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Dettaglio seduta n.134 del 19/04/88 - Legislatura n. IV - Sedute dal 12 maggio 1985 al 5 maggio 1990

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Argomento:


VIGLIONE ALDO


Argomento: Commemorazioni

Commemorazione del Senatore Roberto Ruffilli e della Senatrice Camilla Ravera


PRESIDENTE

La seduta è aperta.
Signori Consiglieri, il Senatore democristiano Roberto Ruffilli è stato barbaramente assassinato nella sua Forlì.
Il Consiglio regionale del Piemonte e le forze politiche qui presenti si associano al dolore della famiglia ed esprimono viva solidarietà alla Democrazia Cristiana e in modo particolare alla sua Segreteria di cui era uno degli esperti per le riforme istituzionali.
E' ormai grande il prezzo pagato all'eversione e al terrorismo dagli uomini politici, magistrati, forze dell'ordine, sindacati. Mentre ricordiamo l'opera, l'intelligenza, il grande e vivo senso democratico e di studioso che era proprio del Senatore Ruffilli, non possiamo tacere che in ogni momento in cui il Paese si appresta a compiere atti importanti le forze eversive del brigatismo, nuovo e vecchio (abbiamo già detto che non c'è il "grande vecchio", sono mille le teste del brigatismo e dell'eversione), compiono gesti criminali.
E' insorta immediatamente una polemica. Anche il direttore di un grande giornale nel suo editoriale ha voluto esprimere il suo pensiero, sul quale però non concordiamo. Non concordiamo con quanti individuano queste situazioni in gesti isolati, frutto di qualche mente distorta, vendette personali.
Già dai primi accertamenti avete visto invece quale sia stato il livello dell'organizzazione che ha portato a questo assassinio: l'automezzo rubato a Roma dove è nata l'organizzazione che si è poi portata a Forlì dove aveva i basisti. A questi gesti il Consiglio regionale del Piemonte non ha mai dato il senso del gesto individuale, del pazzoide che un mattino decide di andare a casa del Senatore Ruffilli, di suonare il campanello e di ucciderlo. Sarebbe pura follia pensare queste cose. Noi sappiamo bene per averlo vissuto, che sono organizzazioni ben guidate e sorrette con obiettivi precisi, che in tanti casi abbiamo individuato a compiere siffatti atti criminali.
Una risposta deve essere data. Qualcuno ha detto che in questi casi bisogna tacere. Certo, bisogna tacere, ma bisogna anche agire. Più alta di ieri deve essere questa risposta affinché nel Paese ritorni la serenità e l'ordine democratico.
Davanti a questo tremendo delitto e alla grandezza dell'uomo colpito noi ci inchiniamo e assumiamo questo impegno a nome di tutta la comunità regionale piemontese.
In questo momento tristissimo in cui ricordiamo il Senatore Ruffilli un grande uomo che studiava il tema al quale oggi il Consiglio regionale si appresta a dare un contributo con alto senso di dignità, dobbiamo ricordare che in questi giorni è mancata anche la Senatrice Camilla Ravera a quasi cento anni, una donna che ha dedicato tutta la sua vita esclusivamente a favore delle classi più umili, in condizioni spesso tremende.
Questa donna è stata tra coloro che hanno contribuito a fondare il PCI e ha svolto tutta la sua attività in senso sociale. Ancora non molti mesi addietro ha presieduto la prima seduta del nuovo Parlamento italiano sorto dopo le elezioni del 1985.
Ci inchiniamo alla memoria, esprimiamo a suoi familiari ed al PCI tutto il nostro cordoglio e la riconoscenza per l'opera così grande e vasta che ha dato Camilla Ravera.



(I presenti, in piedi osservano un minuto di silenzio)


Argomento: Problemi generali - Problemi istituzionali - Rapporti con lo Stato:argomenti non sopra specificati

Dibattito sulle riforme istituzionali


PRESIDENTE

Il Consiglio di oggi è convocato con all'o.d.g. il dibattito sulle riforme istituzionali.
In occasione del quarantesimo anniversario dell'entrata in vigore della Costituzione repubblicana il Consiglio regionale del Piemonte, credo primo in Italia, ritiene di ricordare tale ricorrenza dedicando una solenne seduta ad un dibattito sul tema particolarmente attuale (ho ricordato poco fa che un illustre studioso, il Senatore Ruffilli, è stato colpito a morte mentre si apprestava anche lui a dare questo contributo) delle riforme istituzionali con specifico riferimento alla situazione delle Regioni e alla crisi che esse da tempo attraversano.
Le ragioni di tale crisi, che vede le Regioni e l'intero sistema delle autonomie operare in una situazione di grande incertezza istituzionale e finanziaria, hanno da ultimo trovato nel Convegno di Venezia, in occasione dei dieci anni del DPR n. 616, e in quello recentissimo di Bologna, su "Regioni e autonomie locali nella riforma delle istituzioni", significativi momenti di approfondimento.
In tali sedi si è verificato come, nonostante il successo iniziale dell'esperienza regionale ed il trasferimento di poteri effettuato dal DPR n. 616, lo slancio regionalista abbia progressivamente perduto vigore: le Regioni non hanno potuto o saputo svolgere quel ruolo innovativo che la Costituzione aveva loro affidato e si trovano in una situazione di crisi che riflette, peraltro, la più generale crisi del sistema politico italiano. E' strano che di fronte alla crisi istituzionale e politica del nostro Paese faccia invece riscontro uno slancio nel campo economico e finanziario.
A fronte di queste valutazioni, che credo tutti condividiamo, si deve invece constatare come le proposte di riforma istituzionale avanzate in questi ultimi tempi abbiano di rado affrontato il problema del decentramento regionale, soffermandosi piuttosto su temi che sembrano presupporre un accentuato recupero del potere centrale - quasi ogni legge porta via qualche cosa, accentra o riaccentra - e ulteriori condizionamenti e limitazioni dell'azione delle Regioni come fattori di rinnovamento istituzionale e democratico.
Pertanto, la presenza attiva delle Regioni nel dibattito in corso è particolarmente importante se non si vuole che la riforma istituzionale si limiti ad occuparsi dei "rami alti" dello Stato (il tema dell'elezione diretta del Presidente della Repubblica, la risistemazione della legge sulla Presidenza del Consiglio dei Ministri, il voto palese o segreto nell'ambito parlamentare), ignorando quei livelli intermedi di governo che possono costituire, attraverso un loro vigoroso rilancio, supporto indispensabile per una profonda e sostanziale riforma generale dello Stato.
Si assiste sempre più, in questo periodo, al logoramento e allo svuotamento degli istituti democratici, attuato anche attraverso una sottrazione di poteri reali alle istituzioni elettive e alla pubblica amministrazione a vantaggio di potentati economici e finanziari, che di fatto si sono sostituiti, e di conseguenza a danno degli strati più deboli della società. E' certo che il potentato economico e finanziario agisce per se stesso, per il profitto, non agisce certamente per gli strati più deboli o intermedi della società.
Il conseguente effettivo indebolimento delle istituzioni democratiche lascia ampio spazio ai grandi gruppi privati che tendono ad orientare l'opinione pubblica influenzando le decisioni politiche, e a poteri politici informali, che di fatto riescono a precostituire le scelte della pubblica amministrazione. Da tale situazione discende una progressiva perdita di fiducia del cittadino nella democrazia e nelle sue istituzioni.
Non si possono inoltre sottovalutare le conseguenze che l'arretratezza del sistema istituzionale italiano comporta in termini di sviluppo e di ammodernamento del Paese, anche nell'ottica europea, con specifico riferimento all'attuazione nel 1992 del mercato unico. C'è chi dice che non serve parlare di riforme se, fra tre anni circa, tutto questo sarà cambiato dalle quattro libertà europee sancite dall'Atto Unico, la libertà di circolazione delle persone, delle merci, dei servizi, dei capitali e ci sarà la Banca della Comunità europea che determinerà anche la moneta comune.
E' invece proprio in questo momento che dobbiamo parlare della riforma delle istituzioni, perché se arriviamo al 1992 senza avere colto l'obiettivo delle riforme, evidentemente non passeranno soltanto i potentati economici e finanziari, ma ci sarà uno sconvolgimento generale all'interno della stessa Comunità.
A questo proposito, mi sia consentito, per inciso, sottolineare come i possibili rapporti tra le Regioni e le istituzioni europee siano stati di fatto impediti, in questi anni, dalle ingerenze del potere centrale. Ci sono materie di competenza esclusiva e diretta della Regione, per esempio l'agricoltura, che sono state di fatto mediate dal Governo e non direttamente gestite invece tra le Regioni e la Comunità europea.
L'agricoltura rappresenta i due terzi delle competenze europee che si sono esercitate in questi anni; di fatto non abbiamo mai potuto esercitarla direttamente e sono testimone di tanti atti che sono stati compiuti da tutte le Regioni insieme, senza un risultato apprezzabile. E' stato vietato alle Regioni di tenere rapporti con la Comunità europea direttamente, ma soltanto accedendo attraverso mille sotterfugi; sono anche state perdute risorse non indifferenti per gli ostacoli che sono stati posti. Potremmo anche darne la prova. E' stato anche impedito di aprire propri uffici a Bruxelles come hanno invece fatto altre Regioni europee. Per esempio, le Regioni della Germania Federale hanno questa possibilità; parliamo dei Lander che hanno correlazione con le nostre Regioni e che hanno addirittura un membro nel Consiglio dei Ministri quando si discutono problemi attinenti alle Regioni.
Occorre porre fine a questa situazione anche in considerazione del ruolo e delle responsabilità che interesseranno le Regioni a seguito dell'attuazione dell'Atto Unico europeo, che eliminerà le ultime barriere esistenti nella Comunità, e alle modifiche che, proprio in relazione a tale importante tappa, si stanno apportando ai Fondi strutturali.
Il Consiglio regionale del Piemonte, profondamente convinto dello stretto legame esistente tra riforma delle istituzioni e rilancio delle autonomie, ha sempre prestato attenzione a questi temi, sia in ambito regionale che partecipando ai confronti a livello nazionale. Ricordo i numerosi dibattiti che si sono tenuti in Consiglio regionale e lo specifico apporto dell'assemblea piemontese all'indagine che la Commissione parlamentare per le questioni regionali condusse nel 1984 e presentò nel Convegno di Roma del gennaio 1985.
Proseguendo su questa linea, il Consiglio regionale ha ritenuto significativo intervenire con un proprio contributo nell'attuale dibattito insieme alle altre assemblee regionali italiane.
In presenza di istituti democratici che operano in condizioni di obiettiva grande difficoltà, sia in termini di efficacia di azione che di effettiva rappresentanza delle collettività e di poteri extra-istituzionali sempre più forti, i Consigli regionali ritengono si debba porre il problema delle autonomie nello Stato come punto cruciale e discriminante di rilancio del complesso delle istituzioni pubbliche.
Siamo ben consapevoli che la partita che si gioca è di fondamentale importanza per le Regioni. O questi enti recuperano ed esprimono appieno il proprio ruolo essenziale nella legislazione, nella programmazione e nel governo del territorio, svolgendo funzioni di effettiva rappresentatività nei confronti del potere centrale o verranno definitivamente ridimensionati a uno dei tanti (e forse inutile) livelli di governo locale.
Se si attuasse la prima ipotesi, si vedrebbe finalmente realizzato il disegno costituzionale, articolato sulla Regione, intesa come soggetto di legislazione, e sugli enti locali (Province e Comuni), che dovrebbero svolgere in piena autonomia compiti di amministrazione. L'attuazione del disegno costituzionale presuppone però che le Regioni rinuncino ad esercitare le numerose incombenze gestionali che hanno progressivamente caratterizzato il loro operare, che procedano a delegare tali incombenze agli enti locali, che provvedano alle funzioni di programmazione e di governo del territorio e della comunità amministrata, utilizzando lo strumento legislativo che è loro peculiare e che la Costituzione assegna anche alle Regioni proprio perché lo usino adeguandolo alle differenziate realtà locali.
Perché questa scommessa risulti vincente sono necessarie profonde modifiche e riforme del nostro ordinamento. Su alcuni punti non si può più attendere.
Le Regioni devono essere coinvolte nelle decisioni che si assumono a livello parlamentare per una legislazione più tempestiva e puntuale, più rispettosa dei poteri delle autonomie locali, più di principio e meno di dettaglio e per un effettivo controllo sull'operato dell'esecutivo. Ne deriva la tendenza, ormai generalmente condivisa, a riconsiderare la stessa natura del bicameralismo come previsto dalla Costituzione. Abbandonando l'attuale bicameralismo perfetto, si può prevedere una differenziazione anche funzionale delle due Camere attraverso l'istituzione del "Senato delle Regioni", espressione e garanzia del sistema delle autonomie e dei poteri locali.
Si deve procedere ad una revisione dell'art. 117 della Costituzione al fine di rendere i poteri delle Regioni più adeguati alle realtà in cui sono chiamate ad operare. Occorre assegnare loro competenze in settori che si rivelano sempre più strategici e decisivi. Il Costituente nel 1946/1947 non aveva ancora in mente la programmazione, il territorio, l'inquinamento l'insieme dei processi industriali e tecnologici, il regime delle acque.
Le Regioni devono essere fatte partecipi, in modi e forme da individuare, delle scelte di politica economica e sociale. Un primo risultato in questa direzione potrebbe essere raggiunto se la Conferenza Stato-Regioni divenisse sede di reale e costante confronto politico fra Governo e Regioni. Ciò è finora avvenuto in modo episodico, nonostante il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 12 ottobre 1983 istituisse formalmente tale organismo di coordinamento, destando molte speranze, allora, sul fronte regionalista. In attesa di una definitiva regolamentazione della materia, che dovrebbe avvenire all'interno della più volte annunciata e mai approvata legge per il riordino della Presidenza del Consiglio, le Regioni continuano ad essere escluse dalle sedi decisionali di rilievo: l'ultimo episodio, relativo alla legge Finanziaria 1988 rappresenta l'ulteriore conferma di tale esclusione. Ormai sono quattro le leggi finanziarie che operano sulle Regioni sia nell'ambito specifico delle competenze sia nell'ambito delle risorse finanziarie in modo inversamente proporzionale; mentre la legge n. 281 prevedeva il graduale inserimento delle risorse finanziarie secondo i termini di avanzamento di quelle statali, queste leggi finanziarie hanno fatto un'inversione, talché la crescita finanziaria dei bilanci regionali attualmente è zero. Su quattro leggi finanziarie non siamo stati mai sentiti per la parte che tratta esplicitamente del ruolo delle Regioni. Siamo tornati indietro anche su molti altri problemi. Si veda, per esempio, la continua bocciatura della legge sul riordino delle funzioni amministrative.
Quando nel 1975 varammo la legge regionale istitutiva dei comprensori organismi che incidevano profondamente nel tessuto organizzativo delle autonomie locali, nessuna osservazione ci venne fatta in merito dal Governo. Ora che tale esperienza, peraltro positiva, risulta di fatto superata, il Governo continua a negare ogni competenza in materia alla Regione e a impedirle di legiferare in alcun modo sull'argomento. Credo non ci sia bisogno di commenti per capire quanti passi indietro abbiamo fatto.
E' di queste riforme - da attuarsi non solo a livello nazionale, ma anche a livello regionale, attraverso opportune iniziative di autoriforma che il Consiglio regionale del Piemonte intende oggi discutere.
Alle proposte che possiamo avanzare a livello nazionale si deve infatti, aggiungere uno sforzo diretto ad individuare iniziative di autoriforma attuabili all'interno della nostra Regione, superando tendenze di tipo consociativo, che hanno sempre gravato poi su questo Consiglio regionale, e realizzando chiarezza di rapporti tra Giunta e Consiglio, tra Regione e realtà esterne.
Attraverso le opportune e necessarie modifiche statutarie e regolamentari, dobbiamo pensare a introdurre criteri di efficacia e di efficienza, per individuare forme nuove di partecipazione che tengano conto dell'effettiva richiesta che emerge dalla società e rafforzino il legame tra istituzione e comunità regionale.
Non si può dire: "Occupatevi delle vostre riforme, perché a quelle dei rami più alti ci pensano gli altri". Mi diceva un semplice cittadino con il quale parlavo di questo momento di riforme istituzionali: "Se non si cambia la macchina non si cambierà mai niente". Se non si modifica quel tipo di istituzione o di governo a livello alto non si modificheranno i rapporti in senso basso, non subalterno ma esterno.
Dobbiamo approfondire le ragioni politiche e strutturali per cui non si è finora realizzato un generale disegno di deleghe e attuarlo: si tratta di superare qualunque concezione subalterna del rapporto tra la Regione e le autonomie locali, distinguendo compiti di programmazione e di legislazione che devono rimanere in capo alla Regione, e funzioni gestionali di amministrazione che debbono essere integralmente delegate agli enti locali territoriali, che le eserciteranno in piena autonomia.
Occorre procedere ad una revisione del corpus legislativo regionale, al fine di renderlo più facilmente accessibile al cittadino e più rispondente alle esigenze della collettività, e attuare la riforma dell'apparato regionale al fine di superare le attuali inefficienze, introducendo una distinzione tra direzione politica e attività amministrativa e definendo un procedimento amministrativo tipo che assicuri trasparenza, netta individuazione delle responsabilità e certezza di termini a garanzia del cittadino. Criticavamo lo Stato perché richiedeva innumerevoli autorizzazioni, purtroppo in certe situazioni siamo riusciti a ripetere la stessa cosa anche in sede regionale.
Il dibattito odierno servirà ad avanzare proposte, ad evidenziare linee di intervento, a proporre soluzioni. Servirà comunque a fornire il contributo del Consiglio regionale all'individuazione di quelle azioni e di quegli interventi che possono avviare una riforma del sistema politico in grado di rafforzare la capacità di governo nell'insieme delle istituzioni democratiche, permettendo di uscire dall'attuale situazione che vede lo Stato decentrato come un insieme di poteri frammentari e separati per giungere ad una democratica e ordinata articolazione dello Stato che valorizzi il ruolo fondamentale riconosciuto dalla Costituzione al sistema delle autonomie.
Con questo spirito e questi principi, che credo possano rappresentare il vostro pensiero, rassegno questa mia comunicazione a voi signori Consiglieri e vi ringrazio della vostra attenzione.
E' aperto il dibattito.
Ha chiesto di parlare il Consigliere Bontempi. Ne ha facoltà.



BONTEMPI Rinaldo

Esprimo innanzitutto la mia soddisfazione e quella del Gruppo comunista per questo primo confronto in questa legislatura su questioni che riguardano la vita dell'istituto regionale e del sistema statuale. A partire dal mese di dicembre, prima con una conferenza stampa che annunciava la nostra intenzione di aprire una vera e propria sessione istituzionale in Regione, poi con una lettera al Presidente del Consiglio e per conoscenza ai Presidenti dei Gruppi, quindi attraverso incontri con i Gruppi e con le rappresentanze della società civile, abbiamo posto, nella nostra collocazione di opposizione, questa questione tra quelle centrali della vita regionale.
Rischiamo di essere protagonisti e complici in termini negativi rischiamo guasti irreversibili per l'Ente, ma soprattutto per il senso di riforma che l'Ente Regione aveva. Non è solo un atteggiamento di chi sta in questo Ente, ma è e deve essere un atteggiamento preoccupato per chiunque questo momento essenziale di riforma lo ha creduto come momento di cambiamento anche dello Stato.
Siamo di fronte al rischio di guasti irreversibili in un Ente che soggettivamente si sente in crisi nel suo ceto politico, nelle conseguenze che questo ha sul personale, nei rapporti con gli altri Enti. Non è arbitrario dire che si tratta di una riforma che è stata avviata nel '70, e che oggi, compressa dall'alto e non legittimata dal basso, né dai cittadini né dalle istituzioni, si trova al buio.
Siamo intervenuti perché di qui bisogna partire; siamo intervenuti non perché da parte nostra ci siano vaghezze o desideri particolari di esercitarci in sterili sperimentazioni di ingegneria istituzionale, o perché vogliamo manifestare di fronte alle grandi difficoltà politiche della maggioranza e della Giunta ad affrontare i problemi della riforma perfino quelli che sono stati inseriti nei documenti di verifica, ma perch un punto è essenziale per noi: la fotografia della crisi del sistema democratico elettivo complessivo, di questo snodo delicato e nuovo che è la Regione che fa sì che ci sia meno governo, meno presenza, meno credibilità quindi meno fiducia nel sistema delle istituzioni democraticamente elette mentre i processi di rivolgimento e di trasformazione della società italiana, sotto il profilo economico e sociale, necessiterebbero più governo. Il governo viene esercitato da altri soggetti non democraticamente eletti, i cosiddetti soggetti forti.
Noi non diamo una valenza neutra a questo discorso, a questo percorso perché riteniamo che, nel momento in cui il sistema democratico cade in fiducia, in efficienza, in capacità di intervenire tempestivamente sui problemi, in capacità di svolgere la propria funzione di guida, ci sono certo degli interessi aggregati e forti che governano, ma molti altri interessi e valori e molte altre persone vengono esclusi.
Quindi è un tema di progresso - lo vogliamo motivare così - perch riteniamo che questo sia un campo essenziale. D'altronde che un serio cammino di riforme istituzionali sia necessario nel nostro Paese è provato dalle molte chiacchiere che si fanno; è però contraddetto dalla grande difficoltà di individuare i terreni di percorso.
Noi qui in Regione forse abbiamo da una parte la fortuna di vedere lo stato di crisi dell'Ente e dall'altra di avere la possibilità di trovare qualche comun denominatore per reagire. Forse dobbiamo arrivare a qualche conclusione operativa che non ci faccia poi appartenere alla squadra dell'alibi.
La squadra dell'alibi è quella che dalla sostanziale insensibilità della comunità a questa crisi trae ragione per dire: "tutto è così e continuiamo ad andare avanti così".
La politica non può fermarsi qui. Mi viene il dubbio che molti, quando vogliono entrare con tutte le loro maglie nella squadra dell'alibi, è perché l'alibi gli va bene.
Che la crisi sia riconducibile a molti motivi è vero. Noi crediamo che vi siano due componenti: la componente strutturale e la componente politica. Riteniamo che nella situazione attuale si sarebbe potuto e si potrebbe fare di meglio. Le componenti politiche ad avviso del nostro Gruppo di opposizione stanno nella debolezza e nella rinuncia alla progettualità e nella rinuncia alla reattività su punti giusti e alti.
Certo, sono anche presenti le componenti strutturali, la crisi coinvolge tutte le Regioni.
Mi sia permesso però di denunciare qual è, secondo la mia interpretazione, la specificità piemontese. Se parliamo di Regioni in crisi, parliamo delle Regioni del sud che da sempre sono in crisi, ma noi vogliamo parlare della Regione Piemonte che è in crisi per ragioni politiche ma anche perché qui, forse più che altrove, si è cercato di confrontare capacità di progetto, programmazione e governo del sistema pubblico nel cuore della "razionalità capitalistica". In questi anni il processo di ristrutturazione produttiva ha cambiato enormemente la società la produzione e i rapporti tra i soggetti, le classi e gli individui.
Quindi è una società in evoluzione, qui più veloce che altrove, rispetto ai presupposti del 1980 (abbiamo letto l'intervista di Pansa a Romiti), che avrebbero avuto bisogno di più governo. Il Piemonte è più in difficoltà di altre Regioni anche perché qui più che altrove si è cercato di andare avanti sul terreno del governo dei processi reali e non solo sul terreno del governo degli elementi marginali.
Credo che ci siano molti motivi per reagire. Ne annuncio alcuni.
Primo. La politica deve ridursi ad essere una entità marginale o non deve spendere qualche tentativo di risorsa nuova per recuperare quegli elementi di stima e di fiducia come nelle società organizzate che fanno della politica un punto sempre sottoposto ad un grande specchio di verifica, un punto comunque di riferimento? Secondo. C'è la volontà di reagire alla crisi? Soprattutto c'è la percezione che si sta muovendo tutta l'Europa? In tutta Europa, in previsione del 1992, si sta sviluppando un movimento tendente ad evidenziare i limiti dell'istituto europeo attuale, ma anche dell'approccio centralistico burocratico tradizionale.
Ci sono Paesi che, senza tradizioni di decentramento, stanno percorrendo con diversi strumenti la regionalizzazione. Ed è paradossale che qui dove, prima che in Francia e prima che in Spagna, si è realizzata la costruzione regionale, non si colga questa occasione, che - mi auguro ci verrà sollecitata (vorremmo essere ancora in tempo per fare qualcosa e il tempo è oggi non è domani) dalle forze economiche e sindacali che in questo processo di regionalizzazione reale, non formale, non ingegneristico trovano l'aggancio per sviluppare nei confronti dell'Europa politiche e interventi per far derivare le conseguenze possibili da un processo di integrazione europea come quello che si sta sviluppando.
Non c'è modello né in Spagna né in Francia né in Inghilterra, non parliamo dei Paesi a struttura federale, che non si riferisca al ruolo alla presenza, all'attivismo delle regioni che contano.
Quindi ci stanno lanciando una palla, ce la lanceranno i produttori, ce la lanceranno gli imprenditori, ce la lanceranno i lavoratori. Ebbene sarebbe molto grave se per debolezza nostra ci mettessimo fuori gioco lasciando che la palla vada a fondo campo.
Certo, non dipende soltanto da questa Regione - mi si potrà obiettare.
Però noi dobbiamo dare una spinta.
Qualcosa di nuovo a livello nazionale si muove lentamente e timidamente. Comunque, alcuni partiti hanno già detto che la legge di riforma delle autonomie, chiusa al Senato, non va bene perché non contempla il rapporto tra Regioni ed enti locali. E' una prima importante acquisizione. In ogni caso, occorre lavorare. Lavorare a che cosa? Non illustrerò, anche perché così abbiamo convenuto e mi pare giusto, i punti della nostra impostazione e del documento che abbiamo consegnato.
Quello che mi preme mettere in rilievo è che noi non pensiamo ad una rivisitazione del modello vecchio, che aveva dei vizi che forse non scoprimmo allora. Aveva il vizio di fare della Regione, con grandi paroloni di fiducia e di speranza, un anfibio di cui vediamo i risultati.
Si dice che la Regione ha ripetuto il processo centralizzatore dello Stato: non è vero. La Regione ha ripetuto momenti di centralismo burocratico nei confronti degli altri soggetti, ma né incide né governa sulle decisioni essenziali dei soggetti enti locali. Dall'altra parte questa idrovora, che è il centralismo, ha risucchiato poteri, competenze vincoli, ha portato confusione nelle quote attraverso un sistema consociativo portato al parossismo (pensate ad organismi come il CER o il Consiglio sanitario dove si va per concertare e dove sono presenti dei soggetti, ma non si capisce assolutamente chi decide). Questo modello è degenerato, ma aveva già dei vizi e noi proponiamo un nuovo modello regionalista tale da riformare lo Stato con questa caratteristica.
In questo senso svolgendo un'azione di spinta diamo un contributo alle riforme istituzionali anche dello Stato. Non si può affrontare la riforma del voto in Parlamento e del sistema delle autonomie locali senza improntare questo momento con una forte caratteristica regionalista. Non dobbiamo trascurare questo momento sapendo che un nuovo modello regionalista si articola attraverso l'autonomia garantita, riconosciuta e definita attraverso modelli e schemi diversi da quelli del passato. La finanza è una questione importante, ma è importante, anzi essenziale, la riforma del Parlamento. Non è pensabile che in Italia si faccia, tra leggi nazionali e leggi regionali, un numero di leggi tre o quattro volte maggiore di quello di qualsiasi parlamento dell'Europa occidentale, con tutta la svalorizzazione che ne segue. Pensiamo ai limiti che hanno le nostre leggi, sono limiti soggettivi, ma sono anche limiti di sistema.
Non voglio illustrare tutti i punti del nostro documento, d'altra parte sono noti. Ne parleremo oggi. E' importante capire che sul terreno della riforma ci si colloca facendo non il solo discorso della riforma regionale tradita, ma anche partendo dall'esperienza concreta per ripensare un modello.
L'ispirazione di fondo è quella del modello federale nel quale i poteri dell'autonomia locale hanno, dentro la Regione, uno dei livelli di attestazione forte, una comunità, un suo governo, una sua rappresentanza.
Il contrario di quello che sta avvenendo oggi quando, su importanti momenti decisionali, le Regioni sono pesantemente escluse.
C'è un'altra parte importante, quella che riguarda le autoriforme. I criteri di fondo debbono essere quelli di mettere in rilievo responsabilità e competizione. Questo vuol dire con molta franchezza rivedere completamente lo schema consociativo, nelle intenzioni e nelle regole. Vuol dire anche affrontare le questioni della trasparenza, gli strumenti istituzionali per favorire l'eterna lotta sul versante della questione morale. Vanno affrontate le questioni della partecipazione. Ricordo che nascemmo scrivendo nello Statuto la parola d'ordine: "partecipazione".
Valorizzammo per tanti anni l'istituto della consultazione sulle leggi.
Siamo tutti d'accordo nel riconoscere che questa partecipazione è ormai un rito spesso neanche più partecipato. A queste forme di partecipazione semmai possono dare un contributo i gruppi organizzati, ma non la diffusa società piemontese.
Noi parliamo di riforme dello Statuto, di carte dei diritti, di referendum propositivi, di quelle forme che facciano entrare imprese in sintonia con l'istituto regionale e con la sua comunità, ma parliamo anche di necessità di strutturare la Regione come ente di governo partendo dalla legge sulla struttura della Giunta per arrivare al Consiglio. Ho letto i numeri degli anni 1986 e 1987 e ho cercato di fare un rapporto numerico e qualitativo tra le leggi presentate, quelle giacenti e quelle approvate. In realtà abbiamo dei numeri bassi sulla quantità, molto deludenti sul piano della qualità e la maggior parte degli atti compiuti sono atti di nomina.
Non abbiamo avuto leggi di impianto, non abbiamo avuto atti o progetti di programmazione.
L'innovazione sta in alcuni punti essenziali: legge di struttura della Giunta, legge di struttura del personale. Sappiamo lo stato profondamente critico in cui versa il personale, la crisi di vocazione è molto diffusa.
Avremo ancora chi lavorerà per la Regione a queste condizioni? E' essenziale intervenire con le autoriforme. Nel nostro documento ci sono proposte concrete.
Vado alle conclusioni traendo due prime importanti proposte o suggestioni.
Perché tutto ciò avvenga, perché si reagisca e ci si metta in sintonia con un contributo originale e forte, con le riforme nazionali e perché si intervenga subito sulle autoriforme, è necessaria una interlocuzione molto diversa con i partiti e tra i partiti.
In uno studio del CNR veniva evidenziato come non si è mai formata una classe politica regionale da nessuna parte e come ci sia una sommatoria di classi politiche locali. Questo dipende dalla struttura e dal modo di operare dei partiti. Mentre il via alle riforme è stato dato nazionalmente dai partiti, che sul Parlamento hanno pesato perché si desse avvio alla sessione istituzionale, qui l'interesse mi sembra scarso. Una proposta potrebbe essere: meno nomine, più idee in politica; un'altra potrebbe essere la ripresa del confronto e del dialogo ritenendo che ne valga la pena. Considero esaurito un compito quando nella battaglia parlamentare si ottengono dei risultati, ma tutto questo o ha un humus, un terreno, una cultura che ritenga che questi siano momenti di lavoro intanto nei partiti e poi in altri pezzi della società civile, i quali peraltro per certi versi sono più attenti, oppure tutto questo discorso resta confinato qui. Ecco allora, la nostra proposta di una Commissione di lavoro simile a quella che nel 1980 si dette la Regione Toscana, associandovi anche i rappresentanti dei partiti, coinvolgendoli, facendo in modo che insieme alla cultura giuridica e ai gruppi ci siano anche quelli che nei partiti vogliono reagire per portare le voci dell'autonomia. L'autonomia è data da una classe politica rappresentativa e forte, dai poteri istituzionali e da una comunità che riconosce questi come interlocutori. Noi siamo per buttare queste tre condizioni nel confronto come elementi qualificanti.
E' importante che oggi si giunga a conclusioni operative perch dobbiamo pesare immediatamente sul tavolo nazionale, attraverso proposte e attraverso il loro approfondimento. Sono questioni che possono anche dividerci, ma non ne abbiamo mai parlato. Mi risulta che i partiti in Piemonte trattino soltanto nei momenti delle verifiche o per questioni di poltrone; non parlano delle questioni di fondo. Questo è un limite e questa cultura deve cambiare. Noi lo diciamo atteggiandoci in altro modo. Sulle riforme istituzionali nazionali è importante dare questo contributo a cominciare dal bilancio. Svilupperemo un'azione mirata sull'emergenza finanza che viene prima di tutto il resto.
Per quanto riguarda le autoriforme credo che il Consiglio regionale debba stabilire un patto sulle nuove regole del gioco, nuove leggi, nuovi profili organizzativi, nuovi comportamenti. Dobbiamo stringere un impegno e la misura di questo ci sarà data dai confronti reali che nei prossimi due anni ci saranno, dal tentativo per correggere lo stato grave di crisi. Se invece anche questa occasione che abbiamo fortemente voluto sarà perduta non ci sarà molto più terreno di lavoro credibile, ma non sarà neanche più possibile chiedere ad un Gruppo di opposizione più di quello che cerca di fare (mutando in tre anni modi e tattica) per cercare di incidere in un ruolo costituzionale che è riconosciuto.
Abbiamo fiducia che la comunità piemontese, attraverso la sua rappresentanza, possa avere una seria capacità di reazione. Non chiediamo la luna, chiediamo questo che è anche la cartina di tornasole per dimostrare politicamente se si intende stare in una condizione di ghetto forse d'oro, pensionabile a buona indennità e a nulla utilità, oppure se si intende fare di questa occasione un momento di ripresa della nostra vita del dialogo e anche della nostra immagine.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Brizio.



