visto che l'Assessore ha prodotto dei dati statistici che penso siano oggetto di una stima approssimativa, perché l'Università fino a poco tempo addietro non disponeva neppure dei dati precisi sulla ripartizione territoriale della popolazione studentesca. Il piano regionale che il Consiglio si accinge ad elaborare dovrà quindi superare le formulazioni del rapporto Ires, che sono corrette ma del tutto generiche, e pervenire invece ad indicazioni di scelta precise, impegnative sulla possibilità di nuove autonomie universitarie nell'ambito della Regione piemontese.
Quanto all'Università di Torino, che rimarrà comunque l'istituzione centrale degli studi superiori nella Regione, il problema principale di cui, la Regione dovrebbe farsi carico è quello della programmazione delle sedi universitarie nell'ambito dell'area metropolitana; un tema, sia detto per inciso, che non mi risulta affatto essere stato affrontato da alcuno nel pur vasto dibattito sui problemi dell'area metropolitana che si è svolto nei giorni scorsi a Palazzo Madama (non ho seguito con molta assiduità i lavori di quel convegno, ma mi pare di non sbagliarmi).
Già collega Bianchi ricordava poco fa che il modello in cui si è creduto per un certo periodo di tempo, sebbene non fosse un modello di tradizione europea, quello, della città universitaria all'americana, oggi sembra screditato, per gli effetti sociologici negativi che comporta questa sorta di accampamenti culturali appartati dalla vita della comunità urbana.
Del resto, questo modello sarebbe utopistico nella nostra situazione, in cui esistono, anzi, sono in fase di ristrutturazione e di ulteriore espansione, grandi aggregati universitari dai quali non si può prescindere come quelli del centro storico e del Valentino. Però, l'esistenza e l'ulteriore potenziamento di questi grandi aggregati universitari non esclude, anzi, per altre facoltà, soprattutto scientifiche, richiede, la costituzione di nuovi complessi dipartimentali nell'area metropolitana quale quello che si vorrebbe costituire a Santona.
La pianificazione territoriale, che e un compito fondamentale della Regione, stabilirà se la dislocazione di Santena sia o meno la più opportuna per l'Università. Certo, se si confermasse (come emerge anche dalla relazione dell'Assessore) l'esigenza di trasferire fuori dal centro urbano, ma ancora all'interno dell'area metropolitana, un complesso rilevante di dipartimenti scientifici, a Santena o altrove, non potrà disconoscersi la necessità di evitare di creare una o più cattedrali in mezzo al deserto, con effetti deteriori di pendolarità e di segregazione mentre l'obiettivo dovrebbe essere, al contrario, quello di diffondere fuori dal contesto urbano attività di grande significato culturale, e quindi di costituire intorno a questi nuovi complessi dipartimentali dei nuclei di urbanizzazione attrezzati, capaci di svolgere una funzione autonoma di riequilibrio territoriale, come mi sembra abbia anche sostenuto il collega Bianchi.
D'altra parte, un tema essenziale, se si parla del trasferimento di sedi universitarie fuori dalla città, è quello della completa attuazione del diritto allo studio, che è molto carente: l'Università di Torino ha notoriamente attrezzature ricettive, per quanto concerne i posti letto per studenti, del tutto insufficienti, e non ci si potrà porre il problema di costituire delle grandi sedi universitarie fuori dal centro urbano se non ci si porrà contestualmente il problema di assicurare attraverso un congruo numero di posti di collegio il diritto allo studio agli studenti che dovranno frequentarle.
Vi è quindi un'esigenza di strategia globale di sistemazione del territorio che sta alla base di tutto questo discorso, perché senza una pianificazione territoriale in cui anche la componente dell'Università abbia una sua funzione reale nessuna scelta potrà essere legittima, in quanto tutte le scelte sono possibili e qualsiasi scelta si presta a polemiche, a sospetti di speculazione (ogni volta che si parla del suolo noi dovremmo vivere per aria, perché se appena tocchiamo terra con i piedi ecco affiorare il problema della speculazione, con polemiche in gran parte inconcludenti). Bisogna che il Governo regionale affronti questo problema con urgenza.
La documentazione che è stata oggi fornita dall'Assessore è un primo direi embrionale, punto di avvio per questo dibattito, che indubbiamente avrebbe tratto vantaggio da una preparazione più approfondita prima della presentazione in aula. Mi auguro comunque che, come ha detto Bianchi, le conclusioni del dibattito non siano elusive, e che dalla replica della Giunta emergano indicazioni precise di carattere programmatorio sullo sviluppo universitario della Regione.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Benzi, ne ha facoltà.



