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Dettaglio seduta n.105 del 14/07/72 - Legislatura n. I - Sedute dal 6 giugno 1970 al 15 giugno 1975

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Argomento:


PRESIDENZA DEL PRESIDENTE OBERTO


Argomento:

Congedi


PRESIDENTE

Informo il Consiglio che hanno chiesto congedo i Consiglieri: Chiabrando Mauro, Debenedetti, Gerini (per la sola mattinata) Paganelli, Sanlorenzo, Vecchione, Viglione (per la sola mattinata), Visone Zanone, Simonelli (per la sola mattinata).


Argomento:

Interrogazioni (rinvio)


PRESIDENTE

Per guadagnare un po' di tempo, direi di svolgere qualche interpellanza o interrogazione. La prima in ordine di tempo è quella del Consigliere Viglione: non si può discutere, ma rimane valida avendo chiesto congedo sia il presentatore che l'Assessore competente a rispondere, Visone. Anche la seconda interrogazione, del Consigliere Nesi, è di competenza dell'Assessore Visone...



RASCHIO Luciano

Non c'è la Giunta, all'infuori di un Assessore. Non si può certo pretendere dal collega Gandolfi che provveda lui a rispondere a tutte le interpellanze.



PRESIDENTE

Il potere esecutivo è comunque rappresentato. La successiva interrogazione, del Consigliere Menozzi, come già programmato viene rimandata a fra otto giorni. Decade, invece, a norma di regolamento, la prima delle interrogazioni del Consigliere Calsolaro, per la cui discussione manca il presentatore, mentre è presente e pronto a rispondere l'Assessore Gandolfi. Rimangono invece valide altre tre interrogazioni che recano la firma del Consigliere Calsolaro (la terza unita a quella del Consigliere Nesi), per l'assenza degli Assessori interessati, Visone e Armella.


Argomento: Agricoltura: argomenti non sopra specificati - Trasporti e comunicazioni: argomenti non sopra specificati

Interrogazione del Consigliere Rivalta ed altri sul disservizio ferroviario nel trasporto di frutta in provincia di Cuneo


PRESIDENTE

Potremmo svolgere l'interrogazione Rivalta Revelli-Giovana relativa al disservizio ferroviario nel trasporto di frutta nella zona della provincia di Cuneo, che già ieri avevamo rinviato, dato che i proponenti sono rappresentati e c'è l'Assessore Gandolfi.
Ha facoltà di parlare l'Assessore Gandolfi.



GANDOLFI Aldo, Assessore ai trasporti

Questa interrogazione urgente riguarda il servizio di trasporto tramite ferrovia della produzione di frutta del Saluzzese e del Saviglianese compromesso, sembra, per il fatto che il Compartimento ferroviario non avrebbe messo a disposizione i carri frigoriferi necessari, a partire dal 1° agosto, per poter inviare verso i mercati svizzero e tedesco i quantitativi previsti per l'esportazione.
A seguito della segnalazione, la Giunta Regionale ha indetto una riunione, che si è svolta martedì scorso presso la sede della Giunta con la partecipazione dei rappresentanti dei sindacati che avevano sollecitato l'intervento e dei rappresentanti sia dei produttori che degli esportatori della zona di Saluzzo e di Savigliano e la presenza dei funzionari del Compartimento ferroviario di Torino. Nel corso della riunione si è potuto appurare che, innanzitutto, fra gli esportatori e il Compartimento ferroviario di Torino è già avviato un rapporto di collaborazione estremamente costruttivo per quanto può dipendere, in quanto a disposizioni, dal Compartimento di Torino. La scarsa disponibilità di carri non dipende però tanto dalle decisioni compartimentali di Torino quanto dal piano di ripartizione di questi carri, che viene fatto a livello di Direzione generale delle Ferrovie, a Roma, fra le varie zone d'Italia.
Ciò assodato, la Giunta Regionale è già intervenuta presso la Direzione generale delle Ferrovie di Roma e presso il Compartimento delle Ferrovie di Milano, che ha possibilità maggiori di dirottamento di carri frigoriferi di quello torinese, sollecitando una adeguata destinazione, a partire dal 1 agosto in poi, verso la zona di Saluzzo e di Savigliano. Siamo in attesa di una risposta della Direzione generale delle Ferrovie, che non mancheremo di comunicare sia ai Sindacati che agli esportatori, che anche ai Consiglieri che hanno presentato questa interrogazione. Ci auguriamo di avere nel corso della prossima settimana assicurazioni che ci consentano di garantire agli esportatori di frutta una adeguata disponibilità di questi mezzi.



PRESIDENTE

Ha facoltà di rispondere il Consigliere Revelli



REVELLI Francesco

Credo di poter dire, a nome anche degli altri interroganti, che non siamo soddisfatti di questa risposta.
Vorrei ricordare molto brevemente lo stato dei trasporti nella provincia di Cuneo: la lentezza delle linee, lo stato di arretratezza delle stesse. Queste cose sono state denunciate in modo molto preciso già da molto tempo non soltanto dagli esportatori, che oggi hanno bisogno di questa nuova ripartizione dei carri frigorifero, ma da tutta la popolazione.
Era già stata anche denunciato, (forse da quella stessa delegazione sindacale che si è recata a conferire con l'Assessore), che, nella costruzione di questi carri si era sempre badato essenzialmente a favorire certi tipi di merce, cioè a renderli funzionali per il trasporto di automobili e simili, e il fatto che la Provincia di Cuneo ha sempre pagato insieme a molte altre zone del Piemonte, le scelte dei trasporti privati di cui un esempio clamoroso è sempre stato il protrarsi delle decisioni di ricostruzione della Cuneo-Ventimiglia-Nizza.
Sul Compartimento sono già stati svolti interventi a più riprese, anche a livello di delegazioni di parlamentari, i risultati dimostrano che questo non è sufficiente. Bisogna prendere un impegno immediato per aderire alle richieste degli esportatori, ma soprattutto dei produttori, e il 1° agosto sarà certamente già troppo tardi. Oltre al Saluzzese ed al Saviglianese, vi sono zone della fascia agricola che va da Cuneo a Mondovi interessate all'esportazione di frutta pregiata, come fragole, lamponi eccetera, da anni completamente emarginata dalla possibilità di avere un trasporto di questo genere per favorire, come sempre, le scelte imposte dagli autotrasportatori, ed essenzialmente dalla Fiat.
Mentre si deve agire subito, come hanno richiesto i sindacati e questi stessi produttori interessati, non sul Compartimento, ma sulla Direzione generale delle Ferrovie, se del caso facendo sentire tutto il peso della Regione...



GANDOLFI Aldo, Assessore ai trasporti

Ho appunto detto che siamo intervenuti sulla Direzione generale delle Ferrovie...



REVELLI Francesco

I tuoi interventi lasceranno sempre il tempo che trovano, poiché sono sempre orientati allo stesso modo.
Occorre che la Regione si impegni su linee programmatiche precise per far sentire la necessità di rimediare alla lentezza delle linee non solo in questa provincia ma anche nel resto della Regione.
Vorrei aggiungere, che il problema della lentezza, portato oggi in Consiglio sotto la spinta degli interessi di alcune categorie di esportatori, è ancor più drammatico per i lavoratori che ogni giorno in numero di circa diecimila dalla provincia di Cuneo si spostano per lavoro nella cintura torinese, perché anziché di pesche, fragole e altro si tratta di uomini, costretti spesso a sobbarcarsi quattro ore di viaggio in treno oltre alle otto ore di lavoro. E' un problema, questo che va affrontato che più volte è stato posto anche alla Regione dai sindacati e che fino ad oggi non ha trovato alcuna corrispondenza da parte dell'Amministrazione regionale e della Giunta.
Pertanto, ripetiamo, siamo profondamente insoddisfatti, per il tipo di intervento che ci ha annunciato l'Assessore, che consideriamo non sufficiente.



PRESIDENTE

Se nessun altro dei presentatori chiede di parlare, l'interpellanza si intende discussa.
Non essendo possibile svolgere altre interrogazioni o interpellanze l'argomento al punto n. 2 dell'o.d.g. viene chiuso.


Argomento: Piani pluriennali

Primo esame del rapporto preliminare dell'IRES per il piano di Sviluppo del Piemonte 1971-1975


PRESIDENTE

Passiamo allora al punto sesto dell'o.d.g. "Primo esame del rapporto preliminare dell'Ires per il piano di sviluppo del Piemonte 1971-'75".
I signori Consiglieri hanno avuto il testo del rapporto ed altresì le prime valutazioni ed osservazioni della Giunta Regionale su di esso. Apro pertanto la discussione.



RASCHIO Luciano

La Giunta è praticamente assente: come si può affrontare un problema così importante alla presenza di due soli Assessori!! Direi di attendere un poco, in modo che i banchi, specie della Giunta, siano un poco più affollati, perché non è ammissibile che si affronti una questione di questo rilievo senza la presenza almeno degli Assessori più impegnati.



PRESIDENTE

Lei ha un mezzo a disposizione: lo usi, così da mettermi in condizione di darle una risposta concreta.



RASCHIO Luciano

Il Partito comunista è sempre presente; spesso, anzi, la sua presenza è determinante per l'attività delle stesse Commissioni.



BERTI Antonio

Secondo me, non si può aprire la discussione, in quanto non c'è neppure il numero legale. Invito pertanto il Presidente a sospendere la seduta, per riaprirla quando il numero legale ci sia.



PRESIDENTE

Essendo stata sollevata la questione della verifica del numero legale costatato che il numero legale non c'è, io posso dichiarare la seduta sospesa.



(La seduta, sospesa alle ore 10,05 riprende alle ore 10,15)



PRESIDENTE

I lavori riprendono. Chi chiede di iscriversi a parlare? Nessuno? Eppure, è un tema che pareva dovesse suscitare una discussione ampia, e interessante. Perdurando questa situazione, dovrò dichiarare chiusa la discussione senza che vi siano stati interventi.



MINUCCI Adalberto

Io vorrei chiedere la parola, ma non vorrei essere il solo ad intervenire.



PRESIDENTE

E' notorio che quando qualcuno apre un dibattito induce altri ad intervenire, tal che è poi addirittura difficile riuscire a chiuderlo.



BERTI Antonio

Ma il numero legale non c'è neppure ora.



PRESIDENTE

Non è indispensabile il numero legale, perché non si deve procedere a votazioni.



BERTI Antonio

Per aprire la seduta occorre il numero legale.



PRESIDENTE

Non è necessario.



BERTI Antonio

Vorrebbe citarmi la legge da cui deduce questa affermazione?



PRESIDENTE

Basterebbe pensare che il nostro Parlamento, se così fosse probabilmente non funzionerebbe mai.



CURCI Domenico

Si presume Berti.



PRESIDENTE

Appunto, si presume. La verifica può essere richiesta, ed è obbligo del Presidente concederla, nel momento in cui si debba passare alla votazione.



BERTI Antonio

Chiederei comunque una sospensione di dieci minuti per discutere con i compagni di Gruppo e decidere il da farsi: noi non intendiamo discutere ad aula vuota.



PRESIDENTE

Non posso, Consigliere Berti, accedere alla sua richiesta di sospensiva. La seduta è ormai aperta, abbiamo verificato che il discorso può essere introdotto. Prego pertanto qualche Consigliere di voler chiedere la parola per svolgere il suo intervento.



ROSSOTTO Carlo Felice

Desidero associarmi alla richiesta del collega Berti per una sospensione di dieci minuti, al fine di permettere ai Consiglieri presenti di riordinare le idee in merito a questo dibattito, che tutti presupponevano dovesse avere un diverso sviluppo.



PRESIDENTE

Riprenderemo la seduta alle 10,30. D'accordo?



(La seduta sospesa alle ore 10,20, riprende alle ore 10,30)



PRESIDENTE

La seduta è aperta: Chi si iscrive a parlare? Il Consigliere Minucci.
Ne ha facoltà.