BRIZIO Gian Paolo

Il tema del funzionamento delle istituzioni e quello ad esso connesso delle riforme istituzionali è da tempo al centro del dibattito politico ed ha via via assunto un peso, un significato e un'attualità veramente rilevanti.
La DC ha sentito questa esigenza e si è conseguentemente posta il problema per prima o quantomeno fra i primi e non da oggi. Basti pensare a tutta l'elaborazione culturale e politica del nostro Segretario Ciriaco De Mita intorno al concetto di nuova statualità, al contributo rilevante di molti costituzionalisti e studiosi, dal prof. Elia al prof. Ruffilli (al quale dedichiamo commossi il nostro pensiero nel dibattito di oggi), per arrivare alle iniziative politiche assunte nelle più disparate occasioni.
L'ordinamento delle istituzioni peraltro - desideriamo precisarlo costituisce la cornice essenziale, il complesso di modalità che promuovono le forme più corrette e più utili per lo svolgimento concreto dell'attività di governo, ma sarebbe superficiale ed erroneo pensare che la sua riforma possa costituire per se stessa il contenuto di un'azione di governo o coprire vuoti di sintesi, di progettualità e di azione laddove questi dovessero esistere.
Vi è poi una seconda osservazione preliminare che intendiamo formulare circa la qualità delle riforme, il loro peso, la loro profondità.
Siamo per affrontare il problema delle istituzioni a fondo, ma non riteniamo si debba pervenire ad una riforma costituzionale di così larga portata e di taglio tale da ipotizzare il disegno di quella che in modo semplificatorio, ma peraltro ben comprensibile, si intende per seconda Repubblica.
Pensiamo che il disegno repubblicano emerso quarant'anni fa dopo il secondo conflitto mondiale e la caduta del fascismo abbia in sé valori motivazioni ed impostazioni ancora sostanzialmente validi né si pu dimenticare o sottacere che in questi quarant'anni il Paese ha vissuto in pace e in libertà una fase di eccezionale progresso che l'ha portato ai primissimi livelli mondiali per capacità produttiva e qualità di vita.
La tesi di un Paese che progredisce malgrado le istituzioni e malgrado i governi di ogni livello è così superficiale, così strumentale che non merita considerazione anche perché non è condivisa dalla gente.
Fatte queste premesse che giudichiamo fondamentali desideriamo ricordare come il dibattito di oggi, che fa riferimento al quarantesimo anniversario della Costituzione repubblicana, consegua al dibattito relativo al rinnovo dell'Ufficio di Presidenza tenutosi in quest'aula nel dicembre 1987 nel corso del quale il Gruppo comunista aveva posto il problema di un rilancio dell'istituto regionale nello specifico della nostra realtà piemontese.
Già allora avevamo rilevato come il nostro Gruppo in analoga occasione nel 1982, attraverso il puntuale intervento dell'avv. Paganelli, allora Capogruppo, dall'opposizione, avesse posto il problema con una serie di proposte che non ebbero peraltro l'attenzione che invece oggi in questa legislatura viene al tema prestata.
Nel passare ai temi specifici devo precisare che i tempi che ci siamo dati mi impegnano ad un'esposizione stringata ed essenziale delle nostre posizioni che saranno completate ed ulteriormente chiarite dagli interventi che i colleghi del Gruppo svolgeranno nel corso del dibattito.
In ordine alla riforma dei cosiddetti rami alti delle istituzioni è evidente, da quanto abbiamo già accennato, che non ci convince l'ipotesi di una riforma della Presidenza della Repubblica nel senso di un'elezione diretta, la quale configurerebbe per la massima Magistratura dello Stato un ruolo e un'attribuzione di compiti sconvolgenti dell'attuale ordinamento.
E' invece essenziale la riforma della Presidenza del Consiglio anche se non possiamo sottacere che il progetto già approvato dal Parlamento delinea un potere di annullamento degli atti regionali che appare eccessivo pericoloso nella sostanza e sospetto di incostituzionalità andando ad interferire nella sfera degli atti già legittimamente perfetti. Non meno importante è la riforma delle Camere.
Dopo ampio dibattito appare prevalente la posizione favorevole al mantenimento del sistema bicamerale, ma anche al superamento del cosiddetto bicameralismo perfetto ed alla differenziazione nella natura e nei compiti delle due Camere.
Lo stesso progetto della DC, indirizzato a prevedere la riforma del procedimento legislativo in senso monocamerale, non contrasta (come taluno vorrebbe affermare) con tale differenziazione di compiti.
In questo quadro va perseguito il rilancio della proposta del Senato come Camera delle Regioni preferibilmente non a composizione mista ma, alla maniera tedesca, formata nella sua totalità dalle Regioni.
Vitale è per un corretto funzionamento delle Camere la limitazione del voto segreto ai soli casi che riguardano questioni di persone. Non vi sono più quelle ragioni garantiste che avevano giustificato a suo tempo un largo uso di tale forma di votazione che nel concreto ha finito di facilitare la deresponsabilizzazione e l'ingovernabilità.
L'inserimento nel programma del nuovo Governo dell'impegno ad estendere il voto palese fino a farne elemento di normalità ci vede pienamente consenzienti e conferma come questo problema sia giudicato maturo dalla grande maggioranza delle forze politiche.
Si pone inoltre il problema di un'adeguata riforma della legge elettorale a tutti i livelli, nazionale, regionale e degli enti locali perché il frazionamento esasperato della rappresentanza si trasforma, oltre certi limiti, da elemento di espressione democratica in elemento di dispersione e di confusione quando sono più che mai necessarie sintesi decisionali che garantiscano l'effettiva governabilità del sistema. Si tratta allora di contemperare l'esigenza di salvaguardare la proporzionalità che è garanzia di corretta rappresentanza con quella di evitare appunto fenomeni di parcellizzazione non produttivi. Non sono necessari provvedimenti sconvolgenti ma certamente indilazionabili interventi concreti di aggiustamento e di modifica.
L'abolizione delle preferenze, la generalizzazione del Collegio uninominale e l'introduzione del quorum sono ipotesi diverse che offrono un campo di scelta certo non indifferenziato.
Il tema dei rapporti Governo - Parlamento è di grande rilievo. Va definita la questione dei decreti legge, da un lato limitando drasticamente l'uso eccessivo di questo strumento da parte del Governo, ma nello stesso tempo stabilendo termini perentori per una pronuncia nel merito da parte del Parlamento.
La decadenza dei decreti, per il trascorrere dei termini e la loro reiterazione talvolta ripetuta, costituisce infatti una delle anomalie del sistema che va assolutamente rimossa.
Il riassetto istituzionale non può limitarsi ai rami più alti perché vi è l'esigenza di interessare al processo riformatore i cosiddetti rami bassi e più correttamente il complesso dell'ordinamento repubblicano, senza separatezza con il sistema delle autonomie e con le Regioni.
L'affidamento ad un Ministro senza portafoglio dell'incarico di seguire insieme Regioni e riforme istituzionali è di grande rilievo e ripropone in modo significativo il ruolo centrale dell'istituto regionale.
L'allargamento delle competenze delle Regioni appare così tema primario poiché non si può pensare all'attualità di una norma datata 1947. D'altro canto, il DPR n. 616 ha già in qualche modo ampliato gli spazi dell'azione regionale tant'è vero che è stata formulata la proposta di recepirlo nell'art. 117 della Costituzione, mentre il problema non è quello di costituzionalizzarlo ma di attuarlo.
E' probabilmente più percorribile di una modifica della Costituzione che allarghi tali competenze ad esempio al settore industriale e all'organizzazione del mercato del lavoro così come si ipotizza la via meno ostile al potere centrale e più articolata nella sostanza (per esempio limitando il campo degli interventi nel settore industriale all'incentivazione senza rompere quell'unità della politica industriale che appare ancora a molti essenziale) di provvedere a corpose deleghe legislative ed amministrative nei settori interessati.
Connesso al tema delle competenze è quello delle risorse finanziarie della libera disponibilità e della consistenza dei fondi trasferiti dallo Stato alle Regioni. Anche qui ci pare che più che ad una modifica dell'art.
119 della Costituzione nel senso di prevedere il divieto dei vincoli di destinazione oggi frequentemente inseriti nelle leggi statali con la sola esclusione di risorse riguardanti servizi di interesse nazionale quali il Fondo sanitario, sarebbe preferibile la via di ridurre attraverso la legislazione ordinaria (legge finanziaria regionale o singole leggi di spesa) lo spazio dell'area soggetta a vincolo con incrementi del fondo comune e del fondo per il finanziamento dei programmi regionali di sviluppo o ancor più fissando il criterio di finalizzazioni di massima per materia alle quali non seguano, come purtroppo ora avviene, finalizzazioni ulteriori all'interno dei primi vincoli.
Per i fondi FIO, vincolati per natura, occorrerebbe un preciso coinvolgimento delle Regioni nella fase di approvazione dei progetti che le interessano (anche senza particolari appesantimenti quali quelli che sarebbero conseguenti all'inserimento sistematico delle Regioni nel CIPE) e un'erogazione puntuale senza gli intollerabili ritardi verificatisi (sono ancora da assegnare i fondi del 1986 e del 1987!).
Quanto alla consistenza delle risorse la nuova legge sulla finanza regionale dovrà porsi il problema dell'adeguamento dei trasferimenti da parte dello Stato e quello dell'individuazione di un'effettiva autonomia impositiva per le Regioni.
E' questo tema di grande rilievo e di non facile soluzione perché vi è l'esigenza di tutelare la parità tributaria sul territorio e di consentire maggiori imposizioni ai cittadini solo in presenza di maggiori erogazioni di servizi.
Il programma del nuovo Governo riprende il tema dell'area impositiva autonoma anche se, per evitare nuovi oneri di accertamento, sembra prendere la via delle addizionali sui tributi statali.
Per le spese di investimento occorre rivedere il problema dell'accesso al credito prevedendo misure di maggiore respiro rispetto a quelle che la legislazione attuale stabilisce: maggiore capacità di indebitamento e possibilità di rivolgersi alla Cassa Depositi e Prestiti onde ottenere attraverso una favorevole combinazione fra tasso e durata, annualità meno pesanti.
E' vero che l'indebitamento comporta, di fronte a maggiori disponibilità immediate, rilevanti difficoltà future in ordine alla flessibilità del bilancio, ma è anche vero che senza maggiori risorse senza fondi liberamente disponibili l'autonomia regionale appare nella sostanza fortemente minata.
Altro tema di grande rilevanza per le Regioni è la riforma delle autonomie locali che dovrebbe risistemare il complesso della materia e chiarire più compiutamente funzioni e ruoli degli enti locali.
La strada maestra è quella di attribuire con chiarezza alle Regioni compiti di legislazione e di programmazione e ai Comuni e alle Province compiti di gestione e di amministrazione.
Pensare alla Provincia come un ente di programmazione significa perseguire soluzioni confuse e lasciare alle Regioni uno spazio meramente residuale che sarebbe veramente inaccettabile.
Alla Regione compete la centralità e la guida del sistema delle autonomie. Sotto questo aspetto la nostra Regione, dopo aver avviato l'esperienza comprensoriale, che ha in ogni caso contribuito a creare nei Comuni piemontesi (ben 1.209) la capacità di guardare oltre gli stretti confini municipali, ha provveduto in questa legislatura a disegnare un riordino regionale delle autonomie adeguato al ruolo di ente intermedio attribuito alle Province.
Il ripetuto rinvio da parte del Governo della legge che individua oltre ambiti di deleghe a Comuni e Province, Assemblee di Sindaci meramente consultive, già introdotte da altre Regioni e dalla stessa Regione Piemonte attraverso la legge regionale dei trasporti regolarmente approvata, sembra espressione di un rinnovato spirito neocentralistico e di una fiscalità formale non certamente positiva.
L'orientamento emerso fra Giunta e Consiglio (compresa l'opposizione comunista) di riapprovare la legge richiedendo così di fatto un ripensamento del Governo, mancando il quale non potrebbe non aprirsi il contenzioso previsto dal vigente ordinamento, assume il significato di una presa di posizione chiara della Regione Piemonte indirizzata ad affermare nel concreto l'esigenza di un'autonomia reale.
Un positivo rapporto fra Stato e Regioni è certamente legato alla riforma ed al rilancio della Conferenza dei Presidenti e della Conferenza permanente Stato-Regioni già istituzionalizzata senza particolare seguito né positivi risultati con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri nel 1983. Questa Conferenza non può essere solo la sede di un rivendicazionismo regionale, d'altro canto poco e male esercitato fino ad oggi, ma un momento di collaborazione e di supporto collegiale ad un ruolo di effettivo governo occupandosi anche di possibili intese Stato-Regioni sull'attività all'estero dopo che la Corte Costituzionale ha con sentenza riconosciuto la possibile attività di rilievo internazionale delle Regioni.
E le Regioni possono giocare un ruolo a favore dell'unità europea anche se pensare ad un'Europa federalista su basi regionali quando è ancora distante una federazione di nazioni può sembrare una fuga in avanti.
E' poi indilazionabile fare chiarezza sullo status giuridico dei pubblici amministratori. Per i Consiglieri regionali occorre chiarire contenuto e limiti del disposto dell'art. 122 della Costituzione ripreso dall'art. 12 dello Statuto, ma per tutti gli amministratori si pone il problema della certezza del diritto. Sanzioni gravi per reati chiaramente definiti con dolo o colpa grave. Non si tratta di ripristinare garanzie amministrative ormai superate, ma si tratta certamente di respingere responsabilità oggettive indefinite, inaccettabili pregiudiziali di colpevolezza.
Ben prima che Galli Della Loggia ponesse, in termini non completamente condivisibili ma certamente incisivi, con il suo articolo sulla società incivile il tema di un costume generalizzato, noi in quest'aula avevamo con puntualità sostenuto la provenienza dei meccanismi di corruzione pubblica dalla società civile, da prassi purtroppo diffuse nel mondo degli affari e nel mercato.
Servono quindi leggi precise, norme chiare, pene severe, ma la questione morale è soprattutto questione di comportamenti e di atteggiamenti che riguardano la responsabilità individuale e la sostanza dei valori. Basti ricordare quanto diceva Moro sulla necessità in questo Paese di un nuovo senso del dovere.
Le Regioni, e la nostra in particolare, non possono tuttavia pensare ad una revisione dell'ordinamento tutta esterna che le vede presenti soltanto in chiave propositiva o dialogica, vi è l'esigenza di interventi sulla struttura propria della Regione che preferiamo definire come riforme interne piuttosto che come autoriforme.
La caduta dell'immagine dell'istituto regionale e la perdita di efficacia della sua azione non sono solo effetto di cause esterne, ma anche per molti versi conseguenza di insufficienze proprie.
Lo stesso funzionamento del nostro Consiglio appare spesso sfilacciato disorganico, farraginoso e non costituisce certo un esempio di funzionalità: si trasformano di fatto comunicazioni della Giunta in interminabili ed inconcludenti dibattiti; si producono ordini del giorno su ogni genere di argomento e senza la necessaria preventiva valutazione, con il risultato che essi restano il più delle volte mere espressioni verbali senza seguito operativo; si producono mozioni che non sono tali e sistematicamente non si applicano i tempi previsti dal Regolamento per gli interventi in aula, né si riesce a dare esecuzione ai lavori secondo le procedure e i tempi fissati nella Conferenza dei Presidenti e ciò malgrado il prestigio e l'impegno del Presidente e dell'Ufficio di Presidenza.
Le riforme interne devono dunque partire dai rapporti Giunta e Consiglio, che vanno ridefiniti, anche con modifiche statutarie, in modo da dare all'una ed all'altro, il che non è contraddittorio, maggior efficienza e operatività.
La Giunta regionale deve poter deliberare, decidere ed esplicare con sufficiente autonomia una propria azione di governo, mentre il Consiglio deve esprimersi sugli atti di alta amministrazione (ricordo la nostra proposta di modifica statutaria del 1981) e deve essere sollevato da compiti, quali ad esempio talune nomine che devono ritornare all'esecutivo.
Il Consiglio necessita di un nuovo Regolamento che abbia in se stesso norme che garantiscano la rigorosa applicazione.
Abbiamo attentamente valutato l'opportunità di un ordinamento che regoli la struttura della Giunta con precisa definizione degli Assessorati ma senza sottrarci al confronto ci pare giusto esprimere l'opinione che questa strada ci porterebbe, in un momento di profondi cambiamenti, in una realtà sociale, economica e produttiva profondamente mutevole, verso forme di rigidità non positiva.
E' essenziale invece definire con chiarezza l'assetto organizzativo e funzionale della Regione.
Quanto alle Commissioni consiliari occorre affrontare organicamente il problema del loro numero, delle materie loro assegnate, della loro organizzazione e del loro funzionamento. Il passaggio da cinque Commissioni a sette nel 1980 e da sette a otto nel 1985 non era privo di motivazione e ci sentiamo di affermare che la costituzione dell'VIII Commissione con i compiti istituzionali attribuitile è risultata utile.
Il vero problema è il numero delle Commissioni in rapporto a quello limitato dei Consiglieri che forse dovrebbe essere utilmente portato da 60 a 80 per una Regione come il Piemonte.
Riteniamo pertanto che si debba nell'immediato procedere al rinnovo regolamentare delle Commissioni, tra l'altro già scadute, e non ad una semplice proroga dell'attuale composizione perché applicare intanto le norme che ci siamo dati è il presupposto di ogni seria riforma ed anche perché modificare il quadro delle Commissioni a metà legislatura e senza un adeguato lavoro preparatorio potrebbe essere negativo. Ciò non significa che di fronte ad una rapida modifica regolamentare non si possa darvi attuazione anche prima del 1990.
La legge sulle procedure della programmazione non è solo fortemente datata, ma presenta il vizio d'origine, da noi sempre segnalato, di una macchinosità, complessità e pesantezza normativa che, nella sostanza, l'ha resa inapplicabile. La sua revisione, come quella della legge urbanistica sono nel programma della maggioranza e darvi corso è anche mantenere un impegno che per noi va assolutamente assolto.
Nell'ambito dei settori previsti dalla proposta di legge sul riordino delle autonomie già approvata dal Consiglio ed oggetto di contrasto con il Governo, cui abbiamo prima fatto cenno, è necessario provvedere progressivamente ad organiche attribuzioni di deleghe, avendo peraltro presente che delega e trasferimento non sono sinonimi.
Va rivisto anche dalla radice nel processo legislativo il ruolo della partecipazione esauritosi nella "routine" e nelle sfilate di addetti ai lavori.
Infine occorre ripensare la regolamentazione delle nomine perché la legge in vigore ha mostrato, con alcuni aspetti positivi, grandi limiti sia nel meccanismo di pubblicità, sia nella velleità dell'autocandidatura, sia nella titolarità della designazione che deve, per gli enti strumentali tornare all'esecutivo.
Una corretta impostazione di riforme interne deve, infatti, non solo distinguere con chiarezza compiti della Giunta e del Consiglio, ma anche evitare ipotesi consociative pericolose ed avere presente che il meccanismo maggioranza-opposizione con chiara e netta distinzione dei ruoli è l'essenza stessa del sistema, è la garanzia di quel controllo democratico che resta unico ed insostituibile.
Come procedere infine per elaborare e presentare un documento che esprima l'opinione del Piemonte sulla riforma istituzionale nazionale e per avviare nel concreto la riforma interna? Abbiamo anticipato venerdì, nel corso della Conferenza dei Presidenti dei Gruppi, la nostra posizione. Pensiamo che non siano utili allargamenti istituzionali ai partiti od anche ad esperti al di fuori del Consiglio e che questa assemblea abbia al suo interno la capacità e la forza di svolgere un positivo lavoro anche per quel che concerne le questioni istituzionali nazionali.
Il Piemonte può presentare a Governo e Parlamento una propria posizione in ordine agli aspetti delle riforme istituzionali che riguardano le Regioni attraverso l'elaborazione dell'Ufficio di Presidenza, l'esame e le conclusioni dell'VIII Commissione.
In quanto alle riforme interne occorre determinare i settori di intervento ed affidare ai titolari dell'iniziativa legislativa, Giunta Gruppi consiliari, Consiglieri, il compito di presentare autonome proposte assumendo l'impegno ad un esame tempestivo nelle Commissioni competenti attraverso una corsia preferenziale e riservando analogo trattamento a provvedimenti urgenti della Giunta per non ritardare l'azione di governo.
Abbiamo presentato in proposito un documento conclusivo che proponiamo all'attenzione del Consiglio, disponibili come sempre alla discussione ed al confronto più aperto.
Il Presidente della Repubblica, che avremo domani l'onore di ricevere in quest'aula, ha nel suo messaggio di fine anno evidenziato la crisi dei partiti, la necessità di riscoprirne il ruolo di animatori ed interpreti della società civile, delle aspirazioni e degli interessi dei cittadini. Ma la gente, quella cui spesso il Presidente Cossiga fa riferimento, esprime soprattutto il bisogno, l'esigenza di governi che governino, di servizi che servano, di istituzioni che funzionino.
Se le regole e le strutture istituzionali non fossero così importanti il terrorismo destabilizzante non avrebbe scelto la figura limpida del Senatore Ruffilli per portare un attacco mirato e preciso allo Stato oltreché al nostro Partito che dello Stato è, piaccia o non piaccia pilastro in certa misura insostituibile.
Il nostro impegno a migliorare le istituzioni, a renderle più efficienti e più operanti, quello in particolare diretto a ridare immagine autorevolezza e funzionalità alla nostra Regione, è quindi una risposta ai bisogni della gente, un contributo a far crescere la società civile, a mettere al primo posto (per dirla con Ruffilli) l'uomo, il cittadino.



PRESIDENTE

La parola al Presidente della Giunta, Beltrami.