BENZI Germano

Signor Presidente, signori Consiglieri, il collega Zanone ha accennato alla possibilità che l'Università trasferisca qualcuna delle sue sedi a Santena. Effettivamente c'è questa preoccupazione, è già persino stato fatto un piano di trasferimento, lasciando però imprecisata proprio la cosa più importante, cioè la zona su cui deve sorgere. Le Facoltà che dovrebbero essere trasferite da Torino sono: Medicina e Chirurgia con 5000 allievi Veterinaria con 450 allievi; Agraria con 600 allievi e Scienze biologiche con 5000 allievi circa. Si starebbe per creare quindi nella zona Torino Santena un'Università vera e propria con 10.000 e più studenti. Altre Facoltà che attualmente sono male sistemate verrebbero insediate nell'area nuova di Via Verdi e qualcuna in Via Sant'Ottavio.
Molte delle cose che si potevano dire in bene e in male i miei colleghi le hanno già dette. Io vorrei fare qualche accenno anche di carattere statistico per dimostrare quanto sia difficile oggi governare la nostra Università.
Gli studenti che nel '51/'52 erano 10.392, l'anno scorso furono 34.000 e quest'anno si prevede che saranno ben 40.000. Essi sono perciò triplicati in vent'anni, ma non hanno avuto come corrispettivo l'aumento degli impiegati che sono passati da 26 a 54; i docenti hanno avuto un aumento solo del 2,8 per cento, risultando inferiori perciò a vent'anni fa. Gli istituti invece, che erano esattamente 91 vent'anni fa, oggi sono 229 (un aumento enorme); il bilancio di previsione che nel '51 era di 685 milioni è passato l'anno scorso a 7 miliardi 296 milioni.
Queste cifre danno l'idea dell'impetuosa crescita dell'Università di Torino, regolata da leggi che molte volte ne impediscono l'amministrazione.
Vorrei ricordare che il Consiglio d'Amministrazione della passata gestione ha avuto un addebito di 300 milioni della Corte dei Conti per spese per il personale. Questo fatto ha portato alla conseguenza che diversi dei nominati della Commissione amministratrice non hanno accettato l'incarico.
Noi non abbiamo nemmeno la possibilità di coprire le cariche dei dirigenti ad alto livello, perché i funzionari romani non vogliono venire a Torino. La legge Signorello permette di fare delle assunzioni, ma ha combinato un tale meccanismo per cui possiamo assumere in esuberanza il personale di fatica, ma non possiamo assumere un solo dirigente.
Questo stato di fatto rende precaria la vita universitaria e penso che la Regione dovrebbe collaborare per smuovere questi ostacoli che impediscono il normale andamento della vita di una grossa amministrazione altrimenti rischiamo la paralisi.
Noi dobbiamo prima di tutto pensare a sistemare l'Università torinese per quanto riguarda i locali, il personale e intanto preoccuparci delle esigenze del Piemonte. E' purtroppo vero ciò che diceva il collega Zanone: non esistono dati analitici degli studenti delle varie province piemontesi che vengono a Torino, non sappiamo quanti sono né quali Facoltà frequentano, né sappiamo quanti sono quelli che vanno alle Università di Pavia, Genova, Milano. Questa è una cosa che va appurata se vogliamo fare dei calcoli esatti e sapere esattamente dove devono sorgere le nuove Università.
Un'affermazione che possiamo fare è che in Piemonte abbiamo meno Università di quelle che spetterebbero ai nostri quattro milioni e 200.000 abitanti; a Milano hanno due Università; e poi ve ne sono una a Pavia Bologna, Modena, Parma, Ferrara, Pisa, Siena, Firenze; abbiamo l'esempio di altre Regioni che hanno da secoli l'ateneo, perciò è nostro diritto fare un'altra strutturazione, altrimenti gli studenti piemontesi sono costretti a farsi molti chilometri per poter frequentare l'Università e non tutte le famiglie possono sostenere questa spesa.
Quando si parla di decentramenti o di creare altri atenei, bisogna anche tenere presente che ci sono Facoltà in cui gli studenti sono poco numerosi, 200 alunni in un corso non sono niente. Dai dati statistici che abbiamo, sappiamo che esistono invece dei corsi numerosi come il Magistero dove vi sono 7000 e più iscritti, o quelli di scienze. Mi pare che il campanilismo non deve esistere nella maniera più assoluta, abbiamo una struttura territoriale che è quella che è, in Piemonte, di cui Torino è il centro, poi abbiamo una parte sud che fa perno su Alessandria e Cuneo e un'altra che fa perno su Novara e Vercelli e hanno tutte le stesse necessità e tutte gli stessi diritti. Sono anch'io contrario ai vari corsi che stanno sorgendo in modo fantomatico e irrazionale in queste città ognuna delle quali vuole l'Università non sapendo nemmeno che cosa sia quando pensiamo che solo per impiantare la Facoltà di Medicina oggi ci vogliono dieci miliardi se vogliamo attrezzarla convenientemente. Il fatto che vi siano delle persone che con buona volontà riescono a fare un corso per cento o duecento persone non significa nulla, sono le famose Università popolari; occorrono cifre molto alte che nessuna città ha se non c'è l'intervento dello Stato e della Regione per fare un ateneo che abbia tutti i crismi universitari e non dei corsi ambulanti che si possano spostare da una città all'altra.
Io penso che siano da tenere presenti le direttrici di traffico Che abbiamo in Piemonte: per esempio è più facile da Cuneo venire a Torino che andare ad Alessandria o viceversa; se sposteremo una parte delle Facoltà a Salitene o nelle zone vicine, Asti graviterà sempre più su Torino e non su Alessandria. Questi sono dati che dobbiamo tenere presenti per fare delle scelte di territorio e per conoscere il numero degli studenti che frequenteranno l'Università. Sono anch'io d'accordo con i colleghi che dichiarano che le città universitarie sono complessi ormai decaduti, oggi si pensa che l'optimum per un'Università sia dai 10 ai 15.000 studenti perciò dobbiamo, secondo le definizioni dei maggiori specialisti orientarci su Università che abbiano caratteristiche di questo tipo. Se nel 1980 avremo 60.000 studenti in Piemonte, c'è da pensare che il 70 per cento graviteranno su Torino, cioè 42/45.000, mentre gli altri 15/20.000 graviteranno sulle altre città; Torino dovrà per forza sdoppiare l'Università altrimenti sarà in condizioni peggiori di quelle attuali.
L'Assessore ha detto cose molto interessanti, ma l'argomento è di un'importanza tale che non si può esaurire in un pomeriggio, dovremo avere altri dati più completi, statisticamente più precisi per poter fare altre considerazioni e dobbiamo riproporci, con l'aiuto di tutti quanti (sia di chi ne parla bene che di chi ne parla male) di fare un confronto per poter poi prendere delle decisioni ed essere a fianco di quegli organismi a cui le Università dovranno per forza rispondere del loro operato.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Conti, ne ha facoltà.