MINUCCI Adalberto

Signor Presidente, lei comprende benissimo che in una situazione come questa, cioè nel vuoto, non assoluto ma quasi, della Giunta, e in assenza del Presidente della Regione, che dovrebbe essere l'interlocutore più interessato e qualificato in un dibattito sulla politica di piano, in assenza anche, se non sbaglio, di interi Gruppi consiliari, comunque di molti Consiglieri, il mio gruppo, e per il mio gruppo chi vi parla aderisce ad aprire la discussione solo per senso di responsabilità verso l'assemblea, ma soprattutto perché il nostro Partito sente un analogo e forse maggiore senso di responsabilità verso le grandi masse popolari che rappresenta, verso i lavoratori; responsabilità che credo debba valere soprattutto in una occasione come questa, in cui l'oggetto della discussione e delle deliberazioni che qui cominciamo ad elaborare è il piano di sviluppo della nostra Regione, che in così larga misura impronta l'avvenire, il lavoro, le condizioni di vita delle masse lavoratrici.
Questo senso di responsabilità mi induce però ad elevare una protesta molto ferma ed anche una denuncia all'opinione pubblica in generale della insensibilità dei maggiori responsabili della nostra Regione. Tutti dovremmo sentirci indotti a dare alla elaborazione del piano di sviluppo '71-'75, che sarà poi di fatto il primo piano effettivo regionale, nel senso che diventa lo strumento di un istituto che finalmente esiste chiamato dallo Statuto stesso ad operare in termini di piano, una partecipazione appassionata, all'opposto di quello che stamane si sta registrando. Tanto più che questa elaborazione prende avvio mentre perdura una delle situazioni più difficili e delicate che l'economia del Piemonte e l'intera economia nazionale abbiano attraversato nella loro storia recente.
Una situazione di crisi la cui acutezza e profondità sono ormai riconosciute da tutti e che del resto è esplicitamente richiamata anche nei due documenti che oggi esaminiamo: il rapporto dell'Ires e il documento della Giunta.
Non certo per amore del paradosso, del resto fuori luogo in un'occasione come questa, rilevo come questo stato di crisi costituisca per certi aspetti un terreno di analisi ed una base di partenza estremamente propizi, starei quasi per dire favorevoli, per chi voglia proporsi seriamente, e non attraverso giochi di parole, la definizione di una politica di piano che, come afferma il documento della Giunta - e siamo appunto ai giochi di parole, "intenda rimuovere i dati negativi che hanno portato alla crisi di oggi e avverta addirittura - qui il gioco di parole diventa addirittura ossessivo, cito dallo stesso documento - la necessità di impostare oggi una strategia di sviluppo alternativa".
Sono parole grosse, come vediamo, e dovrebbero essere molto impegnative. Per cui io mi son detto, leggendo appunto le prime pagine del documento della Giunta: vuoi vedere che questa volta ci siamo? Vuoi vedere che magari il Partito liberale riesce là dove è fallito il Partito socialista, ad imporre, cioè, una programmazione di piano effettiva ed una strategia alternativa dello sviluppo, addirittura, alla Democrazia Cristiana? Ma poi, andando oltre le prime pagine, chiediamoci: qual è l'atteggiamento reale della Giunta, proprio sopra questo rapporto fondamentale che esiste fra il superamento dell'attuale crisi economica che travaglia la Regione ed il Paese ed i propositi di pianificazione che vengono enunciati? E' proprio da questo rapporto che io vorrei intanto far partire, prima di entrare nel merito, un giudizio di massima molto sintetico, che spero di poter approfondire nel corso dell'esposizione, sui due documenti che ci sono stati presentati: appunto il rapporto dell'Ires e la presa di posizione della Giunta.
Se teniamo conto, com'è ovvio, del carattere preliminare che ha il rapporto dell'Ires, possiamo dire, almeno da parte nostra, che questo elaborato può presentare un'utile premessa al nostro lavoro di approntamento del piano. Sia per la serietà dell'impianto scientifico, che del resto avevamo già riconosciuto ad altre elaborazioni dell'Ires, sia per l'organicità del Quadro delle analisi e delle indicazioni che offre, mi pare emerga, non senza qualche nebulosità e qualche contraddizione, la consapevolezza che le cose non possano continuare così come sono andate fino ad oggi e che occorra quindi puntare, attraverso il piano, ad un mutamento profondo degli indirizzi.
Ora, è impossibile, ovviamente, fare un confronto fra due documenti di carattere e di livello così diversi come il rapporto dell'Ires e il documento della Giunta. Ma il fatto è che il secondo documento, quello della Giunta, è un documento ben singolare, per il quale è difficile non soltanto parlare di serietà scientifica ma anche semplicemente di serietà.
Si ha l'impressione che sia stato scritto da più mani e questo non sarebbe poi un gran male - e che queste mani non abbiano trovato, in un organismo che dovrebbe avere come compito istituzionale quello del coordinamento, un minimo di coordinamento anche formale, per cui capita, per esempio, di leggere a pag. 14 che il rapporto dell'Ires ha bisogno di ulteriori approfondimenti e a pag. 15 si scopre che il rapporto è approfondito e quindi non dovrebbe richiedere altre strutturazioni.
Ma c'è ben altro, che riguarda la sostanza. Mentre nelle prime 12-13 pagine il documento della Giunta cerca di offrire una sintesi molto semplificata, molto breve, certo, ma in qualche modo anche oggettiva dall'elaborato dell'Ires, nella seconda parte, là dove passa ad indicare le linee di sviluppo e gli strumenti della programmazione, la Giunta ha come un repentino mutamento di umore nei confronti appunto dell'Ires e della sua indagine e, senza neppure avere la cortesia di avvertire il lettore, passa senz'altro a delineare una prospettiva di sviluppo e una filosofia del piano che io non esiterei a definire agli antipodi di quella che si potrebbe evincere dalla lettura del rapporto dell'Ires. La tecnica è quella che già del resto, nelle prime classi elementari ci sconsigliavano i maestri: addizionare dei valori non addizionabili, che non possono stare insieme. E il grave non è tanto in questa operazione - di per sé tutt'altro che corretta, perché, se non altro, bisognerebbe dire con chiarezza che si prendono le distanze del rapporto che si vuol commentare, e cercar di motivare poi questa posizione - quanto nel fatto che nel momento in cui la Giunta enuncia i suoi reali propositi, nella seconda parte del suo documento, ciò che emerge con chiarezza non è la volontà di elaborare una politica di piano, e tanto meno di contribuire a quelle modificazioni di indirizzo rese oggi indispensabili dalla crisi che attraversa il Paese (altro che strategia alternativa!), ma la volontà di secondare ancora una volta le cosiddette tendenze spontanee del mercato, che è poi una formula che è sempre servita a mascherare le scelte dei grandi gruppi monopolistici ed a far assolvere alla Regione non già una effettiva funzione di guida e di coordinamento dello sviluppo, ma, nella migliore delle ipotesi, un ruolo meramente sussidiario rispetto alle decisioni ed agli indirizzi predeterminati da altri.
La verità di questo fatto cercherò di dimostrarla tra poco, e cercher di dimostrarne anche la gravità estrema per le prospettive della nostra Regione. Anche se non ce ne dovrebbe essere bisogno, perché credo che tutti siamo in grado di comprendere che la recessione di oggi e le contraddizioni che ritardano la ripresa economico-produttiva discendono proprio dal fatto che si è continuato a lasciar campo libero alle cosiddette tendenze spontanee, cioè alla logica di un meccanismo di sviluppo che ha dentro di sé, incorporate, connaturate ai suoi meccanismi, alle sue strutture, le ragioni più profonde della crisi di oggi.
Noi comunisti abbiamo rilevato, fin dal primo insorgere, delle difficoltà economiche attuali, cioè fin dai primi mesi del 1970, il carattere strutturale dei fenomeni negativi che stava attraversando la nostra economia. Ci fu risposto allora, da parte del Governo e da parte degli ambienti padronali, che si trattava di una normale "congiuntura bassa", cioè di una tappa fisiologica del ciclo economico, acuita dalle conseguenze, si diceva, delle lotte operaie, delle conquiste salariali dell'elevamento dei costi di lavoro che queste rappresentavano. E si voleva con ciò negare l'esigenza di riforme strutturali e di nuovi indirizzi di politica economica. Ma tutte le fasi successive della crisi hanno confermato la nostra diagnosi, tutte le manifestazioni più acute portano il segno di uno squilibrio generale, che investe i meccanismi e le strutture del nostro assetto economico. Del resto, andiamo a vedere al di là dei singoli aspetti, pur acuti, pur decisivi, della crisi di oggi: il calo degli investimenti, il calo dell'occupazione, il calo dei ritmi di incremento della produzione. L'elemento più grave, e direi più nuovo rispetto ad altre fasi di recessione, o di stagnazione economica, è la durata stessa di questa fase recessiva. Sono ormai due anni e mezzo che l'economia italiana denuncia difficoltà ed incapacità a superarle: si tratta, cioè, della più lunga fase di stagnazione e di recessione che il nostro Paese abbia attraversato dal dopoguerra ad oggi.
Ora l'ipotesi di una vera crisi congiunturale, di fronte alla durata stessa della crisi, non regge più, e coloro che due anni fa avevano tentato di addossare tutte le colpe delle difficoltà economiche agli aumenti salariali, ai nuovi costi di lavoro, e su questa base avevano condotto avanti una campagna di vero e proprio linciaggio politico e morale nei confronti dei lavoratori, dei sindacati, delle sinistre politiche, oggi dovrebbero semplicemente sentire il bisogno di arrossire. I fatti dimostrano, se mai, che le lotte operaie non hanno fatto altro che mettere a nudo le piaghe, i nodi irrisolti, i mali strutturali della nostra economia. Persino il governatore della Banca d'Italia, Carli, nella sua ultima relazione annuale ha dovuto ammettere (e Carli, come ricorderete, fu un alfiere della battaglia contro gli aumenti salariali, contro i sindacati) che le vere cause della crisi stanno in strozzature, in nodi strutturali irrisolti e nella mancanza di una direzione politica efficace per affrontare e risolvere questi nodi, cioè nella mancanza di una effettiva politica di programmazione. Persino Cefis ed altri esponenti della economia italiana hanno dovuto riconoscere la validità di una diagnosi che noi avevamo individuato sin dall'inizio della crisi attuale.
In realtà, più dura la crisi e più emerge un dato di fondo che impronta tutti i singoli aspetti della situazione, cioè il fatto che è ormai venuto ad esaurimento il vecchio meccanismo di accumulazione e di sviluppo che ha caratterizzato l'economia italiana negli ultimi vent'anni. Un meccanismo che noi abbiamo sempre denunciato come ingiusto e squilibrante, ma che almeno ha avuto il merito di garantire per circa vent'anni una espansione spesso accelerata, per quanto distorta, delle forze produttive del nostro Paese. Oggi questo meccanismo ha un altro difetto: si è inceppato, e non riesce più ad andare avanti. Ed io vorrei accennare, molto schematicamente alle ragioni di questa novità, di questa crisi per certi aspetti verticale di un modello dei criteri di fondo dello sviluppo dell'economia italiana.
E' venuta meno, intanto, o si è fortemente indebolita, quella forza traente che aveva così notevolmente, direi in modo decisivo, pesato negli anni passati, costituita da un determinato tipo di integrazione internazionale: il legame, il rapporto di fondo fra l'economia italiana l'economia poi più sviluppata, le aree forti del nostro Paese ed i Paesi capitalistici più sviluppati, che in passato, ripeto, ha garantito certamente un certo tipo di espansione, al momento della liberalizzazione degli scambi nel Mercato comune europeo e negli anni successivi. Una forza traente, però, cui tutto è stato sacrificato nel nostro Paese. Ricordate la filosofia della competitività, sorta di idolo che veniva assunto come criterio di fondo di tutte le prospettive della nostra economia? Ecco questo tipo di mercato internazionale oggi non offre più sbocchi sicuri e non offre più lo spazio per un ulteriore sviluppo della nostra economia.
Ciò per tante ragioni, che tutti conosciamo, che abbiamo anche discusso in questo Consiglio.
In primo luogo, perché si è fatta più tesa la concorrenza internazionale, per il bisogno degli Stati Uniti d'America di invadere nuovi mercati, di dominare ancora di più i mercati capitalistici sviluppati, che sono quelli che più si prestano a questo dominio, più disponibili ad un certo rapporto di soggezione verso gli Stati Uniti d'America. E anche i recenti scossoni monetari stanno a dimostrare che su questo terreno, ormai, l'economia italiana non ha più un approdo sicuro ma se mai si vede parare di fronte nuovi e più gravi pericoli. Ma ci sono altri fattori. In questa situazione emerge ancor di più la debolezza vorrei dire la povertà storica, del mercato interno del nostro Paese, che è sempre stato immolato, soprattutto in questi venti anni, a determinate scelte di politica internazionale. E quando parlo di mercato interno mi riferisco in primo luogo all'arretratezza del Mezzogiorno, alla sua incapacità di portarsi al livello di un mercato moderno, capace, per esempio, di porsi a confronto con le economie di agglomerazione, le economie più sviluppate del nostro Paese: basta pensare, ad esempio, agli effetti della crisi del settore tessile, oggi una delle più drammatiche, a quel che significa avere un mercato interno con milioni e milioni di lavoratori a basso reddito, di disoccupati, di gente povera, nemmeno in grado di comprarsi un vestito ogni due anni; mi riferisco alla crisi dell'agricoltura, al sacrificio totale dei grandi consumi sociali, e anche diciamolo, dei consumi individuali di immense masse, di intiere categorie (i pensionati, i disoccupati, le popolazioni del Mezzogiorno, appunto).
Un altro elemento, molto connesso a questo secondo: il calo costante della popolazione attiva rispetto alla generalità della popolazione del nostro Paese. Negli ultimi dieci anni questo calo è diventato una frana: siamo passati dal 41% della popolazione attiva al 35% circa; un calo che in questi ultimissimi anni sta andando avanti per progressione geometrica. Si dice, da parte di qualcuno, che si tratta di fenomeno positivo, dovuto all'aumento della scolarità, al fatto che i giovani vanno più tardi al lavoro. Signori miei, non inganniamoci. Certo, possono anche pesare determinati fattori positivi. Ma andiamo a vedere la struttura di questo fenomeno, e allora ci accorgeremo che, per esempio, nel Nord del Paese dove certo la scolarità raggiunge più alti livelli, la popolazione attiva è calata, ma si attesta su un livello del 38-39 %, nel centro del Paese si va al 34%, nel Mezzogiorno continentale al 30 %, nelle isole al 25 %, un livello da Paese antidiluviano, da Paese rimasto ad un grado medioevale di sviluppo delle forze produttive.
Hanno pesato poi un mutamento di fondo del mercato del lavoro, ostacoli che si sono presentati (anche di questi abbiamo discusso più volte, vi accenno solo, proprio per promemoria), i grandi flussi immigratori che hanno caratterizzato il vecchio meccanismo di accumulazione; ostacoli che si presentano tanto al Sud, dove ormai il dissanguamento ha raggiunto livelli intollerabili, quanto al Nord, dove i livelli di congestione delle aree industriali comportano, oltre tutto, un aumento patologico dei costi economici e sociali dello sviluppo.
E pesa anche certamente la rottura che si è verificata in questi anni dei vecchi livelli salariali. Sappiamo bene che la nostra competitività internazionale era poi soprattutto sorretta dai salari a livelli africani corrisposti nel nostro Paese. In questi anni vi è stato un salto determinato indubbiamente anche da uno sviluppo della coscienza dei lavoratori, della loro unità, della loro forza, che ha loro consentito di respingere vecchie forme di disciplina aziendale, per esempio, che li condannavano a forme ormai intollerabili di sfruttamento. E questo è certo un fatto che ha pesato sulla crisi di oggi: ma ha pesato positivamente come elemento che ha posto in luce i veri nodi della crisi della nostra economia.
In questo quadro radicalmente mutato, che preme obiettivamente nella direzione di un nuovo meccanismo di sviluppo, noi ci siamo trovati di fronte non soltanto alle resistenze grette di classe dei gruppi dominanti che tendevano a conservare i propri privilegi, ma anche ad una paurosa impreparazione culturale: difficoltà non soltanto di fronteggiare ma anche soltanto di capire quello che di nuovo stava capitando, impreparazione dei nuovi gruppi dirigenti industriali. Bisogna rilevarlo, questo, in una città ove spesso i grandi manager si presentano come gli uomini del futuro, gli unici in grado di precorrere gli eventi. Ci siamo trovati di fronte a tentativi, qualche volta, di escamotage puro e semplice: per esempio quello di ribaltare sull'aumento dei prezzi le nuove situazione, le difficoltà che si venivano a determinare nelle aziende; o i tentativi tardivi, e io ritengo del tutto insufficienti, di adeguare le forme di organizzazione della produzione e del lavoro, del mercato, soprattutto per ciò che riguarda le grandi imprese motrici (parlo della Fiat, come potrei riferirmi alla Olivetti, come forse alla Pirelli); tentativi che spesso hanno provocato veri e propri terremoti al vertice di queste aziende, con sostituzione quasi radicale del personale dirigente, il che sta a significare che in qualche modo essi stessi riconoscono che non si tratta di fenomeni oggettivi ma di precise responsabilità.
Ci siamo trovati poi di fronte ad una grande massa di imprenditori medi ma anche grandi, che dopo anni di arricchimento e di politica di arrembaggio - gli anni dei cosiddetti "miracoli" -, in cui hanno accumulato immense ricchezze, magari per poi, caro Rossotto, investire, che so? nell'acquisto di grandi alberghi, in speculazioni edilizie e così via parliamo dell'industria tessile, ad esempio, ma potremmo parlare di quella degli elettrodomestici e così via - oggi alzano le mani, vendono le aziende. Ecco allora che si cerca di affibbiare allo Stato la nuova funzione di fare da Croce Rossa, assumendosi il carico delle aziende dissestate, che non hanno conosciuto negli ultimi dieci anni, nonostante una enorme espansione produttiva, immensi profitti che tutti possiamo costatare, una sola innovazione tecnologica (si sono, in molti casi mantenuti in piedi impianti che hanno quaranta-cinquant'anni, come nelle aziende tessili). Ecco, in queste condizioni, un'ulteriore gravissima espansione del controllo del capitale straniero, soprattutto americano, che arriva e risolve queste crisi acquistando.
L'impreparazione più clamorosa è stata poi rivelata da quella che il qualunquismo nazionale chiama la classe politica, che io invece chiamo il Governo, o Partiti che hanno diretto l'economia e la società nazionale in questi anni. Il Governo, i responsabili della vita economica, democristiani soprattutto ma anche socialdemocratici, si sono comportati in questi frangenti alla vecchia maniera.



BORANDO Carlo

Anche socialisti.