BELTRAMI Vittorio, Presidente della Giunta regionale

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, non credo siano necessarie molte parole per illustrare un problema, quale quello delle riforme istituzionali, all'attenzione del Parlamento da varie legislature, e sul quale tutte le forze politiche si sono ampiamente espresse.
Ho ritenuto opportuno farvi distribuire un dossier contenente tutte le prese di posizione, ufficialmente assunte dalla Conferenza dei Presidenti delle Regioni, su così articolato problema, compreso il documento di sintesi, elaborato dal prof. Paladin, esaminato dalla Conferenza nel marzo scorso e di cui, a suo tempo, avevo già inoltrato copia a tutti i Capigruppo.
Ritengo anch'io opportuno richiamare, quale premessa al mio intervento quanto è emerso dal Convegno di Venezia in occasione del decennale del DPR n. 616. Molte delle cose dette a Venezia mi paiono condivisibili: in particolare il riconoscimento, insito soprattutto nella relazione di Giannini, che il DPR n. 616 avrebbe dovuto essere una tappa del processo di riorganizzazione dello Stato (e come tale era sostanzialmente adeguato ai suoi compiti), cui però non seguirono gli altri adempimenti, né la riforma degli apparati centrali, né quella degli enti locali. Con il risultato che le Regioni rimasero uno "spezzone" isolato, un avamposto circondato da ogni parte al quale sia gli atti di Governo che l'attività del Parlamento avrebbero, negli anni successivi, ridotto sempre più spazi di autonomia e potere politico reale.
Nello specifico il prof. Giannini in un suo intervento della primavera del 1984 così si esprimeva in proposito: "Le Regioni, come oggi si presentano, sono un frammento minuscolo di un più vasto disegno che era stato delineato, si noti bene, dal legislatore, da quella commissione bicamerale che dette il suo parere sullo schema di legge delegata, quella che poi doveva diventare la 616, e da tutte le dichiarazioni degli uomini politici dell'epoca. Questo avveniva nel 1977, siamo nel 1984, non è stato fatto niente.
Credo che il tratto saliente del modo di essere attuale delle Regioni sia l'incompiutezza del sistema. Riprendendo quanto prima vi dicevo vediamo che cosa disponeva quella legge delegata 616. La legge delegata diceva, ad esempio, che entro il 1978 si sarebbe dovuta adottare la legge per la riforma dell'assistenza pubblica (artt. 24 e 25); si sarebbe dovuto rivedere il sistema del controllo dei prezzi, art. 52; si sarebbe dovuto procedere alla riforma delle Camere di Commercio, art. 64, soprattutto in ordine alle attribuzioni.
Per il dicembre 1979 gli artt. 16, 19, 64, 93, 96 e 104 della legge 616 prevedevano l'adozione della legge di riforma dei poteri locali. Sempre per quella stessa data si prevedeva l'adozione della legge di riforma dei beni culturali, poi l'ordinamento universitario, art. 44; tutta la materia del Ministero del Turismo e dello Spettacolo, con particolare riguardo alle attività di prosa, musicali e cinematografiche, art. 49; la materia dei parchi nazionali e delle riserve naturali, art. 83 e, da ultimo, l'apparato statale centrale e periferico. La legge 616 menzionava addirittura il Ministero dei Lavori Pubblici (art. 89) come una di quelle amministrazioni centrali che occorreva rivedere con urgenza, ed era fissata la data del dicembre 1980.
Se noi andiamo a vedere tutte le aperture indicate dalla legge 616 e verifichiamo ciò che è accaduto nella realtà, il bilancio si concentra in due sole realizzazioni; la riforma sanitaria, che è stata adottata nel 1978, secondo quanto indicava la legge 616; poi una frattaglia quale la riforma dell'ENIT, che è stata pure adottata in termine. Tutto il resto è rimasto lettera morta; il che oggi significa ritardo che va da cinque a sei anni, rispetto all'attuazione di quel disegno che, vi ripeto, la 616 aveva delineato".
Questo era quanto affermava Giannini nel 1984, non mi pare che la situazione, a quattro anni di distanza, sia mutata di molto.
Passando poi al vivo dell'argomento odierno sono convinto che la complessità e corposità dei temi riassumibili nell'ampio concetto della riforma istituzionale debba condurre a più ragionevoli percorsi relativi alle riforme possibili sul tema più agibile della legislazione ordinaria e delle modificazioni regolamentari e procedurali, tralasciando più ambiziosi traguardi di vera e propria riforma costituzionale: non perché non se ne debba o non se ne possa auspicare ed immaginare la positività, ma per la semplice constatazione che la persistente mancanza di una larga convergenza parlamentare sulle ambiziose ipotesi, tuttora al centro del dibattito confini ancora le medesime al rango della mera ipotesi di scuola.
Una politica più accorta e più responsabile sarà invece quella mirata all'obiettivo di introdurre elementi di maggiore razionalità nel sistema attuale delle autonomie locali, operando principalmente con legislazione ordinaria, tendendo a sostanziali semplificazioni delle procedure ad ogni livello in cui si esprima la rappresentanza degli interessi degli amministrati.
Mi preme evidenziare innanzitutto la necessità di considerare le conseguenze che all'assetto complessivo degli Stati europei deriveranno dall'apertura delle frontiere al 1992. A questo proposito la Regione Piemonte, per una sensibilità che da sempre ha dimostrato attorno a questo argomento, in questi ultimi tempi ha richiesto alla Cotrao di essere fatta carico della responsabilità della Commissione Atto Unico che tratta all'interno della Cotrao, questo argomento. Non soltanto verranno messe in discussione le capacità di impresa in un quadro di reale e operativa concorrenza "ultra limina", ma gli stessi apparati politico-istituzionali degli Stati europei, che sino ad oggi potevano, grosso modo, procedere autonomamente, verranno a trovarsi in posizioni nuove nelle quali, dalle regole da ciascuno prodotte, potranno scaturire comportamenti e rapporti intersoggettivi anche profondamente diversi, così da alterare, in termini di assoluta negatività, le doverose "pari condizioni" che un sistema europeo senza barriere ha invece il dovere di garantire.
Se non sarà così, ad una comunità di eguali verrà a sostituirsi aggravata, una comunità di disuguali come in parte è tuttora quella attuale e l'Europa, con le sue economie diversamente trattate a livello singolo, si presenterà perdente al confronto sullo scenario della competizione mondiale.
Ne consegue l'esigenza fondamentale che ogni riforma, alla quale si accinge il legislatore italiano in questo settore dell'auspicato nuovo assetto delle istituzioni, non possa prescindere da una attenta disamina relativa al comportamento con quanto sul punto è in atto o in elaborazione a livello europeo.
La prosecuzione e la conclusione di questo ragionamento ci porta a dichiarare che ogni riforma, che dovesse condurre a progressive disarticolazioni del tessuto sociale, economico, culturale e produttivo dell'intero Paese, rischierebbe di vederci perdenti nella competizione europea e mondiale, che nei prossimi anni sarà sempre più esasperata.
Ciò sottintende la necessità di procedere all'attuazione della Carta Costituzionale avendo di mira l'esigenza primaria di assicurare reali condizioni di eguaglianza ai cittadini italiani che, al pari del belgi, dei francesi, dei germanici, sono cittadini europei con eguale dignità ed aspettative di promozione sociale e progresso economico.
Nel termine generico di "riforme istituzionali" mi pare doveroso ricomprendere innanzitutto taluni ineludibili appuntamenti legislativi ordinari riguardanti il Titolo V della Costituzione, senza i quali esso rimarrebbe almeno in parte inapplicato. Mi riferisco ovviamente alla legge sulla finanza regionale, alla legge di riordino delle autonomie locali nonché alle leggi statali di cornice ancora mancanti; per non dire poi di certe leggi-cornice o di certe leggi di grande riforma che a questo punto passati non molti anni dalla loro entrata in vigore, già richiedono di essere compiutamente ripensate.
In secondo luogo, altre leggi statali ordinarie o altre fonti normative sub-costituzionali (regolamenti parlamentari in particolar modo) necessitano per meglio raccordare lo Stato e le Regioni quanto all'organizzazione centrale dello Stato stesso; in questo quadro ovviamente si colloca innanzitutto il nuovo ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, come pure il rafforzamento, tante volte auspicato, della Commissione bicamerale per le questioni regionali (salvo a ritenere che qualunque rafforzamento di quella Commissione richieda di per sé il ricorso ad una revisione costituzionale).
In terzo luogo, si aggiungono le vere e proprie riforme costituzionali sia concernenti il Titolo V della Costituzione, sia relative ad altre parti dell'ordinamento della Repubblica, con particolare riguardo alla progettata trasformazione del Senato in una Camera delle Regioni.
Residuano infine i temi suscettibili di essere affrontati in via non legislativa bensì convenzionale: temi che non per questo sono di secondaria o scarsa importanza a partire dalla già prefigurata intesa Governo-Regioni in materia di attività all'estero.
Per quanto concerne la finanza regionale le Regioni con un proprio documento, approvato dalla Conferenza dei Presidenti il 5/2/1986 ed integrato il 13/11 u.s., hanno espresso le loro osservazioni sul disegno di legge 1579/Senato. Sostanzialmente le richieste delle Regioni sono state le seguenti: riconoscimento di un effettivo potere di imposizione tributaria libera disponibilità dei fondi assegnati dallo Stato alle Regioni, ed incrementati rispetto alle assegnazioni statali più o meno finalizzate maggiore incisività sulle valutazioni ed approvazioni dei progetti FIO accesso più semplice al credito con possibilità per le Regioni di accedere alla Cassa Depositi e Prestiti. A tale disegno di legge ha fatto seguito un nuovo disegno governativo 568/Senato, che prevede alcune novità non irrilevanti, per lo studio del quale è stato di recente costituito un nuovo gruppo di lavoro interregionale. A questo proposito mi pare condivisibile l'osservazione critica contenuta nella più volte richiamata "relazione Paladin", che la tanto conclamata "autonomia" tributaria delle Regioni possa sostanziarsi davvero in qualcosa di molto significativo sul terreno dell'autonoma imposizione. Infatti è giusto osservare che ipotesi in tal senso ardite si scontrerebbero con il sacrosanto principio costituzionale del diritto dei cittadini ad una sostanziale parità tributaria.
Più volte ho sostenuto il concetto della "parità finanziaria delle Regioni" e ritengo che l'insopprimibilità di questa esigenza avvalori la giusta aspettativa delle Regioni ad ottenere un trattamento equilibrato e davvero paritetico prima di tutto sul fronte dell'afflusso delle risorse che non sul fronte delle nuove imposizioni.
Ritengo sarebbe inoltre opportuno, a quarant'anni dall'entrata in vigore della Carta Costituzionale, che, tenute presenti le ragioni di carattere etnico-territoriale nonché le motivazioni storiche che avevano indotto il Costituente ad istituire le Regioni a Statuto speciale, si valutasse concretamente la possibilità di superare tale differenziazione consentendo anche alle Regioni a Statuto ordinario di raggiungere quelle posizioni di maggiore autonomia ormai acquisite dalle Regioni a Statuto speciale. Si badi bene, non intendo con questo mio discorso riferirmi al solo problema finanziario, ma voglio riaffermare l'esigenza che, così come peraltro sancito dalla stessa Costituzione, sia consentito a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro collocazione geografica, di avere dinnanzi ad un uguale accadimento identica risposta dalla pubblica amministrazione.
Alcune riflessioni specifiche mi paiono richiedere le problematiche relative ai progetti FIO. In questo caso evidentemente il richiedere una disciplina più rispettosa della presenza delle Regioni rappresenta un'istanza subordinata rispetto alla richiesta di far cadere eventuali vincoli di destinazione. Si tratta comunque essenzialmente, ma non esclusivamente, di prevedere che il CIPE sia integrato da una rappresentanza regionale allorché occorre valutare progetti predisposti dalle Regioni. Sennonché emergono, già in questi termini, alcuni motivi di difficoltà.
Un fondamento normativo a sostegno della richiesta regionale consiste nell'art. 16 della legge del 1967, istitutiva del CIPE, per cui i Presidenti delle Giunte regionali sono chiamati a partecipare alle sedute di quel Comitato allorché si tratti di tematiche di interesse regionale.
Però occorre notare che nel 1967 probabilmente si rifletteva, anche se la legge non lo dice, sulle Regioni allora esistenti, cioè le Regioni differenziate; anche se su questo punto si potrebbe sostenere la necessità di un'interpretazione e di una applicazione evolutive.
Questo però porterebbe ad un notevole appesantimento della sedute CIPE inducendo a concludere che tutti i 22 Presidenti delle Regioni dovrebbero essere presenti, magari non tutti insieme, quando si discutessero progetti di provenienza regionale. Il senso della richiesta dovrebbe essere quello di prevedere che una rappresentanza dei Presidenti venga chiamata a far parte del CIPE.
Quanto ai mutui che possono essere accesi da parte regionale, nessun passo avanti viene fatto neanche dall'ultimo testo governativo.
Particolarmente importante è poi il tema del riordino delle autonomie locali.
Mi preme a questo punto ricordare come a questo proposito il Presidente della Repubblica in un suo recente discorso a Firenze abbia sottolineato come uno degli antidoti più efficaci al malessere ed alle distorsioni che pervadono le istituzioni sia quello di assicurare "il buon funzionamento delle autonomie locali" perché esse rappresentano "il primo volto dello Stato, il primo momento di contatto fra cittadini e potere statuale".
"Sarebbe assai grave ha continuato il Presidente Cossiga - se la gente nel rivolgersi alle istituzioni avvertisse una sorta di estraneità, non le sentisse insomma come proprie, se le scoprisse non strumenti di libertà ma al contrario, strumenti di oppressione".
Di qui l'urgenza di interrompere un processo centralistico dello Stato e di umiliazione nei confronti delle autonomie locali.
In quest'argomento rimane fermo che il testo elaborato dal Senato nella precedente legislatura è ben poco soddisfacente per le Regioni. Da questo testo infatti, almeno sulla carta, esse vengono marginalizzate completamente non tenendo conto né del decreto 616 del 1977 (se non nel senso di riprenderne alcune dizioni per definire i compiti dei Comuni e delle Province) né del testo costituzionale per cui se prevalesse una certa interpretazione della legge, una volta approvata in quel testo, si potrebbe dubitare della sua stessa legittimità.
Che cosa rimane alle Regioni stando al disegno più volte citato? Le proposizioni che si leggono nell'elaborato della Commissione I del Senato sono quanto mai generiche, addirittura inutili; sicché giustamente un gruppo di lavoro a suo tempo formato fra esperti e rappresentanti delle Regioni, delle Province e di altri enti locali ne proponeva, con il documento che vi ho distribuito, la soppressione.
Va rilevato inoltre come il testo di tale progetto di legge non tenga nessun conto della polverizzazione di gran parte dei Comuni italiani e dunque del fatto che due terzi o tre quarti dei Comuni, verosimilmente, non sarebbero in grado di svolgere la massa di compiti che il disegno sulle autonomie assegna loro. A fronte di ciò si limita a dire che le Regioni promuovono e favoriscono le forme associative e di cooperazione fra gli enti locali: ma promuovono e favoriscono senza avere il mezzo per costituire associazioni intercomunali obbligatorie, se non nelle ipotesi che verranno a suo tempo indicate dalle leggi dello Stato.
E proprio in questo senso si era mossa la Regione Piemonte con la famosa proposta di legge sul riordino delle autonomie locali, più volte rinviata dal Governo, sulla quale personalmente ritengo non si debba retrocedere.
La Giunta ha segnalato alla Commissione consiliare la richiesta di riproporla in tempi brevi al Consiglio regionale con analogo testo, al fine di stabilire un confronto serrato con il Governo centrale.
Per quanto riguarda i rapporti Stato-Regioni va osservato come un capitolo specifico venga riservato a questo argomento nel testo di legge sul nuovo ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Due mi paiono essere i punti importanti: la Conferenza permanente Stato Regioni e la figura del Commissario del Governo.
Per quanto concerne la Conferenza permanente Stato-Regioni si tratta di un tentativo di razionalizzazione dell'esistente, essendovi già il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che nell'ottobre 1983 ha istituito la Conferenza più o meno nei medesimi termini. Credo di poter dire che questo collegio non ha finora dato grandi frutti, soprattutto in vista dei tempi delle due riunioni. La stessa Corte dei Conti, non sospettabile di essere animata da particolari simpatie per le Regioni lamentava che la Conferenza sia stata convocata troppe poche volte.
Sulla carta il disegno in questione promette molto. Promette riunioni ogni tre mesi, promette che di norma - secondo il suo testuale disposto questo collegio verrà chiamato a formulare in particolar modo pareri su tutti i testi normativi destinati a passare attraverso il Consiglio dei Ministri che interessino o coinvolgano le Regioni.
Tutto ciò era già enunciato nel documento consegnato dalle Regioni all'allora Presidente del Consiglio dei Ministri Goria nel luglio 1987 che qui parzialmente si riporta.
In tale sede si affermava: "La previsione legislativa di una sede formale di incontro presso la Presidenza del Consiglio darebbe modo di procedere anche al necessario e urgente riordino dei più svariati organismi a composizione mista previsti da numerose leggi di settore. In tale quadro comunque le Regioni hanno più volte richiesto e sollecitato la convocazione della Conferenza Stato-Regioni prevista in via amministrativa dal DPCM 12 ottobre 1983".
Per quanto riguarda il Commissario del Governo il testo legislativo all'art. 14 provvede come segue a meglio delinearne figura e compiti: "Art. 14 - Commissario del Governo 1) il Commissario del Governo nella Regione è nominato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro dell'Interno e con il Ministro per gli Affari Regionali, qualora nominato, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, tra i Prefetti ed i funzionari dello Stato con qualifica non inferiore a dirigente generale, con esclusione dei magistrati.
2) La funzione di Commissario del Governo, salvo che per i Prefetti nelle sedi capoluogo di Regione, è incompatibile con qualsiasi altra attività od incarico a carattere continuativo presso amministrazioni dello Stato od enti pubblici e comporta il collocamento fuori ruolo per la durata dell'incarico.
3) Oltre ad esercitare i compiti di cui all'art. 127 della Costituzione e quelli indicati dalle leggi vigenti, il Commissario del Governo, in conformità alle direttive del Presidente del Consiglio dei Ministri in attuazione degli indirizzi del Consiglio dei Ministri: a) sovrintende, in collaborazione con le autorità statali preposte al coordinamento amministrativo nell'ambito provinciale, alle funzioni esercitate dagli organi amministrativi decentrati dello Stato per assicurare a livello regionale l'unità di indirizzo nell'esercizio delle funzioni stesse, convocando per il coordinamento anche su richiesta del Presidente del Consiglio dei Ministri o di singoli Ministri, conferenze tra i responsabili degli uffici decentrati delle amministrazioni statali, anche ad ordinamento autonomo, aventi sedi nella regione. E' informato a tal fine dalle amministrazioni centrali dello Stato sulle direttive e sulle istruzioni ad esse impartite. Nulla è innovato rispetto alle competenze di cui all'art. 13 della legge 1/4/1981, n. 121 b) nel rispetto delle reciproche competenze, coordina le funzioni amministrative esercitate dallo Stato con quelle esercitate dalla Regione in vista del buon andamento della pubblica amministrazione e del conseguimento degli obiettivi della programmazione, curando i rapporti amministrativi tra il Governo e la Regione, mediante riunioni periodiche con i rappresentanti regionali e quelli delle amministrazioni statali decentrate c) cura la raccolta delle notizie utili allo svolgimento delle funzioni degli organi statali e regionali, costituendo il tramite per l'esecuzione dell'obbligo di reciproca informazione; fornisce dati ed elementi per la redazione della 'Relazione annuale sullo stato della pubblica amministrazione'; agisce d'intesa con l'Istituto centrale di statistica (ISTAT) e avvalendosi dei suoi uffici regionali per la raccolta e lo scambio dei dati di rilevanza statistica d) segnala al Governo la mancata adozione da parte delle Regioni degli atti delegati per quanto previsto dall'art. 2 della legge 22/7/1975, n.
382, e provvede, in esecuzione delle deliberazioni del Consiglio dei Ministri, al compimento dei relativi atti sostitutivi e) propone al Presidente del Consiglio dei Ministri iniziative in ordine ai rapporti tra Stato e Regione, anche per quanto concerne le funzioni statali di indirizzo e coordinamento e l'adozione di direttive per le attività delegate f) riferisce periodicamente al Presidente del Consiglio dei Ministri sull'attività del Commissariato del Governo e degli organi regionali".
Sempre nell'ottica di una maggiore partecipazione delle Regioni alle decisioni assunte in sede centrale è stata prevista da più parti l'istituzione di una Camera delle Regioni.
Non mi dilungherò sull'argomento, già se ne è fatto un gran parlare in tutte le sedi, non ultimo il dibattito svoltosi a Milano al Circolo De Amicis a marzo.
Una cosa mi pare chiara allo stato attuale, al di là dell'astratta condivisibilità dell'ipotesi: mi pare debbano essere preventivamente sciolti alcuni punti principali.
Si tratta di chiarire i seguenti argomenti; da un lato, quale composizione dovrebbe avere la Camera stessa e, dall'altro lato, quali funzioni dovrebbero esserle attribuite. E su entrambi i punti non si pu dire che ci sia in partenza chiarezza.
Quanto alla composizione noi ci troviamo in presenza di un bivio abbastanza spiccato. Da una parte sta l'idea, già fatta propria dal progetto di costituzione, di attribuire alla Camera delle Regioni una composizione mista, cioè una composizione per cui nel Senato debbano sedere assieme eletti dal popolo ed eletti dai Consigli regionali (o comunque da organi regionali). Nell'ambito di questa prima alternativa si potrebbe addirittura immaginare che la Camera delle Regioni debba in realtà divenire una Camera di rappresentanza territoriale alla francese nella quale potrebbero essere anche inscritti rappresentanti dei Comuni e delle Province.
L'altro corno dell'alternativa consiste invece nell'immaginare la Camera delle Regioni alla maniera tedesca, alla maniera del Bundesrat, cioè una Camera formata nella sua totalità dalle Regioni ed anzi dagli esecutivi regionali. E' evidente che una Camera così costituita sarebbe alcunché di molto incisivo nel sistema: tanto è vero che in Germania non si tratta di una Camera di facciata, bensì di una Camera che conta anche nel rapporto con la Camera elettiva.
Condivisibili a questo proposito mi paiono le riflessioni fatte dal prof. M.S. Giannini nel più volte citato intervento della primavera del 1984. Egli afferma: "Le riforme istituzionali si fondano su una ricognizione dell'esistente, ricognizione che già è conosciuta nei suoi termini, perch c'è chi interpreta la realtà regionale italiana come manifestazione di un regionalismo cooperativo, chi la interpreta invece come manifestazione di un organicismo istituzionale." Cosa si vuole dire con queste due locuzioni? La prima - è chiaro - è stata ripresa male dalla dottrina italiana dalle elaborazioni fatte dai tedeschi; ma è mia impressione che tutti gli eminenti colleghi che parlano di regionalismo cooperativo non si sono resi conto che in Germania il regionalismo cooperativo esiste perché esiste un Bundesrat, cioè una Camera Alta che è composta di rappresentanti delle Regioni, meglio dei Lander con questo di particolare: che i rappresentanti dei Lander sono nominati dai Governi dei Lander e in minima parte eletti, con la conseguenza che il Bundesrat non è un vero rappresentante degli elettori regionali, ma è un rappresentante dei Governi regionali.
Ora, bastano pochi ricordi sulla recente storia della Germania per capire come il Bundesrat fosse nella sua maggioranza sempre all'opposizione rispetto ai Governi socialdemocratici, poiché la maggioranza dei Governi dei Lander era tenuta dall'opposizione alla socialdemocrazia. Il fatto che il Bundesrat avesse una posizione politica di opposizione ha costretto la politica generale tedesca a muoversi sempre in base ad accordi, cioè all'ombra della Costituzione e all'ombra dei rapporti formali Bund-Lander si sono sviluppati dei sistemi, o se vogliamo dei sub-sistemi, di costituzione materiale fondati su accordi. Accordi tra Bundesrat, tra partiti politici, tra Governi, tra Bundestag e partiti politici e così via che hanno occupato di sé fino al 1969 tutta la vita tedesca; in Germania il Bund ha in mano un'arma formidabile che è quella delle sovvenzioni; le sovvenzioni venivano tutte negoziate, appunto, in sede politica.
Il che può essere anche rispondente, si noti, a certi punti di vista politologi di alcuni partiti; anche in Italia abbiamo qualcosa del genere però certamente tutto questo non è scritto nella Grundgesetz tedesca.
Allora, prima della riforma del 1969, che ha in certo modo legittimato il sistema di convenzioni tra pubblici poteri, la dottrina tedesca ha parlato di regionalismo cooperativo o federalismo cooperativo (che è la stessa cosa, perché i Lander in realtà sono regioni, anche se la definizione formale dello Stato tedesco è quella di Stato federale); basta prendere i teorici tedeschi, Reissert, Lembruch, Scharf, da ultimo Nohlen in Italia se ne è occupato Sanviti, per rendersi conto di ciò che è questa realtà che chiamano regionalismo cooperativo.
Lo sbocco del regionalismo cooperativo dal punto di vista formale consiste certamente negli accordi, ma gli accordi sono la base, perché poi quando si vuole stabilizzare quanto è stato concluso nell'accordo, si devono fare delle leggi molte delle quali procedimentalizzano i rapporti tra il Bund e i Laender.
Ora, questo è possibile in Italia? Se prendiamo l'analisi che è stata commissionata e pubblicata dal Consiglio regionale della Toscana, vi è da constatare che certamente il numero delle procedimentalizzazioni dei rapporti fra Stato e Regioni è fortemente crescente ma è fortemente crescente in settori periferici, perché nessuno di quei settori di carenza che prima sono stati indicati, è stato mai coinvolto da qualcuna di queste procedimentalizzazioni.
Si può dunque concludere che il regionalismo cooperativo richiede un organo come il Bundesrat; negli Stati Uniti d'America richiede un organo come il Senato; altrimenti è un'espressione puramente verbale. Se consideriamo ciò che fa il Bundesrat tedesco, ci rendiamo conto come esso svolga un'azione che ha due valenze: cioè o il Bundesrat non interviene nei rapporti tra Bund e Lander e lascia che questi si svolgano mediante accordi informali e così rafforza il potere dei Lander, oppure il Bundesrat interviene discutendo leggi del Governo, della CEE, per esempio, che oggi stanno diventando in Germania invadenti (la presenza della Comunità in Germania è una realtà, da noi è una parola) e allora in questo caso il Bundesrat rafforza la posizione del Governo. Ecco come un organo costituzionale, a seconda della politica che svolge, è in grado di determinare l'azione politica di tutto il potere pubblico".
Poche parole, per concludere, sulle riforme riguardanti il Titolo V della Costituzione interessanti comunque l'organizzazione delle Regioni.
Quanto al Titolo V, la Conferenza dei Presidenti delle Regioni si è rivolta in più occasioni alla Commissione Bozzi e alle Camere nella scorsa legislatura, insistendo soprattutto su correttivi e su riforme anche sensibili che dovrebbero essere apportate agli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione.
Le richieste vertenti sul 117 erano di due ordini. Primo: costituzionalizzare le formule generali del 616, inserendo le proposizioni che riguardano i quattro settori organici del 616 nel testo dell'art. 117.
Secondo: aggiungere all'elenco costituzionale alcune nuove materie di competenza regionale propria (mi riferisco ovviamente alle Regioni ordinarie).
Circa l'art. 118, riguardante le funzioni amministrative regionali, il passo in avanti che si proponeva di fare il documento presentato alla Commissione Bozzi era nel senso di costituzionalizzare l'esigenza che sia la legge dello Stato a far da base alla funzione di indirizzo e coordinamento. Ma la giurisprudenza costituzionale è già in questo senso sicché risulta inutile immaginare operazioni che si limiterebbero a razionalizzare ciò che già sussiste.
Molto più significativa è invece una disposizione che si immaginava di inserire nell'art. 119. Tra le riforme previste quanto al 119 figurava in particolar modo quella consistente nel divieto dei vincoli di destinazione oggi frequentemente inseriti come sappiamo nelle leggi statali di trasferimento dei fondi. Vincoli di destinazione che questo progetto tendeva ad escludere, salvo che riguardino servizi di interesse nazionale oppure le somme da attribuire alle Regioni per motivi di riequilibrio territoriale. Se il tentativo riuscisse, certamente il passo avanti sarebbe notevole, perché la giurisprudenza costituzionale a questo punto non mancherebbe più dei necessari parametri di riferimento.
Ricordo infine che vi sono almeno altri quattro ordini di riforme, dei quali si potrebbe discutere quanto all'organizzazione regionale di cui al Titolo V.
Primo: si potrebbe immaginare attraverso la riforma dell'art. 122 ultimo comma, della Costituzione, che nelle Giunte regionali possano essere, in base allo Statuto, inseriti componenti esterni, anziché tratti dal Consiglio regionale.
Secondo: si potrebbe immaginare un migliore equilibrio tra Giunta e Consiglio (come pure all'interno della Giunta, tra la Giunta come collegio e i singoli Assessori) rispetto agli Statuti attuali.
Terzo: si potrebbe immaginare, soprattutto nel caso che il disegno Fanfani si muovesse in questa direzione per le autonomie locali, una riforma della legge elettorale riguardante i Consigli regionali. E anche nell'ipotesi che non si arrivasse a una vera e propria riforma del sistema elettorale, si potrebbe immaginare di aumentare, almeno per certe Regioni il numero dei Consiglieri regionali, soprattutto se poi si potesse far coincidere una manovra di questo tipo con una manovra riduttiva del numero dei parlamentari a livello nazionale.
Ma in questo mare di voglia, e certo di necessità riformistica, che passa dalla bonaccia alla tempesta con molta facilità, noi come Regioni non possiamo perdere di vista alcuni ancoraggi.
Il primo è un convincimento. Può darsi che le riforme si compiano sotto la spinta convergente e l'intesa delle maggiori forze politiche, convinte che, se non si arriva a tanto, lo Stato (Parlamento, Governo, Istituzioni) è ormai destinato al degrado ed alla ingovernabilità. Queste riforme vengono dall'interno del sistema, sono autoriforme e comportano dei costi da pagare in termini di dislocazione del potere in generale e anche in termini di rendite personali di posizione. C'è da chiedersi se il sistema nella sua articolazione che troppo spesso si appiattisce su una vischiosità inestricabile, sia capace di autoriformarsi senza una forte spinta dall'esterno.
Questa spinta dovrebbe venire anche dalla voce e dalla forza delle Regioni come direttamente interessate alla riforma generale. Per ora abbiamo però l'impressione di essere considerati come spettatori o, al massimo, come una ruota - tra le altre - della macchina, non come un interlocutore coessenziale e necessario alla riuscita della riforma.
Qui si pone la seconda domanda. Abbiamo letto che l'accordo deciso tra i partiti di governo con il Partito comunista comprende per il 1988 il varo di quattro riforme: la modifica dei regolamenti delle Camere; l'adeguamento delle funzioni di Camera e Senato; il riordino delle autonomie locali e la legge che rafforza la Presidenza del Consiglio. Questo quadruplice obiettivo dovrebbe essere esaminato dalla Camera per quanto riguarda la riforma delle autonomie locali; dal Senato per ciò che riguarda la riforma del Parlamento; dalle Giunte per il regolamento per ciò che concerne la riforma dei regolamenti e dalla Commissione Affari costituzionali per tutto il resto.
Quanto alla riforma elettorale, anche se è precondizionante, non se ne parlerà quest'anno.
Di fronte a questo quadro di lavoro la domanda, per quanto ci riguarda mi pare duplice. Anzitutto: le Regioni, come oggetto di riforma (se si ritiene che debbano essere oggetto di riforma) dove si collocano: nella schiera delle autonomie locali? O non piuttosto come parte costitutiva della riforma del Parlamento, in particolare del Senato, nella prospettiva della costituzione in un Senato che sia espressione anche delle Regioni? Il tipo della risposta è molto diverso a seconda del come si considerano le Regioni.
Un conto è se le si omologa con tutti gli enti locali, un conto se le si rispetta come parte integrante e costitutiva, originaria, dello Stato unitario regionale. Penso che non dovrebbero esserci dubbi. Altrimenti o si regredisce (accumulandole con gli enti locali) a una visione ancora sostanzialmente centralistica, o si fuoriesce sulla linea federalistica che rischia solo di debordare.
Ma, oltre che poter essere viste come possibile oggetto di riforma (e questa - non tanto dalle parole quanto dai silenzi dei partiti e dagli organi istituzionali - sembra essere l'unica veduta oggi esistente nell'opinione politica e tanto più nell'opinione pubblica), le Regioni noi le vediamo come soggetto coessenziale di riforma dello Stato perch anch'esse sono Stato. Senza questo apporto e questo coinvolgimento avremmo uno Stato intrinsecamente debole, non condiviso dai cittadini. La mediazione delle Regioni è indispensabile ed insostituibile. Dobbiamo dire noi come la pensiamo e cosa vogliamo perché altri certamente non ci inviterà gratuitamente a questo confronto.
Da ultimo esiste all'interno del dibattito aperto in Consiglio regionale una parte nella quale, se non ci sono stati riferimenti specifici nell'intervento della Giunta regionale, si rileva una interazione naturale tra la domanda di riordino rivolta allo Stato centrale e il bisogno coerente dell'azione di riordino e di riossigenazione migliorativa della presenza regionale, anche quale correlata o derivata risposta alla prima.
Ho letto con la giusta dovuta attenzione quelle memorie che hanno particolare riguardo anche per questa seconda voce ed ancora mi riservo di seguire con scrupolo quanto interverrà nel dibattito; di certo con apertura, non disgiunta dalla convinzione che anche per quelle indicazioni che solo impropriamente possono essere definite riforme, si possa dare luogo ad attenta riflessione nel rispetto dell'autonomia dei ruoli propositivi delle funzioni statutarie, individuando il giusto spazio, la giusta collocazione da affidare alle stesse per migliorare la macchina, la struttura, il modo di collocarsi della Regione davanti a problemi di grande rilievo che proprio per essere tali appartengono non agli schieramenti, ma complessivamente al sistema e postulano l'esigenza di rinvenire spazi di concordia, di confluenza rispettosa e costruttiva.
Intanto, dal momento che il complessivo modo di collocarsi di questa Regione e delle altre Regioni d'Italia, sulla riforma istituzionale non ci trova impreparati o assenti, rinnovo l'impegno della Giunta regionale a mai dismettere il ruolo di verifica e di stimolazione anche verso la Conferenza dei Presidenti e lo stesso Parlamento, verso i partiti e il Governo centrale.
Ritorna un problema che meriterebbe un'attenta considerazione, anche in relazione a non lontani episodi per i quali l'indipendenza del Consigliere regionale nell'esercizio delle proprie funzioni può sembrare avere trovato qualche oggettiva compressione: quello della non responsabilità per opinioni e voti espressi nell'esercizio del mandato elettorale (art. 12 dello Statuto).
Non è che si intenda postulare una specie di "immunità" per il Consigliere regionale, del tipo di quella riconosciuta ai parlamentari nazionali (anche se l'analogia di funzioni legislative potrebbe al limite richiedere una riconsiderazione del ruolo): quel che qui si prospetta è la ricerca di un equo contemperamento fra oggettive esigenze di libertà di espressione delle opinioni e valutazioni e il pari diritto della collettività ad una efficace tutela contro atti od omissioni che varchino l'ambito della legittimità per cadere in aspetti di rilevanza anche penale.
Senza una chiara precisazione dei diritti e dei doveri della funzione di Consigliere regionale sarà difficile che questi, nell'esercizio del suo mandato, possa svolgere compiutamente e liberamente il mandato cui è chiamato.
Avrei voluto dare una forte sottolineatura al problema della responsabilità degli amministratori, quindi ai controlli rivolti alle pubbliche amministrazioni di ogni tipo e di ogni livello, alla restituzione o non approvazione degli atti amministrativi, alla individuazione di responsabilità penali con determinazione di reati anche laddove è rilevabile l'assenza di predeterminazioni dolose, ma vi è un semplice involontario invischiamento dell'amministratore nella complessità del sistema nella sovrabbondante, tortuosa macchina burocratica tra l'enorme massa degli adempimenti e un vorticoso scadenzario.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Rossa.