CONTI Domenico

Signor Presidente, signori Consiglieri, io condivido molte delle cose che sono state affermate qui e quindi non le ripeto, soprattutto mi associo a quanto ha detto il mio Capogruppo Bianchi circa la correzione delle Università sviluppate attraverso una visione organica e non semplicemente una per una e poi vediamo che cosa capita.
Quel che mi preme invece rilevare non è quanto è stato detto, ma eventualmente quanto non è stato detto a questo proposito, per lo meno alcune cose che ritengo qualificanti.
L'accertamento dei fabbisogni è una cosa essenziale ed evidentemente non è riconducibile unicamente dall'accertamento occupazionale relativo agli sbocchi professionali che l'Università dà, è un aspetto, ma non è l'unico. Si tratta di appurare i fabbisogni, sia pure in riferimento all'occupazione, in termini di formazione qualitativa e quantitativa come primo inizio di un processo formativo e non unicamente una semplice premessa del tutto estrinseca, non elaborata in previsione d'indicazioni da darsi ai processi formativi. Si suppone che l'Università o comunque lo studente interessato, sia nelle condizioni di definire innanzi tutto le sue scelte in base a questi fabbisogni, cosa di cui io dubito, ma è compito di una politica della scuola fare questi rilevamenti relativi alla formazione.
Ecco perché durante il dibattito sul bilancio 1972 io avevo avanzato modestamente l'appena abbozzata proposta di un ente regionale di sviluppo pedagogico, o di un ente pedagogico regionale se si vuole; innanzi tutto l'azione di questo ente avrebbe dovuto essere quella di leggere le istanze della comunità in termini di rilevamento e di fabbisogni formativi, allo scopo d'indicare qualcosa all'Università, allo scopo di qualificare in termini di rapporti il contatto Regione interlocutore politico e l'Università per una politica della formazione evidentemente. Io vedo l'estrema urgenza di provvedere in questa direzione.
In secondo luogo non possiamo ignorare che parte del sovraffollamento attuale dell'Università è anche dovuto al fatto che c'è una domanda confusa di formazione, costretta, obbligata dato che se non si dispone di quel determinato titolo poi non si riesce a piazzarsi in determinati livelli. Io non credo che si possa rispondere a questo dicendo che non vogliamo formazione professionale realizzata attraverso scuole superiori o enti diversi, per il pericolo di cadere nelle note ipoteche del potare economico che hanno il loro peso e vanno tenute nella debita considerazione; non credo che si possa sfuggire ad un problema unicamente così, anche se questa obiezione ha delle ragioni valide, però quello di addensare in un coacervo dove non si capisce più niente un pubblico che in definitiva è il titolare di esigenze molto diversificate, che si addensa lì perché non ha altra strada per poter risolvere i suoi problemi, mi pare sia una risposta semplicistica che non possiamo dare. Senza contare poi che questo tipo di risposta colpisce proprio chi già lavora al quale viene tolta ogni possibilità di accedere a livelli operativi superiori, di fare la sua carriera, la sua progressione professionale, costui è già handicappato basta che cada sul terreno scolastico e non c'è più niente da fare, si deve accontentare delle briciole oppure di posti di pura routine.
Non solo, ma si viene a colpire, con questo tipo di soluzione così irrigidito, anche tutta la successiva formazione che gli operatori già qualificati, magari già usciti dall'Università, potrebbero ulteriormente richiedere per il loro potenziamento, il loro aggiornamento. Il problema va perciò affrontato, non si può evitare, anche se è giusta l'esigenza di non determinare scuole di serie A e scuole di serie B con sistemi formativi del tutto sganciati tra di loro che provocano confusione.
Un altro elemento del quale non si è parlato e che vorrei mettere in rilievo è questo: l'Università va sempre più qualificata in quanto Università, non basta che noi vi costringiamo dentro la massa della gente ma deve, sempre di più, raggiungere quella funzione che la contraddistingue e che se non viene svolta dall'ateneo non la svolge nessuno, neanche con dei surrogati. Io credo che una diffusione delle Università sul territorio debba essere connessa con il problema dello sviluppo della ricerca di base è essenziale perché se l'Università non fa ricerca e non forma alla ricerca, mi domando come potrà assolvere il suo compito anche di formazione professionale; chi lo assolverà, vista la situazione in cui ci troviamo? Non si può non tenere presente anche questo punto di Riferimento che è la ricerca di base.
Tra l'altro faccio presente che la formazione professionale utilizza una ricerca di base, ma per conto suo si avvale soprattutto di una ricerca applicata e di una ricerca operativa intesa in largo senso, che è di un altro tipo, mentre ha assolutamente bisogno della ricerca di base; il contatto le è essenziale per risolvere i suoi problemi che sono di operatività, sia pure da non intendersi in senso puramente tecnico efficientistico ma globale, sociale, umano ecc. non soltanto tecnico scientifico, però ha un'altra esigenza di ricerca che non è del tipo dell'Università vera e propria. Ora queste due ricerche devono potersi sviluppare convenientemente e non credo che si possano condurre insieme indifferentemente.
Bisognerebbe valutare anche questo aspetto e vedere che cosa la Regione può fare, visto che deve pronunciarsi su documenti di programmazione nazionale e regionale. Naturalmente bisognerebbe poi vedere più strettamente collegata la questione Università-programmazione. Sinora l'abbiamo vista in senso unidirezionale, cioè la programmazione delle Università, ma occorre anche vedere quali sono gli effetti della distribuzione degli atenei in ordine alla programmazione; per esempio è necessario modificare la domanda sociale, tanto più così artefatta com'è oggi, costretta cioè da passaggi obbligatori, da riconoscimenti giuridico formali, perché vi sono delle Facoltà stipate e altre che vanno deserte Una delle condizioni per la ricerca è questa: chi la utilizza, chi la richiede, chi l'appoggia. Noi sappiamo che le nostre industrie non si avvalgono della ricerca normalmente, lavorano tutte su brevetti, tanto per dirne una e non ci sono grandi incoraggiamenti alla ricerca e poi ci lamentiamo della fuga dei cervelli, ma è evidente che se non c'è l'utilizzo di queste energie, una delle due: o la gente quando è formata se ne va e allora la regione non verifica un miglioramento, oppure non infila quella strada per non trovarsi nella dura necessità per poter vivere adeguatamente di doversene andare.
Questi sono problemi che vanno visti. I fattori indicativi per quel che riguarda la soluzione del problema non devono essere forzati, gestiti politicamente, interpretati, canalizzati convenientemente sì, ma evitando tutte le strozzature che alterano un orientamento sano da parte degli individui e da parte della comunità.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Curci, ne ha facoltà.



CURCI Domenico

Signor Presidente, egregi colleghi, è semplice oggi chiedere una discussione sulla crisi dell'Università; è ingenuo chiedere una riforma che sani la situazione, ma è colpevole l'aver permesso che l'Università istituzione cardine dello Stato, si deteriorasse e arrivasse al punto in cui è.
La responsabilità di tale situazione, che presenta aspetti allarmanti è equamente distribuibile tra le forze del così detto arco costituzionale che in questi ultimi anni non hanno saputo e voluto porre argini al deterioramento dell'Università.
Certo non è questa la sede adatta per prendere provvedimenti, ma la posizione del M.S.I. sarà sempre una posizione di assoluta intransigenza nei confronti dei distruttori dell'Università e di assoluta imparzialità nell'esaminare le cause della crisi.
La crisi, come andiamo ripetendo da anni, è soprattutto di valori.
Infatti le forze politiche che hanno governato l'Italia ai giovani, ai professori, agli scienziati che chiedevano il rinnovamento delle strutture e l'adeguamento scientifico dei programmi alle esigenze della vita moderna hanno risposto con il sovvertimento dell'ordine scolastico, con la "scuola facile", con la politicizzazione.
In Italia ci sarebbe stato bisogno (parlo di 5/6 anni fa) di un maggior numero di atenei, di programmi più moderni, di nuove specializzazioni, di una scuola maggiormente formativa. Già allora i nostri laureati sentivano un certo ritardo nei confronti di colleghi laureati all'estero e con preoccupazione si pensava alla materializzazione dell'insegnamento cioè a quel processo che estranea lo studente da tutto ciò che è formazione spirituale e morale. A questo stato di cose i governanti risposero con la nuova pedagogia, con la facilitazione assurda dello studio, con l'esasperata politicizzazione. Via quindi dalle nostre Università l'esame la gerarchia, il rispetto, tutti fenomeni classisti e in definitiva "fascisti". I nostri giornali, "La Stampa" di Torino in testa, presero a vezzeggiare i contestatori che finalmente, dopo tanto colpevole immobilismo, si svegliavano contro i baroni che conservavano, in un'Italia culla della permissività, un'oasi di autorità. Da tutte le parti si sparava a zero contro la scuola selettiva che veniva indicata come mezzo di esclusione delle classi meno agiate. Si dimenticava che la selezione è necessaria in uno Stato dalla vita sociale complessa e ricca come quella odierna che necessita di una programmazione culturale che fornisca tutte le leve di lavoro necessarie.
Non si parlava più di diritto allo studio, cosa sacrosanta, ma di diritto al titolo di studio! La scuola, l'Università non doveva essere una salita, un lento procedere, ma una discesa in cui una volta incanalati si doveva necessariamente arrivare al pezzo di carta. I risultati di questa sapiente scelta pedagogica si vedono oggi: le Università producono decine e decine di spostati che non trovano lavoro o che si devono sottoccupare.
Su questa situazione, di cui non c'è da andare fieri, imperversa l'infezione politica. Oggi grazie a voi lo studente non deve solo studiare ma, conscio delle libertà democratiche nate dalla Resistenza, deve contestare, possibilmente il professore e il Governo. L'Università da comunità operosa che era è diventata una fucina di malcontento, le lezioni devono servire non per imparare, ma anche per informare gli studenti delle varie iniziative dei partiti o movimenti rivoluzionari sedicenti tali. I professori non devono solo insegnare, ma possibilmente organizzare lo scontento, firmare documenti di condanna, solidarietà ecc. e soprattutto devono essere antifascisti; per antifascisti si intende essere contro l'autorità, la tradizione, il governo, la polizia.
I partiti di sinistra, nella loro ansia classista, mossi più che dall'amore per il proletariato dall'odio per tutto ciò che proletariato non è, hanno screditato agli occhi dei giovani la figura del puro accademico cioè del professore che piace a noi, vale a dire il professore che si prefigge prima di tutto di dare una formazione morale agli allievi, quindi di fornire loro le basi della materia senza fare distinzioni politiche o economiche, in maniera tale da premiare chi merita, secondo le capacità.
Ma tali uomini, di cui l'Università è ricca, furono i primi ad essere colpiti: erano i più pericolosi per la sinistra e i suoi disegni eversivi.
Gli studenti per essere buoni contestatori - l'unica cosa che conta devono uscire dall'Università non formati nello spirito, ma conformisti impreparati e soprattutto reattivi a pochi stimoli: libertarismo operaismo, antifascismo. Anzi, il meglio viene dopo la laurea, quando le industrie non sanno che farsene di laureati culturalmente sottosviluppati perché costoro rappresentano una massa facilmente manovrabile, anzi, con qualche raccomandazione li si potrà sempre far entrare in qualche ente e quindi averne riconoscenza e cioè potere da amministrare.
Ma purtroppo non tutto è andato come doveva. Queste masse urlanti di giovani che una volta alla settimana si mettevano in corteo per sensibilizzare la popolazione a quello che voleva il Partito comunista alla fine hanno finito per credere a ciò che i capi gli ammannivamo giorno per giorno. Hanno creduto di essere indipendenti dai partiti di governo hanno creduto che il Partito comunista volesse davvero fare la rivoluzione armata e rompere così l'ordine antifascista per instaurare l'ordine proletario; ma tutto questo, ahimè, non poteva andare, al potere il Partito comunista ci può arrivare grazie ai socialisti e alla D.C. senza troppi contraccolpi. Ma la gente si preoccupava, la destra aumentava pericolosamente, basta quindi con la contestazione, facciamoci vedere tutti difensori dell'ordine, non proprio di questo, ma di uno un po' diverso sicuramente più giusto, più antifascista ecc. Ed ecco sopirsi tutto e sbucare fuori la strategia delle riforme. In Italia bisogna riformare e fare salti di qualità senza spaventare troppo gli elettori, bisogna riformare con la legge.
L'Università in effetti, essendo stata la prima ad essere colpita abbisognava della maggiore e miglior riforma. Ed ecco quindi saltar fuori il dipartimento, il tempo pieno ecc. Ma purtroppo anche questa volta gli strateghi delle riforme sbagliarono. L'andazzo dell'Università ormai piaceva quasi a tutti: agli studenti che non avevano più l'obbligo della frequenza, che non dovevano neanche più studiare da quando c'erano gli esami di gruppo; ai professori che potevano dedicarsi con maggior tempo alle occupazioni extra e infine ai sindacati e ai partiti che nei vari atenei racimolavano sempre qualcuno da mandare in giro a marciare, a protestare ecc.