MINUCCI Adalberto

Anche socialisti, se vuoi. Ma vorrei poi vedere quali lotte interne si sono svolte: sappiamo bene come certi tentativi di pianificazione da parte dei socialisti siano stati del tutto sotterrati dalla maggioranza governativa. Ma non tocca a me difendere i socialisti.
Per esempio, quando si è registrato il notevole rialzo dei salari, si è fatto da parte di quei responsabili che dicevo il vecchio ragionamento: aumentano i salari, dunque pericolo di inflazione, quindi politica deflattiva. Ed allora ecco il decretone, ecco le strette creditizie alla Carli, che sono stati autentici non disastri ma delitti, perché si trattava di operazioni che si svolgevano come se ci si trovasse in presenza di una pura congiuntura, in quanto non si voleva prender atto che in realtà si trattava invece di una crisi strutturale. Così, il decretone e le strette creditizie non hanno fatto altro che aggravare, e spesso far precipitare certi elementi di difficoltà e di crisi presenti nella situazione.
In realtà, gli aumenti dei salari non hanno portato non dico ad un corrispondente ma neppure ad un sensibile aumento dei consumi individuali e questo perché intere categorie a bassa capacità di consumo non sono state toccate da tali aumenti, ed anche perché per fortuna la classe operaia italiana ha dei livelli di maturità politica e sociale diversi, per esempio, da quelli della classe operaia americana, per cui avere diecimila o ventimila lire in più non significa cambiare ogni anno l'automobile o il frigorifero non significa, se mai - e in effetti vi è stato un notevole aumento del risparmio anche da parte delle classi popolari, in questi anni vedere in tutt'altro modo i problemi della loro collocazione nella società.
Ma la responsabilità politica più grave - e qui chiamo senz'altro in causa direttamente la Democrazia Cristiana - è connessa a quello che io definirei il carattere più specifico e più nuovo della crisi di oggi costituito dal fatto che negli ultimi anni, nell'ultimo decennio ma soprattutto nell'ultimo quinquennio, si è registrata una fortissima estensione dell'intervento dello Stato nell'economia, dei processi di integrazione dello Stato nella realtà economica; una estensione della presenza dello Stato, anche nell'industria manifatturiera, molto sensibile e anche attraverso altre forme. In altre fasi di recessione, in altre fasi di ristrutturazione - penso, ad esempio, al 1958, al 1964 i protagonisti indiscussi di questi processi, delle scelte di ristrutturazione, erano stati appunto i grandi sviluppi privati: la Fiat, la Pirelli, la Montedison. E la Democrazia Cristiana, in quelle circostanze, si era limitata ad una riedizione aggiornata della vecchia politica del laiser faire. Allora sì, bisognava forse essere alleati con i liberali: lo Stato cioè, veniva visto soltanto come un puro ente sussidiario di uno sviluppo determinato da altri. La D.C. oggi tenta - e questo è davvero il suo dramma di ricalcare quel vecchio schema.
Ma questo è impossibile, proprio perché il peso, il rilievo, la qualità stessa che hanno assunto le grandi holding pubbliche, l'intervento pubblico in generale nei processi economici, e quindi negli stessi processi di ristrutturazione, fanno sì che lo Stato sia oggi chiamato direttamente in causa, e non possa sottrarsi ad una responsabilità che oggi non pu addossare a nessuno. Del resto, oggi, quando dico lo Stato, dico ancora la D.C., se pensiamo al fatto che, per esempio, fra le grandi novità di questi ultimi anni dobbiamo annoverare anche il fatto che la Democrazia Cristiana è ormai diventata una specie di punto di ritrovo, di riunione di alcuni dei più grandi manager dell'economia italiana (abbiamo sempre parlato di Pirelli e di Agnelli, parliamo di Cefis, di Girotti, di Petrilli, di Bernabei, e via di seguito, che sono uomini di primo piano della Democrazia Cristiana, non soltanto dell'economia pubblica).
Ecco perché oggi la Democrazia Cristiana si trova davvero allo scoperto, non ha più quelle possibilità di mediazione a cui è ricorsa in passato. E qui stanno le vere ragioni della crisi del suo interclassismo della crisi del suo rapporto con certe forze sociali, che l'ha costretta ad esempio, alla svolta a destra di questi ultimi due anni, che l'ha costretta, ad affrontare in un certo modo la campagna elettorale. E' indubbio che la campagna elettorale è stata, in qualche misura, un contentino, un rinvio della crisi effettiva del suo rapporto di fondo con le grandi masse popolari, ma non è certo una soluzione definitiva dei problemi che la D.C. oggi ha di fronte a sé. E siccome la mia opinione come i Colleghi sanno (ricordo di aver avuto una volta una discussione in proposito, molto cordiale, del resto, con il collega Bianchi, proprio in quest'aula), è che la Democrazia Cristiana non sia destinata a scomparire dalla scena politica a causa di queste crisi, e che in essa vi siano le forze, le condizioni, anche, di grandi aggiornamenti, di grandi ripensamenti, di revisioni, io penso che, proprio perché la Democrazia Cristiana ha queste facoltà, queste possibilità, di adeguarsi alla realtà sociale, al blocco sociale stesso che rappresenta politicamente, sia stata cosa di una gravità e di una assurdità incredibili allearsi al Partito liberale proprio oggi, cioè nel momento in cui la crisi della nostra economia dimostra che occorre passare da un ciclo economico di tipo spontaneo privatistico ad un ciclo economico programmato ed a direzione pubblica. Perché questa è la realtà di fronte alla quale ci troviamo oggi.
Che cosa significa allearsi agli ultimi epigoni, qualche volta patetici, qualche volta no, della vecchia economia liberistica? Che cosa significa mettere Malagodi a dirigere il Tesoro? In realtà, questa responsabilità generale, che io attribuisco alla Democrazia Cristiana, al Governo, è tanto più grave, per la Giunta Regionale piemontese, per gli atteggiamenti che la Giunta assume nel suo documento. Tanto più grave perché la scelta che viene proposta in questo documento, di ricalcare anche qui le vecchie tendenze di sviluppo, e semmai di esasperarle, è particolarmente pericolosa ed irresponsabile in considerazione del ruolo nevralgico che il Piemonte ha avuto nel vecchio tipo di sviluppo oggi in crisi e per i contraccolpi che potrà riceverne se non si va verso un nuovo tipo di sviluppo.
Mi rifaccio anche qui, schematizzandone i punti salienti ad una analisi che da tempo viene svolgendo il nostro Partito sulla struttura dell'economia piemontese, sulla sua collocazione sia nel meccanismo di sviluppo nazionale sia nel processo di integrazione internazionale (certamente molti Colleghi già li conoscono): il ruolo decisivo, ma unilaterale e squilibrante, della maggiore impresa motrice, la Fiat, e del settore dell'auto, un ruolo decisivo e squilibrante non solo per il Piemonte ma per l'intera economia nazionale. Il suo peso nel sequestro delle risorse, ma anche il suo peso politico, la sua capacità di incidere sugli indirizzi della politica economica generale, sui Governi e così via ha determinato da quindici anni a questa parte una sorta di spirale, una logica che ha varie componenti ma di cui va vista soprattutto l'interconnessione che le lega: il carattere mono-industriale (dico cose che il rapporto dell'Ires e lo stesso documento della Giunta, del resto riconoscono) e mono-culturale dell'apparato economico della nostra Regione l'eccesso di specializzazione produttiva (si pensi che nell'area metropolitana torinese il 70% dell'industria manifatturiera è rappresentato dal settore metalmeccanico e l'80 % circa del settore metalmeccanico è rappresentato dalla motoristica). Ciò comporta una forte concentrazione territoriale (sono dati che tutti conosciamo, voglio solo accennarli sempre per memoria): l'area metropolitana di Torino rappresenta appena la decima parte della superficie territoriale della nostra provincia e la quarantesima parte della superficie territoriale del Piemonte; ebbene, in quest'area è concentrata più di metà della popolazione della nostra Regione, con gli effetti di congestionamento a tutti noti. Dal '58 in poi si è avuto un aumento demografico, nel circondario del capoluogo, che mi sembra sia stato pari al 60 % il più alto che si sia realizzato in un'area del nostro Paese, mentre in tutto il resto del Piemonte, compreso il resto della provincia di Torino, i ritmi annui di incremento della popolazione sono stati attorno al 2 %, cioè pari a quello della Lucania, che è la regione a più elevato tasso di spopolamento e di emigrazione.
Occorre aver presente che questi vari aspetti interni alla struttura del Piemonte sono interconnessi fra di loro e al tempo stesso sono immediatamente ed ineluttabilmente correlati alle proiezioni esterne dell'economia piemontese. E' infatti la tipica funzione trainante e dominante del settore automobilistico nel meccanismo di accumulazione e di sviluppo regionale, nazionale, che ha improntato quel tipo di rapporto fra Piemonte e Italia, ed in primo luogo fra Piemonte e Mezzogiorno, che io non esiterei a definire la contraddizione fondamentale cui ha portato questo meccanismo.
E qui non sto ad elencare gli elementi che caratterizzano questo rapporto che tutti conosciamo; ma è anche vero che e proprio in questa funzione dominante del settore automobilistico che noi vediamo la ragione di fondo di un certo indirizzo dei processi di integrazione sovranazionali di un certo tipo di rapporto che è venuto a stabilirsi sulla base della teoria delle aree forti con l'area occidentale dell'Europa. Ne discende, se questo è vero (e non credo che nessuno possa dubitarne) una concatenazione logica fra la monoindustria, fra la concentrazione territoriale, fra i caratteri tipici dello sviluppo economico della nostra Regione e il rapporto con l'economia nazionale e con l'Europa; ne discende, signori colleghi, signor Presidente della Regione, (che vedo volentieri in questo momento al suo posto) che non possiamo ipotizzare, se non vogliamo ingannare l'opinione pubblica, quei tre obiettivi che la Giunta propone e che consistono nella diversificazione produttiva, nel riequilibrio territoriale, nello sviluppo dei consumi sociali, non possiamo mai realizzare questi tre obiettivi se non cambia questo meccanismo di sviluppo, se non mutano i rapporti interni alla struttura produttiva regionale, se non muta il rapporto col Mezzogiorno e con l'Europa.
Se voi continuate su questa strada potete scrivere "sviluppo dei consumi sociali" ma vi trovate di fronte ad un meccanismo che sequestra le risorse in un'altra direzione, potete scrivere "equilibrio del territorio" ma sapete bene che agite all'interno di tendenze che aumenteranno ancora la concentrazione e la congestione di aree sempre più ristrette.
Io non parlo sulla base di ipotesi astratte o tanto meno di apriorismi ideologici, parlo sulla base di esperienze che la realtà di questi anni hanno già verificato. Io voglio ricordare qui anche quando l'IRES elabor il suo primo piano, quello 1966/70, noi cogliemmo in quell'elaborazione una contraddizione fondamentale: da un lato l'IRES accoglieva e proiettava nel futuro, acriticamente, le tendenze impresse allo sviluppo dalle scelte delle grandi imprese motrici e in primo luogo dall'industria automobilistica e accettava, sempre acriticamente, la conseguenziale logica delle aree forti europee; dall'altro lato avanzava tutta una serie di proposte e di ipotesi che in sé erano sostanzialmente giuste. Come non si può condividere anche oggi i tre obiettivi che la Giunta propone? Riequilibrio del territorio, diffusione dei consumi sociali, sviluppo per aree ecologiche, decongestionamento dell'area di Torino. Erano già state dette queste cose. Ma oggi l'IRES nel suo rapporto è costretta a riconoscere che tutti questi obiettivi sono falliti e non soltanto le tendenze di allora non sono state corrette, ma addirittura si sono ulteriormente aggravate. E' l'IRES stesso che lo riconosce. Il carattere monoindustriale della nostra Regione si è aggravato, anche per effetto negli ultimissimi anni, della congiuntura bassa della crisi; i flussi migratori e la congestione delle aree forti (dell'area di Torino in particolare) sono proseguiti, la crisi delle aree di sottosviluppo, di abbandono si è ulteriormente acutizzata e si è acutizzata la crisi dell'agricoltura. E di servizi sociali parli chi sa, e credo che sappiamo tutti.
Di questo fallimento delle ipotesi di sviluppo allora formulate, io credo di poter dire (è un'opinione, perché il documento è molto cauto intendo il rapporto dell'IRES - scritto tra le righe e non credo che competa ad un istituto di ricerche avanzare proposte di carattere politico) che il documento dell'IRES ne tenga conto in qualche misura. Per esempio trovo che, sia pure in formulazioni molto limitate almeno nello spazio, si dia un nuovo peso al rapporto col Mezzogiorno. Trovo di grande interesse ciò che viene scritto a proposito della piccola e media industria nel rapporto dell'IRES, vi sono proposte più precise che nel passato di diversificazione produttiva e anche per ciò che riguarda lo sviluppo dei servizi e io penso di aver letto, ma non vorrei ingannarmi, un minore entusiasmo per le aree forti di quanto non ci fosse nel precedente rapporto.
Io direi che è proprio su questo punto discriminante dei rapporti fra Piemonte ed economie esterne che il documento della Giunta non soltanto si scosta dall'analisi scientifica dell'IRES, ma addirittura forza la mano anche rispetto a precedenti impostazioni. E pur di sposare certe scelte sovranazionali recenti della più grande impresa motrice, cioè della Fiat arriva a esasperare lo schema ormai logoro dell'europeismo delle aree forti, senza badare alle parole, alle enunciazioni (senza offesa per nessuno) grossolane che io non esiterei a definire prive di ogni consistenza scientifica e pratica. E cerco di dimostrarlo.
Si parla di piena assunzione da parte del Piemonte di un ruolo attivo nel contesto europeo. A parte il fatto che non si spiega perché il Piemonte non dovrebbe assumere un ruolo attivo, non soltanto, ma anche verso il contesto dell'economia nazionale, in che consisterebbe poi questo ruolo attivo nel contesto europeo? Andiamo a leggere e vedremo che il ruolo attivo in realtà è della Fiat, delle scelte che fa, degli assi economici che individua, degli investimenti nuovi che ha fatto e sta facendo in Francia e in Spagna, nell'Europa occidentale e che in realtà la Regione si assume di fronte a questo ruolo attivo un ruolo puramente ausiliario: le solite vie di collegamento, le solite infrastrutture, i soliti soldi dei cittadini spesi per inseguire scelte fatte da altri. Si dice per esempio che questo richiede lo sviluppo delle strutture di collegamento (badate che è l'unica formulazione in qualche modo concreta contenuta a questo proposito) tra l'area padana e l'area del Rodano, sia attraverso grandi infrastrutture stradali, sia migliorando le comunicazioni ferroviarie, sia infine, realizzando un sistema portuale integrato Marsiglia-Genova. Lo aveva detto anche Agnelli qualche tempo fa.
Ecco allora i trafori, ecco le autostrade. Il Presidente Calleri è già stato chiamato altre volte in causa, anche personalmente, sulla questione dei trafori. Io credo che oggi ce ne siano molti, anche troppi; ho letto quel volume immenso della Camera di Commercio che in questo credo abbia posizioni piuttosto vicine a quelle della Giunta, si parla addirittura di 10/15 trafori nuovi. Se questa Giunta non sta attenta, rischia davvero di passare alla storia come la più colossale "banda del buco" di tutti i tempi.
Ma a parte l'erroneità della tesi, secondo cui una politica di comunicazioni e di infrastrutture sarebbe un fattore non sussidiario non consequenziale ma traente dello sviluppo (erroneità smaccata, dimostrata dai fatti, perché se fosse vero che le autostrade e i trafori sono forse traenti dello sviluppo, a quest'ora la Lucania e la Calabria, che fra l'altro hanno avuto anche la fortuna di avere dei Ministri dei LL.PP. tra i loro illustri concittadini, dovrebbero essere più sviluppate della California, perché di autostrade, di sopravvie, di viadotti e così via, ne hanno ormai a bizzeffe) il problema è delle prospettive reali che apre una simile impostazione e sono prospettive gravi cari colleghi. Ed io vorrei su questo punto, richiamare la vostra attenzione, senza ardori polemici perché si tratta di un discorso troppo serio, che interessa tutti noi.
Cerchiamo di valutarlo assieme. Io non esito a dire (posso anche sbagliare) discutiamo, non cerchiamo di anteporre dei fatti, di precostituire delle vie che poi possono dimostrarsi dei vicoli ciechi.
Io vorrei mettere in luce, proprio a proposito delle prospettive, che io giudico estremamente gravi, che crea questa scelta, tre elementi che non possono non indurre tutti ad una precisa presa di coscienza; il primo è il rischio che si esaurisca a tempi prevedibili (l'IRES non vi accenna) il ruolo trainante che ha sinora assolto l'industria dell'automobile, nel senso che ci stiamo sempre più avviando verso un mercato tipicamente di sostituzione, non più di espansione, anche nel nostro Paese; e questo significherebbe che l'industria automobilistica sarebbe in grado - e questo noi lo auspichiamo - di garantire un certo livello di espansione, ma non più di assolvere a una funzione, di creare uno sviluppo indotto e diffuso.
E del resto, questa non e un'ipotesi astratta, questa è la situazione che si è già verificata negli Stati Uniti d'America che, come e noto, in queste cose è sempre 10/15 anni più avanti di noi; negli Stati Uniti d'America l'industria automobilistica già da anni non è più un'industria traente e hanno creato nuove industrie traenti, quella missilistica, quelle elettroniche e così via. In Italia il fenomeno è previsto da tutti gli studiosi. Io ricordo di aver letto in interviste a giornali, a riviste, che anche dai massimi dirigenti della Fiat è previsto questo fenomeno; si realizzerà già a partire dal '75 in poi e si accentuerà e diventerà determinante a partire dai primi anni '80. Allora l'esigenza di oggi è quella di individuare nuove industrie traenti, nuovi tipi di sviluppo perché tutti avvertiamo che un'ipotesi simile, grave per il nostro Paese sarebbe addirittura tragica per la nostra Regione che proprio in questa industria ha visto la struttura fondamentale e quasi esclusiva del suo sviluppo.
Il secondo è il rischio di un ulteriore aumento del gettito tecnologico. Io non sono d'accordo che su questo punto il rapporto dell'IRES non dica delle cose chiare. Questo divario, questo distacco fra i grandi paesi industriali e l'Italia diventa automatico se proseguisse questa tendenza di sviluppo, perché tutti sappiamo che l'industria automobilistica è ormai tecnologicamente matura, cioè non ha grandi possibilità di espandere e portare avanti le innovazioni tecnologiche; e del resto un'industria che, come abbiamo visto in questi anni, per quanto vada avanti, per quanto assuma un ruolo internazionale di prima grandezza non riesce a far muovere per niente la ricerca scientifica. Di qui quella sorta di rapporto coloniale che su questo piano viene a stabilirsi e si aggraverà tra l'Italia e le potenze industriali più avanzate; di qui l'esigenza di individuare, nelle industrie dell'avvenire, i nuovi settori traenti dell'economia nazionale e piemontese.
Terzo (e qui vorrei rinnovare la mia polemica con il documento della Giunta) il rischio che la logica delle aree forti ci porti in quello che definivo prima un vicolo cieco, al cui fondo c'è non il distacco fra il Piemonte ed il Mezzogiorno, ma la meridionalizzazione di tutta l'Italia compreso il Piemonte. Questo è un rischio sempre più serio, è una logica fra l'altro che la Giunta non sembra neppure prendere in esame, non comprendere nella sua reale portata. Si legge per esempio nel documento: "Sul piano della collocazione internazionale" (qui è riassunta la filosofia delle aree forti secondo l'accezione della Giunta Regionale e di certi altri gruppi dirigenti della nostra Regione) "del Piemonte la nostra azione deve porsi come obiettivo la creazione di un'area sud-europea in grado di bilanciare il peso che sempre più viene assumendo il così detto 'asse lotaringico'". Non voglio fare offesa a nessuno, ma una frase così si pu dire al caffè, in una chiacchiera fra amici, ma non ha nessuna consistenza non c'entra niente con la teoria economica, con l'analisi seria. Cosa vuol dire bilanciare? C'è un asse, facciamo un altro asse? C'è tutta una storia c'è tutta un'esperienza, c'è tutta una letteratura su queste cose, c'è anche una letteratura specifica proprio sulla teoria delle aree forti cerchiamo di andarla a leggere, di consultarla.
In realtà, le aree forti, le così dette economie di agglomerazione comportano un certo tipo di integrazione fra di loro ed è l'ipotesi su cui noi abbiamo puntato tutte le carte, non noi comunisti, ma le forze dirigenti del Piemonte hanno puntato tutte le loro carte nel passato e voglio puntare tutte le loro carte nel futuro, il che comporta una certa integrazione fra di loro, ma comporta anche e soprattutto una crescente subordinazione delle aree forti più deboli rispetto alle aree forti più forti. Ci sono a questo proposito, già esistenti e consultabili, dei modelli matematici che proiettano nel futuro tutte le tendenze tipiche delle aree forti. Da qui per esempio si sa che l'area di Torino è valutata sulla base di certi parametri scientifici, uno rispetto all'area di Milano che è valutata due rispetto all'area della Rhur che è valutata quattro. Ma cosa significa questo? Che se si va avanti in questa direzione e con un'industria che è tipica della nostra area forte, che non ha nessuna capacità di proiezione tecnologica avanzata futura, questo rapporto fra 4 e 1 sarà ancor più aumentato, si accrescerà, sarà destinato ad esasperarsi ulteriormente; si determina cioè la stessa logica che esiste fra Torino e perché no, la Calabria. Che differenza c'è? Non è un problema di livelli assoluti, è un problema di logica, di tendenze. Altro che riequilibrare l'area padana e l'asse lotaringico. Sono le stesse parole che si spendono quando si disse, all'inizio del centro sinistra: in dieci anni portiamo il Mezzogiorno a livello del nord. Che cosa ha significato questa affermazione? Che dopo dieci anni il sud era ancora più staccato, ancora più lontano dal nord.
Non siamo riusciti a riequilibrare, proprio sulla base di questo meccanismo di sviluppo, i rapporti interni all'economia nazionale, dove pure i vincoli, i collegamenti sono più forti, se non altro sul terreno della direzione politica, perché dovremmo saper riequilibrare noi i rapporti con le aree più forti dell'Europa. E del resto, signori colleghi leggete quello che stanno scrivendo i dirigenti della Rhur, i dirigenti dell'economia tedesca, i dirigenti dell'economia più moderna francese andate a sentire quel che dicono le assemblee di Strasburgo. Qui poi i ministri di centro sinistra prima e oggi centristi, vengono a mitigare le cose e a raccontarci che si è preso seriamente in esame anche la questione del Mezzogiorno d'Italia. Non è vero, andate a leggere quello che dicono e scrivono, dicono che bisogna continuare su questa tendenza, che è un assurdo, che è un blocco allo sviluppo e al progresso tentare di fermare la gente nel Mezzogiorno, italiani ed europei, ma si tratta di favorirla, ben vengano i buchi nelle montagne perché scappino con più velocità e i capitali devono essere investiti tutti così. Io lo dico in termini poveri ma andate a leggere e vedete che non invento niente. Chiedete ai colleghi che sono andati al recente convegno di Strasburgo delle regioni di frontiera, andate a sentire che cosa hanno detto i massimi responsabili tedeschi, francesi, belgi e così via. Io rispetto di più quelli che, come i tedeschi e i francesi, con cinismo ma con sincerità dicono come stanno le cose rispetto a questi tentativi melliflui di ingannare la gente e non far capire qual è la vera tendenza di sviluppo.
Quale è il rapporto col Mezzogiorno che la Giunta ipotizza? Questa è forse l'affermazione più grave contenuta in questo documento: si dice "Appare oggi chiaro come il sistema economico italiano non sia in grado, da solo, di dare una risposta a tempi brevi alla questione meridionale e se si vuole affrontare concretamente il problema occorre allora investirne tutto il sistema comunitario". Che cosa vuol dire? Che quel compito che gli italiani più generosi si erano assunti per il secolo XX, dovremo assegnarlo agli europei più generosi nel secolo XXI, perché di questo si tratterebbe cioè ricreare una logica sud-nord all'interno dell'Europa in cui rientrerebbe praticamente tutto il nostro Paese, poi aspettiamo che fra tre o quattro generazioni ci sia un nuovo Guido D'Orso, ci siano i Salvesini, i Gramsci di allora che cominceranno a parlare della questione meridionale europea.
Io vi prego però, questa frase, ditela nei vostri comizi nel sud bisogna farlo, bisogna essere seri. Io le cose che dico qui le ho dette in campagne elettorali in Sicilia, ma poi ho sentito i colleghi D.C. che parlavano sulle piazze del Mezzogiorno e non dicevano mica queste cose continuavano a promettere di investire tutto nel sud, non rinviavano mica alle nuove classi dirigenti europee la soluzione della questione meridionale. Bisogna essere coerenti se no chi si inganna? Ci si inganna fra di noi, senza risolvere nessun problema.
Io ritegno che la questione vera, che noi poniamo con molta forza, sia di un riequilibramento dell'economia nazionale come questione preliminare agli stessi rapporti con le aree esterne, con l'Europa in primo luogo e con l'economia internazionale nel suo complesso. Il Piemonte avrà una forza contrattuale maggiore nel processo di integrazione internazionale, nello stesso processo di unificazione europea se sarà collocato all'interno di una forte e integrata economia nazionale. La discriminante principale quindi, su cui non può non muoversi l'elaborazione del nostro stesso piano regionale, cioè di una Regione nevralgica dal punto di vista del meccanismo economico nazionale, non può che essere la questione del Mezzogiorno come questione nazionale, come questione fondamentale del destino del nostro Paese. Ciò non significa, sia chiaro (l'ho già detto altre volte, ma voglio rispondere in partenza a obiezioni che, mi si permetta, non sono giuste) essere autarchici o ignorare l'Europa, no, significa vederla in una altra dimensione, in un'altra prospettiva, direi in una dimensione molto più internazionalista di quanto non sia la vostra signori della Giunta, cioè una dimensione più ampia, non unilaterale, non irrigidita in certi rapporti privilegiati, ma tendente a collocare l'Italia in un processo più vasto che oggi viene più spesso ostacolato da certe forze, ma che è ineluttabile cioè il processo di unificazione del mercato mondiale che del resto ha già delle precise espressioni, per esempio nel rapporto fra est e ovest nello sviluppo dei rapporti commerciali fra le grandi potenze. Bisogna spezzare l'unilateralità dei collegamenti internazionali, se vogliamo spezzare l'unilateralità del meccanismo di sviluppo del Paese. Questo è il senso della nostra impostazione.
Per esempio si parla della necessità di nuovi settori trainanti, ma finché noi individuiamo la Rhur e i mercati capitalistici sviluppati come lo sbocco privilegiato, è chiaro che l'America, la Rhur non hanno bisogno di apparecchiature elettroniche da noi, sono più avanti di noi. Invece forse l'Italia può essere collocata in un mercato nei confronti dei paesi in via di sviluppo e nei confronti degli stessi paesi socialisti con cui si sono realizzate già delle prime esperienze, purtroppo oggi frenate, molto positive, che hanno bisogno di apparecchiature industriali, di tecnologie moderne e così via.
Ecco perché soltanto se noi vediamo questa collocazione più ampia che non respinga affatto l'Europa, anzi, veda l'Europa come un punto di riferimento essenziale, ma non l'unico, non l'esclusivo, allora possiamo anche individuare per esempio una linea di riequilibramento territoriale dello sviluppo nel senso che paesi socialisti comporterebbe come logica conseguenza una possibilità per le regioni meridionali, per i porti del Mezzogiorno di assolvere ad una funzione nuova nello sviluppo economico nazionale.
Mi scuso dell'eccessiva lunghezza, ma sono alla fase conclusiva. E' proprio partendo da questa coscienza della necessità di una svolta che avvii una nuova fase di sviluppo e che abbia come discrimine essenziale il rapporto Piemonte-Mezzogiorno, che noi formuliamo alcune grandi linee indichiamo cioè alcune scelte di fondo che possono e debbono costituire, a nostro avviso, le coordinate di un'effettiva politica di piano della Regione.
In primo luogo - si tratta di fissare precisi orientamenti a livello di piano regionale e di lavorare per stabilire un rapporto fra questi orientamenti e il piano nazionale che preveda il dirottamento al sud di tutti o nuovi investimenti così detti specifici, cioè i grandi investimenti industriali destinati a creare nuove realtà socio-economiche, strutture portanti su cui costruire un nuovo tessuto economico sociale. Questo tipo di investimenti non serve allo sviluppo della nostra Regione, come non servono nuove infrastrutture che non siano rigorosamente necessitate dalle realtà socio-economiche di oggi. La nostra Regione ha già le grandi strutture portanti, ha già l'ossatura, si tratta di andare verso un'articolazione, una diversificazione di questo tipo di strutture, non di accrescerla ancora, perché andare verso nuovi investimenti che creino nuove realtà socio-economiche significa semplicemente intasare lo sviluppo accentuare la congestione, elevare i costi sociali ed economici dell'espansione.
In secondo luogo dare una collocazione del tutto nuova nel quadro del piano regionale alle piccole e medie imprese autonome e all'artigianato assegnare quindi loro un ruolo strategico, non sussidiario e condannato quindi eternamente alla marginalità; vedere le piccole e medie imprese come elementi decisivi di diversificazione della struttura produttiva e di estensione e completamento del tessuto socio-economico della Regione. Per esempio elementi decisivi per uno sviluppo diffuso sul territorio, per la salvaguardia di certe economie di vallata oggi sempre più minacciate. Su questo terreno vi sono (non le spese, sia chiaro, ma mi interesserebbe discuterle, mi interesserebbe che tutto il Consiglio Regionale, la Giunta dicesse delle cose molto chiare a questo proposito) delle interessanti proposte nel rapporto dell'IRES, forse è una delle parti più elaborate, più serie dell'intero rapporto. Ma io trovo per esempio nel documento della Giunta delle controindicazioni che non possono non preoccuparmi, perché si parla anche lì di piccole e medie imprese, ma si dice di quelle che hanno già uno studio avanzato dal punto di vista tecnologico e sono imprese traenti, cioè hanno un carattere traente; ma allora vuol dire le piccole e medie imprese non autonome, ma quelle legate alla Fiat.