ROSSA Angelo

Signor Presidente, signori Consiglieri, ritengo di dover esprimere un particolare ringraziamento a nome del Gruppo socialista e mio personale al Presidente Viglione per aver promosso con tanta sollecitudine questa importante seduta consiliare che si riconduce alla celebrazione del quarantesimo anniversario della Costituzione, seduta che avevamo immaginato molto più ricca di presenze di quanto stiamo accertando. Questo non è molto confortante perché ci dà il segno della considerazione in cui, fuori da queste mura, è tenuta la Regione. Occorrerà quindi valutare come poter superare questa situazione.
La mia gratitudine va a chi, ricordando il quarantesimo anniversario dell'entrata in vigore della Costituzione repubblicana, ha inteso vivificarne lo spirito consentendo che questa occasione uscisse da un carattere esclusivamente celebrativo per assumere l'aspetto di un costruttivo dibattito su un argomento quanto mai attuale, delicato ed estremamente decisivo per il futuro del nostro Paese, quale quello delle riforme istituzionali.
Auspico che le conclusioni del dibattito odierno possano portare un proficuo contributo alla definizione di tali tematiche. Non è necessariamente detto che debbano essere tratte questa sera, ritengo per che debba essere avviato un contributo in questo dibattito che significhi una presenza pregnante della Regione Piemonte e - mi auguro delle Regioni italiane.
Domani sarà fra noi il Presidente della Repubblica; sicuramente sia il Presidente Viglione sia il Presidente Beltrami sapranno rappresentargli puntualmente le proposte che vengono dibattute oggi in questo Consiglio regionale. Il Piemonte è una Regione che da sempre ha avuto un ruolo decisivo nella vita della nazione, a cominciare dalle lotte risorgimentali e da quel primo Parlamento subalpino che tanta parte ebbe nel promuovere la creazione dell'Italia unita, fino alle lotte della Resistenza e allo sviluppo economico e sociale che ne è seguito in questi anni.
Una Regione che oggi si affaccia alla realtà europea come una tra le più avanzate socialmente ed economicamente.
La Carta Costituzionale italiana compie i suoi quarant'anni! Durante questo non breve periodo essa ha rappresentato il fondamento della vita sociale della Repubblica ispirandone e codificandone le norme basilari.
Queste stesse norme hanno garantito la crescita civile e democratica dell'Italia, un Paese - lo ricordiamo uscito moralmente e materialmente offeso e lacerato da una terribile esperienza bellica, che recava in s l'eredità di un apparente insanabile contrasto civico, tra diverse ideologie divise, in un mondo che si avviava ad ancora più rigide divisioni come furono la rottura dell'Alleanza delle forze che vinsero contro il nazismo ed il fascismo e il successivo lungo, pesante e difficile periodo della guerra fredda.
Eppure, quelle stesse ideologie, che già avevano trovato una comunanza di interventi e di azione nella lotta all'oppressione nazifascista, seppero trasfondere le più alte aspirazioni che la Resistenza aveva maturato negli animi nella consapevole convinzione che, senza un patto sociale coerente con i principi della convivenza democratica, nessuna parte politica o sociale avrebbe potuto garantire quella pacifica rinascita della nazione da tutti desiderata.
Fu certamente un atto di grande responsabilità civile e politica l'avere posto in ombra le divisioni, con la lungimiranza di chi, superando la logica contingente e particolare, ha inteso gettare le basi che avrebbero garantito alla nazione una convivenza stabilmente organizzata e democratica. Un compito effettivamente arduo se si considera che il Paese dovette reinventare i necessari strumenti amministrativi funzionali alla propria nuova identità democratica, riannodando i fili di una tradizione bruscamente interrotta venticinque anni prima con l'avvento del fascismo.
Riuscirono evidentemente nel loro intento; oggi noi, rappresentanti eletti in un Ente frutto di quella lungimiranza, non possiamo non ricordarli con riverenza e gratitudine.
Ma, proprio in virtù di questi sentimenti, signor Presidente, signori Consiglieri, oggi noi dobbiamo evitare di cadere nel rischio di imbalsamare nella retorica - mi si consenta il termine - quella esperienza. Se è vero come credo, che l'intento fu quello di dotare il Paese di uno strumento che superando i problemi storicamente contingenti consentisse un futuro di crescita, ebbene, penso sia nostro precipuo dovere preservare questo intento innanzitutto con il mantenere vivo e vitale lo strumento: questa Carta Costituzionale che oggi celebriamo, ma che in qualche sua parte ha mostrato alcune inadeguatezze pur mantenendo sempre quella forza e quella saldezza che le ha consentito di far fronte ai più duri attacchi delle varie eversioni che si sono verificate in questi anni e che ancora tentano di rialzare la testa con gli ultimi barbari assassinii, in modo particolare al Senatore Ruffilli del quale abbiamo commemorato la figura questa mattina.
Certo, riconosco che trattare un simile argomento in forma non esclusivamente celebrativa può suscitare l'imbarazzo che sempre genera la critica ad una cosa cara a tutti e non priva di una certa "sacralità" quando si afferma che la Carta costituzionale è figlia della Resistenza.
Eppure oggi sappiamo, anche dalla nostra diretta esperienza di cittadini ed amministratori, che alcuni dei meccanismi istituzionali allora formulati non hanno funzionato o non funzionano al meglio delle loro potenzialità.
Beninteso, esistono vari motivi, non tutti necessariamente attribuibili ad inadeguatezze costituzionali; va sottolineato, ad esempio, che alcuni problemi nascono e si sviluppano non già dall'inadeguatezza, bensì dalla mancata piena applicazione del dettato costituzionale o dai ritardi in essa accumulati.
Ma è pur vero che da più parti si avanzano pareri favorevoli sulla generale utilità di riformare alcuni degli istituti previsti nella nostra Costituzione. Intendo riferirmi alle proposte di riforma dei cosiddetti "rami alti" dell'ordinamento dello Stato, di cui altri già hanno parlato oggetto dei lavori della Commissione Bozzi e al correlato dibattito su temi quali la riforma del Parlamento (di cui costituiscono argomenti non secondari l'abolizione del voto segreto, la modifica dell'attuale struttura bicamerale, i rapporti Governo-Parlamento, la questione della sfiducia costruttiva, la Presidenza del Consiglio dei Ministri) oppure la stessa riforma dei meccanismi elettivi, del Presidente della Repubblica che noi socialisti proponiamo per elezione diretta e infine la riforma del sistema elettorale.
Argomenti questi su cui come socialisti abbiamo espresso a livello nazionale posizioni che riteniamo costruttive e che sottendono comunque le nostre scelte a livello locale e che offriamo all'attenzione di questo dibattito.
Ciò è significato dal fatto che nell'affrontare le numerose questioni esistenti a proposito dei rapporti istituzionali tra gli organi dello Stato, tra questi, i cittadini e le loro rappresentanze territoriali è stata nostra costante preoccupazione che il concetto di riforma si muovesse nel senso di funzionalizzare il rapporto, senza peraltro disperdere un patrimonio organizzativo istituzionale di cui si riscontra tuttora la validità. Penso alla ricca articolazione della presenza istituzionale locale e della presenza istituzionale dello Stato attraverso la rivalutazione del ruolo delle Prefetture, che rappresentano un punto fermo dello Stato democratico insieme alle nuove istituzioni democratiche elettive.
In questa sede credo però sia più opportuno fermare la nostra attenzione su alcune considerazioni in ordine al nostro Ente, questa Regione di cui è evidente uno stato di crisi strisciante, tale da pregiudicarne, a detta di alcuni, la stessa esistenza futura, nonostante i passati entusiasmi e l'impegno sempre esercitato dalle assemblee, dai governi e dai Consiglieri regionali succedutisi in questi anni.
Come già sottolineato dagli interventi che mi hanno preceduto, a nessuno credo sia sfuggita l'inversione di tendenza che è venuta caratterizzando in questi anni il rapporto Stato-Regione. Questo rapporto è stato il protagonista del Convegno tenutosi a Venezia sullo stato di applicazione del DPR n. 616, a dieci anni dalla sua promulgazione.
Conclusioni preoccupanti quelle a cui è pervenuto il Convegno stesso: un elenco di inadempienze da parte degli organi statali tra cui risaltano la tuttora inattuata riforma delle autonomie locali e la correlata riforma della finanza regionale e locale; senza dimenticare il travaglio generato dalla sovrapposizione di competenze, leggi-quadro poco chiare e direttive contraddittorie.
Ne deriva una situazione non solo di difficoltà operativa degli enti ma addirittura un pericolo per la loro stessa esistenza. E la nostra Regione non sfugge a questa logica generale: prova ne sia la pratica e pressoché completa paralisi dell'attività di programmazione, di cui è stata emblematica la soppressione dei Comprensori, che avrebbero dovuto esserne lo strumento operativo più immediato. Prova ne sia la difficoltà di approntare un bilancio che non si limiti ad essere esclusivamente la ratifica di trasferimenti finanziari tra centro e periferia, quasi la Regione sia un ente strumentale dello Stato.
Siamo tutti a conoscenza del fatto che un bilancio che prevede un'autonomia di spesa di 180 miliardi, a fronte di tutte le competenze regionali, è un bilancio di "sussistenza", come lo ha definito il compagno e collega Assessore Croso, non un bilancio di programmazione.
E allora occorre dire con decisione che non si può continuare ad assistere passivamente a politiche economiche nazionali che da tempo vengono decise trascurando la loro incidenza a livello territoriale. A politiche cosiddette "macroeconomiche" che, cito testualmente dagli atti del Convegno di Venezia, "fanno leva sulla domanda globale della spesa e sul dimensionamento della domanda aggregata, trascurando o lasciando ai margini politiche che invece facciano leva sulla programmazione della produzione, sull'offerta di fattori produttivi (formazione professionale e manageriale, ecc.) o comunque su grandi progetti integrati che operino orizzontalmente (sul risparmio energetico, sull'innovazione tecnologica ecc.)".
Si potrà sostenere che il quadro economico internazionale e nazionale i limiti della spesa pubblica, ostano a soluzioni alternative all'attuale linea, ma mi chiedo quali possano essere le cause profonde della mancata riforma della finanza locale, quali i motivi per cui non si è data finora alle istituzioni più vicine al territorio una capacità impositiva che, tra gli altri vantaggi, implicherebbe anche quello di una maggiore ed effettiva responsabilizzazione degli amministratori locali.
Ecco perché non possiamo non riconoscerci nelle tematiche evidenziate nell'intervento del Presidente Viglione, che ha ben delineato quelli che sono i problemi aperti suggerendone soluzioni che, ove puntualmente realizzate, permetterebbero - ne siamo convinti - il superamento degli attuali ostacoli nonché il rilancio della presenza istituzionale sul territorio.
Tra queste mi limiterò a sottolinearne alcune che, a giudizio del Gruppo socialista, rappresentano i punti qualificanti del discorso sulla riscoperta del ruolo delle Regioni nella realizzazione di un efficiente Stato delle autonomie, dove la Regione deve rappresentarne la parte più alta.
Lo farò partendo dalla premessa che ripensare detto ruolo debba significare innanzitutto cogliere le significative differenze tra amministrazioni locali (Comuni e Province) ed Ente Regione. Le une legate prevalentemente ad una amministrazione di tipo gestionale, l'altra ad una amministrazione fortemente caratterizzata dalla capacità legislativa cui corrisponde una organizzazione di tipo parlamentare, con compiti programmatori e pianificatori.
E allora, perché non riconoscere queste premesse per ipotizzare un ruolo attivo del livello regionale per un "governo intermedio" dello sviluppo, che assicuri innovazione tecnologica, promozione mercantile e promozione delle economie locali? Oppure, sempre nel medesimo ambito di "governo intermedio", non riconoscere stabilmente la funzione attiva della Regione nella definizione e nell'attuazione di forme di programmazione per progetti o per grandi linee orizzontali (penso ad opere come il risanamento del bacino padano, ad esempio)? D'altra parte siamo tutti consci che questo non possa avvenire prescindendo da alcune riforme ed ecco, allora, la necessità di riformare l'articolo 117 della Costituzione per adeguare alle nuove realtà emergenti le deleghe di competenza regionale; ecco la necessità di una normativa che definisca rapporti e poteri del sistema delle autonomie in un quadro nuovo che ne preveda una rinnovata capacità di intervento, ad esempio, negli investimenti dedicati alle grandi opere pubbliche, sia di interesse esclusivamente locale, sia relative a porzioni di infrastrutture.
Ovviamente tutto ciò deve obbligatoriamente comportare un superamento delle attuali definizioni in materia di finanza locale: occorre cioè arrivare anche in questo caso con un'apposita e puntuale normativa, al coordinamento della finanza regionale e locale, dotandola di una reale capacità impositiva autonoma e svincolandola da vincoli di settore determinati a livello centrale.
Occorre ripensare globalmente il rapporto Stato-Regione in un'ottica che comprenda oltretutto anche il quadro europeo, destinato ad aprirsi completamente nel 1992, prevedendo da una parte una più marcata istituzionalizzazione degli ambiti di confronto di quel rapporto, ad esempio, formalizzando e ridefinendo i poteri dell'attuale Conferenza dei Presidenti o meglio inserendo nella riforma del Parlamento la previsione della trasformazione del Senato in una Camera delle Regioni, destinata a divenire la sede deputata alla definizione delle tematiche proprie del decentramento. Mentre, dall'altra, diventa indispensabile consentire un rapporto immediato tra Regioni e Comunità Economica Europea.
Termino qui, signor Presidente, rendendomi conto di aver toccato, per l'economia dell'intervento e a titolo esemplificativo, solo alcuni dei punti di una questione che conosciamo essere ben più articolata e complessa; in questa stessa sede e con altri interventi ed altri mezzi esprimeremo, in maniera dettagliata, le nostre posizioni in merito a tutti gli aspetti della questione. Per intanto, ci premeva significare l'attenzione che come Gruppo socialista portiamo al problema delle riforme istituzionali e la piena adesione al dibattito in corso, con la fervida speranza che esso possa concludersi con proposte costruttive e adeguate all'unanime aspettativa del rilancio dell'istituto regionale.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Ferrara.



FERRARA Franco

Signor Presidente e colleghi Consiglieri, questo Consiglio regionale porta in sede locale un problema grave ed importante qual è quello delle riforme istituzionali, oggetto di vivo dibattito tra politologi costituzionalisti e politici.
I partiti hanno ormai da diversi anni rilevato l'inadeguatezza dell'attività politica e amministrativa rispetto ai problemi della società.
Diverse sono le cause di questa inadeguatezza, e non tutte certamente riconducibili agli aspetti istituzionali: cause di ordine politico, di gestione; di altra natura sono quelle alle quali maggior responsabilità debbono essere imputate, ma non vi è dubbio che aspetti istituzionali, che in qualche misura hanno anche accentuato il manifestarsi delle altre cause hanno in sé determinato delle inefficienze, hanno impedito il realizzarsi di una corretta vita politica amministrativa.
Non possiamo oggi non esprimere soddisfazione e speranza per la nuova presa di coscienza del sistema politico relativamente alla necessità di porre mano con urgenza ad una riforma istituzionale. Una riforma istituzionale che non deve certamente azzerare la Carta costituzionale, ma anzi dare piena attuazione in quelle parti che ancora non sono state attuate e prendere atto delle mutate situazioni economiche, sociali e strutturali della nostra società per avvicinare le istituzioni alle nuove esigenze. Riforme istituzionali che si dovranno muovere esclusivamente in questa prospettiva e non invece in un'ottica tendente ad aumentare o ricercare nuovi spazi di potere.
Dopo tanto discutere, dalle enunciazioni di principio si sta passando ad un'indicazione abbastanza precisa dei problemi da affrontare e dei possibili rimedi per farvi fronte. Se le promesse saranno mantenute, il 1988 sarà l'anno delle riforme istituzionali o comunque dell'avvio del relativo processo. Devo dire che la scelta della persona del Ministro competente per questi problemi è certamente un elemento di grande garanzia.
Un rischio che tuttavia si corre è che questa riforma investa solo i cosiddetti rami alti dello Stato. Noi siamo fortemente convinti che se si vuole attuare una riforma istituzionale, che non sia soltanto un vuoto contenitore, occorre affrontare anche il problema delle Regioni e quello del sistema delle autonomie locali. Se le Regioni sono Stato, così come Stato sono le autonomie locali, una riforma istituzionale che voglia essere all'altezza della situazione nella quale si trovano oggi le strutture pubbliche non può assolutamente prescindere dalle Regioni e dalle autonomie locali. Opportuno, quindi, è questo dibattito.
Vorrei esprimere il disappunto per il venir meno della tensione e della solennità che il dibattito nella sua pratica attuazione ha avuto.
Due sono i livelli di discussione relativamente al dibattito sulla riforma delle Regioni. Uno investe gli aspetti più generali, esterni all'Ente Regione, relativo al ruolo della Regione nell'impianto complessivo della nostra Costituzione e nell'assetto complessivo dello Stato. Si tratta di un aspetto importante che dovrà essere oggetto di ulteriori approfondimenti da parte di questo Consiglio anche per dare un contributo significativo al dibattito in corso, ma che mi astengo dal trattare per rimanere nei limiti di tempo che ci eravamo posti (attenersi ai tempi che ci si dà è anche uno degli aspetti istituzionali).
Il problema del rilancio del ruolo e dell'immagine dell'istituzione regionale passa anche, e per certi versi soprattutto, attraverso il livello regionale. Le Regioni per risalire la china debbono innanzitutto rimuovere quelle cause interne che hanno contribuito a provocare la crisi in cui attualmente si trovano.
Inutile comunque una fuga dalla realtà e dalle proprie responsabilità e andare solo a cercare responsabilità altrui quando esistono disfunzioni determinate da nostri comportamenti. Questo non certamente per negare che esistono responsabilità altrui, e non certamente per negare che il contributo della Regione è importante e incisivo anche rispetto a questo.
Non si può certamente condividere l'azione accentratrice dello Stato né ipotetiche e non troppo comprensibili sottrazioni di poteri a vantaggio di altri poteri, ma occorre verificare se tali fatti rispondano al vero e se essi si verifichino senza una responsabilità dell'istituzione Regione.
Entrando nel merito delle proposte di modifica, mi pare che quasi tutte le carenze che possono aver determinato questa situazione di crisi della Regione e del suo ruolo siano già state individuate nei vari dibattiti che si sono tenuti in questa sede. Una prima causa di deterioramento istituzionale è certamente determinata dal non aver saputo applicare quelle norme statutarie (e non) che noi stessi ci siamo dati. Fare dei dibattiti nelle sedi istituzionali un momento di serio confronto e creare quindi le condizioni perché questo avvenga è la premessa metodologica e politica per una qualificazione complessiva della nostra attività. Qualificazione che deve passare attraverso alcuni punti chiari. La Regione deve diventare sede legislativa d'indirizzo e di coordinamento generale, dando al Consiglio quel ruolo centrale che deve avere, utilizzando le sue articolazioni naturali, le Commissioni, quali momenti operativi di confronto, di informazione e anche legislativi.
Solo con questa premessa il prestigio di questa assemblea legislativa potrà raggiungere la sua pienezza, non trasformandosi in un luogo dispersivo di retorica più finalizzata a soddisfare ambizioni personali o interessi elettorali che a svolgere le funzioni politiche e legislative di competenza.
La Regione deve riappropriarsi del suo ruolo programmatorio rinunciando, come ha detto il Presidente del Consiglio nel suo intervento ad esercitare le numerose incombenze gestionali che troppo caratterizzano il suo operato.
Il prestigio della Regione non è rappresentato dalla capacità di dare tante risposte minime a molte e spesso interessate richieste, ma piuttosto dalla sua capacità di indirizzare e coordinare la vita amministrativa nel suo complesso, creando le condizioni perché questo sviluppo dell'attività amministrativa avvenga.
Il ruolo programmatorio della Regione, essenziale per un disegno armonico dell'intera società, è fallito e dobbiamo riconoscerlo. Si badi però, questo fallimento è figlio non dell'inadeguatezza della concezione della programmazione, che a nostro giudizio rimane centrale soprattutto riferito all'Ente Regione, ma è figlio di comportamenti politici che finora non hanno permesso la realizzazione di un'autentica esperienza di programmazione.
Si pone, a nostro giudizio, un problema complessivo di revisione delle norme che regolano questa materia.
Oltre questa scelta di fondo, di cultura complessiva dell'istituto regionale, occorre porre rimedio a scelte e decisioni che con il tempo malgrado la giovane età dell'istituto, hanno reso farraginoso e complesso ogni riferimento legislativo. Mi riferisco al riordino della legislazione regionale, mediante l'approvazione di testi unici capaci di riorganizzare la legislazione per materia, da utilizzare altresì quale occasione per eliminare tutte quelle formule legislative demagogiche e qualche volta perverse di partecipazione (che tali in realtà non sono), ma che contribuiscono unicamente a rendere più difficile e vischiosa l'attività regionale.
Occorre poi apportare alcune modifiche statutarie capaci di dare un assetto definito e stabile alla struttura della Giunta, sottraendo questa alle definizioni di ogni singola maggioranza e ai conseguenti patteggiamenti.
Questa scelta, oltre ad alzare il tono ed il prestigio della Regione consentirebbe di dare assetto organizzativo stabile e definitivo alla struttura.
Appunto la struttura: un assetto definitivo capace di separare le responsabilità fra politici e funzionariato, certamente non ultima causa dei fatti degenerativi che hanno caratterizzato le vicende politiche di questi ultimi anni. L'approvazione quindi di leggi che definiscano e verticalizzino la struttura, attribuendo precise responsabilità e che definiscano norme e principi di gestione della struttura che non devono poi essere disattese nella pratica attuazione. Comportamenti di questo genere se si verificassero, oltre a creare sfiducia ed un giustificato malcontento nella struttura, determinerebbero un oggettivo scadimento istituzionale.
La Regione deve pure riesaminare complessivamente le ragioni, il ruolo l'utilità dei suoi enti strumentali definendo con chiarezza i rapporti e le relazioni che devono intercorrere tra essi e la Regione stessa.
Questi ed altri argomenti, e molti ne sono emersi nel dibattito di questa mattina, dovranno essere affrontati e risolti se non vogliamo che indipendentemente dalle riforme che il Parlamento potrà realizzare, il ruolo dell'istituzione Regione continui in quel declino che oggi tutti lamentiamo.
Ma la prima riforma sta in noi, nella serietà e nell'impegno con il quale svolgiamo il nostro ruolo. Credo che questo sia il modo più concreto per celebrare i quarant'anni della Costituzione.
Alle affermazioni di principio, ai documenti ed agli impegni occorre coerentemente far seguire i fatti e i comportamenti.
In questo breve intervento ho cercato di individuare alcuni problemi di nostra competenza, che dipendono dal nostro operare al quale dobbiamo dare noi una risposta senza invocare mancate decisioni altrui.
Questi problemi sollevati, unitamente agli altri che emergeranno ancora, dovranno essere oggetto di un'attenta valutazione e decisione quale che sia questa decisione da parte del Consiglio regionale.
Se queste cose noi riusciremo a fare, avremo titolo per chiedere e sollecitare comportamenti e scelte ad altri. Ma se queste cose noi non riusciremo a fare, credo che sarà molto limitata la nostra capacità di sollecitazione e di critica rispetto alle omissioni altrui.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Gallarini.