RASCHIO Luciano

A te piaceva il fascista perfetto.



CURCI Domenico

Lo sarai stato tu, perché io ero giovane e non c'ero.
Ecco quindi ai primi abbozzi della legge di riforma nascere le proteste, i malcontenti.



RASCHIO Luciano

Buffone!



CURCI Domenico

Lo so che non pensi quello che dici, lo so! E si sa che la D.C. pur di non scontentare potenziali elettori, la riforma preferisce non farla.
Nel frattempo però la situazione si aggrava e la riforma, quando e se ci sarà, troverà il fantasma di quello che un tempo si chiamava scuola. La nuova legge troverà studenti divisi tra loro dall'odio politico, professori timorosi di esercitare la benché minima autorità e una base culturale quasi inesistente grazie alle leggi che consentono a tutti di arrivare all'Università.
L'Università di Torino non è di certo in situazione meno grave di quella nazionale. Proprio in questo periodo che vede i lavoratori non insegnanti dell'Università impegnati in importanti lotte rivendicative l'ateneo torinese è senza guida, il Rettore è sospeso dall'incarico e tutta l'attività amministrativa è bloccata. Ogni decisione di una qualche gravità è rinviata e ci avviamo rapidamente alla paralisi. Le segreterie funzionano unicamente due ore al giorno con conseguenti continue ed estenuanti code agli sportelli; un certificato si ottiene in due o tre mesi e gli scioperi minacciati dal personale non potranno che aggravare la situazione. I più colpiti saranno i laureandi e gli studenti che abitano lontano da Torino e che non potranno svolgere con la necessaria rapidità ed assiduità le pratiche richieste dalla vita universitaria. Già l'anno scorso le segreterie stettero chiuse a lungo e si verificarono casi di studenti costretti a procrastinare gli esami di laurea. Ci auguriamo che quest'anno non debba ripetersi questa situazione che colpisce i minori responsabili della crisi.
Di per sé è già colpevole che una Regione come il Piemonte (l'hanno già detto gli altri, ma giova ripeterlo) possa contare su una sola Università.
In tutte le nazioni europee una sana amministrazione ha provveduto a distribuire le Università in maniera da non costringere gli studenti a disagi. Di per sé un'Università sovraffollata non consente lo svolgersi di un'attività didattica serena. Dovrà quindi essere compito della Regione di farsi parte diligente a che anche il Piemonte, come molte altre Regioni abbia almeno una seconda Università. In attesa, bisognerà svolgere almeno una modesta programmazione culturale, al fine di indirizzare gli studenti licenzianti verso Facoltà che consentano loro di inserirsi senza difficoltà nel mondo del lavoro. Si potrebbe all'uopo fare un censimento e una previsione del fabbisogno di laureati del Piemonte negli anni futuri. Così facendo non si risolverà certo la crisi, nemmeno in parte, ma si potrà limitare il fenomeno dei laureati disoccupati per saturazione dei posti disponibili.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Dotti, ne ha facoltà.