CALLERI Edoardo, Presidente della Giunta Regionale

Quelle sono trainate, non sono traenti.



MINUCCI Adalberto

Appartengono al settore traente, guarda che la formulazione del documento io vorrei che fosse una svista, un errore, basta chiarirlo. Io direi che dobbiamo porci il problema di un ruolo strategico delle imprese piccole e medie, autonome, di quelle che esistono e di quelle che possono esistere, perché una politica regionale, un piano di sviluppo che vada in certe direzioni può moltiplicare queste imprese, può renderle decisive al fine per esempio di un nuovo riequilibrio territoriale. Io non sto a dire di certi aspetti concreti che una linea di sviluppo può assumere; il significato che può assumere la realizzazione di un istituto regionale che superi la discriminazione di cui soffrono queste piccole e medie industrie a proposito dell'accesso alle innovazioni tecnologiche. Io mi permetterei di aggiungere: non so come tecnicamente sia formulabile la discriminazione dell'accesso, ai quadri specializzati di direzione, a quadri tecnici e così via, politica del credito, politica delle aree per l'insediamento di queste aziende ecc.
Terzo punto: il piano regionale deve prevedere una difesa strenua di certi grandi settori portanti anche di grandi industrie che sono oggi in crisi, soprattutto tessili e chimiche.
Perché bisogna difenderlo? Perché se vanno verso il crollo e il settore chimico nella nostra Regione, secondo il piano CEPS andrebbe verso la scomparsa, il settore tessile va verso un ridimensionamento pauroso, se questi processi si realizzano allora è chiaro che non andremo verso una diversificazione produttiva nella nostra Regione, ma andiamo ad un'ulteriore accentuazione del carattere monoindustriale in primo luogo secondariamente facciamo scomparire settori di grande e media industria che sono decisivi dal punto di vista di certe economie sempre più emarginate nella nostra Regione; pensiamo al ruolo delle imprese tessili nell'economia di valle nel biellese, pensiamo al ruolo che ha per esempio la Chatillon a Vercelli, perché chiudere la Chatillon vuol dire chiudere Vercelli, a meno di non farne un grande pensionato per tutta la Regione, non ci sono altre industrie.
Questo vuol dire incaricare l'IRES di approntare rapidamente dei piani di settore collocati nel piano regionale e sulla base di questi piani andare a contrattare con i gruppi industriali interessati e con lo Stato perché la Regione abbia voce in capitolo nei necessari piani di ristrutturazione e abbia come obiettivo fondamentale la difesa dei livelli di occupazione.
Quarto punto: operare per un massiccio spostamento di risorse a favore dell'agricoltura. E qui, per non tediare ulteriormente i colleghi, proprio perché il nostro gruppo più volte, soprattutto per bocca del collega Ferraris, ha illustrato le nostre posizioni di fondo, anche le posizioni che si integrano col piano Ente regionale di sviluppo e così via, io mi limito ad accennare a questa esigenza fondamentale.
Quindi: in una Regione come la nostra è decisivo programmare lo sviluppo del terziario e mi si permetta di richiamare per un momento l'attenzione dei colleghi e soprattutto del Presidente e della Giunta nel suo complesso. Rilevano il documento dell'IRES e quello della Giunta, che il Piemonte è (potrebbe apparire un paradosso) la Regione forse più arretrata sotto il profilo del terziario, o almeno una delle più arretrate.
Ed è logico, perché una Regione dominata dalla monocoltura, da uno sviluppo concentrato in aree ristrette certo che poi ha delle conseguenze anche sul terziario. Ma in quale direzione dobbiamo programmare il necessario indispensabile prevedibilissimo sviluppo del terziario? Io ho visto che la Giunta ogni volta che ne parla mette al primo posto la parola "commercializzazione". Badate, io non sono contrario ad una doverosa necessaria, indispensabile ristrutturazione e ammodernamento del settore della distribuzione del commercio; sono contrario alla linea degli ipermercati che sta andando avanti in questa fase, ma io ritengo che il problema dominante, è quello che deve essere uno degli elementi portanti di tutta la nostra politica di piano, deve essere quello dello sviluppo dei servizi collettivi, dei grandi servizi sociali: casa, strutture sanitarie scuole, trasporti ecc. Si tratta però di vedere in che contesto collochiamo queste parole, altrimenti anche qui scatta meccanismo dell'inganno.
E' necessario andare verso un decisivo, non solo quantitativo ma qualitativo sviluppo dei servizi nella nostra Regione, non soltanto per dare una risposta a carenze ormai diventate intollerabili, a bisogni impellenti delle masse popolari; ci troveremo di fronte, nei prossimi mesi alla pressione dei nuovi contratti, ai collegamenti fra contratti e riforme che il movimento sindacale sta portando avanti. Ma anche qui sono d'accordo con il documento dell'IRES per imprimere un segno di qualità a tutto lo sviluppo, considerando i servizi (mi sembra che questa sia l'espressione che usa il rapporto) non come fattori sussidiari della produzione, ma come valori in sé, capaci cioè di modellare la vita degli uomini, di cambiare il modello dei consumi e quindi di influire per questa via anche sul modello dell'accumulazione e dello sviluppo. Ma lo sviluppo dei servizi - a me premerebbe sottolinearlo - è decisivo anche ai fini di un discorso nuovo e corretto sulla occupazione in una Regione come la nostra. L'ipotesi che formula l'IRES, se non sbaglio, è questa: anche se noi blocchiamo i livelli di occupazione nell'industria e in presenza di un ulteriore decremento dell'occupazione nell'agricoltura (direi ovvio) noi avremmo inevitabilmente uno sviluppo del terziario tale da accrescere notevolmente i livelli di occupazione nella Regione e l'IRES avanza l'ipotesi, la congettura (che certo è una delle meno arrischiate di tutto il rapporto) che si vada nei prossimi anni ad un flusso immigratorio nella nostra Regione di 40/50.000 unità. Io ritegno che questa sia un'ipotesi inaccettabile al punto in cui sono arrivate le cose; l'esigenza che noi affermiamo e che vorremmo posta al centro della politica di piano, era dunque questa, bloccare l'immigrazione e risolvere i problemi nuovi dello sviluppo dell'occupazione nella nostra Regione attraverso una espansione qualificata della popolazione attiva. Perché se andiamo a vedere, anche la nostra Regione è coinvolta in questo processo patologico, che ha portato negli ultimi anni a una riduzione insostenibile della popolazione. E direi che il fenomeno che più deve preoccuparci, della nostra Regione, che era tradizionalmente una delle regioni a più alto tasso di occupazione femminile, è la riduzione drastica di questa occupazione. E qui ci sono due elementi da vedere che si collegano entrambi ai servizi: in primo luogo il crollo dell'occupazione femminile in questi anni si è verificato nella classi di età fra i 30 e i 50 anni, il che significa che è il peso dei figli, delle famiglie che induce le donne ad abbandonare i posti di lavoro. Allora una politica di servizi che si colleghi alle esigenze delle famiglie e delle donne può per esempio rendere, anche attraverso forme nuove (io non sono contrario in partenza all'ipotesi del part-time, anche se ci sono state molte polemiche in proposito) disponibili le grandi masse femminili verso un nuovo tipo d'occupazione. Questo è un aspetto, ma ce n'è un secondo: l'espansione dei servizi non solo bloccherebbe o potrebbe bloccare, con una politica opportuna, la fuga delle donne dalla produzione, ma potrebbe anche aprire nuove prospettive di lavoro qualificato proprio per le donne. Pensiamo se la nostra Regione potesse, attraverso un piano pluriennale, provvedimenti graduali, colmare il vuoto che oggi esiste nel campo degli asili nido vorrebbe dire dare in alcuni anni posti di lavoro a 30-35.000 donne. E' solo un esempio, ma ne potremmo fare altri.
Ancora, e termino rapidamente: conferire un posto decisivo all'istruzione professionale. E io qui non sto a ripetere tutta una serie di proposte che abbiamo avanzato a questo proposito. In una Regione dove è decisivo un nuovo uso e una qualificazione diversa della forza lavoro, io credo che il problema della formazione professionale debba assumere un carattere strategico, importantissimo comunque. Vorrei invece soffermarmi per un attimo perché la cosa è urgente, sugli sviluppi ultimi dell'Università, della crisi dell'Università e su quella che a mio avviso non può non essere una politica di intervento della nostra Regione.
Voi sapete di che si tratta, la crisi è ormai diventata una necrosi vera e propria, l'Università di Torino sta saltando, vi sono delle Facoltà dove non si riuscirà neppure a dare gli esami. E qui non si tratta più dei gruppi contestatori perché sono in via di liquidazione, c'è proprio una crisi delle strutture, una situazione ormai insostenibile. Ebbene, in carenza di un intervento politico pubblico coordinato e in carenza della riforma, che cosa sta succedendo? Stanno pullulando delle iniziative che a mio avviso vanno nel senso della controriforma e se non stiamo attenti, se non riusciamo a bloccarle possono creare dei processi estremamente gravi.
Si tratta di una tendenza a spezzettare le Facoltà nei vari capoluoghi, nei vari centri della Regione. Dopo l'iniziativa di Vercelli del biennio di medicina, c'è oggi una pressione fortissima nel movimento organizzato a Novara, c'è la richiesta di Alessandria e si andrà anche, pian piano, a Crescentino, a Chieri, a Poirino, ognuno vorrà la sua Facoltà.



CALLERI Edoardo, Presidente della Giunta Regionale

A Moncalieri!!



GIOVANA Mario

A Bricherasio!!



MINUCCI Adalberto

Il problema a questo punto qual è? Che se andiamo in questa direzione neghiamo alla radice quello sviluppo nuovo dell'istruzione superiore che tende al massimo di interdisciplinarità, che tende cioè al massimo di unificazione delle varie discipline, dei vari corsi di laurea ecc.
Significa andare a uno spezzettamento e dall'altro lato significa andare a creare delle sedi universitarie che inevitabilmente sarebbero di serie B nei vari centri minori del Piemonte.
Ecco perché la Regione deve intervenire subito per bloccare questo processo, sapendo che ci sono delle forze potenti che si muovono in questa direzione.



DOTTI Augusto

Non possiamo discuterne prima?