GALLARINI Pierluigi

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, i risultati elettorali delle ultime politiche e gli avvenimenti precedenti e seguenti, analizzati sino al varo del nuovo Governo, confermano, se mai ce ne fosse stato bisogno, la necessità e l'urgenza di una vera grande riforma istituzionale.
Dall'VIII legislatura ad oggi il problema delle istituzioni è ricorrente; ma l'approccio a questo tema, ancor più delle proposte avanzate, genera un giustificato scetticismo rispetto alla volontà politica ed ai tempi per risolverlo.
Realisticamente, nell'attuale contesto politico, non si vede altra possibilità che non siano i piccoli passi istituzionali. Quindi prevedere proporre ed attuare ogni intervento utile per rendere funzionante o più funzionante l'esistente deve essere il primo obiettivo seguito dalle riforme possibili nell'ambito del sistema.
Certamente in questo modo non si attuerà la grande riforma, ma certamente se ne semplificherà l'avvento e soprattutto si porrà un freno alla crisi del sistema prima che generi conseguenze imprevedibili per il Paese.
Tutto ciò premesso, prima di affermare la nostra certezza sul responsabile ruolo che la Regione può e deve svolgere nell'ambito istituzionale, proponendo e legiferando nell'ottica di soluzioni attuabili e definendo un indirizzo politico chiaro, poiché le riforme non sono e non devono essere fatte per giovare ad alcuna parte politica, l'impegno della Regione si dovrà quindi esprimere con contributi politici illuminati che consentano almeno di iniziare ad individuare un nuovo, diverso ed alternativo sistema autoriformandosi con scelte non certo usuali.
Entrando nel merito di queste affermazioni di principio, allo Stato nella sua accezione più ampia, al Governo ed alle forze politiche si chiede di avviare e sviluppare concrete iniziative per: 1) interventi sia sui rami bassi sia sui rami alti delle istituzioni.
Infatti disfunzioni si verificano a tutti i livelli e a tutti i livelli si debbono porre in essere gli opportuni rimedi 2) revisione del sistema regionale e delle autonomie in generale. Ogni intervento in questo settore, anche se non decisivo, può essere utilissimo almeno nel senso delle semplificazioni e dei controlli.
Volendo portare un contributo al dibattito odierno, senza appesantire il nostro intervento con la presentazione di un ennesimo documento intendiamo svolgere alcune considerazioni il più possibile semplici pertinenti ed essenziali. Innanzitutto potendo approcciare al problema delle riforme istituzionali nel nostro Paese da due versanti, l'uno relativo alle grandi questioni del voto segreto, dell'elezione del Presidente della Repubblica, della ristrutturazione delle due Camere l'altro afferente l'Ente Regione, la sua collocazione all'interno del sistema delle istituzioni, i rapporti Regione-Stato e Regione-Province Comuni, Unità socio-sanitarie locali; attraverso le autoriforme o riformismo interno intendiamo fare una scelta precisa, convinta, radicale e prioritaria.
Esprimiamo la ferma convinzione che la giornata odierna debba essere spesa dal Consiglio regionale soprattutto per approdare ad alcune, poche ma concrete, assunzioni conclusive in grado di produrre a tempi brevi impegni reali misurabili nel prosieguo perché la Regione Piemonte elevi la qualità della propria immagine, delinei una maggiore snellezza di funzionamento esprima una drastica riduzione dei tempi di risposta, arrivando a migliorare decisamente la propria personalità istituzionale, la produttività politica ed amministrativa dei propri apparati e delle proprie strutture, assurgendo ad ente locale più rispondente alle esigenze peculiari del proprio territorio, più credibile agli occhi ed agli atti degli enti interlocutori, più a misura del cittadino, sia sotto il profilo della funzionalità incisiva ed efficace, sia alla luce dei tempi che la nostra società intende vivere in parallelo tra il settore pubblico e quello privato alle soglie degli anni 2000 che, anche attraverso le linee direttrici risultanti dal dibattito di oggi, noi ci accingiamo ad affrontare non con la rassegnazione di chi accetta di esserne investito e travolto, ma con l'equilibrata e capace consapevolezza di chi vuole governare il corso e gli indirizzi.
Sul secondo versante, quello che intendiamo affrontare e trattare, noi troviamo la Regione come Ente autonomo collocato nell'orbita sub-statale, a diretto contatto con le Province, che tutti ormai riconoscono come unico e indispensabile ente intermedio, con i Comuni che costituiscono la realtà locale più storicamente consolidata, con le Unità socio-sanitarie locali di recente istituzione.
Ad un primo livello di analisi la Regione deve rivendicare in concreto una maggiore autonomia politica nei confronti del potere centrale che, per converso, soprattutto in questi ultimi tempi, ha teso e tende a riappropriarsi di competenze già regionali (il Ministero dell'Ambiente e delle Aree Urbane sono l'esempio più eclatante, anche se non il solo) arroccandosi altresì in modo più determinato sopra le competenze classiche e storicamente non ancora pervenute alla governabilità delle Regioni.
Alcune competenze a livello centrale e ministeriale possono essere completamente delegate alle Regioni; altre, soprattutto di recente costituzione ed accentramento, devono essere ricondotte a linee di indirizzo programmatico e a tetti economici di spesa, delegando le Regioni affinché gli interventi siano commisurati alle realtà regionali e non predeterminati da imposizioni centrali.
Oltre ad aggiornare le risorse in funzione astratta del PIL (prodotto interno lordo) occorre aggiornare i parametri di distribuzione alle Regioni, alle Province e ai Comuni, parametri ancorati a consolidati storici non più attuali.
Occorre che attraverso l'informatizzazione del dialogo fra Enti, Stato Regione, Province, Comuni, Unità socio-sanitarie locali si istituisca un linguaggio comune informatico, superando l'attuale babele, che consenta di avere in tempo reale dati aggiornati sulla base dei quali graduare le attenzioni e le erogazioni finanziarie. I Comuni hanno una discreta capacità impositiva autonoma, le Province, le Unità socio-sanitarie locali e la Regione devono invece conquistarsela.
L'introduzione ad ogni livello dell'ente pubblico di meccanismi di incentivazione della produttività, rispondenti al concetto di azienda nell'ambito più generale dell'esigenza di pareggio dei bilanci, permetterà di dosare la propria imposizione.
Maggiore autonomia politica vuole anche significare maggiore autorevolezza politica laddove le scelte sono avocate al centro romano.
La consultazione della Regione non può essere solo formale, deve essere obbligatoria per divenire vincolante circa gli interventi in grado di connotare e di imprimere allo sviluppo linee direttrici portanti un certo segno o un segno algebricamente opposto.
La Regione deve essere messa in condizione, attraverso la legge finanziaria, di approvare il proprio bilancio in tempo utile affinché il primo gennaio del nuovo anno sia anche il primo giorno di un nuovo esercizio finanziario da gestire a bilancio approvato preventivamente, con certezze di fondi, di tempi di erogazione, di modalità di flusso amministrativo.
Tale garanzia deve pur essere data alle Province, ai Comuni e alle Unità socio-sanitarie locali, così come avviene nel privato e come peraltro avveniva nel medio passato negli stessi enti locali.
Non è accettabile politicamente, ma soprattutto non è sopportabile n amministrativamente né contabilmente che gli enti locali siano costretti ad approvare i propri bilanci a aprile o a maggio, quando non addirittura a luglio o a settembre, gestendo dai quattro agli otto dodicesimi dell'anno in esercizio provvisorio sul consolidato dell'anno precedente.
Nelle Unità socio-sanitarie locali si arriva addirittura - e il 1988 nella nostra Regione non costituirà eccezione - ad approvare il bilancio preventivo a fine aprile iscrivendo le cifre dell'anno precedente che, pure a fronte del contenuto tasso di inflazione programmato, servono a coprire in sanatoria i dodicesimi trascorsi e a malapena consentono di arrivare ad ottobre-novembre dell'anno al quale si riferiscono gli stanziamenti in approvazione, salvo poi attendere altri mesi nella incertezza ed indeterminatezza più assoluta prima di conoscere le integrazioni che poi si andranno ad inserire in bilancio a ottobre-novembre e in qualche caso addirittura nel corso del mese di dicembre, quando, premendo le tredicesime mensilità, si è costretti a recuperare, molto spesso raffazzonando in pochi giorni, mesi di latitanza, di inerzia, di abulia, di non presenza.
Questo modo di parlare di sana amministrazione, di programmazione di attività e di risorse, di contenimento della spesa pubblica, di riduzione programmata dei tetti di spesa, di disavanzo e di sfondamento, come disinvoltamente si usa fare, diventa pura esercitazione di ipocrisia, di presa in giro di opinione pubblica e di addetti ai lavori e le equazioni ipocrisia - perdita di credibilità e non attendibilità - perdita di autorevolezza e di considerazione sono facilmente dimostrabili anche a chi non ha dimestichezza con la matematica, ma vive in Piemonte o in altra Regione la realtà quotidiana di utente di servizio pubblico, di titolare di diritto civico e amministrativo, di interlocutore dei vari enti, insediati molte volte kafkianamente nei "palazzi castello" del territorio.
I parametri poi di erogazione finanziaria dallo Stato alle Regioni devono essere aggiornati e calibrati dinamicamente alle pulsazioni elastiche delle realtà anziché essere, come sono ora, superati e vetusti e immodificabili rispetto ai lacci rigidi della burocrazia sorda e paralizzante.
All'interno poi dei tetti di flusso finanziario le rigidità vanno allentate; le Regioni devono vedersi riconosciuta una capacità autonoma discrezionale di manovra se si vuole evitare che l'ente si immiserisca, dal punto di vista politico ed istituzionale, a banale e robotizzata stazione intermedia passacarte, ulteriore bardatura burocratica in un arcipelago già labirintico di rimandi, di rimbalzi, di palleggiamenti di responsabilità e di competenze.
Ha ancora un senso istituzionale e pratico ammesso che l'abbia mai avuto in passato - che la Regione Piemonte, a fronte di un bilancio di quasi 7.000 miliardi, abbia una disponibilità di risorse libere pari a circa 180 miliardi, che è il 2,25% delle lire che provengono dallo Stato e che vengono erogate agli enti locali per i servizi? Ha ancora un senso che l'Assessorato alla viabilità distribuisca a pioggia in conto interessi un certo numero di milioni a circa due terzi dei Comuni di ogni singola Provincia, abbattendo del 5% i tassi degli eventuali mutui che i suddetti Comuni contraggono, accollandosi il residuo 5,50% con la Cassa Depositi e Prestiti? E ha un senso che tale disponibilità in conto interessi (che all'epoca della nascita delle Regioni avevano in valore assoluto una consistenza relativamente notevole) vada man mano comprimendosi di anno in anno fino a quando, tra non molto, raggiungerà lo zero per la ragione ovvia che ad ogni esercizio aumenta l'ipoteca costituita dagli impegni a durata decennale o ventennale assunta negli esercizi precedenti? Noi riteniamo che un meccanismo di questo tipo sia perverso, illusorio e superato e che l'attribuire alle Regioni una gestione così concepita sia istituzionalmente deviante, finanziariamente antieconomico amministrativamente costituendo un assurdo burocratico, nonch concettualmente un esempio di archeologia funzionale.
E che le Regioni ancora oggi debbano passare alle Province, per la pseudomanutenzione ordinaria delle strade di competenza, L. 300.000 al chilometro (peraltro sfasate rispetto ai chilometri reali) con due o tre anni di ritardo rispetto alla erogazione dal centro, in quanto difficoltà di bilancio hanno portato negli ultimi anni a stornare le cifre relative su altri capitoli, è non solo inadeguato ed inattuale, ma rappresenta un paradosso di finzione amministrativa e di distorsione politico istituzionale.
In sintesi, per capitoli, formuliamo delle proposte nel segno unico di un superamento di tali meandri burocratici affinché si lasci alle spalle il paleolitico e ci si accinga ad affrontare in tempi più reali possibili i problemi della società e del mondo di domani o almeno di quello di oggi attraverso un travaso di competenze, una semplificazione degli iter burocratico-amministrativi, l'istituzione di livelli di autonomia impositiva da calibrarsi alle fluttuanti esigenze economiche degli enti in modo diretto, in modo deciso, in modo serio e ispirato a principi e concetti mutuati dal privato che deve reggere alle leggi spietate del mercato della concorrenza, avendo il coraggio di affrontare la realtà del nostro tempo a costo di apparire o anche di essere antipopolari e antidemagoghi.
Deleghe. L'istituto della delega dalla Regione alle Province, da non intendersi come trasferimento di competenze, va modificato profondamente.
Non ha senso il rivendicare da parte dell'Ente Provincia - e su questo terreno l'UPI ha fallito nella propria impostazione politica - deleghe, (in quanto tali, nude e senza fondi ad hoc) e personale specifico per poterle gestire. Occorre quindi che le materie di delega siano accompagnate dal trasferimento dei fondi necessari alla gestione relativa e che a livello di pianta organica la Regione possa autorizzare le Province ad ampliare o trasformare il proprio organico con procedura snella e non elefantiaca, del tipo di quella che comporta attualmente il passaggio attraverso la Commissione centrale sulla finanza locale, in modo da istituire il nucleo operativo necessario, sufficiente e preventivo, tale da rendere l'impatto operativo nel tempo reale. Oggi infatti, a causa dei meccanismi esistenti la delega è accompagnata spesso da una caduta temporanea del livello del servizio, da generali incertezze e disorientamenti nell'ente che la concede e nell'ente che la riceve, ma soprattutto presso il cittadino interlocutore e fruitore interessato.
Competenze scolastiche. I bacini di utenza e di riferimento devono essere a dimensione regionale, così come alla Regione devono far capo le competenze ai vari livelli, salvo il coordinamento generale di fondo a stampo centrale e governativo. A livello di scuole medie superiori (professionali e non) va ricondotta a razionalizzazione in capo regionale l'attuale commistione gestionale e amministrativa. Tutto il personale deve essere in capo ad un solo ente, laddove attualmente gli insegnanti e i presidi sono dipendenti statali, i bidelli e il personale amministrativo sono dipendenti delle Province. Le Province stesse poi, titolari della proprietà degli edifici scolastici e alle quali sono in capo le manutenzioni ed i costi dei servizi, devono poter attingere, attraverso l'istituto dell'autonomia impositiva, alle tasse scolastiche, calibrate ai costi reali degli oneri da sostenere con prelievo locale nell'ambito del flusso destinato alle casse centrali. Occorre poi che nel campo della formazione professionale la Regione sia politicamente più autorevole nel coinvolgere il mondo economico e della produzione operante sul territorio al fine di sintonizzare su lunghezza d'onda ottimale la domanda del privato e l'offerta-risposta del pubblico.
Produttività dell'ente. Il Regolamento va modificato senza comprimere e soffocare il dibattito democratico; il Consiglio deve essere messo in condizione di produrre di più. Le interpellanze e le interrogazioni devono trovare un canale di collocazione che non appesantisca e non interferisca con gli spazi legislativi veri e propri che sono da privilegiare in assoluto.
Le Commissioni vanno riformate nella loro articolazione, ridisegnate nelle loro sfere di competenza, dimensionate agli Assessorati, ridotte nel numero, riviste e semplificate nei loro meccanismi procedurali.
La produttività dell'apparato deve implacabilmente aumentare. Occorre introdurre concetti nuovi, managerialità privatistica, incentivazioni reali, semplici ed efficaci per stimolare e riconoscere professionalità e capacità.
Riformare significa prima di tutto credere che sia possibile cambiare e quindi che lo si debba fare in fretta ed infine che non si possa condizionare il cambiamento a fattori esterni pretestuosi o di comodo.
E' innanzitutto la mentalità con la quale si affrontano i problemi a dover essere riformata. In fatto di produttività la Regione ha potenzialità alte, occorre spremerle e finalizzarle al salto di qualità che solo pu costituire il pilastro portante del nuovo, del moderno, dell'efficiente e del funzionale.
Per quanto concerne l'ecologia e l'ambiente, ferma restando la competenza regionale sulla programmazione di fondo del settore, occorre legiferare affinché le Province abbiano compiti di coordinamento (che oggi non ci sono), di razionalizzazione e di omogeneizzazione rispetto alle Unità socio-sanitarie locali al fine di rendere più uguali possibili i metri e i parametri di misura e di riferimento. Anche nel finanziario si potrebbe introdurre un prelievo regionale nell'ambito delle tasse locali sulla raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, destinato a finanziare le iniziative di fondo regionale nel settore, con risorse autonome e adeguate ai compiti di programmazione e di indirizzo sempre più attuali e pressanti.
Nel settore dell'urbanistica occorre rifondare e riformare il CUR.
nonché rivedere l'intero meccanismo operativo attraverso il quale i tempi di approvazione degli strumenti urbanistici sono oggi inaccettabili così come eterogenei sono i criteri di valutazione la cui palpitazione è occasionale e legata ad eventi contingenti se non addirittura fortuiti.
Questo non lo si può certo perseguire attraverso l'introduzione della delega alle Province, assolutamente impreparate anche dal punto di vista storico a gestire il settore; le Province potrebbero essere chiamate al coinvolgimento in sede di CUR attraverso una rappresentanza tecnica che vada a verificare la compatibilità delle previsioni di piano rispetto alla programmazione provinciale relativamente ai settori di competenza.
Occorre semplificare le procedure, comprimere i tempi di risposta fors'anche attraverso l'introduzione del principio del silenzio-assenso oggi la procedura è paralizzante: intercorrono molti mesi dalla trasmissione dello strumento adottato all'esame al CUR e intercorrono ancora molti mesi prima che attraverso l'Ufficio Predisposizione Atti l'approvazione dello strumento si ufficializzi in pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della Regione. I tempi trascorrono lenti e i Comuni sono pressati dalle richieste, l'inflazione continua a non diminuire, i costi continuano a lievitare, la credibilità delle istituzioni diminuisce pure, il divario tra il pubblico e il privato continua ad aumentare l'anacronismo dell'esasperazione burocratica si ingigantisce e la sfiducia del cittadino e dell'opinione pubblica cresce e può portare a degenerazioni pericolose.
Riformare radicalmente tutto il settore è quindi ineludibile, è fattibile e dipende solo da noi.
Contributi ai Comuni. La Regione, per quanto concerne gli interventi urbanistici territoriali e di infrastruttura, deve risalire a compiti di politica programmatoria e a linee fondamentali di indirizzo, quindi rivendicare un maggior peso politico rispetto alle decisioni centrali governative.
Nell'assegnazione dei contributi ai Comuni, il ruolo che attualmente svolge di mera passacarte può anche essere superato da un trasferimento automatico delle risorse direttamente ai Comuni attraverso un ampliamento della capacità mutualistica, previsto in sede di legge finanziaria. Si otterrebbe in tal modo una fortissima contrazione dei costi burocratici e una maggior snellezza nei tempi di realizzazione delle opere.
Nei Comuni turistici, molto presenti nella Regione Piemonte, attraverso l'istituzione di parametri maggiorati, funzione di un indice di presenza turistica (inteso come rapporto fra il numero massimo di presenti stagionali e il numero della popolazione residente) occorrerebbe adeguare le erogazioni alle esigenze reali.
In conto capitale, interventi su scelte di fondo di interesse sovracomunale in dipendenza di politiche nazionali di grande respiro, alla cui definizione la Regione deve partecipare in modo diretto con parere non solo obbligatorio ma vincolante.
In conto interesse, azzeramento delle competenze attuali; la Cassa Depositi e Prestiti deve poter praticare direttamente, all'interno del 25 dei primi tre titoli, ai Comuni che abbiano i requisiti economici il tasso agevolato, ad esempio il 5,50% che attualmente si ottiene sottraendo al 10,50%, che è il tasso della Cassa, il 5% che rappresenta il contributo regionale, quantomeno per il 1988, per opere stradali, fognarie acquedotti, cimiteri, sedi municipali, ecc.
Per quanto concerne la rete viaria potrebbe istituirsi, nell'ambito dell'attuale fiscalizzato sul prezzo dei carburanti, così come avviene in alcuni Paesi dell'Europa occidentale, una tassa in lire al litro il cui flusso dovrebbe essere convogliato ai Comuni e alle Province in proporzione ai chilometri di strade di competenza, per la manutenzione ordinaria e straordinaria, alle Regioni, per interventi di ampio respiro sovracomunale o interprovinciale, tassa calibrata alle esigenze reali di interventi di congruo respiro da aggiornarsi con parametri adeguati ai maggiori costi sopravvenienti.
Anche nel settore del socio-assistenziale, se si vuole superare l'assistenzialismo a pioggia, o meglio a siccità vista l'entità e il valore assoluto dei contributi che si possono erogare, occorre introdurre una capacità impositiva autonoma. In tal modo sarà possibile programmare e finanziare interventi a misura delle necessità nel campo delle case di riposo per autosufficienti e non, la cui carenza è oggi drammatica, del sostegno di handicappati, attraverso la costituzione e il potenziamento di strutture integrate, socialmente aperte, quindi non ghettizzanti, del loro inserimento nel mondo della scuola prima e del lavoro poi.
Le Regioni devono rivendicare un prelievo finalizzato da concordare in sede di Governo centrale, se non attraverso la creazione del Senato delle Regioni (sul quale in linea di principio siamo concordi), attraverso l'affermazione del diritto quantomeno ad essere ascoltati su questo come su altri problemi.
Sanità. All'interno dei meccanismi di assegnazione dei fondi alle Regioni, i cui importi sono pari ai due terzi della disponibilità complessiva, occorre superare l'automatismo dei parametri governativi per accedere a parametri di tipo regionale che rispettino unicamente il tetto di finanziamento dell'erogazione centrale. Quale ruolo politico può infatti giocare la Regione se semplicemente si deve limitare a distribuire alle Unità socio-sanitarie locali quanto viene erogato dallo Stato in base a parametri fissi, consolidati ed intoccabili (quattro funzioni e nove sub funzioni)? L'erogazione deve essere oculata e governabile, ispirata non più al principio instaurato anni addietro tendente inevitabilmente a riequilibrare il più delle volte verso il basso il livello dei servizi; la Regione deve infatti poter entrare nel merito della quantità e qualità dei servizi erogati dalle Unità socio-sanitarie locali calibrando i finanziamenti a questi parametri reali, andando a riconoscere i bacini reali di utenza. Oggi infatti le Unità socio-sanitarie locali che realizzano le migliori prestazioni sono penalizzate in quanto, costituendo polo di attrazione nei confronti degli utenti extra Unità socio-sanitarie locali, vedono assorbite risorse superiori a quelle loro assegnate a scapito di altri servizi necessariamente in contenimento e compressione per carenza di risorse.
Il Gruppo socialdemocratico ritiene infine che si debba andare, alla conclusione del dibattito odierno, alla costituzione di un gruppo di lavoro consiliare, la cui composizione politica sia definita in tempi brevi, che sia messo in condizioni di operare, pure in tempi brevi, in modo tale da arrivare alla formulazione di proposte concrete, percorribili e finalizzate ad una modernizzazione dell'Ente Regione, ad una sua riqualificazione di immagine, ad una drastica riduzione dei tempi di risposta dell'ente e ad una forte ripresa di quota dell'ente stesso sul terreno dello spessore politico e dell'autorevolezza istituzionale.
Circa l'opportunità di formulare entro questa sera proposte relativamente alla prima parte, quella relativa ai rami alti del problema siamo disponibili a partecipare per andare verso una risultante di queste proposte, ma riteniamo che sia pressoché impossibile arrivare nella giornata odierna a poter definire già le proposte risultanti.



DAMERI SILVANA



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Ala.



ALA Nemesio

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, la Lista Verde ha seguito l'evoluzione che ha portato all'organizzazione di questo dibattito consiliare in maniera alquanto distaccata. Non tanto per una sottovalutazione dell'urgenza di un dibattito come questo, o meglio della necessità di avviarlo realmente, e neppure perché non si scorga, da parte nostra, la necessità di ridefinire alcune regole del gioco e alcuni meccanismi collegati al funzionamento della macchina burocratica e della macchina statale, delle assemblee elettive, del Governo, delle Regioni e degli enti locali, quanto piuttosto perché ritenevamo che non è grazie a ulteriori dibattiti o prese di posizione che si può fare qualche passo concreto nella vicenda. Per esempio, nessuno ha ricordato in questa sede mentre invece i giornali e l'opinione pubblica più attenta l'hanno rilevato, che l'ultimo Governo, che proprio oggi presenta il proprio programma e pronuncia attraverso il suo Presidente il discorso di insediamento alle Camere, in gran parte incentrato sulla necessità di urgenti ed incisive riforme istituzionali su alcuni punti di importanza decisiva (quali la scelta dei Ministri, la scelta di come ripartire le competenze, il numero dei Sottosegretari, ecc), ha proceduto in maniera identica ai Governi che lo hanno preceduto. Si è trattato della solita minestra fritta e rifritta, sentita innumerevoli volte, che ha caratterizzato ogni Governo. Il nuovo Governo, che si pone come il governo della grande riforma, è partito nella stessa maniera di tutti i governi che l'hanno preceduto, immediatamente facendo capire che la grande riforma, se mai ci sarà, avverrà su binari vecchi e ancora una volta all'interno dei meccanismi e dell'attività dei partiti. E' questo, secondo me, il punto principale sul quale occorrerebbe riflettere: o questa grande riforma istituzionale è una questione che riguarda la gente ed è risolta con la gente e i cittadini, quindi con il consenso e la partecipazione dei cittadini, oppure si trasforma in un meccanismo di ridefinizione dei reciproci rapporti e sfere di potere dei singoli partiti. Diventa una partita tra l'on. Craxi e l'on. De Mita, tra costoro e l'opposizione comunista o con altri che ricoprono ruoli comprimari più o meno dentro o fuori dal gioco. Questa, vorrei ricordarlo brevemente, è l'immagine che si ha all'esterno dell'intera vicenda. Un'immagine che rende la grande riforma impercorribile o comunque difficilmente appetibile per i cittadini, che viene sempre più vista come una ridefinizione di regole interne ad un gioco che è unicamente nelle mani dei partiti, nemmeno del Parlamento o delle assemblee elettive, o meglio delle Segreterie dei partiti e di gruppi ristretti all'interno di questi. Esaminiamo, ad esempio, la nostra Regione: noi possiamo fare delle autoriforme. In linea teorica, molte delle autoriforme cui si è fatto cenno nel corso di questa discussione non solo potremmo farle domani, ma avrebbero potuto essere fatte già negli anni e nei mesi scorsi, nella scorsa legislatura o in questa. Questo, per continua a non avvenire. Una cosa, allora, deve essere a mio parere chiara: è impensabile che una Regione, da sola, attui qualsiasi seria riforma, così come, a mio avviso, è difficile che il sistema dei partiti attui delle concrete ed incisive riforme che imprimano una svolta interessante e significativa per il futuro della democrazia italiana. L'unica vera riforma che deve avvenire dal punto di vista istituzionale nel nostro Paese è quella della riduzione dello spazio di potere dei partiti. Ma questa non è possibile avvenga su iniziativa dei medesimi partiti e neppure pu avvenire, stando a quanto leggo dai giornali (dal momento che non ho altre fonti di informazione), attraverso la proposizione in termini totalmente diversi della partecipazione popolare attraverso gli strumenti referendari.
Abbiamo sotto gli occhi i risultati. In Piemonte l'unica proposta di referendum, per quanto dichiarata ammissibile, è stata affondata attraverso un'iniziativa legislativa che ha visto insieme e solidali gran parte delle forze politiche. Se si vuole giungere ad un miglioramento delle regole democratiche tramite la partecipazione dei cittadini, non si può cominciare mettendo da parte un referendum.
Su scala nazionale, poi, il numero dei referendum vanificati è molto alto. E abbiamo ugualmente visto come sia possibile utilizzare gli esiti di un referendum vinto per ridefinire gli spazi di potere dei diversi partiti e il potere di contrattazione o di interdizione di ogni singola forza politica. Non si può invitare o chiamare i cittadini a votare contro il nucleare, e ritrovarsi poi a rafforzare il potere di contrattazione del Partito socialista rispetto ad altri partiti che fanno parte della maggioranza pentapartita. Ritengo che cercare di utilizzare il mio voto in questa maniera sia cercare di stravolgere e violentare il mio diritto di cittadino a partecipare ad una decisione dello Stato. A maggior ragione le forme di referendum che vengono proposte per il nostro futuro appaiono essere esattamente il contrario di questo, appaiono essere forme di opzione, di plebiscito attraverso le quali si tenta di far passare determinate linee rispetto ad altre.
Questo Governo, quindi, che dichiara di voler avviare le riforme istituzionali, è partito con le solite logiche interne al mondo dei partiti e dei loro giochi che si svolgono su equilibri di potere che continuamente si modificano. Riforme istituzionali intese in questo modo personalmente non mi interessano molto: si tratta di giocatori che ridefiniscono le regole del loro stesso e identico gioco, a proposito del quale sono stati inventati vari feticci come ad esempio quello della "governabilità", delle maggioranze stabili, dell'abolizione del voto segreto.
Ritengo che gli enti locali, le Province, i Comuni, le Regioni, che già hanno compiuto la grande riforma dell'abrogazione del voto segreto viaggino nella stessa palude del Parlamento, dove il voto segreto c'è. Non ho mai visto, per quanto la mia memoria non arrivi fino agli anni dell'immediato dopoguerra, sfiducie costruttive di sorta, non ho mai visto neppure dei meccanismi che garantiscano che le grandi maggioranze (quindi maggioranze che ci si ostina a definire solide) governino meglio e non entrino in crisi. Nel nostro Paese ormai le istituzioni entrano in crisi sia nei piccoli Comuni, dove vige un sistema maggioritario, sia nei grandi Comuni. Ugualmente entrano continuamente in crisi le grandi assemblee quelle regionali, provinciali o il Parlamento, indipendentemente dai problemi e dalle chiacchiere sulle maggioranze forti, sui voti o sui premi di maggioranza. Ci siamo abituati ad elezioni anticipate, a crisi di governo, a crisi di tutti gli enti di governo, indipendentemente dall'ampiezza delle maggioranze e dal fatto che queste riuniscano un solo partito o più partiti. A questo pensano i cittadini, i quali sostengono "quelli litigano sempre, sono perennemente in trattativa sulla ridefinizione degli spazi di potere: televisione, giornali, grandi enti di Stato e altre strutture di questo genere". Non è pensabile che l'abrogazione del voto segreto, premi di maggioranza e sistemi che tendano a modelli forti di legittimazione, diano qualche risultato; non ho elementi che permettano di condividere questa interpretazione.
Un unico punto potrebbe assumere rilevanza in una riforma istituzionale: l'abolizione del meccanismo del voto di preferenza o una sua radicale trasformazione. Questa è l'unica proposta importante, in merito alla quale posso condividere le interpretazioni che ho sentito e letto da parte di altre forze politiche, in quanto il meccanismo italiano è ormai giunto ad un livello di degenerazione spaventoso. Attraverso questo meccanismo si sottrae ai cittadini un elemento di controllo, mentre apparentemente gliene si dà di più. Lo si sottrae ai cittadini e lo si consegna nelle mani di lobby, di corporazioni, di piccoli gruppi di interesse. Vorrei riprendere, a questo proposito, quanto ha detto il Presidente Viglione in apertura: è sotto gli occhi di tutti come le assemblee elettive siano continuamente espropriate di potere, di spazio e di ruolo da meccanismi sempre più legati al mondo dell'economia, della finanza, delle corporazioni e di altri interessi. Scompaiono totalmente le esigenze dei cittadini, le esigenze di funzionamento e di efficienza del sistema, di trasparenza delle regole, di moralizzazione della vita pubblica.
Parliamo, ad esempio, della Regione Piemonte. La nostra Regione è presa tra le grandi decisioni che le passano sulla testa e lo scollamento progressivo di un rapporto con i cittadini e gli altri enti locali.
Possiamo chiuderci in questo bunker e pensare di combinare qualcosa, ma io resto sempre più convinto che non combiniamo niente (o combiniamo molto poco). Il meccanismo di una nostra possibile riforma consiste essenzialmente nel dire qualche volta "no" allo Stato. Si diventa autonomi e si conta se si comincia a dire no ai grandi enti di Stato. In questi anni non ho mai sentito pronunciare, neppure una volta, questo no. In altri termini, o le Regioni cominciano a dire no all'ANAS, all'ENEL. a tutti questi grandi baracconi che non fanno altro che scaraventarci addosso (e addosso ai cittadini e al territorio piemontese) grandi e inutili opere pubbliche, grandi e inutili quantità di asfalto e di cemento, oppure non riesco a capire su quali basi possa nascere e fondarsi una nostra autoriforma e quindi un cambiamento. Non ha senso rivendicare, come sostiene una parte del mondo regionalista, quel poco che ancora rimane delle competenze previste dal DPR n. 616, quando poi in effetti le linee e le scelte politiche finiscono quasi sempre con l'appiattirsi su quelle nazionali e su quelle dei grandi enti di Stato. Eppure, si è predicato per anni l'omologazione delle Giunte dal centro alla periferia; si è pensato che ad ogni livello si dovesse moltiplicare il consenso per favorire i grandi manovratori romani. La Regione deve stipulare un nuovo "contratto" con i cittadini piemontesi, con gli anziani che vegetano nei ricoveri, con i bambini, con le poche persone che ancora vivono in montagna, con la gente della strada. Una volta stipulato questo contratto, con questi cittadini e negli interessi di questi cittadini, la Regione finirebbe con l'assumere una politica che è di contrapposizione allo Stato e quindi di autonomia reale. Parlo di contrapposizione rispetto alle richieste di intervento pesante e massiccio sul territorio di cui lo Stato (o meglio i suoi enti pubblici) si fa promotore.
Le autoriforme altrimenti diventano tante parole che poi generano piccolissimi risultati. Qui, nel Consiglio regionale piemontese, non possiamo neppure abrogare il voto segreto o il bicameralismo perché non li abbiamo, siamo quindi già oltre la riforma che si chiede a livello nazionale. Abbiamo pure meccanismi di collegi elettorali che, con esclusione della Provincia di Torino, già di fatto sono collegi vicini al modello uninominale.
Abbiamo fatto già quasi tutto: e possiamo anche aumentare o diminuire il numero delle Commissioni. Credo che ognuno voglia essere Presidente di Commissione. Dovrebbero allora esserci almeno venti Commissioni consiliari cosicché la presidenza della diciannovesima forse potrà spettare anche a noi.
Questo meccanismo non funziona. Chi può costringere questa assemblea elettiva a ridurre il numero delle Commissioni? Non certamente noi. Sfido chiunque a ridurre il numero delle Commissioni; anzi, nella prossima legislatura si porteranno a nove, Per favore, quindi, non parliamo del numero delle Commissioni.
Un problema che rimane di difficile soluzione nella nostra Regione è quello del rapporto con gli enti locali, rapporto che è andato progressivamente disgregandosi in questi anni; d'altra parte però pu nascere anche su questo rapporto logorato il fondamento di un nuovo contratto con i cittadini e con gli enti locali.
Questo nuovo contratto può nascere attuando quello che l'Assessorato regionale all'ambiente scrive ed appiccica su tutti i muri, senza neppure sognarsi - lui e l'intera Giunta regionale - di mettere in pratica: "Volta pagina". Questo rinnovamento, questo nuovo contratto non può non riguardare le questioni forti che sono il presente e il futuro della nostra Regione: il rapporto con le altre Regioni europee e il rapporto dei cittadini con l'ambiente. Cosa vogliono i cittadini ora? Vogliono l'acqua pulita, l'aria pulita, un maggiore rispetto del territorio. Attorno a questi temi è possibile fondare una riforma e ricostruire momenti di consenso. Invece finché continuiamo a parlare di porti nel Lago Maggiore, di strade ad ogni angolo, di tutti gli interporti che ci vengono in testa, di tutti i finanziamenti a pioggia che ancora ci vengono in testa, non facciamo nessuna riforma regionale che interessi i cittadini. Queste riforme interesseranno solo qualcuno. Diversamente, ci limitiamo ai politologi agli uomini politici e ai costituzionalisti che sono le tre categorie citate dal collega Ferrara all'inizio del suo intervento.
Se la riforma viene limitata a questo modesto insieme di persone lavoreremmo per un affossamento di ogni residua speranza in una organizzazione della vita sociale e collettiva dalla parte del cittadino.
Ed il principale possibile accordo con la popolazione, e non con i grandi interessi delle corporazioni e delle multinazionali, lo troviamo sulle materie ambientali, da un lato, con la garanzia di una vivibilità nuova per tutti i cittadini, dall'altro, con la proposta di una riduzione dello sviluppo e con il blocco delle linee di tendenza verso la perennità della crescita. La Regione potrà procedere solo raggiungendo un accordo con i cittadini su problemi quali il risanamento della Valle Bormida, il problema dell'ambiente di lavoro (della sua qualità ed insieme della sua quantità) lo stato dei nostri boschi e delle nostre acque, ed insieme delle periferie urbane, attività antropiche che hanno distrutto il territorio.
La questione centrale allora non consiste tanto su come ridurre modificare e controllare alcune forme di questa democrazia quanto nei rapporti che si ricostruiranno (attorno a queste riforme) tra le presenze ed i modelli istituzionali da un lato e i cittadini piemontesi e tutti coloro che vivono, lavorano, cercano lavoro, crescono, giocano, ridono e soffrono in questa Regione dall'altro.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Staglianò.