DOTTI Augusto

Signor Presidente, io non avrei desiderato intervenire in questo dibattito, ma avendo sentito alcuni interventi e l'interesse generale che il problema suscita nella Regione come organo massimo rappresentantivo delle esigenze sociali del Piemonte, ritengo che si dovrebbe meditare di più prima di stendere il documento, in modo che sia espressione vera della volontà delle determinazioni del Consiglio sul fenomeno universitario.
Quindi proporrei (e poi spiegherò il perché) la formazione di una Commissione che studi un po' a fondo il tema per vedere se possiamo anche essere originali nella sua soluzione, dando al Piemonte se non altro una patente inventiva, come effettivamente meritiamo e abbiamo sempre meritato di avere.
Da quanto ho capito finora sembra che l'Università si debba esaurire in un fabbisogno culturale, evidentemente necessario, sentito al di là delle scuole superiori, da tutti noi; poi ho sentito da altri dire che oltre a quello individuale c'è il fabbisogno di preparazione universitaria che la società richiede. E qui veramente nasce l'equivoco: ho sentito anche il nostro Capogruppo (e mi perdoni) dire che l'Università dovrebbe estendere l'effetto universitario a tutta la regione; ma allora non è più l'Università fonte di scienza, fonte di ricerca, bensì una scuola superiore per la preparazione di specializzati che possano meglio inserirsi nella nostra società dal settore primario, dal settore industriale al settore terziario. Anch'io vorrei fornire (saranno le uniche statistiche che pronuncerò) un dato statistico nazionale: di 570.000 laureati circa solamente il 6 per cento sono presenti in agricoltura e l'11 per cento nel settore secondario, nelle industrie, tutti gli altri nelle altre professioni, libere o terziarie, anche non occupati per il titolo che hanno ricevuto. Dobbiamo allora veramente continuare con un'Università così poco definita e che secondo Conti dovrebbe riunire in sé anche l'istituto della ricerca e della scienza? Veramente non è possibile, ritorniamo a nobilitare l'Università, istituiamo quelle alte scuole che all'estero, soprattutto in Germania, preparano gli specializzati. Abbiamo qualche esempio che sta sorgendo anche in Piemonte, degno o non degno di attenzione; ma ciò che veramente desiderano gli studenti che frequentano l'Università è di potersi inserire nella società, non solamente come momento culturale, ma anche come preparazione definitiva a un'istruzione che termini almeno al 25°/27° anno di età non credo che si debbano specializzare oltre, sarà poi la pratica che suggerirà un'ulteriore specializzazione e informazione, perché nel mondo moderno nessuno parte dall'Università con un bagaglio di cognizioni che poi mantiene per tutta la vita, dovrebbe arricchirlo, però abbiamo sentito alla Tv, specialmente per quanto riguarda la Facoltà di medicina che invece di arricchirsi un laureando in medicina viene a perdere le cognizioni che aveva appreso perché non solo non si aggiorna, ma dimentica le cose che nel suo ramo non sono di particolare attualità nel mestiere quotidiano.
Quindi il pensare a due Università nell'area metropolitana torinese, a una terza verso Novara o nel polo, a una quarta ad Asti-Alessandria, è veramente prematuro se prima non abbiamo chiarito profondamente in seno al Consiglio ciò che vogliamo fare per rispondere agli intenti della programmazione. Un'Università piemontese come ho sentito dire è una pazzia l'Università è universale, sono grandi le Università che attirano gli scienziati anche per insegnarvi, che attirano gli studenti e non lo dico solo per filosofare, ma per speculare (nel senso migliore) nella ricerca di approfondire le proprie cognizioni. Tanto è vero che questa mancanza di ricezione da parte dell'Università ha visto andare all'estero o migliori nostri scienziati sia all'est, sia all'ovest, adesso andranno a finire anche nella lontana Cina probabilmente, perché qui non abbiamo l'ambiente favorevole alla specializzazione di scienziati. E' inutile dire che abbiamo poche Università in Piemonte e molte in altre regioni d'Italia, sono sorte al momento rinascimentale dei geni, degli esperti, degli scienziati, dei filosofi. Ricordo per esempio a Mantova un'Università che si chiamava "Università gioiosa" dove gli studenti arrivavano a frotte non dico per divertirsi, ma per essere deliziati dall'insegnamento filosofico strutturalmente nell'animo, nello spirito, questa era la grande Università.
Forse mi sbaglio, ma credo che ci sia un equivoco, che si intenda per Università, come fenomeno universitario, la scuola superiore. Allora definiamola, diciamo esattamente che l'ateneo che vogliamo è la scuola superiore.



MINUCCI Adalberto

Quella che vuoi tu qual è?



DOTTI Augusto

Io non voglio niente, ma dico che nel mondo c'è un'Università di ricerca e di scienziati e ci sono anche altre scuole. Pare che in Francia l'ateneo sia l'alta scuola, però posso dire con sicurezza, per essermene occupato, che in Germania è il contrario, l'alta scuola è la specializzazione e l'Università rimane un centro di scienza in cui il grande architetto, il grande ingegnere ha dei discepoli.



MINUCCI Adalberto

Ma chi li seleziona?



DOTTI Augusto

Lo scienziato non è selezionato da un altro scienziato, si impone per la sua produzione scientifica ed è evidentemente accettato dal Senato accademico. I grandi fisici, i grandi scienziati nucleari sono emigrati e sono stati riconosciuti per le loro scoperte, i grandi premi Nobel sono disputati da tutto il mondo, in tutti i settori. Un grande premio Nobel è di per sé stesso un professore universitario perché nel suo settore è in grado di diffondere l'acquisizione della sua scienza, ciò che ha approfondito, la verità che ha toccato, una più profonda conoscenza.
Io accetto l'Università come scuola superiore, però dobbiamo dircelo che in Piemonte l'ateneo sarà una scuola superiore adatta a far fronte al fabbisogno della regione per i suoi settori di attività economica e sociale affinché non andiamo a creare solamente degli spostati che attraverso il titolo di studio, come diceva anche Bianchi, credono di avere in mano il toccasana del loro impiego e invece non l'avranno, come possiamo constatare dalle statistiche che ho prima indicato.
Credo che l'istituzione di una Commissione possa approfondire attraverso questo dibattito, sia il tipo di Università che vogliamo creare sia le localizzazioni, sia le necessità che non sono solamente necessità di programmazione, ma anche momento culturale dell'individuo il quale pu desiderare di frequentare l'ateneo. A parte il fatto che l'Università vera di scienze è aperta a tutti, non c'è bisogno di presentare il tesserino universitario per assistere alle lezioni. Io non ero forse ancora nato, ma il nostro Presidente Oberto certamente se lo ricorda, a Torino c'era un grande professore di letteratura Italiana (non so se era Arturo Graf) che tutti andavano a sentire, aveva intorno uno stuolo di uditori perch diffondeva l'estetica, la conoscenza della scienza letteraria in un modo che era un arricchimento per tutti coloro che lo potevano ascoltare.
Io credo che questo dibattito sia troppo importante per essere risolto con una replica per quanto approfondita, per quanto abile, del nostro Presidente della Giunta se vogliamo che la Regione esca con un documento che sia non dico definitivo, ma di orientamento per una scelta universitaria capace ed efficiente in Piemonte, che tenga presente il momento culturale e il momento della preparazione professionale.



PRESIDENTE

Le assicuro che per sentito dire anch'io so! La parola al Consigliere Rivalta.



RIVALTA Luigi

Sarei tentato, per l'interesse che suscita questo dibattito, di proseguirlo, ma non lo faccio considerata l'ora e soprattutto per il fatto che sono state espresse, su alcune questioni di fondo, delle posizioni unitarie. Queste posizioni non mi pare siano state scalfite dalle argomentazioni degli ultimi interventi; anzi, mi sembra che proprio l'ultimo intervento, contrariamente alle sue intenzioni, abbia valorizzato appieno il significato degli interventi precedenti in merito alla necessità di conseguire una pluralità di centri di cultura, di centri universitari di centri di ricerca, come condizione per un confronto, una maggiore dialettica culturale e scientifica. Infatti è questo il solo modo sostanziale per consentire la qualificazione della didattica, la preparazione scientifica degli studenti e quello sviluppo della scienza a cui si richiamava il collega Dotti. Non mi pare, pertanto, che ci siano stati elementi che possano inficiare la validità delle argomentazioni unitarie portate nel dibattito.
Per questo rinuncio ad intervenire. Chiedo però di dare conclusione al dibattito cogliendo il significato delle proposte unitarie che sono venute dagli interventi dei vari Gruppi attraverso la formulazione di un ordine del giorno. Per questo sollecito una sospensione della seduta.
Posso essere d'accordo sulla necessità di un ulteriore approfondimento posso essere d'accordo con quanto diceva il Consigliere Simonelli, e cioè che le proposte dell'Ires non hanno esaurito il problema attorno all'Università; ma non era compito dell'Ires, nella formulazione delle linee per un piano globale di sviluppo, di esaurirlo. L'Istituto di ricerca dovrà essere impegnato a darci elementi di maggiore approfondimento.
Tuttavia, allo stato attuale di conoscenza è possibile assumere decisioni di carattere politico, che sono necessarie poiché vanno quotidianamente avanti processi che diminuiscono la qualità dell'attività universitaria e si riducono sempre più le sue possibilità di ripresa. Una presa di posizione politica nel senso delle dichiarazioni oggi espresse dal dibattito è necessaria e possibile.