MINUCCI Adalberto

Certo, discutiamone. Io dico, se è vera questa analisi, allora bisogna bloccarlo subito. Ci sono alcuni, anche del tuo partito, che non l'hanno discusso subito, hanno fatto il biennio di Vercelli e stanno muovendo per Novara, questa è la tragedia, non c'è discussione, la Regione è assente allora dico blocchiamolo intanto, e poi discutiamo, perché il processo sta andando avanti. Non è una discussione fra gentiluomini quella che riguarda la Facoltà, tu lo sai, ci sono dei gruppi di potere potenti nell'Università stessa, ci sono delle clientele politiche e ci sono anche dei campanilismi che tendono a questo.
Allora si tratta di bloccare questo processo, si tratta anche di individuare la possibilità e noi diciamo la necessità (del resto non è una proposta nuova) che si vada in Piemonte non ad uno spezzonamento delle Facoltà, ma a due nuovi atenei, l'uno nell'area Piemonte nord (Novara Vercelli) l'altro nell'area Piemonte sud (Alessandria-Cuneo). Del resto le Regioni che sono meglio servite sotto questo profilo hanno tre-quattro Università e spesso sono più piccole della nostra; in una Regione come la nostra io credo che la collocazione di due nuove Università complete organiche, in collegamento con quella di Torino, aperte verso le istituzioni, elementi che rendano possibile, facilitino gli stessi processi di riforma, io credo che sia una esigenza assoluta.
E accanto a questo, dando a questo elemento la priorità cioè alla creazione di due nuovi atenei, farei anche la richiesta di un'indagine sulla stessa area di Torino per vedere se non sia il caso, in subordinata rispetto alla costituzione di due nuovi atenei, di vedere l'eventualità nella realizzazione di un nuovo ateneo per Torino, perché siamo di fronte ormai a 40.000 studenti, mentre sapete che un'Università ottimale non dovrebbe superare i 10/15.000 studenti.
Non mi soffermo su altre questioni (perché capisco di aver già rubato un tempo veramente eccessivo) come quelle degli strumenti del piano, se non per dire che non credo sia possibile accettare, a scatola chiusa almeno, a proposito di consultazioni in particolare, la formulazione contenuta nello strumento dell'IRES secondo cui accanto agli enti locali (e ritengo che qui ci siano delle formulazioni quanto meno scarse, quanto meno aperte a dei dubbi; si diceva nell'altro dibattito che il Presidente Calleri propende per una delega davvero di tipo burocratico ai presidenti delle Province e trovo in queste formulazioni degli echi di questa impostazione restrittiva delle autonomie locali, della partecipazione alla politica di piano e così via) come interlocutori della politica di piano siano indicati soltanto i centri imprenditoriali privati. In vista di una contrattazione programmata non si parla di sindacati, di grandi organizzazioni sociali ecc. Io credo invece che si tratti di tornare a quell'affermazione di principio che avevamo fatto in sede di discussione del programma e anche nella discussione sullo Statuto: affermare il principio del regime, sancire il regime di autorizzazione dei nuovi insediamenti industriali, delle nuove localizzazioni degli investimenti, in accordo col piano nazionale, andare a un controllo degli investimenti anche più articolato, per esempio il problema dell'obbligo per le imprese di denunciare i loro piani di investimenti, di comunicarli alla Regione altrimenti mancano i punti di riferimento per una qualsiasi pianificazione, andare verso anche un controllo degli investimenti attraverso la creazione ovviamente (e lo si propone) della Finanziaria regionale, di strumenti propri della Regione, ma anche attraverso una politica di coordinamento degli istituti di credito e di diritto pubblico che secondo me potrebbe fra l'altro essere abbastanza accelerata da parte della Regione, anche nella realtà di oggi.
Concludo facendo alcune richieste molto operative, più immediate, che del resto obbediscono a questa logica che ho cercato di esprimere nel mio lungo intervento.
Io chiedo che la Giunta si faccia promotrice, nell'ambito di quel periodo che non credo breve, ma importantissimo e delicatissimo di elaborazione dei singoli piani regionali da parte di tutte le Regioni, che la Regione Piemonte, proprio per il carattere strategico che ha nello sviluppo economico regionale, si faccia promotrice di una conferenza delle Regioni italiane per discutere sul tema "rapporto fra piani regionali e sviluppo del Mezzogiorno"; la coerenza, la compatibilità, le linee di relazione che debbono esistere fra le pianificazioni regionali in tutta Italia e il grande problema che presiede a tutto lo sviluppo economico del Paese, che è la questione meridionale.
Altre richieste che avanzerei: di promuovere nel quadro dell'elaborazione del piano una conferenza regionale per la agricoltura; di andare rapidamente ad un convegno regionale sul ruolo delle piccole e medie imprese dell'artigianato nella politica di piano; di andare anche ad un convegno, se possibile, sul tema dell'occupazione femminile, che oggi è uno degli elementi più drammatici, secondo me, della situazione regionale anche in rapporto al piano di espansione dei grandi servizi sociali.
Infine, ho già detto a proposito di quel tema politico che a mio avviso deve presiedere tutte le fasi dell'elaborazione, della determinazione delle scelte del piano regionale e che è costituito dalla partecipazione democratica, dall'apporto delle masse. Io qui non dico cose diverse, credo (e guai a dare un carattere retorico a questo elemento determinante della realtà di oggi) da quello che il nostro Statuto ha già scritto. Trovo semmai che il documento della Giunta su questo tace troppo e quel poco che dice va nella linea esattamente opposta a quella fissata dallo Statuto (parlo della consultazione dei centri imprenditoriali privati, parlo degli accenni troppo vaghi e insoddisfacenti per quello che riguarda gli Enti locali). Si tratta invece di andare a stabilire già nel corso di questi dibattiti preliminari il ruolo che assegniamo agli Enti locali, ai comprensori o agli strumenti di decentramento e di democrazia del piano, a tutti gli altri strumenti che noi vogliamo vedere come fondamentali, come pilastri della pianificazione dell'Ente di sviluppo agricolo ecc. Ebbene vogliamo vedere con chiarezza quale ruolo avranno, vogliamo vedere come la Regione stabilisce un rapporto da interlocutore con le grandi organizzazioni sindacali oggi più che mai interessate ad una politica nuova di sviluppo e di piena occupazione nella nostra Regione e nel paese; si tratta di vedere anche come tutte le altre associazioni delle grandi categorie, le stesse forme di democrazia di base possano essere coinvolte (come del resto indica lo Statuto nello spirito e nella lettera) in questa grande consultazione.
Io non credo che da questo banco di prova possa sfuggire nessuna forza politica del nostro Consiglio, almeno le forze politiche che contano e che hanno un rapporto reale con le masse e quindi tanto meno sfuggire i compagni socialisti e la D.C. che, soprattutto qui, è la forza responsabile della elaborazione dello sviluppo di una politica di piano nella nostra Regione.
Noi chiediamo che queste forze politiche si pronuncino già oggi, già in questa fase iniziale del dibattito sul piano e si pronuncino sia nei confronti delle altre forze, dell'opposizione comunista in particolare, ma anche nei confronti di tutta l'opinione pubblica. Noi vogliamo sapere con chi si fa questo piano, perché questo è il punto chiave. Io a volte capisco certi fenomeni e anche certe incongruenze che si determinano in particolari fasi della vita politica, soprattutto di un partito così composito e così grande come la D.C., così grosso quanto meno come la D.C. E quindi capisco per esempio certi atteggiamenti.
Io vorrei dire che questa involuzione talvolta - mi permetta il collega Bianchi - l'ho colta in una certa dinamica dei suoi pronunciamenti. In genere noi, come il collega Bianchi sa, lo ascoltiamo con grande interesse e con grande rispetto, ma il passaggio da certi accenti di dialogo, qualche volta anche ecumenico se vogliamo, in questa apertura che era implicita (e voglio parlare delle fasi non lontane dell'elaborazione statutaria), ha altri toni, altri accenti. Il collega Bianchi - e non per farne una questione personale, intanto perché lo considero uno dei colleghi più autorevoli di questo Consiglio e uno dei colleghi che si ascolta sempre con grande interesse, ma perché esponente del gruppo D.C. e per questo mi rivolgo in particolare a lui - ha detto certe cose negli ultimi tempi, come quando ha fatto l'intervento sul bilancio; è arrivato a dire: basta, oggi si è cambiata pagina perché si passa dalla fase in cui si sosteneva la necessità di una stabilità governativa, alla fase in cui si ritiene necessario che i governi durino poco, che cambino il più possibile. Per me il governo Andreotti è già durato troppo, anche se ha ricevuto soltanto ieri la fiducia, ma la questione non sta in questi termini, collega Bianchi, sta nei contenuti e nelle scelte di fondo, cioè il con chi e per chi. E' chiaro che quando si imbarcano i liberali, poi ci si trova di fronte alla astensione dei missini e nessuno può venire a dire non la volevamo, non è determinante. Che cosa vuol dire? Chiedetevi perché i missini si astengono. Non è mica soltanto il peso che hanno in una votazione che conta, è lo spirito, è la logica politica che presiede a questi atti, che non sono mai casuali. Chiedetevi perché avete fatto uno scandalo sulla nomina da parte delle sinistre (forze che tutti riconoscete appartenenti all'arco costituzionale) del presidente della Commissione, per poco tempo, on. Donat-Cattin o nessuno si è scandalizzato, tanto meno la voce repubblicana sempre a presidio delle libertà democratiche, dei voti missini per altri presidenti di Commissione che non sono stati chiamati a dimettersi. C'è una logica? Allora, collega Bianchi, il problema non è di vedere se le maggioranze durano o non durano, ma di vedere su quali contenuti, su quali linee, con chi e per chi vogliamo governare. E questa scelta è soprattutto decisiva nel momento in cui si va a elaborare la politica di piano, l'asse fondamentale della vita della nostra Regione, come afferma lo stesso Statuto. Noi vi garantiamo che per quello che ci riguarda, il piano sarà per noi un terreno di grande importanza di tutta la nostra battaglia politica, nell'aula e fuori dell'aula. Noi lo vediamo non soltanto come lo strumento di nuove scelte economiche, di un nuovo tipo di sviluppo, ma lo vediamo anche come la condizione di un nuovo tipo di cultura, cioè di un nuovo impegno delle masse popolari per comprendere fenomeni spesso, per le masse, misteriosi, nascosti, dello sviluppo, per dominarli con l'azione politica cosciente.
Ecco perché, nel mentre ci rivolgiamo alle altre forze democratiche e chiediamo loro di avere un confronto aperto con noi, sui problemi veri e non sui giochi di parole, da quest'aula ci rivolgiamo anche - e voi capite che abbiamo la possibilità e l'autorità per farlo - a quelle grandi masse popolari del Piemonte che rappresentiamo così largamente; perch rappresentiamo la maggioranza di quella popolazione attiva, per quanto ristretta, rappresentiamo la maggioranza dei lavoratori dell'industria, che sono la parte fondamentale della nostra Regione e noi anche da quest'aula li chiamiamo a partecipare sino in fondo, a gettare tutto il loro peso nel dibattito e nella lotta per un nuovo piano di sviluppo della nostra Regione, perché questa è la via perché questa grande forza di popolo pesi sempre più sulle scelte fondamentali del proprio avvenire.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Rossotto, ne ha facoltà.



ROSSOTTO Carlo Felice

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, nell'esporre alcune generiche valutazioni sul Rapporto preliminare al piano di sviluppo del Piemonte, si rendono necessarie alcune considerazioni. La nostra Regione è composta da 1209 comuni, di questi, 520 comuni sono depressi, pertanto ne consegue che: il rapporto percentuale tra queste entità è dell'ordine del 50 %, mentre la media nazionale è del 20 %; 2) il Piemonte è al secondo posto nella formazione del reddito nazionale ed è viceversa a uno degli ultimi posti avendo un forte numero di comuni depressi. C'è da chiedersi quindi cosa sta avvenendo in Piemonte come causa di una tale anomala situazione. E' avvenuto che in una certa zona, quella composta di Trino, nei 23 comuni della prima cintura, e nei 29 della seconda cintura e in pochi altri comuni della stessa provincia, si è realizzato un insediamento industriale trainante, con conseguente notevole sviluppo economico della zona accompagnata dai negativi fenomeni di disordine urbanistico e di eccessiva disorganizzazione dell'intera area. Nel contempo dobbiamo rilevare una enorme povertà di investimenti in altre zone sia come conseguenza di insediamenti antichi, o quale conseguenza della configurazione geografica della nostra Regione.
E' noto che le componenti determinanti lo sviluppo economico di un'area sono: l'industria, l'agricoltura, i servizi terziari.
Il collega Minucci nel suo lungo, analitico intervento, alcune volte anche sereno, ha parlato del fenomeno industriale, ma mi permetta, di dissentire totalmente sull'impostazione da lui data ai rapporti Piemonte Europa, Piemonte-Mezzogiorno e specialmente sul voler in anticipo, a distanza di 24 ore dalla formazione del governo, far già carico allo stesso di determinati aspetti negativi. Vorrei anche che un certo assioma da lui enunciato venisse riesaminato per stabilire se esso sia vero o no. Egli ha affermato che un certo sistema di accumulazione che si è inceppato è da buttar via. Un sistema che per vent'anni è stato anche utile in un certo...



MINUCCI Adalberto

Ho detto di trasformarlo, buttare non si butta mai via niente.



ROSSOTTO Carlo Felice

Per te questo sistema, che in vent'anni ha dato dei risultati economici positivi, anche se con lo sviluppo spontaneo s'è creata disorganizzazione più non è valido da questo momento in avanti e ciò in contrasto con l'esame dei rapporti tra aree forti: area Piemonte uno, Milano due, RHUR 4, Parigi 7. C'è da dire che queste ultime aree, pur avendo dei sistemi di agglomerazione con una incisività di indici superiori di quattro volte, di sette volte il nostro dimostrano una loro specifica organizzazione, hanno cioè dato una soluzione ai problemi che la nostra area torinese non conosce, con la conseguenza che nell'area torinese si è determinata una disarticolazione, una disorganizzazione. L'impegno nostro, quali responsabili politici, è quello di intervenire per ovviare a questa disorganizzazione dell'area metropolitana torinese e proprio perch quest'area ha degli indici così bassi, non facciamo la filosofia della competitività diceva Minucci, giustissimo, non facciamo la filosofia di nulla, siamo pratici, rendiamoci conto che se vogliamo operare nel settore economico dobbiamo creare delle premesse di investimenti validi, che diano buoni profitti perché questo è il solo modo per determinare nuove possibilità al settore imprenditoriale e conseguentemente a quello che gli deve essere affiancato, che è quello degli interventi sociali.
Prima di dire che bisogna impostare un nuovo sistema vediamo se il vecchio sistema ha raggiunto il massimo, se non è più possibile con gli strumenti esistenti continuare, perché la Regione della RHUR. e quella parigina che hanno dato dei risultati positivi sia dal punto di vista economico che da quello di elevazione sociale, sono frutto di tipo di sistema che in questa Regione lo si vorrebbe contestato.
Il problema in verità è un'altro. Un conto è voler sempre, considerare tutti gli interventi fatti e da fare come sussidiari e sollecitati o voluti dalle decisione della forza trainante (in altre parole si parla della FIAT) un altro è vederli come decisioni di operatori pubblici che sanno prevedere ciò che determinate conseguenze di azioni economiche in fase di espansione richiedono come la soluzione dei problemi sociali da esse azioni determinate.
Noi stiamo assumendo delle gravi responsabilità con l'individuazione degli obiettivi della nostra azione politica e programmatoria rivolta agli anni '75/80 e ci si deve rendere conto oggi che l'industria tessile è saltata e, pur avendo avuto delle avvisaglie premature nei tempi passati dobbiamo pure dire che nulla si è fatto per evitare la grave crisi odierna.
Abbiamo inoltre un'industria chimica nel Piemonte e coloro che ne sono responsabili ci hanno detto chiaramente durante la conferenza chimica che le zone di crisi che si stanno determinando non solo in Piemonte, ma nel nord d'Italia, sono la conseguenza di un certo tipo di politica, quella avente per fine l'incentivazione e la disincentivazione del nord, perch nel momento in cui si creano delle condizioni di favore all'investimento con la concessione di un tasso di interesse ai prestiti agevolato, per facilitare l'investimento in una zona, si determina un minore interesse o minori investimenti nelle altre zone.
Questo l'ha detto il rappresentante della Montedison.



MINUCCI Adalberto

Non intende andare al sud, ha ben altri piani, leggi il piano Cefis.



MINUCCI Adalberto

ROSSOTTO



MINUCCI Adalberto

Il piano Cefis dice: io ho bisogno di 2800 miliardi a tasso agevolato anche per effettuare degli investimenti nel nord, perché altrimenti poich vi sono delle zone che hanno condizioni agevolate gli investimenti vanno a finire lì.



CALLERI Edoardo, Presidente della Giunta Regionale

Ha quasi detto quello!!