STAGLIANO' Gregorio Igor

Signor Presidente, mentre ascoltavo gli interventi dei colleghi e la sua introduzione, che ho letto e riascoltato con attenzione, mi sono domandato se davvero questo nostro appuntamento corrisponde alle attese e alle intenzioni di chi lo aveva richiesto e di chi lo aveva sostenuto. E mi sono reso conto che non ve n'è molta. Di malavoglia ho continuato perciò ad annotarmi alcuni appunti che porgo così come mi sono venuti.
Per prima cosa voglio dire, signor Presidente, che era doveroso e giusto partire, come lei ha fatto, dall'ennesimo attentato che è costato la vita al Senatore Ruffilli, assassinio che intorbidisce nuovamente le acque in un momento in cui più pressante si manifestava l'esigenza di ripulire codici e procedure dalle degenerazioni autoritarie dello stato dell'emergenza, per adeguare le istituzioni ad un rapporto diverso con i cittadini.
Se ci fosse ancora qualche dubbio, questi fatti ci ridimostrano come gli anni di piombo non possono che produrre esiti autoritari del compromesso tra Stato e democrazia. Dopo gli anni dell'emergenza siamo ripiombati negli anni "della riemergenza", come ha disegnato acutamente Vauro in una vignetta su "il Manifesto" di oggi: rispuntano i Gelli rispuntano le Brigate Rosse, rispuntano i terrorismi di varia natura e matrice. Non possiamo pertanto astrarci da un contesto che intorbidisce i contorni del confronto politico e che ci obbliga a maggior rigore intellettuale oltre che a fermezza democratica.
Ho apprezzato nel suo intervento tutti quei cenni alla inadeguatezza delle istituzioni, così come oggi sono disegnate. Mi consentirà però di aggiungere che se non si va alla radice di quelle degenerazioni e di quelle inadeguatezze, non è possibile in verità mettere mano a riforme migliorative.
Provo a spiegarmi. La riforma istituzionale di cui si discute si presenta a nostro avviso come la sanzione a livello politico del contenimento e poi del rovesciamento delle spinte dei movimenti collettivi in primo luogo dei lavoratori, che hanno teso ad affermare la partecipazione ai processi decisionali nelle imprese per sviluppare forme di controllo e di gestione delle scelte produttive, nel tentativo di portarle nelle mani dei lavoratori associati.
Altri movimenti collettivi, signor Presidente, hanno rivendicato spazi di controllo e di autodeterminazione sul territorio e nei servizi, nel mondo dell'informazione e nella scuola, fino a giungere nella sacra sfera della famiglia.
A tutte queste spinte e sollecitazioni dal basso verso una società democratica si è risposto con un processo di modernizzazione che ha connotati a nostro avviso autoritari, laddove pone di nuovo l'accento sulle istanze di comando e di decisione. Il rafforzamento dell'autorità è partito dall'impresa e oggi viene ostentato in interviste anticipate in contemporanea sui tre più grandi quotidiani d'Italia, a dimostrazione di una potenza che va affermandosi incontrastata. Mi riferisco alla intervista di Cesare Romiti i cui stralci "ad incastro" sono stati pubblicati su "Repubblica", "Corriere della Sera" e "La Stampa" la settimana scorsa per comporre un messaggio di ineluttabile dominio.
Il rafforzamento dell'autorità è partito dall'impresa e si è allargato alla società e alle istituzioni, e oggi si alimenta con l'esaltazione della delega ai tecnici e ai professionisti della decisione, lasciando intravedere che solo nella competizione per conquistare posizioni che contano l'individuo può ritrovare lo spazio per realizzare le proprie potenzialità.
La riforma istituzionale - mi riferisco a quella ventilata dalle forze politiche conservatrici - è in sostanza il tentativo di trovare gli strumenti di semplificazione della complessità sociale. Essa manifesta dicevo, connotati autoritari perché non mira a farsi carico delle domande della società allargando l'offerta di partecipazione politica, ma a comprimerle, in quanto si assume come dato che i bisogni sono sproporzionati rispetto alle risorse, e soprattutto che il loro soddisfacimento porterebbe solo spreco e bassa efficienza nell'uso delle risorse.
Il mercato è assunto quale unico parametro dell'allocazione delle risorse, regolatore della produzione materiale e immateriale e anche della produzione politica. Ecco perché, a nostro avviso, si registra quello che lei ha chiamato nella sua introduzione il "predominio dei potentati economici". Predominio che non potrà essere contrastato senza mettere in discussione quei presupposti. Ci si limiterebbe, altrimenti, soltanto a petulare spazi nuovi, mentre si restringono vieppiù quelli vecchi.
Questo deficit crescente di spazi partecipativi per allargare la democrazia nel solco della Costituzione repubblicana è denunciato da scuole di pensiero diverse nell'ambito dello schieramento progressista. Il divario tra potenza, intesa come dinamismo sociale, e potere, inteso come capacità ordinatrice delle istituzioni, per usare il linguaggio di un recente saggio di Ruffolo, che sta riscontrando un certo successo editoriale, ha radici strutturali come quelle da cui ha preso le mosse questa mia riflessione, ma è alimentato e accentuato dalle scelte politiche praticate, ponendo l'accento sul decisionismo, dalla quasi totalità dei partiti.
Nel protagonismo incontrastato del potere economico e nello svuotamento delle istanze partecipative ha preso posto negli anni passati quella che è stata definita la "democrazia consociativa", a cui hanno partecipato con atti e comportamenti concreti tra gli anni '70 e '80 partiti e sindacati della sinistra. E' stata cancellata in tal modo la distinzione tra maggioranza ed opposizione, dando vita, come è stato scritto, ad un parlamento governante e ad un governo legislatore. In questa Regione ahinoi!, non abbiamo nemmeno questo. I mali della cosiddetta "ingovernabilità" risiedono, in altri termini, nella sovrapposizione di poteri che vanno tenuti, invece, ben distinti l'uno dall'altro.
Ma, accanto a queste distorsioni istituzionali, vi è stata e permane la volontà politica di negare nei fatti la partecipazione democratica. Come qualificare altrimenti, se non vogliamo fare discussioni rituali, la pervicace determinazione ad annullare prima il referendum sulla scelta nucleare in Piemonte ed ora quello sull'esercizio della caccia? Le stesse proposte di legge di iniziativa popolare giacciono, quando vengono avanzate dai cittadini, nei cassetti delle Commissioni permanenti del Consiglio oppure (tanto per parlare della nostra assemblea parlamentare e non soltanto di quella che ci sta a 700 chilometri di distanza) vengono respinte con argomentazioni risibili o pretestuose, come avvenne tre anni or sono con quella avanzata da DP per l'abolizione dei ticket sanitari mettendo il dito nella piaga purulenta delle convenzioni d'oro con laboratori e cliniche private.
Colleghi Consiglieri, senza questi riferimenti ai comportamenti concreti, senza andare alle radici strutturali della domanda di riforma autoritaria delle istituzioni che va manifestandosi, non si capirebbe perché vada crescendo, giustamente, il fastidio di molti nostri concittadini per il "sistema dei partiti", un fastidio che alimenta (contraddittoriamente con le istanze di partecipazione) neoliberismo e decisionismo.
Né potranno rovesciarsi le tendenze neocentraliste che hanno registrato un nuovo e preoccupante salto di qualità all'avvio della decima legislatura parlamentare, con l'espropriazione delle assemblee regionali in materia di programmazione territoriale, per quanto riguarda le grandi aree metropolitane, e della salvaguardia dell'ambiente, attraverso l'istituzione di due nuovi Ministeri, i quali - né poteva essere altrimenti - vanno costituendo propri terminali diretti nelle Province, anche attraverso le Prefetture, rilanciando l'organizzazione napoleonica dello Stato centralizzato, proprio mentre più viva ed avvertita si fa l'esigenza di integrare le comunità regionali, come lei stesso ha sottolineato, alla Comunità Europea, anche in vista della caduta delle barriere doganali del 1992.
Il potenziamento del potere legislativo delle Regioni a Statuto ordinario (pensiamo ai temi della politica industriale o del lavoro per interrompere l'odissea inconcludente, di dibattiti, prese di posizioni mobilitazioni che molto spesso assumono impropriamente controparti prive di potere reale) consentirebbe, viceversa, di alleggerire la produzione legislativa di un Parlamento nazionale più semplificato nella sua struttura, attento a definire "leggi-quadro" puntuali e chiare per impedire disparità più accentuate di quanto già non siano oggi all'interno della comunità nazionale.
Questa nostra opzione, signor Presidente, per un regionalismo più marcato si colloca nel solco di un moderno Stato federale, senza il quale sarà vieppiù difficile governare democraticamente società complesse ed esigenti, quale quella nella quale già siamo immersi.
Ed apprezziamo la scelta politica manifestata ancora stamani dal Gruppo regionale comunista del Piemonte - di muoversi risolutamente in questa direzione, superando approcci statalisti dal proprio partito praticati anche nel recente passato.
Auguro a questi compagni di sostenere con successo e fino in fondo questa battaglia (che è innanzitutto culturale) a tutti i livelli politici ed istituzionali, perché ciò indurrebbe tra le altre cose ad una migliore selezione del personale politico che compone le assemblee regionali abrogando, magari (se possiamo riferirci ad una cosa pur così piccola ma forse significativa), quelle norme di ineleggibilità al Parlamento nazionale dei membri dei Consigli regionali, norme di chiara impronta anticostituzionale nell'esercizio di un diritto politico attivo. Ciò rende fra le altre cose, poco fluidificabili esperienze e competenze, finendo per configurare troppo spesso le assemblee regionali come tratto terminale di una "carriera" politica per trovare un posto ed una "pensione d'oro" alla classe politica locale.
Se la causa della delegittimazione del sistema politico e dei partiti risiede nel rapporto bloccato tra le istituzioni e le nuove domande della società, come abbiamo cercato di evidenziare, la rimozione di questa causa può avvenire solo aumentando la trasparenza delle istituzioni rappresentative e l'offerta degli strumenti partecipativi, accorciando le distanze tra i cittadini e il palazzo, come, per riprendere una espressione divenuta retorica, si va ripetendo da tutte le parti.
Risiede qui la nostra convinzione che vadano potenziati gli istituti della partecipazione diretta, i referendum regionali innanzitutto: quelli propositivi intanto, oltre a quelli abrogativi e consultivi. Benché si sia entrati ormai nella seconda parte della legislatura, e nonostante i reiterati impegni manifestati tre anni or sono, nessuna volontà concreta a rivedere lo Statuto regionale in questi punti decisivi si intravede. E temiamo che resterà lettera morta anche nei prossimi mesi questo nostro dibattito.
Stando così le cose, mi consentirà, signor Presidente, di manifestare tutto il nostro amaro scetticismo sulla reale determinazione a muoversi verso le linee di lavoro che lei ha voluto proporci, di cui la svogliatezza dell'assemblea, i banchi vuoti non soltanto del Consiglio, ma anche di un pubblico che si voleva qualificato, testimoniano: non ci sono n parlamentari, né Prefetti, né studiosi, né amministratori, come generosamente lei aveva voluto che fosse. Per l'occasione anche i vigili urbani in servizio nell'aula sono stati dotati dell'alta uniforme, ma non ne è valsa la pena.
Se invece si vorrà invertire marcia, troverete le forze di Democrazia Proletaria impegnate a realizzare un progetto di rigenerazione democratica delle istituzioni rappresentative; una rigenerazione che potrà avvenire, in conclusione, solo rompendo il potere oligarchico dei partiti che è la forma contemporanea dell'alienazione politica, al pari dell'autonomizzazione delle organizzazioni di massa, se pensiamo (e questo a noi duole profondissimamente) alla parabola burocratica dei sindacati dei lavoratori.
A quarant'anni dalla Costituzione, dobbiamo dire chiaro e forte che le forme della partecipazione dei cittadini alla politica hanno subito una vera e propria eterogenesi dei fini: nati per l'emancipazione delle classi subalterne, la grande maggioranza dei partiti è divenuta mezzo di governo e di controllo delle masse dei cittadini.
Su questa strada, signor Presidente, in agguato possono esservi solo tentazioni neoautoritarie: il contrario di quanto i padri della Costituzione vollero, e per il quale il nostro popolo pagò un altissimo tributo di sofferenze e di sangue.



PRESIDENTE

Con l'intervento del Consigliere Staglianò si conclude la prima parte dei lavori odierni del Consiglio, che riprenderanno nel pomeriggio.
La seduta è sospesa.



(La seduta, sospesa alle ore 13,45 riprende alle ore 15,40)



GUASSO NAZZARENO



PRESIDENTE

La seduta riprende.
Riprendiamo il dibattito sulle riforme istituzionali.
La parola al Consigliere Petrini.



PETRINI Luigi

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, il discorso espostoci stamani dal Presidente Viglione, in ricorrenza del quarantesimo anniversario dell'entrata in vigore della Costituzione repubblicana, ha richiamato tutti noi alle annunciate ed auspicate riforme istituzionali, particolarmente rivolte alla situazione delle Regioni e alla crisi che queste attraversano da tempo.
Proprio parlando di istituzioni, i nostri sentimenti sono oggi ancora una volta profondamente turbati. L'assassinio terroristico di un uomo di studio e di pensiero, mite e giusto, il Senatore democristiano Roberto Ruffilli, autorevole Consigliere del Presidente De Mita per le questioni costituzionali e ispiratore della Democrazia Cristiana per i progetti di riforma delle istituzioni, ci turba e ci sgomenta. Dopo il ricordo di stamani del Presidente Viglione anche in questo momento e da questa sede rivolgiamo a lui un commosso pensiero.
Abbiamo più volte evidenziato, in occasione dei Convegni di Venezia prima e di Bologna poi, la presenza di spinte "neocentraliste" miranti a sottrarre alle Regioni compiti e funzioni chiaramente loro affidate dalla Costituzione. Così come abbiamo sottolineato il pericolo che l'intero sistema delle autonomie locali venga riportato alle condizioni di mera articolazione amministrativa periferica delle strutture centrali dello Stato, mortificando il ruolo delle Regioni e degli enti locali.
Non abbiamo tralasciato infine di parlare della conseguente perdita di vigore dello slancio regionalista, anche per specifica colpa della classe dirigente regionale.
Non intendo qui ripetere nella loro completezza - anche per ragioni di tempo - le motivazioni sulla indispensabilità delle richiamate riforme attuabili a livello nazionale per contribuire e consentire soprattutto un nuovo assetto alle autonomie e per ridefinire un nuovo corretto rapporto fra Stato e Regioni.
Occorre fare uscire le Regioni dal cono d'ombra, come giustamente ha affermato a suo tempo il Presidente Goria. Le necessarie innovazioni vanno dall'iniziativa, finalizzata all'ampliamento della sfera dei poteri regionali, di modifica della Costituzione per inquadrare in una diversa visione il ruolo delle Regioni all'instaurazione di un diverso rapporto tra lo Stato e le Regioni, dall'esigenza di un collegamento politico tra le Regioni e il Parlamento europeo alla riforma delle autonomie e della finanza regionale.
Credo che il tempo dedicato alle analisi sia da considerarsi esaurito non solo perché quella delle autonomie locali è una riforma che viene da lontano, ma anche perché il programma del nuovo Governo De Mita la comprende e perché, come si ricordava stamani, nella nuova compagine governativa al Ministro per le Regioni Antonio Maccanico è stato affidato anche l'incarico delle riforme istituzionali.
La consapevolezza dell'esigenza di una rifondazione del sistema regionalistico viene ad avere, dunque, una significativa conferma. Dal nuovo Ministro, noto come uomo attento alla dinamica e alle problematiche delle istituzioni, si attende quindi un impegno preciso per consentire che le grandi riforme regionali, oggi delineate sulla carta, procedano lungo la loro strada e pervengano ad una conclusione.
I concetti sui quali vorrei soffermarmi oggi, dopo gli interventi sentiti, in modo particolare quello del Presidente del mio Gruppo, collega Brizio, sono quelli connessi alle indispensabili iniziative di autoriforma attuabili all'interno della nostra Regione.
A me pare che, considerando le diverse proposte, si renda indispensabile come ipotesi procedurale affidare innanzitutto le modifiche statutarie - nel senso di garantire strumenti di democrazia diretta le modifiche regolamentari, convertendole in senso funzionale, ed il conseguente studio dei predetti problemi alla Commissione Statuto e Regolamento ridefinendone compiti e composizione e prevedendone un funzionamento più agile.
Il Gruppo consiliare comunista, il Gruppo democristiano, così come altri Gruppi politici, hanno presentato delle precise proposte in materia di riforme istituzionali riguardanti concrete iniziative da adottarsi a livello nazionale. In linea di massima siamo consenzienti su tali indicazioni avendo approfondito per lungo tempo tale tematica sia in sede nazionale che locale. Ma se dobbiamo dare il nostro contributo al processo di riforma istituzionale nazionale credo che l'Ufficio di Presidenza del Consiglio sia in grado entro breve tempo (interessata opportunamente per l'esame la competente VIII Commissione) di definire un documento riguardante le possibili proposte del Piemonte agli organi nazionali.
Il tema invece delle riforme interne deve evidentemente essere ancora approfondito, fatta eccezione per la legge regionale delle autonomie, che ha già trovato nella competente VIII Commissione l'unanimità dei consensi.
E' comunque certo che gli obiettivi riguardanti l'arco che si estende dalla trasparenza alla responsabilità, dalla informazione alla efficienza dal decentramento alla partecipazione ci trovano perfettamente concordi.
Occorrono però specifici provvedimenti di revisione o di approfondimento da adottare al più presto e comunque in questa legislatura.
Parecchi argomenti proposti dai diversi Gruppi necessitano di una utile riflessione: non si tratta di differire nel tempo conclusioni operative con tattiche dilatorie, ma di sviluppare meditate considerazioni utili per la migliore definizione dei problemi in essere.
Credo quindi che i colleghi Consiglieri, i Gruppi, la stessa Giunta debbano presentare al più presto proposte autonome concernenti possibili riforme interne che, attraverso corsie preferenziali facilitanti tempi brevi, possano trovare rapida attuazione da parte di questo Consiglio regionale.
Dopo queste premesse e per entrare nell'argomento in termini più precisi, va affermato che il ruolo del Consiglio regionale è indubbiamente di rilevante importanza, tanto dal lato amministrativo quanto da quello legislativo. Il dibattito ora in corso si presta per evidenziare questi aspetti. Dobbiamo porre accanto al Consiglio le Commissioni consiliari organi dai quali dipende la efficace produzione legislativa ed il controllo dell'attuazione della vigente legislazione.
Le Commissioni sono insostituibili sedi di confronto di opinioni e di meditata formazione degli atti legislativi destinati alla comunità che vive ed opera entro i nostri confini regionali.
Ma è necessario aggiungere e sottolineare che occorre una maggiore e migliore disponibilità di strumenti più agili, atti a consentire che i Consiglieri regionali possano conoscere a fondo e in tempi brevi la realtà della Regione e quanto in essa avviene.
Conoscere per controllare come rappresentanti dei cittadini quanto è di comune interesse. Uno studioso come Franco Levi, commentando lo Statuto della Regione Piemonte nel 1976, rilevava la fondamentale importanza di tali funzioni nel nuovo ordinamento regionale.
Non ci si può sottrarre all'esigenza di riordinare l'attuale legislazione e di revisionare l'attuale corpus legislativo regionale per renderlo coerente e agevolmente applicabile in testi unici, eliminando così le numerose leggine microsettoriali. Si impone quindi il potenziamento del servizio legislativo regionale.
Esso deve costituire una valida struttura di supporto tecnico legislativo per i Consiglieri, per tutte le Commissioni e per lo stesso riordino della vigente legislazione. Così come è indispensabile dare vita a specifiche strutture operative che siano di sostegno per la Commissione consultiva per le nomine e facilitino il funzionamento del Servizio per i rapporti con la CEE, oggi assolutamente carenti, come ammetteva e riconosceva l'ultima relazione dell'Ufficio di Presidenza.
La legislazione relativa alle nomine deve trovare una opportuna revisione, così come dovremo riconsiderare tutti gli organismi consultivi in funzione di una drastica riduzione delle nomine stesse.
In sede di Consiglio regionale poi la qualificazione amministrativa sembra smarrirsi in una congerie di nomine, di delibere ordinarie di spesa di osservazioni, di controdeduzioni, di interpretazioni, di revisioni di pareri, di dibattiti stanchi, di ordini del giorno generici, di interpellanze e di interrogazioni di sapore localistico e campanilistico.
Sembra dominare sovrana una "normale" amministrazione senza impennate senza lampi di intuizioni, senza aderenza in tempi reali alla concretezza di quanto un territorio operoso come il Piemonte produce.
In sostanza, il Consiglio regionale anziché determinare l'indirizzo politico e amministrativo della comunità piemontese appare sempre più la sede di un rituale recitato traendone il testo da un copione formale d'altri tempi.
Signori Consiglieri, la Regione Piemonte dopo quasi 18 anni di vita è per dirla con Calamandrei - una rivoluzione mancata o tradita? Non ritengo entrare anche qui nel merito di ciò che ha costituito una non superficiale trattazione in occasione dei recenti Convegni di Venezia e Bologna. Simile esposizione ci porterebbe lontano e ci impegnerebbe per un tempo superiore al consentito.
Tuttavia dobbiamo evidenziare e dire che i meccanismi interni necessitano di essere snelliti. Molto importante è riconsiderare il ruolo della Regione riconducendolo alle sue vere origini di programmazione e di pianificazione ed affrontando quindi i problemi generali delineati entro questi orizzonti.
Non si tratta di amministrare nei dettagli: attraverso le deleghe tali funzioni competono ai Comuni e alle Province. Occorre allora ridisegnare una Regione che programma lo sviluppo della comunità piemontese e che delega e trasferisce con i mezzi finanziari agli enti locali la gestione concreta dei servizi. Occorre maggiore collaborazione tra Regione ed enti locali da un lato e Regioni ed il vertice della struttura statale dall'altro. Un Consiglio regionale quindi inteso come massima espressione politica del territorio, in grado di lavorare per progetti, di delineare strategie, attento alle dinamiche sociali, alle varie articolazioni socio economiche, pronto sui grandi temi ad offrire il proprio contributo di iniziativa e di idee.
In esso maggioranza ed opposizione si confrontano sui programmi e la minoranza esercita il controllo sull'attuazione dei programmi adottati dalla maggioranza.
Il Consiglio poi non può accentrare in se stesso tutto ciò che vi è di politicamente legittimo. La società in cui operiamo infatti è spesso assai più ricca di doti di quanto lo siano i sistemi ed i partiti. Dunque deve essere riconosciuta per quanto vale, per quello che essa è, magari in posizione critica rispetto ai partiti ed alle sedi congeniali della loro espressione privilegiata, quali sono il Parlamento e le istituzioni.
Il Consiglio regionale come organo centrale del territorio di sua competenza deve poi assumere, ripeto, il compito di rilanciare un vivo e stretto rapporto con gli enti locali, le autonomie locali e le comunità interessate.
Appare a tutti infatti come tale rapporto, inizialmente attivato forse più per simpatia insorta tra le istituzioni del governo locale e quelle regionali, si sia con il tempo e la routine scolorito e depotenziato. Anzi qualche volta è persino diventato conflittuale a causa dell'eccessivo burocratizzarsi dei momenti di incontro fra le autonomie di base e quella regionale. Non va dimenticata a questo proposito l'estrema frantumazione delle autonomie locali (1.209 Comuni, 45 Comunità montane, consorzi, bacini di traffico, distretti), situazione che spesso non consente di individuare interlocutori dotati di sufficiente "peso" organizzativo e politico.
Il recupero di un rapporto diretto, prima istituzionale, prima politico, piuttosto che burocratico, deve partire dal Consiglio regionale.
Il Centro di documentazione, previsto dalla legge del 1986, pu attivare un momento di utile raccordo con la società esterna e in particolare con gli enti locali. Ciò permetterà tra l'altro la ripresa e il rilancio di un colloquio indispensabile e qualificato tra Regione e cittadini amministrati, tra Regione e associazionismo locale.
Così come occorre esercitare uno sforzo per individuare un ruolo "politico" del Consiglio che non sia quello di punto di riferimento acritico di qualsiasi componente della società, ma che lo renda capace di scegliere gli interlocutori e di scegliere quegli interlocutori funzionali al suo specifico ruolo istituzionale. Mi spiego con un esempio. Oggi gli interlocutori dell'attività esterna del Consiglio (convegni, comitati vari consulte) sono gruppi limitati: gli europeisti, alcuni gruppi femminili o femministi, alcuni antifascisti, le loro rispettive associazioni, ecc tutti interlocutori capaci e rispettabili. Ma altre forze che contano (sindacati, imprenditori, rappresentanti delle autonomie locali) sono solo interlocutori della Giunta. Con il Consiglio vengono a contatto soltanto per delle formali consultazioni. Occorre allora ribaltare la situazione: in Consiglio sono infatti presenti tutte le forze politiche ed è in questa sede che si forma la volontà della Regione.
Signori Consiglieri, mi sia consentito, prima di concludere, di esprimere ancora una considerazione che vuole essere un augurio.
Mi auguro, dunque, che il lavoro comunitario svolto in questa sede realizzi opere e fatti concreti all'altezza delle tradizioni della storia di un passato.
La Regione ha ancora motivo e merito non solo per esistere, ma soprattutto per giungere a dei risultati positivi contro lo scetticismo di alcuni e il pessimismo di altri. I fatti concreti ci daranno ragione.
L'essere pervenuti nel nostro Paese ad un regime di democrazia non significa affatto avere risolto un problema una volta per sempre e per tutte. La democrazia è una conquista continua, problematicamente e faticosamente riaffermata nella lotta politica e nella sua capacità di incanalare in una corretta dialettica le ragioni, non sempre tra loro in sintonia, emergenti da una società in rapida trasformazione.
Il cittadino piemontese deve sentirsi pienamente rappresentato concretamente e adeguatamente, qui in Consiglio regionale.
Deve avere la certezza che qui si opera per lui, che i suoi problemi hanno qui cittadinanza piena ed una risposta attuale, equilibrata comprensibile.
Il Presidente Viglione nella sua introduzione di stamani si soffermava sulla "sottrazione" di poteri reali alle istituzioni elettive e alla pubblica amministrazione a vantaggio di potentati economici e finanziari a danno degli strati più deboli della società.
Tale asserto può essere vero ed avere peso se le istituzioni sono assenti e se i pubblici amministratori sono inattivi e non operano per la comunità.
Il Piemonte tutto ed in particolare Torino sono tornati indubbiamente ad essere legati ai successi della grande industria. E' questo un fatto non certo negativo, ma tale da far sorgere il rischio che i problemi del momento, originati da una complessità di fenomeni sociali, passino in secondo piano. E ciò non deve avvenire: si tratta di avere sempre nella dovuta evidenza le componenti dei ricordati fenomeni, la cui importanza è davvero notevole. Basti pensare alla disoccupazione, ai problemi dei giovani esclusi dal mondo del lavoro, ai nuovi poveri, ai problemi degli anziani.
Colleghi Consiglieri, quanto ho sin qui espresso, con convinzione intima, ha una piattaforma concettuale che vorrei evidenziare. Si tratta di ricordare il mandato di servizio a ciascuno di noi affidato.
Gli oltre 4 milioni di elettori piemontesi (e comprendo anche i non votanti, perché anch'essi cittadini) ci chiedono l'impegno di servizio che stiamo conducendo.
Servire l'uomo, tutelarne i diritti inalienabili, essere fedeli ai valori dello spirito, che mai tramontano.
Viviamo tempi di dure prove; la libertà è di frequente in stato di sofferenza, la giustizia spesso non si esprime in termini soddisfacenti.
Tanti uomini hanno lottato e pagato di persona; tanti ancora soffrono e temono per la mancata sicurezza. Temono per sé e per le proprie cose temono per il proprio lavoro; ancora tanti giovani non trovano nella democrazia la risposta alle loro legittime attese.
Anche per tutto questo, il nostro impegno deve essere davvero notevole perché alto è il compito che ci è stato affidato. E dobbiamo assolverlo in modo degno perché per noi in definitiva rinnovare le istituzioni significa rinnovare la politica, restituirle il suo senso profondo, restituire soprattutto ai cittadini la speranza.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Majorino.