PRESIDENTE

La Giunta ha delle dichiarazioni da fare? Il Presidente ha facoltà di parlare.



CALLERI Edoardo, Presidente della Giunta Regionale

La mia non può essere ovviamente né è una replica, né tanto meno la conclusione in merito ad un argomento di così rilevante importanza qual è quello non solo specifico dell'Università torinese, ma in generale degli studi universitari nel nostro Paese e quindi anche in Piemonte.
Il dibattito di oggi è di estrema importanza e ha con molta opportunità portato a livello del Consiglio Regionale l'approfondimento di tutta la tematica che riguarda i corsi universitari nella Regione piemontese. Io penso che non dobbiamo tanto giungere a delle conclusioni quanto ad alcune puntualizzazioni che possono essere obiettivamente assunte come premesse per ulteriori ipotesi di lavoro. Innanzi tutto facendo una constatazione quella della crescita che l'Università di Torino ha avuto e dell'inadeguatezza delle strutture che essa ha per fronteggiare questa crescita.
Mi duole che alcuni di coloro che sono intervenuti e che hanno assunto posizioni della forza politica che rappresentano o, come nel caso di Benzi che sono amministratori dell'Università, non siano presenti durante il mio intervento, i dibattiti non devono avvenire soltanto per dire la propria opinione e poi andarsene, ma soprattutto per vedere se nello scambio di idee è possibile fare emergere qualcosa che costituisca una novità e faccia progredire verso la soluzione del problema. Mi duole perché proprio alcuni dei temi che essi hanno sottolineato credo meritino di essere approfonditi puntualizzati e soprattutto valutati.
Io credo di dover cogliere nell'intervento del collega Dotti un consiglio che mi sembra giusto, quello cioè che non possiamo preventivamente, pregiudizialmente essere contrari né all'istituzione di una seconda Università, strutturata secondo l'organizzazione non dico attuale, ma anche quella prevista dalla riforma, né ad un tipo di rosa rovesciata, come si suol dire, nel senso della strutturazione di un complesso di Facoltà decentrate in città capoluoghi di provincia della nostra regione.
All'estero esistono - e lo sappiamo - delle esperienze positive nella direzione di più Università come organo razionalizzato istituzionale, ed esperienze altrettanto positive di Università che si decentrano, che hanno cioè un complesso di Facoltà in zone, in città e che arricchiscono culturalmente la vita di quelle zone.
Il Capogruppo della D.C. collega Bianchi ha opportunamente sottolineato il problema della sprovincializzazione definitiva sul piano culturale della regione, non soltanto della metropoli, ma anche delle altre città della nostra regione e quindi della necessità di occasioni perché questa sprovincializzazione avvenga in concreto sul piano culturale, con delle offerte culturali ed un ricambio culturale che senza dubbio può essere indotto da una diffusione di occasioni di cultura e di studio perché queste non siano semplicemente dei fatti di carattere strumentale, cioè creare nuovi posti di docenza per risolvere problemi interni delle Facoltà o per dare risposta a delle richieste che nascono a livello delle amministrazioni locali. Ma se sgombriamo il terreno dal processo alle intenzioni e facciamo una valutazione proprio nella linea che Bianchi ha suggerito (che mi sembra quella di dare una struttura urbana alla regione, non la città-regione, ma la regione-città) io credo che potremo esaminare il problema senza pregiudizi.
Io non posso dire di essere favorevole a due o tre Università in Piemonte piuttosto che ad un decentramento di strutture organizzate, di Facoltà a livello dei singoli capoluoghi di provincia e credo che onestamente nessuno di noi, di fronte a questo problema, sia così convinto di avere la soluzione sicura, certa, migliore tanto da ritenere che il quesito non vada approfondito e ulteriormente valutato.
Come dicevo, esistono delle esperienze positive all'estero sia in una direzione che nell'altra; abbiamo anche in Italia delle strutture sia di molte Università (sono già state citati, in Emilia ne esistono diverse) sia di situazioni come quella del Veneto dove ci sono diverse Università e dove vi sono gruppi di Facoltà che sono stati decentrati in capoluoghi di provincia; nell'un caso e nell'altro ci sono esperienze positive e negative.
Io credo che questo sia l'argomento che va approfondito prima - e mi duole dirlo - di parlare di insediamento dell'ateneo a Santena e del trasferimento colà della Facoltà di Medicina, dimenticando che un decentramento di questo genere comporta - ed ha ragione il collega Benzi probabilmente investimenti anche superiori ai dieci miliardi ai quali lui ha accennato, perché si tratta niente po' po' di meno che di fare addirittura un Policlinico con tutte le attrezzature che gli sono proprie cioè si tratta di rovesciare tutta un'esperienza che è stata fatta a Torino come altrove e che appunto per questo merita di essere notevolmente approfondita.
Io ho la sensazione che l'amministrazione dell'Università e le pressioni che arrivano dall'interno delle singole Facoltà, di fatto pongano questa amministrazione di fronte all'urgenza di problemi che non vengono esaminati nella loro contestualità. Perché mettere Medicina, Veterinaria qualche parte di Agraria a Santena, in modo sconnesso, prima ancora di avere deciso (atteso che i 46.000 e probabilmente gli 80.000 studenti confluiscano sulle strutture universitarie in Piemonte nel corso dei prossimi 10/12 anni) se si vuole fare un'altra Università o se si vuole viceversa vedere il problema nel termine che dicevo prima di un decentramento di gruppi di Facoltà? Si noti che questo decentramento di gruppi di Facoltà, ove fosse razionalmente guidato, oltre che vitalizzare sul piano culturale la vita delle città, dei capoluoghi di provincia in cui il decentramento venisse fatto, risponderebbe anche alla logica dei dipartimenti, logica che peraltro non è un fatto assoluto, ma che sicuramente va valutata, va approfondita proprio per vedere quali raggruppamenti si intende fare sul piano di questa logica dipartimentale.
Ecco perché io credo di poter cogliere questo dibattito come uno dei momenti interessanti, stimolanti della vita del nostro Consiglio, uno dei momenti in cui siamo partiti tutti senza mettere a confronto delle idee preconcette, dei pregiudizi, delle linee rigidamente predeterminate.
Abbiamo fatto un corretto approccio ad un argomento che ci sta a cuore e mi pare che ci sia in tutti quanti la preoccupazione di non precostituire delle posizioni che possano collocarsi in modo irrazionale, in modo antagonista o incoerente rispetto ad una valutazione complessiva futura siamo tutti quanti preoccupati che l'Università possa essere veramente quel punto nella formazione della persona umana che rechi non soltanto un contributo di crescita culturale, che non sia soltanto finalizzata alle strutture produttive, ma sia momento di formazione nel senso più lato e più ampio del termine.
Se questa è la posizione che in fondo tutti quanti ci accomuna, io credo che occorra approfondire il problema e ritegno che la nomina di una Commissione alla quale affidare l'approfondimento sia dei problemi urbanistici che di quelli culturali, possa essere una soluzione. Per parte sua la Giunta segue e seguirà con estrema attenzione il lavoro della Commissione, anzi, è grata di questa collaborazione perché la Giunta sarebbe obiettivamente in difficoltà nel rispondere in termini positivi o negativi a delle proposte che venissero dal governo universitario relativamente all'insediamento di Facoltà o a rilevanti investimenti nell'area metropolitana torinese E' uri tema troppo importante perché lo si possa eliminare con poche battute e gli si possa dare una soluzione molto semplicistica. La proposta di Dotti mi sembra quindi accoglibile e la Giunta si pone a disposizione per tutto quanto può essere utile ai fini dell'approfondimento del problema, assicurando la sua piena e completa collaborazione.
Vi è anche una proposta di ordine del giorno del collega Bianchi e la Giunta, avendo avuto modo di vederla, dichiara preventivamente di essere consenziente.