ROSSOTTO Carlo Felice

Ad ogni modo, alla conferenza regionale sulla chimica, parlando dei punti di crisi del Piemonte, il rappresentante della Montedison ha detto che c'era la necessità di avere tassi agevolati se no la Montedison non aveva la possibilità di intervenire.
Altro discorso è da farsi per il settore metalmeccanico, che è ancora trainante. Già in precedenti interventi si è detto che questo settore sarebbe stato trainante fino a quando potevano le condizioni di operatività costituenti il suo insieme potevano rimanere tali; obiettivamente, già si dice che dal '75 all'80 si comincerà a conoscere una sua fase di rallentamento. E allora è necessario tener conto che questo investimento esiste, che ha creato prospettive di lavoro e di dignità alle forze di lavoro e che gli Enti regionali e pubblici devono provvedere a che le attività imprenditoriali abbiano assistenza da parte dei poteri pubblici che certi oneri fondamentali del vivere civile non devono essere continuamente caricati su loro se vogliamo che le aziende non saltino prematuramente e che altri fenomeni produttivi, che nel libero sviluppo economico della Regione si devono verificare, possano normalmente crescere sì da costituire un'alternativa spontanea all'attività in declino.
Sorge così un altro problema: quando noi vediamo che tutta questa grossa agglomerazione che racchiude nella provincia di Torino il 52 % di tutta la popolazione della Regione Piemonte, che porta nella stessa provincia di Torino (composta da 315 comuni) che 57 comuni racchiudano l'80 di tutta la popolazione, c'è da chiedersi che cosa è capitato altrove. E' capitato che l'agricoltura piemontese è completamente abbandonata a se stessa. Noi leggiamo nel rapporto dell'IRES che dal 24 % si è scesi al 14 di addetti al settore agricolo, percentuale che incomincia a rappresentare un limite massimo di abbandono delle terre. Ma il grave è, quando si nota che sono i vecchi che sono rimasti ed i giovani che si sono allontanati; e questo il rapporto IRES lo dice. Quando si è notato la forte riduzione dell'occupazione femminile, la causa, collegata alla crisi dell'industria tessile, è da ricercarsi nell'abbandono delle campagne ove trovava specialmente occupazione la manodopera femminile. Cosa si intende fare in questo settore, accertato che nulla si è fatto? Io ho sentito ieri, durante la discussione sul bilancio, il Presidente della Giunta dire che è fondamentale, indispensabile difendere l'iniziativa privata per poter avere un certo tipo di progresso. E' indispensabile proprio nel settore dell'agricoltura avere chiari questi concetti e affrontare questa grave crisi, non con demagogia, bensì con una visione moderna, imprenditoriale e industriale che permetta di ottenere dei redditi concorrenziali, competitivi, di recepire capitali, di interessare al suo fenomeno produttivo le forze giovani che vi abbiano interesse, e non agire all'opposto soltanto con degli interventi frammentari. Questa è però una scelta di campo, di metodo che non è mai stata fatta in Italia in questi 25 anni, indipendentemente dalle varie componenti del governo. Ci sarà la scelta a cui la componente politica del collega Minucci crede, ma ce ne è un'altra, quella a cui crede la mia componente politica e che ha dato risultati concreti in Francia ma che in Italia non dà nessun risultato perché nulla si è fatto.
E' un impegno che deve compiere la Regione, mezzi e possibilità ci sono. Così se andiamo a considerare l'altra grossa fascia della Regione Piemonte rappresentata dalle Prealpi, da tutte quelle valli a cui accennava precedentemente il collega Minucci (l'unico che ha parlato di questi argomenti) facendo riferimento a coloro che hanno visto perire gli insediamenti industriali realizzati quando la forza motrice naturale lo permetteva ma che oggi si sono dimostrati non più economici. C'è un notevole abbandono di queste zone, che accompagnato all'altro fenomeno quello dello spezzettamento di proprietà fondiarie, fa sì che siano zone completamente depresse quelle dove una volta c'era un'attività agricola complementare all'attività industriale di fondo valle. Alla semimiseria del passato è subentrata la totale odierna e a ciò la Regione deve porre un rimedio anche perché i mezzi esistono. Nel bilancio approvato ieri si parla della formazione del demanio forestale. Ma dove da parte della Regione Piemonte deve avvenire l'azione di espropriazione per poter creare delle zone in cui il detto demanio può rappresentare una forma di sviluppo economico e nello stesso tempo di salvaguardia se non proprio nella fascia delle Prealpi? Questo è uno degli interventi che va attuato, proprio per il tipo di specializzazione, di occupazione che richiede e per non lasciar perdere risorse economiche che oggi sono in fase di abbandono.
A questo si riallaccia il settore nel quale occorrono interventi quello del terziario.
Il terziario giustamente non si riduce alla commercializzazione, ai servizi che sono un onere per la collettività occupazionale; c'è un fenomeno terziario che si chiama turismo come movimento di masse, come occupazione del tempo libero di queste masse che sono sempre più sottoposte, nelle grosse concentrazioni urbane, ad una vita stressante e che hanno sempre maggior bisogno di verde, di attrezzature, hanno bisogno di evadere, di raggiungere località serene a breve distanza. Noi abbiamo in molte delle nostre valli delle bellezze non tali da richiamare un'attenzione enorme, ma che possono rappresentare per l'uomo un luogo di recupero fisico, psichico indispensabile in una società industriale che vive senza dubbio con un ritmo inumano. In queste zone è possibile operare delle forme di turismo semplice che permette all'uomo una maggiore libertà.
Sono visioni che però implicano un presupposto di fondo: la collocazione di questo Piemonte. Se si parla dei rapporti tra Piemonte ed Europa con tutti i problemi collaterali e conseguenti ci sentiamo dire che la nostra Regione segue la politica della Fiat e che quindi automaticamente, noi siamo i servi sciocchi che corrono a fare da palafreno a questa grossa azienda, mentre il nostro futuro non si chiama Europa ma un diverso rapporto con il sud. Giustamente Minucci ha previsto il pericolo di un'accusa, che un tale rapporto interno porterebbe ad un discorso autarchico, ed ha negato tale implicazione: la visione di un mercato nazionale però per quanto andiamo a rafforzarlo o a presentarlo con vesti nuove è un discorso vecchio da un punto di vista economico (nessuna allusione, è troppo serio il discorso per fare delle battute del genere) è una soluzione che una forza ha già cercato di fare in Italia, è un rapporto basato sull'autarchia e non è sul potenziamento del mercato interno attraverso una più forte concentrazione di consumi, la ricerca di rapporti con paesi dell'arco mediterraneo o del mondo socialista che può fare sì che il discorso comunista può essere oggi differente da quello fascista del '36. E' pacifico che è un grosso interesse e se fosse realizzabile da un punto di vista economico, non ci sarebbe forza politica ed economica responsabile che dovrebbe dir di no; ma noi sappiamo quali sono le contropartite di molte di queste operazioni che il più delle volte chiudono in perdita: i paesi del Mediterraneo e quelli arabi in specie non chiudono mai le loro posizioni debitorie, e l'Egitto è l'esempio.
Allora dobbiamo dialogare con i paesi dell'Europa occidentale e questa è una visione alla quale io credo, non voluta dal grosso complesso aziendale Fiat, ma per quello che il Piemonte ha sempre rappresentato.
Prima si diceva: conoscete le regole delle aree forti più deboli nei confronti delle aree forti più forti? E' vero, però ricordiamoci che questa è stata sempre la regola a cui il Piemonte ha soggiaciuto nei confronti di economie o di posizioni politiche più forti, lui che era debole, ma così facendo è diventato area forte nel rapporto con il sud d'Italia. E' tutto un tipo di concezioni che oggi porta necessariamente a dover "bucare" le Alpi senza fare di esse una gruviera, per realizzare il minimo indispensabile di collocamento e per avere un maggiore flusso. Lasciamo stare l'esempio vivente del traforo di cento anni fa e che per cento anni ha unito la Moriana a noi, la Francia a noi; pensiamo ora a che cosa ha voluto dire per noi il traforo del Monte Bianco, anche da un punto di vista culturale, di umana conoscenza fra i savoiardi e noi, questi savoiardi che si sono riconosciuti, venendo in Piemonte, molto vicini più a noi che non alla Francia per costumi e per abitudini.
Quando affrontiamo il discorso del Frejus, affiora il discorso sul Colle della Croce come necessità di creare dei collegamenti con Marsiglia e se tutto questo fosse soltanto in funzione della Fiat, questa Fiat che dà lavoro a 180.000 dipendenti, non sarebbe soltanto a tutela dell'interesse del solo capitale, ma anche e specialmente delle 180.000 famiglie che per essa vivono, di noi stessi, di tutto il mondo che è stato posto in dignità di vita ed al quale, se vogliamo creare delle alternative le possiamo creare con la fantasia cui accennava ieri il Presidente della Giunta fantasia fatta di volontà, di piccoli interventi quotidiani, ma con una visione ben chiara che il grosso pericolo per la situazione economica piemontese non è rappresentato da questa dominante industria metalmeccanica ma dal pericolo che essa entri in crisi prima che siano create le alternative ad essi. Sarebbe illogico negarlo, ma proprio perché non vogliamo conoscere ciò che ha conosciuto e sta conoscendo il biellese proprio per non dover arrivare all'ultimo momento è bene che non ci si senta in colpa solo perché operando nell'interesse del Piemonte possiamo operare in funzione anche d'interessi Fiat. Noi liberali saremo forse superati, ma non certo non coerenti e così l'abbiamo detto dal nostro primo intervento che se nell'area metropolitana torinese c'è disorganizzazione non abbiamo però raggiunto il massimo delle sue possibilità e ora si tratta d'operare per riorganizzare ciò che ad un certo momento è scappato di mano al potere politico.
Ce lo siamo sentiti ripetere questa mattina che il rapporto è di uno a due con la zona milanese e di uno a quattro con la zona della Rhur, abbiamo larghi margini per nuovi interventi, facciamoli presto, abbiamo dello spazio, nel contempo dobbiamo occuparci delle altre zone deboli che, come dicevo all'inizio dell'intervento, fanno sì che il Piemonte, che è al secondo posto nella produzione del reddito nazionale, è a uno degli ultimi posti nel rapporto tra comuni in condizioni economiche floride e comuni depressi.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Gandolfi ne ha facoltà.