MAJORINO Gaetano

Signor Presidente e colleghi Consiglieri, entrerò subito nel vivo della tematica dell'odierno dibattito rilevando che sotto il profilo della dimensione e dell'incisività delle riforme istituzionali sono tre le principali tesi politiche che si contendono il campo in materia.
La tesi politica del MSI-DN consiste in un progetto aperto di "Nuova Repubblica" su base presidenziale, tesi che ha i suoi pilastri nel principio di una "partecipazione popolare" vera e reale, quella che, con altra espressione e pur senza pervenire alla medesima nostra conclusione di una nuova Repubblica su base presidenziale, era cara al compianto Senatore Ruffilli allorquando diceva e sottolineava: "al primo posto l'uomo e il cittadino".
La tesi di nuova Repubblica su base presidenziale si ispira - sul versante nazionale - al principio dell'elezione diretta del Capo dello Stato. Ed abbiamo preso atto questa mattina con soddisfazione che il Partito socialista mantiene un suo allineamento sulla nostra proposta, sia pure con visione finalistica, dell'elezione diretta del Capo dello Stato; e in questo senso, e sia pure sotto questo limitato ma rilevante profilo collocandosi sulle nostre posizioni in materia istituzionale che risalgono a vecchia data.
La nostra proposta si ispira poi al principio dell'elezione diretta del Sindaco, del Presidente della Giunta provinciale e del Presidente della Giunta regionale, in maniera da sottrarre alla manovra della partitocrazia la scelta dei vertici non solo dello Stato ma anche degli enti locali.
Questa mattina il Presidente Beltrami ha accennato anche alla possibilità - se non nell'esistente, ma nel futuro e dopo l'opportuna riforma di praticare la strada di un Presidente di Giunta regionale che possa avvalersi anche di Assessori esterni. Penso che questa praticabilità possa diventare reale solo allorquando si entri nella nostra ottica dell'elezione diretta, perché il Presidente della Giunta regionale che viene, in questa maniera, ad avere la legittimazione diretta degli elettori (e senza il diaframma della partitocrazia) può, a sua volta, fare uso di questa fiducia (che gli proviene dagli elettori) attraverso una scelta di possibili collaboratori esterni di propria fiducia politica, diversi da quelli che sono i politici componenti il Consiglio.
Fatta questa messa a punto, proseguo con il ricordare che la nostra proposta di elezione diretta a livello nazionale e a livello di enti locali si ispira inoltre al principio della "rappresentanza integrale degli interessi": con il disporre e prevedere che, sia il Parlamento e sia i Consigli comunali, provinciali e regionali, vengano composti per metà da rappresentanti dei partiti politici (eletti a suffragio universale) e per l'altra metà dai rappresentanti delle categorie.
La nostra proposta si ispira infine al principio dell'introduzione del referendum legislativo-propositivo, accanto ad un migliore congegno del già vigente referendum abrogativo.
La seconda tesi politica, che si colloca su un versante diametralmente opposto alla nostra è, com'è noto, quella che fondatamente possiamo definire "riduttiva" e che parte dal presupposto secondo il quale la Costituzione repubblicana, entrata in vigore l'1 gennaio 1948, "non si tocca" o eventualmente si tocca soltanto marginalmente, in quanto nel suo impianto è tuttora pregevole e valida. La si ritocca cioè soltanto attraverso modifiche ai regolamenti delle Camere, al voto segreto e soprattutto, alla legge elettorale.
C'è poi la terza tesi che possiamo definire intermedia e che accanto a questi ritocchi minoritari e marginali manda avanti proposte dirette a mutare la regola del bicameralismo perfetto e a proporre la riforma della Presidenza del Consiglio.
Queste due ultime tesi, sia la seconda sia quella intermedia, secondo noi, consistono in proposizioni deludenti: non dissimili da quelle cui è pervenuta la Commissione Bozzi la quale, pur avendo lavorato seriamente, ha concluso i suoi lavori con la presentazione di una relazione di maggioranza, all'interno della quale erano peraltro state formulate riserve sia da parte della DC, che lamentava il mancato accoglimento di sue proposte su punti decisivi, sia da parte del PSI che considerava il documento come un mero lavoro preparatorio.
Oltreché una relazione di maggioranza, la Commissione Bozzi ha prodotto ben sei relazioni di minoranza (la nostra, quella dei Gruppi comunista Democrazia Proletaria, Indipendenti di sinistra, Sudtiroler Volkspartei e Unione Valdostana).
Un fallimento, quindi, questo primo esperimento di proposta di riforme in quanto non si è raggiunto l'obiettivo di un largo consenso su un progetto di riforma istituzionale: largo consenso che noi riteniamo che anche in questo momento, sia estremamente necessario, non solo sotto il profilo della opportunità politica, ma anche sotto il profilo della necessità legislativo-costituzionale, in quanto, come è noto, la Costituzione oggi vigente può essere riveduta e modificata soltanto se e in quanto - nella seconda votazione parlamentare di modifica - si raggiunga almeno una maggioranza della metà più uno dei membri assegnati alle due Camere.
Quello che oggi ci preoccupa - dopo questa necessaria premessa sulla nostra proposta e su quelle che sino ad oggi sono state avanzate - è il disegno di fare passare, o meglio di contrabbandare per riforme istituzionali quei tali piccoli ritocchi cui ho accennato e nell'ambito dei quali è però sempre presente la proposta di riforma della legge elettorale.
Riforma che ha - e questo mi pare un dato obiettivo e non solo opinione di nostra parte - lo scopo preciso e ben determinato di fare saltare la regola vigente del metodo della proporzionale pura, metodo che è l'unico cui possa ascriversi un connotato di vera democraticità nella situazione attuale del nostro Paese, laddove e nell'interno del quale abbiamo un notevole pluralismo di opinioni facenti capo a diverse e variegate forze politiche.
E la si fa saltare attraverso due possibili metodi, il primo dei quali è quello di arrivare al sistema uninominale. Ma l'introduzione di un sistema uninominale, nell'attuale realtà politica italiana, provocherebbe fatalmente un bipolarismo (o una coalizione, se la si vuol chiamare con un altro nome) DC-PCI, con conseguente ridimensionamento e mortificazione - e di fatto con una messa alle corde di tutte le altre forze politiche presenti nel panorama nazionale, compreso il PSI.
Ma su questa possibile riforma in senso uninominale ci conforta (come emerge da un editoriale odierno de "La Stampa") la persistente ostilità dell'on. Craxi.
Dopo che ho espresso questa preoccupazione e nel medesimo tempo questo conforto per cui si potrebbe anche non arrivare alla cosiddetta riforma elettorale (forse la più pericolosa di tutti i punti di riforma istituzionale che in realtà è "istituzionale" fino ad un certo punto) rimane una seconda preoccupazione, cioè a dire che la modifica della legge elettorale possa andare in diversa direzione (e ciò è cosa indifferente per il partito di maggioranza relativa): possa cioè ispirarsi alla regola di una legge elettorale proporzionale, ma con il correttivo del premio di maggioranza. Ricordiamo tutti la "legge truffa" che fallì nel 1953. E una riforma in questo senso verrebbe evidentemente a mortificare - di fatto nel Parlamento, nelle Regioni, negli enti locali l'opposizione di destra e l'opposizione di sinistra, oltreché a ridurne la rappresentanza. Penso di dire cosa condivisibile che anche nell'ambito di tutte queste proposte legislative di riforma si debba poi prefigurare, immaginare, antivedere quello che sarà il suo risultato e la sua attuazione pratica: ed è quanto ho cercato di fare.
Quindi noi non possiamo che auspicare quello che diceva - mi pare il collega Ferrara, e cioè che entro l'anno 1988 qualche cosa nell'ambito delle riforme, sia pure a livello minore, si possa vedere: ma che non sia la mera riforma elettorale in uno dei su indicati due sensi, perché non si potrebbe parlare, in tale ipotesi, di una riforma democratica, ma soprattutto non si potrebbe dire che si sia approdati ad una riforma istituzionale.
In linea di principio rimaniamo fedeli e continuiamo a propugnare una riforma istituzionale globale, anche se, con realismo, ci rendiamo conto che questa riforma globale nel senso e nei termini da noi propugnata debba procedere in via graduata, e in via graduata poniamo attenzione alla riforma delle Camere che è stata oggetto di diversi progetti di legge compreso uno di nostra provenienza, dei Gruppi parlamentari del MSI-DN.
Penso di essere rimasto nella tematica in quanto l'odierno dibattito doveva riguardare le riforme istituzionali con riferimento alle grandi riforme statali e con riferimento a quelle regionali. E merita sottolineare che, sia pure in maniera graduata, deve trovare spazio nell'ambito delle riforme istituzionali a livello nazionale una riforma dell'Ente Regione.
Qui ricorderò rapidamente (perché è già stato detto da molti colleghi anche se su certi punti dovrò tornare) che il Convegno di Genova del maggio 1984 e quelli più recenti di Venezia e di Bologna hanno messo in evidenza ancora una volta, che le Regioni non hanno saputo o potuto svolgere il ruolo loro assegnato. Sono le parole che a chiare note si leggono anche nella relazione di questa mattina del Presidente del Consiglio regionale.
A questo proposito Massimo Severo Giannini, che a ragione è stato considerato unanimemente, senza distinzione di parte - oserei dire - un padre storico del regionalismo in Italia, ha definito nel congresso di Genova del 1984, non certo con compiacimento, ma sicuramente con senso di dolore, le Regioni dei "mezzi cavalli dominati dalla partitocrazia". Con uno sviluppo di questa battuta (che purtroppo, a giudizio del Giannini, e non solo suo, rende l'idea) il Presidente della Commissione bilaterale per le questioni regionali tuttora in carica, il Senatore Barbera, si è recentemente espresso (leggo dal testo "Autonomie" del dicembre 1987) in questi termini: "Perché le Regioni possano decollare è necessario il rinnovamento del sistema politico regionale che finora ha amplificato e ripetuto i guasti di quello nazionale per mancanza di progettualità generale e a causa dell'occupazione degli spazi amministrativi da parte dei partiti".
Mi pare che con questa definizione di sintesi venga espresso tutto quello che si può dire (magari con un maggiore uso di espressioni, di concetti e di parole) sulla dissestata situazione attuale della Regione.
Noi, che fummo peraltro dei sinceri e convinti antiregionalisti, a suo tempo, in quanto ritenevamo che l'istituzione delle Regioni fosse una mina fosse una scheggia nel corpo dello Stato unitario, oggi, convinti che questa esperienza non può evidentemente che sopravvivere e persistere siamo dell'opinione che le Regioni debbano sopravvivere, anzi, vivere nel migliore dei modi, che debbano essere rifondate e debbano decollare, così come si è espresso il Senatore Barbera.
Per additare, in sintesi, le concause del fallimento dell'esperienza regionale, non possiamo che ravvisarle principalmente nella carenza del Parlamento ad elaborare le leggi-quadro: e su questa linea riprendo un concetto espresso poc'anzi dal Presidente Beltrami, il quale ha ricordato che c'è stata questa carenza non solo nei confronti delle leggi-quadro, ma anche nei confronti di tutti gli adempimenti che erano stati espressamente previsti dal DPR n. 616; tant'è che, come egli ha ricordato, solo le leggi quadro in materia di sanità, turismo e artigianato sono quelle che hanno avuto vita e che sono entrate in vigore.
Altra concausa centrale e fondamentale del fallimento dell'esperienza regionale è quella che tutte le Regioni, compreso il Piemonte, hanno prevalentemente amministrato e gestito le proprie competenze: e questo in aperta violazione di una norma contenuta nella vigente Costituzione.
Infatti l'art. 118 della Costituzione stabilisce che la Regione esercita "normalmente" le sue funzioni amministrative delegandole alle Province, ai Comuni e agli enti locali. Identico concetto, com'è noto, è espresso nello Statuto della Regione Piemonte: ma anche l'esperienza piemontese dimostra che ci si è ispirati alla regola della delega normale agli enti locali in maniera esattamente capovolta. Infatti è "normale" che la Regione gestisca e amministri ed è "eccezionale" che deleghi.
C'è stato poi il tentativo di Governo e Parlamento di invadere la sfera di competenza regionale, attraverso l'emanazione di provvedimenti amministrativi e legislativi di invasione delle loro competenze, con il conseguente noto contenzioso davanti alla Corte Costituzionale: cosa che è stata agevolata anche dal fatto che l'art. 117 della Costituzione, come già è stato messo in evidenza nel corso di qualche intervento di questa mattina e come ha sottolineato nei Convegni di Genova e di Venezia il prof.
Giannini, ha attribuito le competenze alle Regioni per materia anziché "per funzioni".
Una ulteriore concausa, non ultima, è il fenomeno della incomprensibile reiezione di leggi regionali da parte del Governo, o meglio comprensibili attraverso una rivendicazione di una sorta di neocentralismo. Ai fini di censurare questo neocentralismo il Presidente Viglione, il Presidente Beltrami e altri Consiglieri hanno emblematicamente ricordato che è stata respinta per due volte da parte del Governo quella nostra legge di riordino delle autonomie nel territorio della Regione Piemonte. Ma questo è da noi rigettato.
A questo proposito riteniamo, come abbiamo già avuto modo di esprimerci con le nostre relazioni di minoranza, che le colonne d'Ercole non si possono superare. Infatti, in materia, non ci pare legittimo che possano le Regioni istituire un quarto livello di ente locale, prevedendo (nell'ambito del riordino) le Assemblee dei Sindaci. Né mi si può fondatamente obiettare che un tempo esistevano i Comprensori, che l'Assemblea dei Sindaci vuole riprendere la vecchia esperienza dei Comprensori, che sulla legge istitutiva dei Comprensori nessuna obiezione venne sollevata a suo tempo nel 1975; e che oggi, incomprensibilmente, vengono mosse obiezioni da parte del Governo alla legge regionale che prevedeva da un canto un cospicuo numero di normative dirette ad attuare la delega dalla Regione agli enti locali, ma che conteneva nel contempo anche quella per noi famigerata "Assemblea dei Sindaci" che ha le caratteristiche di un vero e proprio quarto livello.
Non può, quindi, a nostro avviso, condividersi quella espressione esposta nella relazione di maggioranza là dove si diceva: "La legge sui Comprensori è stata approvata senza problemi e oggi, in base a un neocentralismo e a un neostatalismo, si blocca la legge che prevede l'Assemblea dei Sindaci". Va ricordato a questo proposito che i Comprensori erano previsti nello Statuto regionale, che venne approvato con legge dello Stato; mentre le Assemblee dei Sindaci, questo neo quarto livello, non è previsto da nessuna disposizione di legge né dallo Statuto. Può anche darsi che - per avventura e per ipotesi assurda - ci sbagliamo nel merito, che sia una esperienza che potrebbe essere positiva: ma allora l'istituto dell'Assemblea dei Sindaci dovrà essere previsto nella legge statale di riforma delle autonomie locali. Né ci si venga a dire: "il Governo ha bloccato anche quel complesso di norme che prevedevano la delega agli enti locali" in quanto le obiezioni governative alla legge regionale sul riordino delle autonomie piemontesi riguardavano solo l'Assemblea dei Sindaci e non tutte quelle norme che riguardavano il processo delle deleghe: norme nel complesso condivisibili e che anche noi avremmo potuto votare favorevolmente, tant'è vero che nell'ambito dell'VIII Commissione venne espresso un sia pur cauto apprezzamento.
Altro punto di concausa del dissesto delle Regioni è quello che è stato messo in luce da tutti gli altri colleghi che mi hanno preceduto e che riguarda l'esistenza di una finanza regionale derivata, ingessata, che blocca in origine le iniziative anche di quei governi regionali che sanno essere propositivi.
Riteniamo che per porre fine a questo stato di cose, per arrivare quindi ad un rilancio, o meglio, a un ridecollo delle Regioni, si debba innanzitutto partire, sul piano di riforme istituzionali propositive, dal non rinunciabile presupposto di fondo che la Regione ha da essere la proiezione dello Stato unitario. Su questo presupposto politico di fondo è necessario varare delle proposte di riforma che ruotino intorno a questi principi fondamentali: cioè che la Regione ha da essere un ente ricostruito e reindicato come ente che, nell'ambito delle competenze assegnatele attraverso il criterio della funzione e non della materia, legifera e programma sul Piano socio-economico; e che i soggetti destinatari della gestione delle leggi regionali e della programmazione regionale sono gli enti locali territoriali, attraverso il conferimento di una specifica e motivata delega ad hoc da parte della Regione, la quale poi - nell'ambito di questa delega - provvede a controllare la effettiva e puntuale correttezza delle gestioni delle proprie leggi e della propria programmazione. Siamo anche noi d'accordo nella necessità che sia indilazionabile - a livello di legge nazionale la riforma delle autonomie.
Non va dimenticato che il primo progetto (mi pare fosse il progetto Scalfaro) risale al 1983, ma è tuttora in alto mare. E questo progetto di riforma ha da coinvolgere, prima ed avanti ad ogni cosa, con chiarezza, il rapporto Regione-enti locali.
E' poi necessaria per l'Ente Regione la certezza delle risorse disponibili, essendo altrimenti impossibile programmare con respiro pluriennale o anche solo annuale: anche se la soluzione di una tale problematica coinvolge il delicato rapporto tra autonomia impositiva regionale e riforma fiscale.
Siamo infine dell'opinione che sia necessario un rapporto organico fra Parlamento e Regioni, attraverso il potenziamento della Commissione bilaterale per le questioni regionali, che deve divenire filtro tra Parlamento e Regioni.
E' necessario infine che la Commissione bicamerale sia veramente l'anello di congiunzione fra Regioni e Parlamento, affinché preliminarmente le leggi di inquadramento di singoli settori, e comunque a valenza regionale, possano (con il concorso partecipativo dei rappresentanti in tale sede delle Regioni) fruire di un giudizio di impatto regionale con la legislazione nazionale.
Queste ora additate sono le linee fondamentali che a nostro avviso dovrebbero presiedere ai fini di un vero e reale rilancio della Regione.
In questa fase del dibattito, anche ai fini di non sottrarre tempo ai prossimi interventi, il Gruppo MSI-DN non si esprime su quelle che sono state definite le "riforme interne": anche se devo riconoscere che tutte le elencazioni di possibili riforme interne che si leggono nel documento del Gruppo comunista e che si leggono nell'ordine del giorno del Gruppo DC sono meritevoli di attenzione e di discussione. Sulle stesse ci collocheremo ed esprimeremo la nostra opinione in prosieguo in quanto riteniamo che - per le riforme istituzionali di competenza del Parlamento nazionale e riferite all'Ente-Regione - i tempi tecnici saranno ancora molto lunghi, ma che si debba frattanto procedere con un riordinamento dell'esistente della realtà istituzionale piemontese, attraverso un esame sereno e critico (comunque propositivo) e comunque con l'intenzione di dare un apporto a tutte le questioni che sono state poste nei due documenti cui ho accennato e che come detto - consideriamo degni di attenzione, ma in guisa di "agenda" di problematiche da approfondire.



VIGLIONE ALDO



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Pezzana.



PEZZANA Angelo

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, uno dei leit motiv più comuni che ho sentito da quando sono in quest'aula recita più o meno così: "Ho seguito con molta attenzione quello che gli oratori che mi hanno preceduto hanno affermato" oppure "Ho letto con molta attenzione il documento del Presidente del Consiglio, del Presidente della Giunta, dei Capigruppo...".
Questa mattina seguendo le istruzioni che ci erano state date durante la riunione dei Capigruppo di venerdì scorso ho preparato le mie sei cartelline per stare nel quarto d'ora che era stato affidato a ciascun Gruppo, anche un po' preoccupato della platea che avremmo avuto perché, se avevo capito bene, oggi dovevano intervenire autorità istituzionali non solo regionali, ma provinciali, comunali, doveva essere una platea talmente ricca che a qualcuno, anche al sottoscritto, era venuto in mente di chiedersi se sarebbero bastati i posti a sedere.
Questa mattina vedendo che i minuti passavano e che la platea continuava a rimanere vuota ho modificato quella che è in generale l'attitudine dei Consiglieri di "seguire attentamente", "leggere con attenzione" e ho cominciato invece a guardare con attenzione il comportamento dei miei colleghi Consiglieri. Mi sono chiesto: "se un dibattito come quello odierno non ha richiamato nessuno, un motivo ci deve essere" e ho attentamente riflettuto sui comportamenti (questa non deve essere una critica alle persone, ma una valutazione di carattere generale) e ho notato che persino dal primo intervento del Presidente del Consiglio non solo la disattenzione e il rumore, ma il disinteresse erano pressoch totali e questo è continuato fino a pochi minuti fa, sia che parlasse il Presidente di un Gruppo politico, quindi disinteresse quasi totale da parte dei facenti parte del Gruppo stesso, sia che parlasse qualche altro Consigliere; in generale l'atmosfera di quest'aula era quella di un'udienza totalmente disinteressata di quanto si stava dicendo.
Ho pensato al mondo dello spettacolo, detto senza irriverenza perché ho molta stima del mondo del spettacolo, credo sia una forma di produzione culturale e manageriale come tante altre, e ho pensato a noi tutti insieme come ad una compagnia teatrale che agiva in un teatro che non solo non era stato affittato, non solo era di proprietà altrui, non acquistato, ma ricevuto in donazione senza aver neanche pagato le tasse, senza avere quindi problemi né di regia, né di pubbliche relazioni, né di ufficio stampa e nemmeno di platea, di galleria, di pubblico pagante. Noi continuiamo a recitare senza porgere la minima attenzione se quanto diciamo viene ascoltato almeno dai nostri stessi colleghi.
E' l'impressione molto frustrante che ho ricavato da questa giornata che mi impedisce di leggervi le mie sei cartelline, il compitino che più o meno abbiamo fatto tutti, perché mi sentirei a disagio nel parlare e nel leggere. Mi sembrava che l'occasione fosse importante non per esprimere concetti politici superficiali, ma per valutare frase per frase, concetto per concetto, per esprimerli in modo giusto. Ricordo di averne parlato con Rinaldo Bontempi quando ero andato nel suo ufficio per capire qual era l'intenzione che stava alla base di questa giornata. Non capivo il perch di tutto questo. Oggi la mia reazione di fronte a quanto ho visto e sentito, di cui sono profondamente partecipe, è tale per cui vi faccio grazia di leggervi le sei cartelline - lo dico in tutta modestia - non perché fosse un bel compito, ma perché credo non abbia nessun rilievo in questa giornata visto che non solo non ha interessato all'esterno le istituzioni, ma non ha coinvolto e interessato nessuno di noi. Questa è la verità e ve la comunico così come l'ho avvertita.



PRESIDENTE

Stamani erano presenti molteplici rappresentanze del Commissario del Governo, dei Prefetti delle varie Province. L'intento non era tanto quello numerico, che avremmo raggiunto sempre, ma era di avere una rappresentanza qualificata soprattutto questa mattina, quindi non ci proponevamo di avere un pubblico numeroso. Tanto più, collega Pezzana, respingo l'idea che questo Consiglio possa essere un'assemblea alla Goldoni, per non dire altro. Credo che lei abbia visto "L'impresario delle Smirne" nella bella edizione di Strehler dove perdono la nave perché l'impresario turco era partito. Qui non c'è una nave che parte e tanto meno un impresario turco che lascia i guitti sulla banchina. Non siamo guitti.
La parola al Consigliere Marchini.



MARCHINI Sergio

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, i liberali pongono a questi problemi grande attenzione sulla linea della loro tradizione perché - non me ne vogliano i repubblicani riteniamo che, almeno in questo nostro Paese il Partito dello Stato sia il Partito liberale. Potremmo su questo disputare, ma è certo che tra le composizioni metapolitiche di Mazzini e la lucidità di statista di Cavour un po' ci passa: quindi riteniamo di avere titolo a qualificarci ancora come eredi di una tradizione che vede al centro dei problemi politici i problemi dello Stato.
Siamo anche un Partito che, contrariamente a quanto ha lasciato nella memoria di molti di noi una polemica degli anni '60-'70, è stato nei suoi uomini migliori, da Cavour a Einaudi, genuinamente e non strumentalmente regionalista. Il nostro Gruppo introduce in questo dibattito alcune questioni che vanno un po' controcorrente. In primo luogo, quando si pone una questione istituzionale, che normalmente si dovrebbe dire costituzionale? Si pone una questione costituzionale quando il patto tra i cittadini è in crisi. La Costituzione non è la compressione di una maggioranza su una minoranza, è un patto che i cittadini legano tra se stessi. E questo patto entra in crisi, quindi si cambia costituzione, in due ipotesi: la prima, quando la società che ha scritto il patto entra in crisi e quindi perde sostanzialmente la legittimazione, la titolarità dell'assetto, si va quindi a un processo rivoluzionario in cui si scambia il ruolo tra gli elementi della società e quindi si fa una Costituzione coerente all'impostazione politica del soggetto politico che ha prevalso nel momento rivoluzionario. In questo caso la Costituzione entra in crisi viene messa in discussione in un processo di crisi della società.
Esistono poi altri casi. Esiste il caso in cui la società che ha espresso una Costituzione cresce, si sviluppa sulla linea dei valori che ha scritto in quella Costituzione, ma cresce e si sviluppa talmente che le regole che quel sistema di società ha scritto sono inadeguate rispetto allo sviluppo dei valori che sono all'interno della Costituzione. Mi rendo conto che ci sono molte altre cose sulle quali riflettere.
Il primo interrogativo che pongo è: chiediamo la modifica del quadro istituzionale perché la Regione è in crisi, nel senso che ci vuole qualcosa di diverso, o perché la Costituzione è superata da esigenze dello stesso segno? Questa risposta non è da poco, cari amici. Questa risposta vuol dire, per esempio, decidere di dare ragione a chi parla di fallimento delle Regioni o a chi magari provocatoriamente potrebbe immaginare che invece le Regioni hanno fatto molto di più di quello che vuol essere il disegno costituzionale e la cultura che c'è all'interno della Costituzione. Mi permetterò di sviluppare questa ipotesi.
Come sciogliamo questo dilemma? Se siamo di fronte a una domanda forte di una certa Regione, rispondiamo in un certo modo, se invece riteniamo di essere di fronte a un rifiuto della Regione, dobbiamo rispondere in un altro modo. Su questa riflessione vi richiamerò più avanti. Questo attiene all'aspetto istituzionale e costituzionale.
Sappiamo però anche che ogni volta che si mette in discussione il patto tra i cittadini, c'è comunque, anche se in termini di sviluppo e non di crisi del sistema dei cittadini e della società, un elemento politico che muove il processo di dibattito costituzionale (o istituzionale come a mio modo di vedere impropriamente si dice), che è semplicemente quello di avviare attraverso un meccanismo diverso un processo che con l'attuale meccanismo sembra difficile da avviare, quello dell'alternativa. Questa è la verità. Ci sono anche i corollari in termini di efficienza, in termini di produttività del sistema, così come è stato scritto quarant'anni fa, ma di fatto in questo momento si rimprovera a questo sistema, così come è stato scritto quarant'anni fa, di rendere difficile l'avvio del processo di alternativa fra blocchi o forze politiche contrapposte nel governo della società italiana. Se siamo convinti che questo sia il problema e che quindi la questione elettorale sia finalizzata a questo, la questione del voto segreto sia finalizzata a questo, il ruolo del Presidente del Consiglio sia finalizzato a questo, il bicameralismo sia all'interno di questa problematica; ho l'impressione che dobbiamo porre all'interno della nostra riflessione sulle questioni regionali una questione di rilievo politico non soltanto di ordine gestionale o regolamentare. Altrimenti sembrerebbe del tutto improprio porre questa questione con il titolo ambizioso e problematico che ci siamo posti: "Dibattito sulle riforme istituzionali".
Esiste, bisogna trovare, e se non c'è, dopo averlo cercato, un problema politico vero, probabilmente bisogna completamente cambiare l'ottica con la quale guardiamo questi problemi.
Sono premesse che sembrano fastidiose e fuori luogo, ma che ritengo di dover fare perché anche dalla lettura dei documenti che ci sono stati sottoposti e dalla quasi totalità degli interventi ho sentito ripetere molti luoghi comuni ai quali ci siamo affezionati.
Per capire se le cose che ci diciamo e sentiamo dire sono vere o sono luoghi comuni io e gli amici del Gruppo abbiamo ritenuto di seguire il metodo più corretto, quello dell'analisi delle fonti per cercare di capire che cosa i costituenti pensavano delle Regioni. Ci siamo anche chiesti se i problemi che abbiamo oggi di fronte ci fossero quarant'anni fa, che tipo di risposta si è data e se è o non è adeguata, quindi, se nel dibattito esistano solo elementi di novità. E non anche elementi di continuità.
Abbiamo tratto la conclusione che la riforma regionalistica nella nostra Costituzione è assolutamente incompiuta o per meglio dire è stata strozzata in sede di assemblea costituente. Non abbiamo potuto dedicare il tempo che questo problema avrebbe meritato, però l'esame dei testi, degli artt. 117 e seguenti della Costituzione e del dibattito su queste modifiche è estremamente istruttivo. Ci dicono come tutte le questioni che abbiamo di fronte fossero già presenti ai padri costituenti e devo dire che gli stessi costituenti con grande cinismo le hanno risolte tutte contro la Regione e hanno quindi rassegnato alla storia, alle istituzioni una Regione molto diversa da quella che c'è nella testa della gente.
Dobbiamo prendere atto che noi abbiamo lasciato crescere un'immagine della Regione che è diversa da quella che è nella realtà dei nostri poteri e delle nostre funzioni. Ho l'impressione che rischiamo di confondere un rifiuto della Regione che è apparente, che non piace a nessuno, in primo luogo a noi, con quello che invece è nella realtà, un desiderio della gente che ci sia una Regione di un certo tipo. Se scegliamo questa seconda strada è evidente che il seguito del nostro ragionamento dev'essere non tanto di tipo correttivo quanto di tipo rivendicativo.
I documenti che sono stati depositati sono di carattere correttivo mentre noi dobbiamo porre al centro della questione istituzionale un problema politico che è per sua natura rivendicativo. Si pone una questione politica quando si chiede una funzione, un ruolo rispetto ad un soggetto che contesta la legittimità di questa richiesta.
Cari amici, queste questioni sono state poste nei lavori del '47 e si sono date le risposte; rispetto a queste ci dobbiamo misurare.
Prima questione. Si dice che noi siamo ente legislativo. Niente di più sbagliato. La legislazione è l'espressione dell'imperio e della sovranità quindi per sua natura non soffre aggettivi. Luigi Einaudi alla Costituente dichiarò testualmente: "Non vi è dubbio che alle Regioni competa l'attività legislativa esclusiva". Ora sappiamo che alle Regioni a Statuto ordinario non è stata riconosciuta la legislazione esclusiva. Quindi, cari amici, noi non siamo un ente legislativo, ma un ente che ha poco di più che una funzione regolamentare.
Allora cominciamo a pensare di rispondere ai nostri detrattori lasciando cadere un po' le penne del pavone e dicendo che noi non abbiamo una funzione legislativa vera, ma abbiamo una funzione regolamentare vestita con le penne del pavone e che siamo portati a chiamare legislativa.
Nel dibattito alla Costituente anche Togliatti tendeva a chiarire questo.
Questa non è una posizione di parte; lo chiarì l'on. Aldo Bozzi, che propose un emendamento che suggeriva che la funzione legislativa della Regione fosse esattamente quella che poi è stata scritta nella stesura definitiva. Curioso è che l'emendamento Bozzi venne bocciato ed ebbe, tra quelli che votarono contro, Einaudi. Questo significa che i padri costituenti sapevano benissimo che la prima questione da porre era se doveva essere riconosciuta alle Regioni una funzione legislativa esclusiva o una funzione regolamentare. Su questo si pronunciarono tutti in modo estremamente franco. Bontempi ha voluto ricordare che anche allora ci fu una identità di opinioni tra un illustre liberale, Einaudi, e un illustre comunista, Togliatti, i quali si preoccuparono di chiarire che, comunque andavano introdotte delle norme che vietassero delle leggi di natura finanziario-fiscale che potessero compromettere la libera circolazione degli elementi economici della società.
Si vede una differenza significativa: Togliatti si preoccupa del fatto che questo meccanismo possa creare dei problemi al Mezzogiorno, Einaudi ritiene che questi elementi possano impedire l'avvio di realtà sovracomunali. Basterebbe questo per dirvi come i problemi che abbiamo di fronte erano quarant'anni fa individuati negli elementi che sono ancora oggi di fronte a noi.
La realizzazione delle Regioni, basti ricordare le vicende della passata legislatura in termini di riequilibrio socio-economico tra Torino e la Regione e tra la nostra e le altre Regioni, è un problema che la sinistra vede ancora e soprattutto in questi termini. Qualche liberale continua a pensare che le Regioni si devono misurare come elemento del puzzle delle realtà sovranazionali e non devono essere viste come elementi rivendicativi all'interno del nostro sistema. Abbiamo illustrato l'aspetto legislativo che non è quello che si dice.
C'è poi l'aspetto del rapporto con gli enti locali.
Il primo testo portato davanti alla Commissione ignorava l'esistenza della Provincia. Lo Stato si ripartiva in Regioni e Comuni. Con un primo emendamento si scrisse che la Provincia è strumento di decentramento amministrativo della Regione. Si sono fatti altri passi e la stesura definitiva è quella che vedete. Questo sta a indicare che, già allora come adesso, si poneva il problema serio di come distribuire tra i diversi enti locali le competenze di natura amministrativa. C'è un intervento del Mortati che quarant'anni fa suggeriva di trasferire al Comune molte competenze delle Province.
Il problema quindi del ruolo della Regione nei confronti degli enti locali era un problema aperto, si è dibattuto e si è chiuso in modo non cinico, ma evasivo, nel senso che si è lasciata una norma molto generica che chiede alla Regione di realizzare il decentramento amministrativo.
I comunisti nel loro documento auspicano delle iniezioni di federalismo nell'istituto regionale. Devo ricordare che Togliatti depositò un rigoroso e stringato ordine del giorno con cui chiedeva che si negasse l'introduzione di qualunque elemento federalistico all'interno del meccanismo regionale. Ci fu battaglia su questo e l'emendamento fu bocciato, però poi nella realtà questo venne a realizzarsi.
Cari amici, dire che noi abbiamo potestà legislativa è quanto meno azzardato. Dire che esiste un quadro preciso di riferimento agli enti locali è altrettanto azzardato.
Restano da esplorare alcune questioni in ordine a quella che doveva essere la funzione della Regione. Mi pare che qui ci stia in pieno invece il giudizio sempre dato da Togliatti, il quale, nell'ordinamento che era in discussione, suggeriva di non tentare di fare del federalismo dicendo che si faceva il decentramento: non si faceva né l'una né l'altra cosa, ma si faceva solo un pasticcio.
Ogni forza politica giudicherà se sia stato bene o no muoversi nel senso della riforma regionalistica.
Per esempio, Einaudi suggerì il trasferimento alle Regioni di ampie funzioni gestionali. Un suo intervento conclude affermando che il trasferimento allo Stato dell'istruzione era una delle più grandi iatture del nostro Paese e riteneva che alla Regione dovesse essere trasferita tutta la materia che riguardava l'istruzione e in genere la cultura. Così non è stato. Abbiamo citato due personaggi illuminati, ma ce ne sono altri come per esempio Lusso, che fece una dichiarazione molto interessante anticipando in qualche modo il nostro dibattito e rivendicando alla rivoluzione regionalistica, non tanto un obiettivo di ordine razionale, ma un obiettivo di natura politica, quello cioè di realizzare un sistema democratico più avanzato.
Il vero problema che oggi è sui nostri banchi, è su quella funzione che dice che la Regione è la rappresentante degli interessi locali.
Questo ragionamento lo si ritrova nella lettera molto lucida che il Ministro Vizzini, lasciando il Ministero, scrive agli amministratori regionali nella quale ci mette in guardia da alcuni atteggiamenti velleitari che ci rimprovera, quello di chiedere risorse e quello di chiedere competenze e ci suggerisce invece di rivendicare un ruolo politico. E' esattamente quello che nella prima stesura della Carta Costituzionale era ipotizzato.
Questo è il nucleo forte, questa è la questione centrale attorno alla quale ruota tutto.
Cari amici, ho fatto questo excursus per aiutarvi e soprattutto per aiutare me stesso e i miei colleghi di Gruppo a sciogliere nel modo migliore il dilemma che abbiamo di fronte. Dobbiamo coprirci il capo di cenere perché abbiamo male amministrato un patrimonio di volontà politiche che i costituenti ci hanno lasciato oppure abbiamo lavorato in un sistema compromesso da troppi compromessi? Questo è l'interrogativo che ci dobbiamo porre. Quindi le assenze di oggi come devono essere interpretate? Devono essere interpretate come una condanna al nostro mancato adempimento o come una non capacità di far crescere una Regione al di là della dimensione che la Carta Costituzionale ci ha lasciato e che noi abbiamo qualche difficoltà a riconoscere. Cerchiamo sempre dei valori delle enunciazioni nuove e avanzate che riempiono la bocca e che non significano niente.
In tutto il dibattito alla Costituente, ad esempio, non si parla di quello che ancora oggi qui è stato chiamato il valore centrale delle Regione: la programmazione. La prima volta che si parla di programmazione è nel DPR n. 616 nel luglio 1977. Vi leggo questo articolo e mi rivolgo soprattutto alla Giunta. Il DPR n. 616 non riconosce e non istituisce una funzione programmatoria delle Regioni, ma chiama le Regioni alla programmazione dello Stato.
Se però la programmazione dello Stato non esiste, a questo punto chiedo come si possa interpretare oggi, dichiarando che noi possiamo svolgere un'azione programmatoria, l'art. 11 che dice "lo Stato determina gli obiettivi della programmazione economica nazionale con il concorso delle Regioni". Gli Assessori alla programmazione mi diranno quando sono stati chiamati a concorrere con lo Stato a determinare gli obiettivi della programmazione.
E ancora: "Le Regioni determinano i programmi regionali di sviluppo in armonia con gli obiettivi della programmazione economica nazionale e con il concorso degli enti locali territoriali secondo le modalità previste dagli Statuti regionali". E qui casca l'asino! Noi abbiamo preso il secondo comma di questo articolo, l'abbiamo o cerchiamo puntualmente di osservarlo facendo un Piano di sviluppo e chiamando nei limiti della nostra disciplina statutaria e regolamentare gli enti locali a elaborare questo "libro dei sogni".
Mi chiedo perché in quest'aula non si ha il coraggio di dire che i libri dei sogni sono la programmazione regionale, non per ragioni politiche, ma per ragioni strutturali, per ragioni istituzionali.
La programmazione a nostro modo di vedere tornerà ad essere uno degli scenari sui quali si dovrà muovere la Regione quando si saranno riverificate le condizioni per cui l'attività programmatoria si deve avviare; e probabilmente si deve avviare un processo con cui, recuperata la funzione politica della Regione, a seguito della risposta della rivendicazione politica, saranno dati alla Regione poteri sulle questioni di sua competenza e su alcune competenze dello Stato e degli enti locali tali da poter disegnare una programmazione di livello regionale, perché la programmazione di livello nazionale è un obiettivo che nessuno si sogna più di perseguire. Non c'è più da nessuna parte.
Cari amici, la lettera di Vizzini mi sembra quanto mai attuale. Le manifestazioni di disattenzione nei nostri confronti dobbiamo avere il coraggio di considerarle per larga parte la conseguenza di nostre insufficienze, ma devono per larghissima parte essere ricondotte a un quadro costituzionale del tutto inadeguato e superato rispetto alle aspettative di crescita degli enti locali.
Noi dobbiamo decidere se la Regione deve porsi alla testa di un processo politico di rivendicazioni nei confronti dello Stato di una serie di funzioni, di poteri e di un sistema degli enti locali che sia una risposta adeguata a questa nuova società che ritiene che gli enti locali debbano avere un ruolo diverso da quello che c'è scritto nella Costituzione. La Regione ha fatto di più di quello che poteva fare.
Certamente l'interpretazione che hanno dato gli amministratori regionali è di gran lunga più regionalista di quanto non sia il dettato letterale della Costituzione, che va letto comunque politicamente attraverso il pensiero di chi l'ha scritto.
Quindi, a noi sembra che debba essere posta la questione della funzione politica della Regione, immaginando che la Regione deve essere già pensata come un elemento di carattere transitorio, flessibile e finalizzato a diventare elemento delle Regioni d'Europa.
L'Europa e il disegno sociale, economico e culturale che c'è dietro il discorso europeo non si fonda sugli Stati, ma si fonda sulle Regioni che nascono dal coagulo delle aree omogenee, degli interessi compatibili che circolano sul territorio. E' quindi evidente che non possiamo attestarci ad una integrazione costituzionale delle norme costituzionali, che sono diverse da quelle che noi siamo abituati a pensare; probabilmente dobbiamo avviare una questione che ci dia un quadro istituzionale che salti a piè pari alcuni decenni di storia e metta le Regioni in genere, e la Regione Piemonte in particolare, nelle condizioni di autonomia, anche politica, e di ricchezza di competenze tali da poterle far diventare davvero elemento all'interno della costruzione delle Regioni d'Europa.
Se così non sarà e se non immaginiamo una Regione Piemonte che al 1992 o poco prima o poco dopo sarà in grado di fondersi sul piano delle decisioni con le decisioni delle Regioni del Rhone e Hautes Alpes, il ruolo della Regione Piemonte sarà nullo.
La Lombardia tenderà a legarsi fortemente con le Regioni più affini in termini socio-economici per attrezzarsi adeguatamente, ad esempio, nei collegamenti veloci che probabilmente non devono essere cercati con Parigi e neanche con Roma, ma che devono essere soprattutto realizzati all'interno di quell'area forte dell'Europa centro-occidentale che si sta costruendo intorno alla dorsale delle Alpi occidentali.
Questo è il contributo che la parte liberale vuol dare a questo discorso.
Bisogna avviare una fase di riflessione e di autoriforma, come è stata chiamata. Noi qualche contributo l'abbiamo dato e continueremo a darlo.
Bisogna immaginare una riforma che interessa lo Stato, non disarmonica rispetto all'obiettivo di avere una Regione diversa, ma la questione regionale va posta in termini propri, non in "relazione a".
Non basta dire: "Vogliamo il Senato delle Regioni, vogliamo la conferenza delle Regioni", bisogna dire che vogliamo una Regione diversa la quale, perché giustifichi il suo essere, deve avere una ragione politica. Probabilmente bisogna rimettere sul tappeto la questione posta dal Ministro Vizzini e scritta dai primi costituenti, quella cioè che la Regione fosse riconosciuta il normale portatore rappresentante degli interessi locali.
D'altra parte, nei nostri contatti con la società civile che cosa avvertiamo? La consapevolezza che non la rappresentiamo. Gli interpreti sono i nostri colleghi parlamentari. Possiamo immaginare solo formalmente una delegazione che va a contrattare a Roma i destini del Piemonte, che veda al centro il Presidente della Regione. Sostanzialmente i soggetti della delegazione a Roma sono i protagonisti degli interessi forti e i protagonisti dei livelli nazionali dei partiti. Questo problema ci riguarda anche esistenzialmente come classe dirigente piemontese.
Noi cresceremo nella misura in cui veniamo legittimati politicamente ma se non siamo legittimati rispetto al nostro interlocutore, che è lo Stato, e se nei confronti dello stesso non siamo riconosciuti come i depositari rappresentanti degli interessi dell'area che amministriamo, si può capire questa alienazione che ci prende tutti e soprattutto prende il pubblico, che ci fa vivere compressi dal sistema dei partiti. I partiti non hanno sviluppato una dimensione regionalistica perché la Costituzione non lo prevede. Se non ci è riconosciuta una rappresentanza politica degli interessi, non si capisce perché i partiti, che sono nati per gestire e mediare gli interessi, debbano riconoscere una legittimità a livello regionale del loro modo di essere, dal momento che sanno che la legittimazione politica degli stessi interessi è riservata a livello nazionale. Mi pare che le questioni di carattere cartolare e le questioni di ordine politico possono confortare il nostro Gruppo nel suggerire che all'interno del documento che andremo ad approvare e che deve comprendere tutte queste questioni, si debba riflettere molto sull'esigenza di porre al centro una rivendicazione forte nei confronti dello Stato, affinch definisca una volta per tutte il ruolo della Regione in termini politici.
Questa è una sede politica e il primo interrogativo che ci dobbiamo porre è qual è la nostra ragion d'essere di natura politica.