PRESIDENTE

La discussione è stata amplissima. Mi pare che ci siano due proposte che possono collimare recependo in un documento quello che è stato il succo del dibattito; c'è poi la proposta per la nomina di una Commissione consiliare oppure di demandare alla Commissione che si occupa.



REVELLI Francesco

Nel documento è compresa anche questa proposta.



PRESIDENTE

Io vorrei sospendere cinque minuti e intanto riunire anche i Capigruppo perché dobbiamo prendere la determinazione per la convocazione o no giovedì venturo e l'ordine del giorno.



BERTI Antonio

Chiederei soltanto, prima di sospendere, che Bianchi leggesse l'ordine del giorno perché io non l'ho visto.



PRESIDENTE

Appunto, la sospensione è in relazione all'ordine del giorno, per perfezionarlo, vederlo un momento prima di vararlo in Consiglio, se siete d'accordo.
Sospendiamo fino alle 19,30, non credo che occorra di più. I Capigruppo sono pregati di riunirsi subito.



(La seduta, sospesa alle ore 19,20, riprende alle ore 19,35)


Argomento: Università

Ordine del giorno sulla situazione dell'Università


PRESIDENTE

E' stato presentato questo ordine del giorno, del quale dò lettura: "Il Consiglio Regionale piemontese, in coerenza con quanto precedentemente affermato, di fronte all'aggravata situazione dell'Università italiana in generale e dell'Università di Torino in particolare, rileva la necessità di fare riprendere il cammino a un disegno di riforma generale senza il quale non si risolvono i problemi di fondo dell'Università italiana.
Il Consiglio Regionale del Piemonte, di fronte alla situazione che si è venuta a creare nell'Università di Torino con 42.869 iscritti, mentre le infrastrutture non sono adeguatamente migliorate sotto il profilo quantitativo e qualitativo, mentre il divario da colmare tende ad aggravarsi, rileva: 1) la necessità che la Regione, nell'ambito di una riforma generale abbia un ruolo determinante nella realizzazione delle strutture universitarie e nello stesso tempo possa dare il suo autonomo contributo alla determinazione del disegno generale 2) la necessità di maggiori investimenti, come rilevato dall'Ires nel documento preliminare al piano di sviluppo 3) la necessità di un decentramento da attuarsi attraverso la creazione di nuove sedi universitarie nelle zone di Novara e Vercelli, di Asti e Alessandria dove vivono oltre il 30 per cento degli studenti universitari piemontesi, sedi universitarie autonome, organicamente strutturate rispondenti alle esigenze culturali, economiche e sociali della comunità piemontese ed alle linee di sviluppo individuate dal piano regionale 4) la necessità di impedire la disseminazione di corsi singoli in vari centri, con gravi costi, con strutture inadeguate che impediscono un'articolazione su basi dipartimentali, con ripercussioni negative sullo stesso livello della ricerca e della didattica 5) la necessità di realizzare uno stabile collegamento fra il Governo dell'Università e la Regione, gli enti locali, le forze sociali operanti nel contesto regionale.
Il Consiglio Regionale, mentre rileva la necessità di muovere tutto l'impegno programmatorio della Regione lungo tali linee, si rivolge a tutti i soggetti della programmazione regionale consultati per l'elaborazione del piano di sviluppo perché da loro provenga un contributo di iniziativa ed anche di proposta legislativa al Parlamento nazionale.
A tale fine chiede che gli atti dell'odierno dibattito vengano trasmessi alle competenti Commissioni del Consiglio perché ne facciano oggetto di ulteriore approfondito esame e di specifica relazione in sede di osservazioni al piano di sviluppo nazionale e regionale".
L'ordine del giorno reca le firme: Zanone, Bianchi, Revelli, Rivalta Conti, Soldano.
Chiede di parlare il Consigliere Calsolaro, ne ha facoltà.



CALSOLARO Corrado

Il Gruppo socialista ha proposto che nella prima parte dell'ordine del giorno all'espressione "a un disegno di riforma generale" si sostituisca "al disegno di riforma generale già approvato dal Senato e già discusso dall'VlII Commissione della Camera, con apporti migliorativi per quanto riguarda i poteri attribuiti alla Regione". Per cui la prima parte dell'ordine del giorno reciterebbe: "Il Consiglio Regionale piemontese, in coerenza con quanto precedentemente affermato, di fronte all'aggravata situazione dell'Università italiana in generale e dell'Università di Torino in particolare, rileva la necessità di fare riprendere il cammino al disegno di riforma generale già approvato dal Senato e già discusso dall'VIII Commissione della Camera, con apporti migliorativi per quanto riguarda i poteri attribuiti alla Regione, senza il quale non si risolvono i problemi di fondo dell'Università italiana".
Il fatto che il nostro emendamento non sia stato accolto dai presentatori dell'ordine del giorno ha fatto sì che noi non firmassimo l'o.d.g. stesso.
Io pertanto presenterei l'emendamento al Presidente.



PRESIDENTE

Non è un emendamento, è una proposta di integrazione, cosa un po' diversa, quindi non posso mettere in votazione la proposta di emendamento.
I firmatari dell'ordine del giorno intendono accogliere o no questa richiesta fatta dal collega Calsolaro a nome del Gruppo socialista? Il Consigliere Bianchi ha facoltà di parlare.