GANDOLFI Aldo

Signor Presidente, signori Consiglieri, vorrei intervenire brevemente pur non essendomi preparato a questo tipo di dibattito, perché credo che l'intervento introduttivo del Consigliere Minucci sia stimolante interessante e vada raccolto. Tutto sommato sono molto rare le occasioni in cui in Consiglio si riesce ad approfondire, a dibattere, a scambiarsi opinioni, impressioni, valutazioni politiche al di fuori del ruolo che ci compete. E credo che dobbiamo dare atto a Minucci per essere riuscito a consegnarci delle analisi che non condividiamo, ma che sono estremamente stimolanti e soprattutto slegate non tanto da una logica di parte, ma da intonazioni e da toni demagogici che non solo la sua parte politica, ma in generale tutte le parti politiche sovente ritengono di dover dare a interventi del genere, più preoccupate delle ripercussioni che questi interventi possono avere all'esterno, che dal ruolo che un dibattito franco e aperto può avere nella maturazione generale dei rapporti del Consiglio.
Quindi credo che una risposta gliela si debba dare, facendo ciascuno di noi il possibile per arricchire il dibattito di analisi precise e di precise valutazioni sui problemi generali del Paese ed in particolare del Piemonte.
Minucci ha percorso un certo cammino con molta coerenza, partendo da un'analisi della situazione generale del Paese, per puntualizzare quello che a suo avviso e ad avviso del Gruppo comunista sono i punti determinanti di una politica di programmazione in Piemonte. Mi accingerò anch'io a ripercorrere, probabilmente non con la stessa organicità, questo cammino perché l'impostazione logica che bisogna seguire è collocare il problema dello sviluppo piemontese in un contesto più generale.
Cominciamo quindi dall'analisi della crisi dell'economia nazionale nella quale ci troviamo. Direi che il punto di partenza deve essere un'esatta valutazione di quello che è stato il meccanismo di sviluppo degli anni '50, nel bene e nel male. Che cosa conteneva in sé? Innanzi tutto la scoperta del ruolo dell'interscambio internazionale come momento traente (in questo non sono molto d'accordo con la valutazione che ne dava il collega Minucci) dello sviluppo dei paesi ad economia aperta come il nostro.
Mi sembra che i dati che possediamo, le analisi economiche e scientifiche che sono state fatte su questo fenomeno, ci devono indurre a ritenere che il momento traente dell'economia a mercato aperto, come sono le economie del mondo occidentale oggi, è soprattutto il volume di interscambio, la specializzazione dell'interscambio, la specializzazione della produzione e delle tecnologie all'interno dei paesi. Il momento traente, per paesi come il nostro, come la Francia, la Germania che non hanno le grandi dimensioni di mercato interno che possono avere da un lato gli Stati Uniti e dall'altra l'Unione Sovietica, non è tanto nei livelli di consumo e di produzione interna, ma - almeno questo è il tipo di valutazione che io ritengo di fare e che la mia parte politica ha sempre fatto - nel volume di interscambio, nelle capacità di specializzazione delle singole economie, nelle capacità di incrementare a ritmi particolarmente elevati gli interscambi tra i vari paesi.
Lo sviluppo dell'imprenditorialità, della produzione industriale, dei livelli di occupazione sono stati legati dal '50 in poi a questo tipo di meccanismo, il quale ha determinato alcuni grossi fenomeni negativi: l'accentuazione dello sviluppo del nord rispetto a una notevole stagnazione del sud; l'immigrazione interna e così via. Ma se analizziamo questi inconvenienti, questi squilibri della situazione nazionale, ci rendiamo conto che non derivano tanto da fenomeni congeniti al meccanismo di sviluppo internazionale, ma piuttosto dalla mancanza di strumenti e di capacità di direzione dell'economia nazionale e da carenze di politiche di programmazione all'interno del paese, come la politica territoriale, la politica di localizzazione degli investimenti, un minimo di selettività sugli investimenti stessi. Certamente ci sono stati dei fenomeni non adeguati in risposta a questi squilibri. La politica di localizzazione di investimenti con un alto indice di investimento per addetto nel sud (Chimica di base, siderurgia) è stata una cosa sbagliata, semmai l'industria manifatturiera bisognava andare a farla nel sud e l'industria siderurgica svilupparla nel nord. C'è poi stata una mancanza di visioni coerenti precise e moderne nel campo della gestione generale dell'economia.
In effetti il problema fondamentale delle economie che si vanno sviluppando e industrializzando sempre più è di riuscire a mantenere un corretto rapporto tra consumi e investimenti, tra consumi individuali, consumi sociali e investimenti produttivi. Se si lascia alterare eccessivamente questo rapporto per scelte sbagliate o per mancanza di scelte, ci si trova di fronte a fenomeni inflazionistici abbastanza rimarcati che non possono più essere controllati che attraverso il classico meccanismo che gli anglosassoni chiamano "lo stop and go" fenomeni deflazionistici momentanei che non possono essere superati che con un'incentivazione sul medio termine dei consumi. Si arriva, in sostanza, ad una serie di recessioni e di riprese che ci fanno ritrovare immediatamente dopo con una ripartizione tra consumi e investimenti sempre più squilibrata a favore dei consumi e sempre più squilibrata a svantaggio degli investimenti, con di fatto una politica di invecchiamento dell'economia ed un'eccessiva accentuazione del fenomeno consumista rispetto alle necessità di investimento di creazione di nuovi posti di lavoro. Questo andamento è stato tipico dell'Inghilterra (e oggi ci sembra essere tipica del nostro paese) dove il fallimento laburista è stato soprattutto dovuto al fallimento del tentativo di arginare questi fenomeni proponendo una politica dei redditi che in realtà non è il blocco dei salari, ma la realizzazione di strumenti che permettano di tenere gli aumenti globali di consumi saldamente legato agli aumenti di produttività.
Il succo delle considerazioni che io vado facendo quale è? Evidentemente non è la logica di fondo dello sviluppo del paese che è sbagliata, cioè l'aggancio ad una politica di interscambi internazionali a saggi particolarmente elevati: quella che è fallita è la capacità di strumentare questa politica di scambio internazionale e di sviluppo industriale con alcuni strumenti di politica interna (politica economica ripartizione tra consumi ed investimenti delle risorse del paese, selezione degli investimenti e politica della spesa pubblica).
Sono quattro elementi fondamentali rispetto ai quali è mancata la volontà politica. Io non credo tanto alle tesi secondo le quali la programmazione sarebbe fallita perché rispetto ai socialisti che volevano la programmazione, dall'altra c'erano i D.C. che con disegni diabolici la volevano impedire, in questa fase di maturazione dei problemi di politica economica del paese è mancato un adeguato grado di consapevolezza (non per fare polemiche con i socialisti, la responsabilità della programmazione e del bilancio l'hanno tenuta per tanti anni loro) non solo da parte socialista e D.C., ma in generale da tutte le forze politiche e in particolare dai settori sindacali che hanno messo in atto in questi anni una strategia sbagliata. Se si vuole parlare di programmazione non si deve pensare a dei piani che al loro interno definiscono in maniera estremamente rigida, settore per settore, in ogni particolare, tutti i problemi che ci sono da affrontare, perché un'impostazione di questo tipo (che semmai sarebbe valida in paesi a strutture centralistiche, ma fallisce anche in questi) in economie come la nostra è destinata a fallire; bisogna capire quali sono le quattro o cinque variabili fondamentali e puntare tutto su un adeguato governo di quelle variabili, lasciando un'articolazione a livelli inferiori, soprattutto a livello di organizzazione regionale. E' mancata la consapevolezza del disegno di fondo che bisognava riuscire a realizzare da parte di tutti, anche delle forze di sinistra ma soprattutto di quelle sindacali; è mancata la consapevolezza precisa degli strumenti e dei modi con cui si doveva centrare una politica di sviluppo e di programmazione.
Quindi, per riassumere, mi sembra che il fallimento della programmazione, la causa degli squilibri che tuttora permangono nel paese possono essere attribuite a mancanza di volontà politiche e ad un generale basso livello di maturazione e di comprensione di questi problemi e di questi meccanismi.
Oggi di fatto ci troviamo all'anno zero per certi tipi di problemi, con una situazione particolarmente pesante per quanto riguarda l'occupazione con uno squilibrio particolarmente aggravato tra Mezzogiorno e nord Italia.
Ma allora, se questi sono i problemi che abbiamo ancora di fronte, se vogliamo collegare le scelte che facciamo in Piemonte ai più grandi problemi di occupazione del Mezzogiorno, per quanto riguarda la parte che io rappresento direi che i problemi vanno visti collegandosi a quel tipo di interpretazione e di analisi che facevo.
Per l'occupazione che cosa occorre dire? In generale si tratta della ripresa degli investimenti e del tentativo di spostare in un'ipotesi di crescita del reddito nazionale la quota che è stata destinata in questi ultimi anni ai consumi impostandola piuttosto verso la creazione di nuovi posti di lavoro; il che significa rendersi conto che in economie come la nostra l'incentivo agli investimenti è tutt'uno con il rapporto tra costi globali di produzione e aumento della produttività. L'errore che hanno commesso le centrali sindacali negli anni scorsi è questo: può darsi che abbiamo alle spalle degli errori degli imprenditori (per il settore chimico certamente ci sono, lampanti, macroscopici) ma direi che se c'erano delle forze avvedute avrebbero dovuto tenerne conto, non avrebbero dovuto aggiungere errore per errore. E' giusto il ragionamento dei sindacati: non doveva essere solo la classe degli operai a pagare gli errori degli imprenditori, ma è anche vero che, tutto sommato, oggi abbiamo proposto degli incrementi di costi del lavoro per il settore della retribuzione del personale che hanno superato i tassi di aumento della produttività dello scorso anno. Di fatto abbiamo messe in crisi non le grandi strutture industriali che avevano delle grosse responsabilità, ma i livelli di occupazione. In definitiva le centrali sindacali hanno adottato una logica che si è ritorta contro le forze che i sindacati volevano difendere. Il rapporto tra investimenti, livelli di occupazione, politica salariale in generale lo si deve avere presente, perché in definitiva un errore di questo genere nella politica sindacale si risolve a danno dei settori più deboli dell'economia e soprattutto a danno dei lavoratori che vi sono inseriti.
Ora, i problemi, quali sono? Ripeto, ripristinare una dinamica corretta fra aumento di costi e aumento di produttività del sistema. E soprattutto puntare ancora una volta (a questo proposito non sono d'accordo con il collega Minucci) su un aumento dell'interscambio internazionale, delle capacità concorrenziali della nostra industria sul mercato internazionale.
Perché nelle attuali condizioni, ripeto, con il reddito nazionale che tende a stagnare, l'espansione dei consumi interni, oltre tutto, è obiettivamente molto ridotta. Se il reddito nazionale non aumenta, noi, accedendo ad aumenti salariali, otterremo solo effetti inflazionistici, non di aumento dei consumi; e in secondo luogo rischiamo di ripercorrere tutti gli errori che abbiamo commesso in passato, cioè di aumentare ulteriormente la quota dei consumi rispetto agli investimenti, mentre dobbiamo stimolare le capacità concorrenziali della nostra industria all'estero, migliorarne le condizioni tecnologiche.
Abbiamo molti settori industriali, anche di un certo livello dal punto di vista tecnologico, che, tutto sommato, si sono adagiati in una situazione, direi al limite abbastanza facile, di rapporto con le industrie motrici tipo l'industria automobilistica. Non sono d'accordo, in altre parole, nemmeno sulla distinzione fra le piccole e medie industrie che dipendono dall'industria automobilistica e quelle autonome. Abbiamo cioè delle industrie, come quella dello stampaggio, della fabbricazione di attrezzature, di macchinari, di macchine utensili eccetera, che hanno avuto in questi anni un rapporto quasi esclusivamente con l'industria automobilistica, ma che hanno obiettivamente delle capacità concorrenziali sul mercato internazionale, solo che le mettessero veramente in gioco notevoli, perché ancora oggi si producono, tutto sommato, nel settore, ad esempio, delle attrezzature di produzione, da parte delle nostre aziende piemontesi, a livelli di costo ancora del 20-30 per cento inferiori a quelli delle industrie tedesche, svizzere o francesi. Se noi riusciremo a determinare un meccanismo per cui queste industrie si sanno cercare, oltre che la quota di mercato che sono abituate a possedere all'interno, verso l'industria automobilistica, delle quote sempre più consistenti in rapporto alle industrie della Rhur, della Francia eccetera, noi veramente produrremo un effetto notevole di modificazione strutturale anche della nostra economia.
Per quanto riguarda il Mezzogiorno, il problema qual è? Prima di tutto che la struttura produttiva dell'Italia del Nord, del bacino del Po, che è l'asse portante principale - non sono in grado di precisare delle percentuali, ma credo che se andassimo ad analizzare troveremmo che siamo ancora a livelli del 70-80 % complessivamente del potenziale produttivo del nostro Paese - ritrovi delle condizioni di accumulazione di capitale perché non è possibile creare posti di lavoro nel Sud se non si hanno capitali a disposizione.
In secondo luogo, occorre assolutamente orientare la maggior parte possibile degli investimenti per nuovi posti di lavoro al Sud e selezionarli in modo adeguato, facendo scelte di tipo diverso da quelle fatte per il passato, abbandonando la politica che è stata fatta soprattutto dai centri decisionali pubblici, non tanto dai privati (il consigliere Minucci ha analizzato questo fenomeno dei centri decisionali pubblici, che oggi, bene o male, gravitano intorno alla Democrazia Cristiana), di andare a costruire nel Sud, cosa che oggi non ha più alcun senso, grandi cattedrali nel deserto, colossali impianti chimici o siderurgici, con pochissimi addetti.
Ma direi che c'è un terzo elemento, contenuto, ad esempio, nelle indicazioni della Giunta, e qui mi trovo in disaccordo con l'analisi fatta da Minucci. Il discorso di fare del Mezzogiorno un problema europeo è un discorso che parte, mi sembra, da una considerazione realistica: che sul breve e medio termine noi non possiamo pensare di risolvere completamente il problema del Sud nei termini rispetto ai quali tutti lo vorremmo vedere risolto, cioè di piena occupazione nel Sud, di eliminazione di tutte le sacche di arretratezza e di miseria che esistono nel Meridione. Per varie ragioni. Una è che non siamo in grado di affrontare da soli investimenti nella misura necessaria. Supponiamo che si debbano creare nel Mezzogiorno due milioni di posti di lavoro: un calcolo molto elementare, sulla base del costo medio attuale di un investimento nell'industria manifatturiera per la creazione di un posto di lavoro ci dà immediatamente un'idea del volume di risorse che occorre destinare e ci persuade della obiettiva impossibilità di risolvere questo problema in una prospettiva di cinque o dieci anni. Per di più, operiamo in una economia aperta, nella quale la possibilità di fare degli interventi qualificanti sul piano della creazione di nuovi posti di lavoro in maniera ingente è strettamente legata alla possibilità di creare quei famosi nuovi settori traenti. Sono anch'io convinto che l'industria automobilistica intorno all'ottanta arriverà a situazioni per cui di fatto non potrà più essere traente, e che occorre trovare delle soluzioni alternative. Ma le soluzioni alternative possibili oggi quali sono? L'industria elettronica, cioè di apparecchiature e servizi elettronici in generale, cioè beni di investimento di alta qualità tecnologica l'industria dei trasporti, soprattutto aeronautica, ma direi in generale anche qui di notevole livello tecnologico, l'industria legata ai problemi dello sviluppo dell'edilizia (cioè edilizia prefabbricata, con tutti gli annessi e connessi: e mi sembra che le prospettive, per lo meno le intenzioni politiche, le necessità obiettive vi siano), l'industria ecologica, concernente tutti quegli investimenti che ci sembra le varie comunità nazionali si propongano di fare in settori come quello della depurazione dell'acque, dell'aria dai fumi ecc., un settore di investimento che certamente si incrementerà sempre di più. Oltre a questi, che mi sono provato ad elencare, ve ne sono certamente parecchie altre.
Ora, tutti questi settori, proprio per l'alto livello tecnologico che comportano (tranne forse il settore edilizio) sono settori nei quali ormai è comprovato - e lo vediamo nei progetti di carattere internazionale che si vanno facendo, di ricerca ed investimento - che è difficile che un Paese possa da solo determinare possibilità innovative di messa in moto di meccanismi nuovi. I francesi e gli inglesi si sono associati per l'aereo supersonico, e così via. Cioè, non c'è dubbio che, in un meccanismo comunitario, la necessità di programmi di carattere comunitario, quindi internazionale, di ricercare programmi di investimento, proprio per la mole di investimenti necessari, aumenterà sempre più. E direi che è su questo tipo di meccanica, oltre che, ripeto, sull'aumento dell'interscambio, che bisogna giocare a livello europeo per riuscire a determinare una politica a livello comunitario, richiedendo con molta fermezza che una quota consistente di questo tipo di investimenti vada a dislocarsi nel Sud, dove tra l'altro, ci possono anche essere condizioni favorevoli per certi versi ad insediamenti di attività e di ricerche di produzione di questo genere.
Se questa è l'analisi che mi sembra bisogna fare, le scelte che il Piemonte ha davanti sono, direi, di due tipi: scelte, cioè di rapporto con gli altri problemi nazionali e scelte invece interne all'economia piemontese.
I problemi di rapporto sono quelli che indicavo prima, cioè lo sviluppo del Piemonte in rapporto al resto dell'Italia e in rapporto fondamentalmente al problema del Mezzogiorno. Condivido personalmente, e dello stesso avviso è il Partito repubblicano, quanto è stato detto: che è necessario bloccare il più possibile il fenomeno immigratorio. In proposito bisognerebbe analizzare le questioni approfonditamente. Non mi sento assolutamente di dire che la soluzione da adottare sia quella di impedire totalmente l'immigrazione nei prossimi anni: ma certo sono dell'avviso che bisogna comunque cercare di ridurla a limiti estremamente bassi. Ma il rapporto con il Mezzogiorno - e credo che quanto ho detto prima sia stato sufficiente a documentarlo - significa anche altre cose, cioè che l'apparato produttivo che noi oggi ci troviamo a gestire in Piemonte dev'essere un apparato in condizioni di perfetta concorrenzialità sui mercati internazionali ed in condizioni di riprendere ad accumulare con tassi sufficientemente elevati il capitale necessario per nuovi investimenti nel Sud. E questo significa tutta una serie di cose: cioè quei discorsi che si facevano di collegamento con l'economia europea, la necessità di garantire all'apparato produttivo adeguate condizioni di infrastrutture e di collegamento servono anche per altre cose, ma direi che servono certo molto all'industria. Non si tratta tanto del problema dell'industria automobilistica: può anche darsi che la Fiat sia interessata a questo, ma, dal momento che la Fiat si è sviluppata moltissimo malgrado le difficoltà di comunicazione, è evidente che il problema delle comunicazioni con i mercati europei ormai, per quanto la concerne, l'ha superato, indipendentemente dai trafori. Mi riferisco più in generale a tutto l'apparato produttivo piemontese, a quelle piccole e medie industrie che possono determinare l'innesco di altri meccanismi di scambio, di collocazione di buoni prodotti tecnologici nostri sul mercato europeo e di servizi, anche, che vanno al di là del mercato europeo stesso.
Il problema, ad esempio, dei servizi portuali, è, rispetto alle industrie, a tutte le industrie, di qualsiasi tipo, della Valle Padana, un problema grossissimo, oggi. Quasi tutte le industrie a nord del Po hanno già oggi, data la situazione in cui sono i porti liguri e visto che il porto di Marsiglia, tuttora in costruzione, non ha ancora potuto raggiungere piena funzionalità, maggior convenienza a fare spedizioni, ad esempio, per i mercati americani, o anche per buona parte dei mercati africani ed asiatici, a Rotterdam e ad Amburgo, piuttosto che attraverso i porti del Mediterraneo, il che determina una incidenza dei costi di trasporto notevolissima.
Questi sono problemi generali dell'economia nazionale, come mi sembra di essere riuscito a dimostrare.
C'è di più. Rispetto ai problemi interni, esiste certamente il problema della differenziazione, della monocoltura eccetera, ma non è peraltro un problema che vada risolto con provvedimenti punitivi nei confronti della Fiat, bensì con una articolazione migliore della struttura economica e produttiva regionale. Rispetto a questi problemi, ripeto, della differenziazione e di uno stimolo alla piccola e alla media industria e al settore terziario, del quale è giustamente sottolineata l'importanza nel documento della Giunta, le grandi comunicazioni con i mercati francesi svizzeri, tedeschi nord-europei sono problemi di fondo, non contraddittori ma del tutto concorrenti a certe scelte di fondo che il nostro Paese deve fare proprio rispetto al Mezzogiorno. In tutto questo mi sembra che la contraddittorietà che Minucci ha voluto cogliere nelle indicazioni della Giunta in realtà non esista, ma faccia parte di un disegno sufficientemente articolato.
Ciò detto, cosa deve contenere il piano? Ovviamente, alcune indicazioni che già il documento della Giunta comporta: il problema delle comunicazioni con l'Europa, come strumento per lo stimolo all'aumento di produttività e al miglioramento delle condizioni operative soprattutto della piccola e media industria, il problema del terziario, direi anche del quaternario, in prospettiva, se mi è consentita questa considerazione, cioè, proprio per i discorsi che si facevano circa l'Università, il sostegno a certe attività di ricerca eccetera (lo sviluppo delle attività di ricerca, che devono formare un tutt'uno con il miglioramento delle condizioni generali di produttività del nostro sistema economico, è particolarmente importante) lo stimolo alla piccola e media industria con attività di sostegno per incoraggiare questi piccoli e medi imprenditori alla competitività sul mercato europeo.
Concordo poi su altre indicazioni che sono state date. Il problema della formazione professionale, proprio per tutte le trasformazioni che sono in corso nella nostra economia regionale, appare particolarmente importante, non solo per gli investimenti residui che l'industria automobilistica va facendo - e sono problemi concreti: la Lancia eccetera ma, direi, per tutto il meccanismo di trasformazione e di miglioramento qualitativo della nostra economia anche nel settore dell'agricoltura, nel settore piccolo-industriale, nel settore terziario, che deve avere tutto un sostegno di attività di formazione professionale. Giusta l'indicazione che ad esempio, dava ieri il collega Conti sulla necessità di creare una struttura altamente qualificata proprio sul piano delle attività di ricerca didattica, metodologica: proprio perché il concetto che mi sembra ci debba ispirare è questo, che cioè certe attività devono essere gestite a livello periferico e direi con aggancio alle realtà locali autonome delle varie zone del Piemonte, a livello centrale dobbiamo riuscire a mettere a disposizione dei contributi particolarmente qualificati di sostegno a queste attività quindi, non una Regione che gestisce direttamente un'attività che è estremamente articolata e che proprio in quanto articolata deve avere dei momenti gestionali periferici, ma una Regione che offre dei contributi particolarmente qualificati a sostegno di queste iniziative.
Quanto alle Università, sono perfettamente d'accordo che il problema è di non frammentare le Facoltà distribuendole sul territorio, ma, se mai, di creare dei Centri universitari; perché la congestione, oggi, a Torino, è ormai superiore a limiti di accettabilità e di compatibilità con il livello che gli studi devono avere. Quindi, le indicazioni che si davano di Novara e di Alessandria quali nuovi sedi universitarie possono anche essere specializzate: una di Scienze economiche e sociali, un'altra di Tecnologia e Scienze tout-court, per esempio, e così via, deve trattarsi, però, di nuclei abbastanza consistenti, proprio per garantire le necessarie condizioni di qualità e di interdisciplinarità.
Naturalmente, poi, ci sono da considerare tutti i problemi politici che stanno dietro a queste cose. Minucci, nella parte conclusiva del suo intervento, ha sottolineato particolarmente i problemi della partecipazione. Dire che anche a questo proposito occorre parlarci molto francamente, perché finora questo discorso della partecipazione, al di là delle enunciazioni, è stato a tutti i livelli, tutto sommato, un discorso in cui probabilmente, tutti hanno finito con il giocare un po' sull'equivoco. Il discorso della partecipazione, cioè, ha un senso se noi partiamo dal presupposto che la realtà del nostro Paese, come di tutti gli altri Paesi a struttura economica e sociale simile alla nostra, è una realtà sempre più articolata, frammentata in istituzioni e realtà sociali ed economiche diverse, e che quindi il problema della partecipazione è il problema di andare alla ricerca di tutti i momenti rappresentativi tecnici, scientifici, associativi che possono veramente dare dei contributi di elaborazione e di approfondimento dei problemi. Ma se attraverso il discorso della partecipazione in realtà passa un disegno politico di altro tipo, cioè che vuol far pesare due volte le istanze politiche, per quello che rappresentano all'interno di un organo elettivo e per quello che possono produrre come forze organizzate che già si esprimono a livello politico ma che poi premono anche attraverso altri canali, direi che il gioco, tutto sommato, non è più istituzionalmente corretto; perché io credo che la Democrazia Cristiana, al limite, non abbia alcuna difficoltà ad organizzare interessi settoriali e portarli a premere continuamente attraverso gli strumenti della partecipazione a livello politico. Questo mi sembra un meccanismo che non solo istituzionalmente non ha più significato ma non è più nemmeno corretto. Dobbiamo, dunque, metterci d'accordo su questi problemi. Nessuno nega che il movimento operaio all'interno della comunità regionale è una componente estremamente importante; ma specialmente i sindacati, prima ancora che i partiti politici, devono stare attenti a non voler fare giocare un ruolo obiettivamente sproporzionato al peso che deve avere, un ruolo che poi si gioca due, tre, quattro volte a seconda dei livelli ai quali si porta il discorso; cioè, dobbiamo stare attenti a che questo discorso della partecipazione sia un discorso portato avanti correttamente nel quadro del meccanismo istituzionale che noi vogliamo nello spirito del nostro Statuto mettere in atto all'interno della Regione.
Da ultimo c'è il discorso sulla situazione politica. Devo dire francamente che sono piuttosto perplesso rispetto al tipo di sollecitazioni che in queste ultime settimane, in rapporto alla situazione politica nazionale, il Partito comunista è andato portando. E' certamente legittimo e giustissimo un certo tipo di giudizio politico, non si può prescindere da questo: e logico che il Partito comunista, che dà un certo giudizio del Governo assuma nei confronti del Governo un certo tipo di atteggiamento.
Però non si può dire: il Governo Andreotti deve cadere perché è un governo di centro-destra, o di destra, e per tante altre ragioni. Il problema è un altro, cioè delle condizioni alternative che noi possiamo proporre rispetto ad un certo equilibrio politico - molto precario, ce ne rendiamo conto che si è realizzato all'interno del Paese. Non ci si può semplicemente adoperare per far cadere un Governo: bisogna innanzitutto essere in grado di crearne un altro, e che esistano condizioni di carattere generale che lo mettano in grado di condurre un'attività produttiva per il. Paese.



CALLERI Edoardo, Presidente della Giunta Regionale

Minucci l'avrebbe già pronto, il Governo...



GANDOLFI Aldo

Devo invece dire, ricollegandomi alle considerazioni che facevo prima che francamente non mi sembra che dalla esperienza degli anni trascorsi la crisi economica, il fallimento della programmazione e così via - siano maturate condizioni che oggi possano rendere concretamente costruibili ipotesi di equilibri diversi. Noi ci auguriamo che emergano, ma mi sembra che il dato lampante di questi ultimi mesi, della campagna elettorale prima, di quello che è successo a conclusione della campagna elettorale dopo, sia che là maturazione sui problemi reali del Paese e sul disegno generale strategico di crescita del Paese all'interno delle forze politiche, tutto sommato, ci sia stato assai poco; che tra queste stesse forze politiche, sia le forze che oggi esprimono un Governo sia anche le forze che sono all'opposizione - il Partito socialista, che pu legittimamente reinserirsi in un discorso di politica governativa - siano mancate veramente le maturazioni, gli approfondimenti, le, prese di coscienza di tutti i dati negativi e gli errori che ci lasciamo alle spalle. E lo stesso all'interno delle forze sindacali cioè, non mi sembra che oggi tutto quello che è successo, ad esempio, a livello sindacale, il discorso della unificazione e poi della non unificazione, della federazione e della non federazione eccetera, sia un discorso che tocchi i problemi reali del Paese; veramente, abbiamo la sensazione che le centrali sindacali, da due anni a questa parte, abbiano condotto un dialogo politico tra di loro, al loro interno e all'esterno delle centrali sindacali, su temi che sono stati più tattici che strategici, cioè più di rapporti di forza e di tentativi di strumentalizzazione reciproca tra le varie centrali sindacali che di capacità di misurarsi sui problemi dello sviluppo economico del Paese, pur con tutti i meriti che dobbiamo comunque riconoscere ai sindacati per certi tipi di azione e di sollecitazione cioè, che anche loro non abbiano meditato sugli errori commessi nel passato e non si siano data, e non sappiano ancora darsi, una strategia adeguata rispetto ai problemi grossissimi, enormi, tragici che abbiamo di fronte.
In queste condizioni, mi sembra che il problema non sia tanto di contrapporre ad una soluzione governativa un'altra che poi in realtà non si sa opporre, ma veramente di approfittare di un momento di pausa, di ripensamento, che ci può essere dopo la costituzione di questo Governo, con i meriti ed o difetti che esso può avere, per articolare un dibattito politico, tutto sommato più responsabile e più serio, a tutti i livelli nel nostro Paese. Grazie.



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Menozzi.


Argomento:

Sull'ordine dei lavori


BERTI Antonio

Vorrei sapere se l'intenzione è di far proseguire il dibattito fino a concluderlo in mattinata.



PRESIDENTE

No, anche perché il Consigliere Simonelli ha chiesto di poter parlare nel pomeriggio, non potendo intervenire alla seduta di questa mattina.
Concluderemo i lavori della mattinata dopo l'intervento del collega Menozzi, che mi è stato preannunciato breve.
In giornata, dovremo trattare assolutamente due punti dell'ordine del giorno: l'esame dello schema di osservazioni alla bozza di decreto del Presidente della Repubblica per il riordino del Ministero di Grazia e Giustizia (anche il Consigliere Viglione verrà oggi pomeriggio, ed ha assicurato che il suo intervento sarà molto breve), e l'esame dello schema di osservazioni della bozza di riordino del Ministero dell'Interno (anche il relatore Beltrami mi ha assicurato che sarà molto conciso).
Devo aggiungere che per il pomeriggio hanno chiesto congedo i colleghi Bianchi, Curci e Carazzoni.



BERTI Antonio

Vorrei ancora sapere se non intende fare una riunione dei Capigruppo anche per decidere sulle consultazioni.



PRESIDENTE

La terrei questa sera.



BERTI Antonio

E la deliberazione proposta dalla Giunta verrà votata anche nel pomeriggio?



PRESIDENTE

Sì. Dopo l'intervento del Consigliere Menozzi, pertanto, chiuderei i lavori della mattinata. Non avrei altri iscritti all'infuori del Consigliere Simonelli, che prenderà la parola nel pomeriggio, alle 16 quando ci ritroveremo per il proseguimento del dibattito. Se qualcun altro volesse iscriversi farebbe bene a dirlo adesso. Il Consigliere Garabello? Mi permetterei, senza con questo voler fissare dei limiti alla discussione di far osservare che quello che si effettua oggi non è che un "primo esame del rapporto preliminare dell'Ires". Se gli interventi sono già così numerosi e ponderosi, quando si passerà al rapporto effettivo è da prevedere un dibattito-fiume...



GARABELLO Enzo

Avanzo una proposta, che non vorrei fosse considerata dal Consiglio in senso negativo.
Tutto sommato, credo che non molti di noi fossero convinti che si sarebbe giunti oggi al dibattito su questo argomento, per quanto iscritto all'ordine del giorno: qualche collega - se non vado errato, Rossotto e lo stesso Gandolfi - lo ha dichiarato esplicitamente nell'iniziare il suo intervento.
Se il Consiglio non avesse nulla in contrario, sarei personalmente dell'avviso, anche al fine di agevolare lo svolgimento degli altri punti già annunciati, di rinviare la prosecuzione di questo dibattito all'inizio della prossima tornata, preferiale, s'intende.



PRESIDENTE

E' una proposta che dovremo esaminare con calma in sede di riunione di Capigruppo, nel quadro di tutto un complesso di questioni. Prendo pertanto nota del suo suggerimento, ma si dovrà decidere in merito nel corso della riunione dei Capigruppo.


Argomento: Piani pluriennali

Primo esame del rapporto preliminare dell'IRES per il piano di sviluppo del Piemonte 1971-1975 (seguito)


PRESIDENTE

Ha facoltà di parlare il Consigliere Menozzi.



MENOZZI Stanislao

Signor Presidente del Consiglio, signor Presidente della Giunta colleghi Consiglieri, premettiamo subito che sarà innanzitutto nostra cura riportare il discorso sulla sostanza del rapporto Ires, limitando il nostro dire al tema vero e proprio, poiché a spaziare hanno già provveduto abbondantemente altri.



BERTI Antonio

Noi chi?



MENOZZI Stanislao

Parlo al plurale maiestatis, in quanto la categoria in nome della quale mi sto esprimendo è più nobile di quanto tu possa pensare.
Dicevo: parleremo del settore primario, che, purtroppo è tale anche per i suoi natali assai remoti.
Nulla da obiettare sui dati statistici esposti inerenti alla popolazione. Se dovessimo invece fare un'osservazione globale di natura statistica, dovremmo osservare che continuiamo a procedere per intuizione e l'azzecchiamo soltanto quanto il caso fa si che l'esattezza abbia a verificarsi. Staremmo per proporre che l'Ires avesse nei suoi studi ad approfondire il discorso proprio sotto il profilo statistico. Se, ad esempio, considerassimo un settore, quello del catasto terreni, ci accorgeremmo di una infinità di macroscopiche incongruenze. Basterebbe pensare per un momento alle conseguenti difficoltà applicative della legge n. 11 sulle affittanze agrarie, le quali scaturiscono, oltre che da altri motivi, dal disordine catastale in essere. Preoccupante, oltre al processo di senilizzazione; ben noto, è anche quello di femminilizzazione nelle nostre campagne. Il rapporto ci indica che le donne sono passate dal 25 del '61 al 27,5% del '70. A tale proposito, astenendoci dallo sviluppare lunghi commenti, ci limitiamo ad osservare che colei che nei libri scolastici è descritta come l'angelo tutelare della casa, nella realtà della campagna, in rapporto al suo maggior impegno in un lavoro pesante come quello dei campi, neppure fisiologicamente congeniale, sta a rappresentare la domestica senza paga. Pensiamo che un riferimento, seppur triste, a queste benemerite operatrici fosse opportuno dedicarlo.
Condividiamo pure il giudizio negativo espresso sul part-time, che rappresenta - e non abbiamo bisogno di attendere ulteriori risultati per dirlo - una remora al processo di accorpamento, all'ampliamento delle aziende e all'incremento della produttività. Diremmo che il part-time è il sistema per fare nello stesso tempo dell'individuo, un mediocre operaio e un mediocre contadino, e viceversa.
Facciamo nostra pure la denuncia sulla lentezza dei processi di ristrutturazione in atto nella nostra Regione, che indubbiamente costringerà a rivedere certe ipotesi formulate in rapporto ai traguardi dell'Agricoltura degli anni Ottanta. Anzi, i dati sulle aziende in proprietà ci inducono a rilevare che in esse la ristrutturazione si è verificata a ritroso: infatti, mentre nel 1946 noi annoveravamo un milione di aziende in proprietà, siamo venuti a registrarne un milione e 723 mila nel 1970. Senza andare a ricercare gli altri aspetti, basta che ne richiamiamo uno, fondamentale, il problema delle successioni mortis causa.
In tema, in altre circostanze, invocammo una revisione del diritto successorio, a latere del quale chiedemmo anche la istituzione del premio di fedeltà, e dell'albo professionale, fattori essenziali, senza i quali il processo di ristrutturazione, rimanendo entro i limiti dell'attuale diritto successorio, diventerebbero una chimera.
Circa l'eccessivo incremento della meccanizzazione, che il rapporto ci indica, osserviamo che ciò è indice del permanere di un atavico spirito individualistico che è venuto per rendere economicamente negativa l'introduzione della macchina contrariamente ad altre regioni del nostro Paese e soprattutto nei restanti Paesi della Comunità, ove la macchina ha costituito, oltre agli altri vantaggi e benefici, un fattore positivo di natura economica perché razionalmente introdotta e convenientemente usata.
Il Piemonte al 1970 registrava 91.000 trattrici, che oggi saranno già sicuramente 100.000 e forse più. Se mettiamo detta cifra in rapporto ai due milioni di superficie agraria, dai quali dobbiamo togliere una grossa fetta perché la trattrice non è in grado di entrare o non ha necessità di entrare (si pensi, ad esempio, ai 60-70-80 mila ettari investiti a vigna, dove la trattrice svolge soltanto un lavoro sussidiario di trasporto, o agli incolti, o anche ad alcuni boschi che tali sono oggi ma che non risultano censiti nel comparto forestale, sempre in virtù di quel fatidico catasto terreni non sufficientemente aggiornato), noi dobbiamo concludere che ogni trattrice opera su dieci ettari di terreno, indubbiamente insufficienti perché la macchina possa essere convenientemente utilizzata, in rapporto alla considerazione elementarissima dei costi, non tanto di quelli variabili quanto di quelli fissi: una trattrice, che dovrebbe, per rendere economico il suo lavoro, sviluppare annualmente 500 ore di attività, in Piemonte mediamente non supera le 200 ore di utilizzazione. Fatto veramente preoccupante, amara esperienza, che ci ammonisce a procedere con molta oculatezza e cautela quando ci si avvierà ad affrontare il discorso sulla incentivazione della meccanizzazione e soprattutto due soluzioni si impongono: primo maggiori dimensioni aziendali e secondo opportune incentivazioni dirette a suscitare maggiore e migliore spirito cooperativistico, che si sostituisca al denunciato individualismo.
In campo zootecnico a parte il fatto che lo sviluppo generale è modesto, quelli che più preoccupano sono gli indici che denotano una forte e preoccupante flessione nel comparto delle bovine, che dimostra che si corre il rischio, specialmente per quanto concerne la razza indigena quella cioè piemontese, di vederla scomparire nel breve volgere di pochi anni, elemento a nostro avviso, non trascurabile, date le peculiarità di tale razza che ne fanno una delle migliori varietà del nostro Paese in rapporto alla produzione di carne. E' indubbio che l'argomento porterebbe ad affrontare un lungo discorso, che reputiamo sia stato solo in parte considerato dal rapporto in esame circa le necessità di intervento, che non escludono una volta ancora il discorso sulla ristrutturazione fondiaria sulla razionalizzazione degli allevamenti, su una migliore e più rispondente organizzazione zootecnica da porre base di una intensificazione delle stalle sociali, dei caseifici sociali, dei macelli cooperativi e di quant'altro può costituire valido supporto all'auspicato sviluppo.
Non condividiamo totalmente il giudizio negativo espresso sui risultati conseguiti attraverso la politica fin qui condotta per il riattamento e la costruzione di case, perché la casa è un bene essenziale quanto elementare che non può essere legato a discorsi di efficientismo né a considerazioni di carattere strettamente economico. Lo condividiamo appieno, invece, per quanto concerne il riattamento e la costruzione di piccole stalle e l'incentivazione alla meccanizzazione: nell'intento di incentivare operando con una certa qual superficialità, non si è assolutamente riusciti a provocare quei movimenti, quei flussi, quei fenomeni positivi che erano desiderabili ed auspicabili.



CALLERI Edoardo, Presidente della Giunta Regionale

Scusa, Menozzi, mancando la superficie c'è stata la superficialità.



MENOZZI Stanislao

Per quanto la mancanza di superficie non giustifica la superficialità (e non è un bisticcio di parole) la Regione dovrà esprimere degli indirizzi molto chiari e precisi in proposito. Pure ampiamente condivisibile è il parere espresso sull'aggravato divario fra redditi agricoli ed extra agricoli in rapporto, oltre che alla stagnazione dei prezzi di alcuni prodotti, anche alla svalutazione cosiddetta strisciante della lira e conseguentemente alla accentuazione dei costi, per cui noi troviamo oggi i nostri produttori costretti a collocare sul mercato i loro prodotti al prezzo di sette, otto, nove anni fa, mentre nel frattempo si è verificata una notevole svalutazione monetaria, che ha provocato l'acuirsi dei costi di produzione.
Diremmo che unico aspetto positivo, di questo quadro non certamente edificante è dato dal fatto che, nonostante il travaso, tuttora in essere di unità attive dall'agricoltura agli altri settori, la produzione lorda vendibile è rimasta costante, il che sta a indicare il notevole impegno che hanno profuso e stanno tuttora profondendo quanti sono rimasti legati al settore. E colgo l'occasione per invitare il Consiglio a voler rilevare, e se possibile anche proclamare, cosa che non si evince successivamente dal rapporto e cioè che l'impresa familiare diretto-coltivatrice, nonostante tutto, se opportunamente aiutata, è quella che ha fornito, che fornisce e che continuerà a fornire le maggiori garanzie per il raggiungimento di certi traguardi sul piano produttivistico.
Certo, l'aumento, ipotizzato dal rapporto, da un milione a due milioni nel '75, del valore aggiunto pro-capite, non solo risulterebbe ancora fortemente sperequato in rapporto a quello attualmente goduto dagli appartenenti al settore industriale e terziario, ma, quel che è peggio porrebbe una seria ipoteca sul conseguimento di quei vantaggi che la prima direttiva comunitaria contiene, perché essa presuppone che, per il conseguimento dei benefici previsti bisogna presentare piani di sviluppo aziendale dimostranti la possibilità di far ottenere all'operatore redditi oscillanti dai cinque ai sei milioni di lire.
Anche le cifre di 580 miliardi di valore della produzione lorda vendibile e di 176 miliardi per spese di gestione ci stanno a dimostrare che siamo ancora fermi ai vecchi e tradizionali concetti di riparto evidentemente superati, che assegnavano un terzo al capitale, un terzo alla spesa e un terzo al lavoro: il lavoro, forse, attraverso la modificazione di alcune forme contrattuali - vedi affitto e mezzadrie - venuto un tantino ad avvantaggiarsi, e contemporaneamente si è avuta una notevole lievitazione del terzo tradizionale per la spesa, il che dimostra anche sotto questo profilo quanto sia stagnante la situazione, soprattutto dal punto di vista della redditività in campo agricolo.
Sorvoliamo sulla politica dei prezzi e delle strutture, dedicandovi un semplice commento: condividiamo il parere espresso che non è possibile seguire soltanto la politica dei prezzi se questa non è accompagnata da quella sulle strutture; in caso contrario, verrebbero avvantaggiate soltanto 60-70 mila aziende nel numero complessivo del nostro Paese, e cioè le aziende già su posizioni privilegiate oggi. Alla politica delle strutture deve necessariamente far seguito, specialmente per quanto concerne il nostro Piemonte, una più decisa azione nel campo della commercializzazione, però preceduta da un serio, coerente chiaro sviluppo della organizzazione associazionistica e cooperativistica di primo grado.
Se puntassimo subito alla commercializzazione, o soltanto alla commercializzazione, ci dimostreremmo dei negligenti costruttori, che presuppongono di poter cominciare a costruire dal tetto, dimenticando le fondamenta.
Rinunciamo a commentare i restanti capitoli sui vari comparti produttivi, sulla tutela dell'ambiente, sull'irrigazione e sulle linee di intervento, riservandoci di riaffrontare i relativi problemi quando dalla discussione sul rapporto preliminare in esame si passerà a quella sul documento definitivo.
Concludo prendendo atto che l'Ires ha evidenziato alcune delle più macroscopiche lacune che precedentemente anche in questo Consiglio avevamo avuto più volte occasione di denunciare ed ha altresì recepito alcune impostazioni ed indirizzi che i più diretti interessati ed i loro organismi rappresentativi vanno da tempo indicando. A nulla, però, servirà il pur apprezzabile lavoro dell'Ires se dalla fase degli studi e delle ricerche non si riuscirà a passare celermente all'azione, e ciò deve essere impegno preciso anche e soprattutto della Regione, se non vogliamo diventare degli universitari fuori corso, o, peggio ancora, dei politici fuori corso, con l'unico risultato del sicuro fallimento dell'agricoltura, con conseguenze irreparabili, oltre che socioeconomiche, anche umane, per i benemeriti operatori del settore.



PRESIDENTE

Informo che la Commissione IV è convocata qui alle ore 15 per un esame relativo al problema degli asili-nido.
La seduta è tolta e rinviata alle 16 di oggi.



(La seduta ha termine alle ore 13,30)



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