BIANCHI Adriano

Per quanto mi riguarda dichiaro che il mancato accoglimento non significa contrapposizione sul merito della proposta; ma constatazione soltanto che in questo dibattito si era concentrata l'attenzione più precisamente sulle competenze regionali e sulle possibilità di intervento regionali, senza pronunciare giudizi di merito o di appoggio al corso della riforma universitaria così come è affrontata in sede nazionale.
Non significa perciò che noi respingiamo questa indicazione, ma che riteniamo in questo momento, in questa sede, in un certo modo imprudente una presa di posizione che va al di là dell'esame che abbiamo fatto e che non si è incentrato in maniera sufficientemente diffusa su quell'argomento.
Significa anche volontà e necessità di mantenere più ampia libertà di decisioni in ordine alle conclusioni di dare alla riforma universitaria che si sollecita, ma su cui non si prendono degli impegni di carattere di patriottismo di precedente legislatura.



PRESIDENTE

Il Consigliere Calsolaro chiede per caso che si voti per divisione l'ordine del giorno, in maniera che loro possano astenersi sulla prima parte così com'è formulata e votare il contesto dell'ordine del giorno? Consigliere Zanone, ha facoltà di parlare.



ZANONE Valerio

Faccio osservare che ove accogliessimo la proposta di emendamento presentata dal collega Calsolaro forse per la prima volta nella storia del Consiglio Regionale noi entreremmo nell'ordine di idee di esprimere delle valutazioni su iniziative legislative che sono all'esame del Parlamento nazionale. Il che verrebbe anche a stabilire una contraddizione con quanto viene detto in altra parte del medesimo ordine del giorno in cui si sollecita un contributo delle forze culturali, sociali e politiche della Regione per la presentazione al Parlamento di proposte legislative sulla medesima materia.
Ritengo quindi che la proposta del Consigliere Calsolaro non possa essere accolta.



PRESIDENTE

Ha chiesto di parlare il Consigliere Minucci, ne ha facoltà.



MINUCCI Adalberto

Signor Presidente, io trovo molto corretta l'impostazione data dal collega Bianchi perché in effetti in questa riunione del Consiglio il problema dei contenuti della riforma universitaria generale non è emerso quindi è giusto che l'ordine del giorno esprima quella larga base unitaria che invece su altri problemi, in particolare sulla struttura dell'Università in Piemonte, c'è stato un dibattito.
Quanto alla riforma universitaria generale credo che ogni Gruppo avrebbe delle posizioni diverse da presentare e poiché non è questo il tema, penso che l'ordine del giorno così com'è stato proposto rifletta sufficientemente le cose che si sono discusse oggi.



PRESIDENTE

Non resta quindi che questa soluzione: la presentazione di un altro ordine del Giorno che verrebbe posto in votazione dopo questo e ove non raccogliesse la maggioranza dei suffragi; perché non è concepibile la correzione o l'emendamento dell'ordine del giorno che è opera di alcuni che lo propongono in quei termini.



CALSOLARO Corrado

E' lo stesso ordine del giorno, integrato da quella frase.



PRESIDENTE

D'accordo, ma perché ci sia l'approvazione bisogna che i proponenti dell'ordine del giorno l'accolgano, altrimenti bisogna procedere alla formulazione di un altro ordine del giorno che io ho il dovere di mettere in votazione dopo il primo.
Nessun'altro chiedendo di parlare io porrei in votazione il documento del quale è stata data lettura.
L'ordine del giorno è approvato con due astenuti.


Argomento:

Ordine del giorno sulla situazione dell'Università

Argomento:

Interrogazioni, interpellanze, ordini del giorno e mozioni (annuncio)


PRESIDENTE

Mi corre il dovere, al termine della seduta, di informare che sono state presentate delle interrogazioni urgenti con richiesta di risposta scritta da parte dei Consiglieri: Simonelli (la trasmetteremo alla Giunta per la risposta); un'interpellanza dal collega Viglione sulla tangenziale Moncalieri-Rivoli nella costruzione dello svincolo di Nichelino, che verrà mandata come abbiamo fatto sempre, insieme alla convocazione del Consiglio altra interpellanza del Consigliere Besate, che si riferisce a problemi relativi all'INAM, stipula di convenzioni con case di cura private (tra l'altro il pacchetto azionario della Santa Rita che si sarebbe ulteriormente arricchito ecc.); interrogazione dei Consiglieri Nesi e Calsolaro che interrogano il Presidente e gli Assessori all'industria e al lavoro per sapere se sono a conoscenza delle decisioni della Cartiera Italiana &Sertorio riunite di trasferire la sede di Torino a Roma; altra interrogazione del Consigliere Nesi per sapere quale iniziativa in onda assumere presso la Questura di Torino allo scopo di accelerare la soluzione di un problema che si trascina da tempo, relativo al Consorzio di segreteria di Montalto Dora; altra proposta di ordine del giorno a firma Calsolaro, Fonio, Nesi, Viglione e Simonelli relativa allo sciopero proclamato per i giorni 13 e 14 ottobre dal personale insegnante e non insegnante aderente alle confederazioni nazionali CGIL; una mozione ancora Nesi, Viglione, Calsolaro, Fonio, Simonelli che vorrebbe impegnare la Giunta per far fronte a un'esigenza immediata di rivedere lo stanziamento per i buoni-libro previsti nel bilancio di previsione, che verrà anche questa trasmessa integralmente con l'ordine del giorno; un'interpellanza dei Consiglieri Zanone, Fassino, Rossotto per conoscere quali passi intenda muovere la Giunta verso il locale compartimento delle FF.SS. per garantire ai lavoratori pendolari della Regione un più regolare servizio di trasporti pubblici; un'altra interpellanza Fassino, Rossotto, Gerini, Zanone per conoscere quali iniziative intenda prendere la Giunta (eventualmente d'accordo con altre Regioni) per assicurare alla Regione, Province e Comuni i diritti di prelazione nell'acquisto dei beni suscettibili di una proficua destinazione a fini pubblici di interesse generale; un'interpellanza a firma ancora Gerini, Fassino, Rossotto, Zanone per conoscere quali provvedimenti l'Amministrazione Regionale intenda assumere per invitare i Comuni al rispetto della legge e per determinare in modo uniforme nell'ambito regionale, le modalità e la misura dei contributi di urbanizzazione nei due casi previsti; un'altra ancora a firma Zanone Fassino, Rossotto che interpellano la Giunta per conoscere se e in quali forme intenda concedere l'appoggio della Regione all'iniziativa presa dall'Associazione di pioppicoltori del basso pinerolese con sede in Vigone un ordine del giorno proposto dai Consiglieri Calsolaro, Benzi, Bono relativo alla pronuncia della sentenza dei giudici di Sion per le vittime di Mattmark.
Saranno mandate tutte a domicilio.


Argomento:

Interrogazioni, interpellanze, ordini del giorno e mozioni (annuncio)

Argomento:

Ordine del giorno della prossima seduta


PRESIDENTE

Il Consiglio è convocato per le ore 10 e per le ore 16 di giovedì 19 ottobre recando l'ordine del giorno, salvo perfezionamento ulteriore: "Approvazione dei verbali delle sedute precedenti" comprese quelle che dovevano essere portate nella seduta di oggi; la mozione presentata dai Consiglieri Nesi ed altri relativa al problema della Rai-Tv; la proposta di legge che stamattina è stata rinviata su richiesta del Consigliere Bianchi le mozioni e le interrogazioni che saranno dalla Giunta ritenute pronte di risposta. La seduta è tolta.



(La ceduta ha termine alle ore 19,50)



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