GUASSO NAZZARENO



PRESIDENTE

E' iscritto a parlare il Consigliere Biazzi.
Ne ha facoltà.



BIAZZI Guido

Signor Presidente, colleghi Consiglieri, mi limiterò a trattare delle risorse della Regione con particolare riferimento all'emergenza finanziaria che mi pare abbia assunto la stessa gravità degli altri problemi di carattere generale.
Avevo già annotato sul mio "compitino" (a differenza del collega Pezzana, che non vedo) che ero meravigliato dell'esistenza di una sorta di rimozione, da parte della classe dirigente regionale, di problemi così gravi come quello della finanza regionale che si trova in una situazione di emergenza. L'emergenza finanziaria c'è e pesa essenzialmente in due direzioni. Essa deve essere affrontata. Noi riteniamo, nonostante il pessimismo dell'intelligenza cui ci richiamiamo, che sarebbe un errore stare alla finestra. Forse servirà poco l'impegno che noi cerchiamo di profondere, anche in questo dibattito, ma non vogliamo arrenderci.
Arrenderci vorrebbe dire lasciare più spazio a chi in parte ha già invaso le istituzioni e si prefigge di occuparle ancora di più.
Emergenza finanziaria in due direzioni: mancano le risorse persino per garantire lo svolgimento delle funzioni normali, di pura sopravvivenza della Regione. Il Piemonte approverà la settimana prossima un bilancio "in rosso", dove il deficit è nascosto dai marchingegni e dagli artifizi della legge di contabilità regionale. Ma non solo il Piemonte è in questa situazione, sicuramente si trovano con bilanci ormai "in rosso" gran parte delle Regioni.
L'emergenza finanziaria pesa inoltre per le distorsioni che ha già introdotto nel funzionamento delle Regioni e dei loro organi di governo nei rapporti tra governi regionali e singoli Ministri, singoli Ministeri gruppi più o meno influenti di parlamentari. La finanza parla soprattutto attraverso le cifre, che dimostrano come il Piemonte sicuramente abbia già oltrepassato da qualche tempo la soglia dell'emergenza. I conti del 1987 e del 1988 dimostrano come il Piemonte approvi bilanci in rosso con un deficit mascherato da marchingegni permessi dalla legge finanziaria.
Infatti, nel 1987 abbiamo incassato 551 miliardi che, al netto di quanto abbiamo dovuto restituire allo Stato per il Fondo sanitario nazionale e per il Fondo nazionale trasporti, si sono ridotti a circa 500 miliardi.
Per garantire semplicemente il pagamento degli stipendi, le indennità di carica ai Consiglieri regionali, le annualità pregresse, l'ammortamento dei mutui a ripiano del bilancio e per l'acquisto di beni e servizi (40 miliardi) abbiamo già speso 480 miliardi più 90 miliardi per la formazione professionale: siamo a 570 miliardi. Quindi si sono già superate tutte le entrate che la Regione ha incassato nel 1987. Il bilancio di previsione per il 1988 indica che la situazione si è ulteriormente aggravata. Si passa da circa 20 miliardi ad oltre 40 di deficit. Per garantire solo alcune funzioni essenziali. Occorre poi aggiungere la spesa per i parchi, per il turismo, per l'artigianato, per il commercio, per la cultura e tutte le altre competenze della Regione. Tutte spese finanziate in deficit. In questa situazione si trovano tutte le altre Regioni italiane.
Il collega Gallarini diceva che ci sono 170 miliardi per investimenti e sarebbero pochi. In effetti, non ci sono nemmeno 170 miliardi. Per gli investimenti rimarrà qualche decina di miliardi perché di quei 170 miliardi di mutui a pareggio del ripiano, molti sono utilizzati per coprire il deficit reale di bilancio. Sono d'accordo con il collega Gallarini quando sostiene che è assurdo in questa situazione disperdere risorse regionali a pioggia, dando contributi per ben 50 miliardi di investimenti un po' ovunque. Noi aggiungiamo che si ripete l'errore madornale, già compiuto nel settembre del 1976, quando furono dispersi contributi per quasi 100 miliardi di investimenti in una situazione già avanzata di crisi finanziaria.
Il collega Ferrara si compiaceva in Commissione, un paio di settimane fa, per il fatto di aver trovato nella legge di variazione di bilancio un fondo per l'innovazione tecnologica di 15 miliardi di investimenti. E sottolineava come bastasse questo fatto a cambiare la natura del bilancio rendendolo un valido strumento di programmazione. Ebbene, proprio quando si reperivano 15 miliardi per il fondo suddetto, sollevando peraltro qualche polemica all'interno della Giunta, la Giunta disperdeva risorse che mettevano in movimento 50 miliardi di investimenti, con il solito metodo della dispersione a pioggia.
Abbiamo presentato una mozione in merito perché riteniamo che ci siano anche violazioni di norme di legge, oltre che di un ordine del giorno del Consiglio regionale, da parte della Giunta. Ma di questo riparleremo.
Ritorniamo ai problemi dell'emergenza finanziaria.
Mi meraviglia che i responsabili politici delle Regioni, governi regionali in testa, rifiutino di farsi carico di questi problemi. La Conferenza dei Presidenti delle Regioni è ormai diventata, secondo quanto dicono pubblicamente coloro che vi partecipano, un organismo con scarsa o nulla capacità propositiva e contrattuale. Non è quindi un interlocutore credibile del Governo e del Parlamento. E' invalsa da parte delle Regioni la prassi di delegare a tecnici ed esperti la trattazione di problemi essenziali che riguardano la stessa sopravvivenza dell'istituzione Regione come il reperimento delle risorse.
Non ci meravigliamo quindi se tanti passi indietro sono stati compiuti come ha ricordato nella sua ampia e penetrante introduzione il Presidente Viglione.
Discutiamo del ruolo delle Regioni. E' un momento importante e fondamentale per una valutazione dei dieci anni di vita del DPR n. 616.
A Venezia nel novembre scorso si tenne un Convegno organizzato dalle Regioni per celebrare il decennale del DPR n. 616. Vi parteciparono centinaia di amministratori regionali. Era un'occasione quasi unica per fare un bilancio delle esperienze, per interrogarci sui problemi, per avanzare proposte. Era per i politici il momento di assumere in prima persona i problemi, di diventare cioè protagonisti nella costruzione del futuro delle Regioni. Invece la classe politica regionale si è presentata a quell'appuntamento da spettatrice. I governi e i Consigli regionali delegarono tutto ad esperti e tecnici, a studiosi di grande vaglia brillanti ed acuti, come Massimo Saverio Giannini, anche amici delle Regioni; ma non sono le Regioni. Nessun Consiglio regionale si riunì per fare una propria valutazione dell'esperienza di quei dieci anni, per confrontarla con quella delle altre Regioni.
Qualcosa di analogo è accaduto un mese e mezzo fa, sempre a Venezia, al Convegno sulla finanza regionale. Anche allora si è di fatto delegato tutto ad esperti e tecnici. Addirittura il Presidente della Regione Veneto Bernini, nella sua prolusione invitò espressamente gli amministratori presenti a non intervenire, a non disturbare il manovratore, ad ascoltare e annotare diligentemente quanto avevano da dirci gli esperti. Gli esperti parlarono, io mi annotai diligentemente quanto dissero.
Cose di grande interesse: ripercorsero con puntualità le vicende della finanza regionale, compirono analisi accurate che meritano la massima attenzione da parte degli amministratori regionali. Hanno poi formulato molte proposte, tutte precise ed argomentate. Ma qui cominciarono i problemi. Erano proposte quasi sempre diverse tra di loro, spesso diametralmente opposte soprattutto sui nodi di fondo della finanza regionale come i problemi dell'area impositiva autonoma o quelli dell'indebitamento, due questioni cruciali per le risorse regionali. Così non si è ancora in grado di predisporre un blocco organico di proposte che possa definire a regime una finanza regionale autonoma. Al più si riesce a predisporre una elencazione dei problemi che non va molto oltre i titoli.
Ma i temi generali, sui quali si invitavano gli amministratori a non discettare troppo, per esempio, sul Senato delle Regioni e sulle riforme dei cosiddetti rami alti dello Stato, furono rilanciati proprio dagli esperti e dai tecnici che posero in discussione il ruolo delle Regioni, le loro competenze e perfino il modo con cui si fanno rappresentare a Roma.
Cioè, quello che era stato cacciato dalla porta si ripresent prepotentemente alla finestra.
E' giusto che sia stato così. Non si può parlare del ruolo delle Regioni senza definire le risorse necessarie per svolgerlo e viceversa.
Quando si delegano questi problemi ad altri, come avviene spesso da parte dei politici regionali, il risultato è di rendere ancora più difficile il lavoro dei tecnici e degli esperti. Sul ruolo e sulle risorse, dove prenderle, come e per farne che cosa, mi pare che la parola definitiva debba essere degli amministratori regionali. Tocchiamo ora con mano le conseguenze di questa dissociazione: tutti i bilanci sono in rosso, siamo nell'emergenza, eppure i vertici istituzionali, Presidenze e governi regionali, non assumono ancora il problema in prima persona, camuffando tranquillamente i disavanzi dei bilanci che presentano ai Consigli per l'approvazione.
Un atteggiamento quasi incomprensibile. L'assenteismo dei responsabili regionali diventa una questione di rilievo, perché pesa negativamente su tutta la nostra attività. Così il documento delle Regioni sulla proposta di legge finanziaria presentata dal Governo di fatto non si discosta da un buon elaborato di carattere tecnico, non affronta i nodi essenziali delle risorse (dove prenderle, come e per fare che cosa). E' un buon documento predisposto dai tecnici, ma che non affronta i nodi di fondo del ruolo delle Regioni e delle risorse necessarie per svolgerlo.
Il raffronto che viene immediato è con un altro comparto del sistema delle autonomie, i Comuni. Come si comportarono 12 o 13 anni fa quando si trovarono nella nota e gravissima crisi finanziaria? Molti ricorderanno come allora i Sindaci, quelli delle grandi città in testa, scesero in campo e formularono e sostennero con energia in prima persona le proposte di risanamento. Argan, Tognoli, Zangheri, Cerofolini, Petroselli, Valenzi Novelli, i Sindaci democristiani di Brescia e di Padova, non delegarono a nessuno questo compito essenziale che riguardava la vita dei loro Comuni.
Qualche risultato di rilievo riuscirono ad ottenerlo. Mi permetto di aggiungere che ora i Comuni rischiano di ritornare generalmente in rosso, e molti lo sono già anche se forse meno delle Regioni. Questo, forse, dipende dal fatto che i Sindaci, quelli delle grandi città in testa, hanno abbandonato quella battaglia e l'ANCI è diventata, di fatto un'Associazione burocratica, da anni appiattita sulle scelte del pentapartito.
Ma ritorniamo alle Regioni.
Perché questa inerzia dei governi regionali? Perché l'indifferenza che notiamo anche in questo dibattito, questa sorta di rassegnazione, questo non voler nemmeno conoscere la situazione, questo essere assenti su questioni vitali? Può darsi che il degrado generale e complessivo dell'istituzione regionale pesi anche sul personale politico. Ma forse c'è dell'altro, qualcosa che parte dai meccanismi interni alle Regioni, dal loro incepparsi e dalla involuzione di questi anni. E' opinione diffusa, e a me sembra fondata, che i governi regionali ormai si dividono essenzialmente in due squadre: una prima squadra che fa il pendolare con Roma, dove si decidono le erogazioni settoriali delle risorse dall'agricoltura all'ambiente, dal FIO alla viabilità, dalla casa alla protezione civile, all'energia, ecc. Non sono poche, quasi sempre ogni erogazione, pur se vincolata nelle destinazioni, è superiore all'intero fondo regionale destinato allo sviluppo delle Regioni (il Fondo ex art. 9).
C'è poi una seconda squadra che è formata essenzialmente da chi scrive documenti spesso verbosi su piani e programmi che non saranno mai attuati e che sono destinati a coprirsi di polvere nei cassetti.
Anche se presentata in modo molto schematico, questa situazione mi sembra corrispondere alla realtà, indubbiamente è una situazione schizofrenica. Di fatto si è costituito un legame diretto tra parti del governo regionale e centri di decisione di spesa centrali, con Ministri Ministeri o addirittura gruppi di parlamentari influenti, spesso interpartitici. Non solo: esistono forti componenti della società regionale lo ricordava all'esordio il nostro Presidente Viglione - che ormai hanno aperto canali diretti, costruito rapporti saldi con i centri di decisione di spesa centrali per quanto riguarda il finanziamento di grandi progetti in particolare per quanto riguarda gli investimenti relativi ai trasporti alla viabilità, alle linee di penetrazione nelle aree metropolitane all'ambiente e al disinquinamento, alla ripartizione del FIO, ecc. Così passano tranquillamente sulla testa della Regione proprio le decisioni riguardanti i progetti e gli interventi che per la loro dimensione ed incidenza sul territorio dovrebbero vedere nella Regione non solo l'interlocutore legittimo, ma anche l'interlocutore naturale.
Ancora una volta vediamo come il problema delle risorse sia strettamente legato a quello del ruolo delle Regioni e viceversa. Non possiamo dimenticare, lo ricordava Bontempi, che questi meccanismi perversi non solo svuotano ogni tentativo di programmazione, ma svuotano le istituzioni, svuotano la nostra democrazia. Perché succede questo? Credo che pesi il fatto che di riforme si parla da anni senza concludere granch e allora gli Assessori regionali, presi ogni giorno dai problemi della gestione, si pongono essenzialmente l'obiettivo del recupero delle risorse da ottenere in qualsiasi modo, parlo di modi formalmente legittimi. I fondi reperiti sono sempre risorse da gestire, che permettono di costruire o di mantenere un sistema di rapporti con le nostre comunità. Poco importa se sono formalmente vincolati, sono gli Assessori, poi, che li gestiscono e li distribuiscono, del resto, con una notevole dose di discrezionalità. Ci troviamo così in una situazione quasi paradossale: i veri vincoli si trovano ormai sulle cosiddette entrate libere; quelle vincolate arrivano spesso, se non sempre, dopo ampie contrattazioni e patteggiamenti. Si pensi, per esempio, a quanto succede per il FIO a cui partecipano i soggetti più diversi, alle volte soggetti palesi, molto spesso - noi pensiamo - anche soggetti occulti. Le risorse libere, invece, come abbiamo cercato di dimostrare, sono già tutte impegnate in modo rigido e non permettono più nessun margine di manovra.
Occorre sottolineare che in Piemonte una certa chiarezza si è riusciti a fare per quanto riguarda i conti della Regione. Noi rivendichiamo in proposito di aver svolto un notevole ruolo, una funzione di governo.
Abbiamo operato con tenacia, quasi con testardaggine, in questi tre anni perché i conti venissero alla luce. Aggiungiamo anche di aver trovato nell'Assessore Turbiglio prima, e nell'Assessore Croso negli ultimi mesi degli interlocutori attenti con cui è stato possibile colloquiare e costruire questi risultati. Spesso però il confronto è avvenuto nella diffidenza, se non ostilità, di parte della Giunta e spesso nell'indifferenza sostanziale della maggioranza.
Le cifre però parlano chiaro, dicono la situazione dell'emergenza in cui si trovano le Regioni. E noi pensiamo che da questa emergenza debba partire il Piemonte con iniziative adeguate per invertire la tendenza. Si sta formando un debito sommerso, probabilmente è già oltre i 1.000 miliardi, da parte delle Regioni. Noi riteniamo che la presenza di un consistente debito sommerso, la tendenziale trasformazione delle Regioni in agenzie di spesa dello Stato, lo svuotamento del loro ruolo autonomo sono tutti elementi che concorrono a rafforzare le tendenze neocentralistiche che tutti deprechiamo.
Noi riteniamo che dal Consiglio regionale e dalla Giunta regionale del Piemonte possano partire delle iniziative esterne con le quali le Regioni possano assumere in prima persona i problemi delle risorse, che è l'unico modo per garantire la possibilità di svolgere un ruolo autonomo.



VIGLIONE ALDO



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Tapparo.



TAPPARO Giancarlo

Signor Presidente, è sempre difficile al termine di un lungo dibattito durante il quale si sono "scandagliate" anche le fonti del diritto costituzionale e si sono fatte analisi estremamente importanti, tradurre il tutto in una risultante che possa incidere nel rapporto con l'esterno. Le aspettative di oggi in materia di riforme istituzionali non potevano tradursi nella scoperta di una specie di carta magica per poter compiere questo lavoro di adeguamento delle istituzioni nazionali e regionali.
Dal dibattito è emersa, seppure con diversi punti di vista, la necessità di un rilancio del ruolo regionale, non tanto come esigenza di un sistema di potere nuovo, ma come struttura organica di una società, non solo nazionale, che evolve. Tale società vede ridursi le barriere statuali: va verso il 1992, anno in cui si avrà la fine del sistema dei rapporti economici storicamente intesi, che nei fatti tenderà ad esaltare le economie regionali, la capacità di interrelazioni regionali, la funzione di aggregati regionali transnazionali, la capacità di esaltare specificità e quindi l'importanza attraverso questa strada di poter dare risposte ai vari problemi, dall'occupazione alla crescita del prodotto interno lordo. Il ruolo delle Regioni il costituente non poteva prevederlo appieno, perch non poteva immaginare la realizzazione di un'Europa con questi caratteri e non poteva nemmeno prevedere l'esigenza posta da dinamiche economiche regionali che nella cultura degli anni '40 non era percettibile. Oggi ci rendiamo conto che sempre più spesso leggi di carattere nazionale non sono adeguate a permettere di cogliere la forza, le risorse, le potenzialità esistenti a livello regionale. Tali leggi penalizzano lo sviluppo, lo distorcono e fanno perdere delle opportunità.
E' in questo senso che il Consiglio regionale deve portare avanti un'iniziativa specifica. Dobbiamo essere convinti e sereni che questa non è una rivendicazione localistica, ma serve a favorire un processo di sviluppo della comunità europea nel suo complesso.
In questi anni abbiamo assistito da un lato al rafforzarsi di spinte statalistiche fortemente centralistiche. Spesso tali spinte emergevano anche da quei partiti che non avevano una tradizione statalistica, ma perché questo processo di accentramento soddisfa i grandi potentati economici che preferiscono avere un "tavolo" unico nazionale di rapporti e di guida, specie per le materie economiche.
Dall'altro lato, i vuoti di risposte che questo centralismo veniva a creare e il forte spazio che si veniva a dare ai potentati economici ha lasciato grande possibilità all'assistenzialismo. Anche per tali ragioni il ruolo del momento pubblico, quello cioè del rapporto diretto con la comunità, capace di rapportarsi con le esigenze della piccola industria dell'artigianato, dei lavoratori, dei disoccupati, veniva penalizzato. In fondo, l'emarginazione del ruolo delle Regioni, con tutte le loro responsabilità dirette, è anche frutto dell'affermarsi di un centralismo statalistico e parallelamente di uno spazio di compensazione assistenziale.
Un gioco perfetto che soddisfa potentati economici e aree che vivono nell'assistenzialismo.
Per contrastare tali tendenze dobbiamo rivendicare un ruolo di recupero di funzionalità del momento pubblico, raccordato strettamente alle esigenze economiche e sociali delle comunità: il rafforzamento del ruolo delle Regioni va in questa direzione.
Più che risorse credo si debbano rivendicare competenze che sono necessarie per battere la logica statalistica centralistica che non soddisfa le esigenze di sviluppo del sistema economico, della piccola impresa, dell'artigianato e degli interessi dei lavoratori nel loro complesso. E' un ruolo politico diverso che va rivendicato, che passa anche per alcune competenze.
Se ho ricordato all'inizio il problema del rapporto con la CEE come fatto che viene a dare al regionalismo una valenza forte nuova, non possiamo pensare di andare all'abbattimento delle frontiere economiche con il mantenimento di una logica di funzionamento della società economica centralizzata in un rapporto in cui potentati economici, boiardi di stato di varia specie e statalismo centralistico vengono a soddisfare i propri interessi.
Occorre trovare uno spazio per legittimare un rapporto diretto tra istituzioni regionali, tra regionalismo (che ormai è affermato in quasi tutti i Paesi della CEE) e le istituzioni comunitarie. Penso, ad esempio all'accesso diretto delle Regioni al Fondo Sociale Europeo: non si capisce perché ci debba essere uno sportello supercentralizzato a livello nazionale, quando sono le Regioni il soggetto diretto che vede e che percepisce, al di la del rispetto di alcuni criteri generali di indirizzo.
Occorre anche pensare ad alcune competenze nuove che il costituente non poteva prevedere per l'istituto regionalistico. Per esempio, nelle politiche del lavoro, in quelle industriali e in quelle di formazione professionale, ma anche in altri campi, credo che una competenza regionale piena possa soddisfare meglio le esigenze di accelerazione dello sviluppo non perdendo di vista il rapporto di solidarietà, questa sì funzione in mano al potere centrale come coordinamento. In questo senso occorre richiedere una revisione o sotto forma di revisione costituzionale o come configurazione di deleghe.
Il rapporto tra Stato e Regioni oggi è paradossale se lo vediamo nei nostri rapporti esterni. Il Presidente della Giunta parlava della Comunità di lavoro delle Alpi Occidentali (COTRAO), ebbene, ogni volta che il Presidente va a Losanna o a Marsiglia per rapportarsi con tale comunità di lavoro, deve farsi rilasciare un'autorizzazione dal Ministero degli Esteri: ciò è davvero paradossale e anacronistico e credo che nemmeno in alcuni Paesi del Terzo Mondo vengano ancora praticate tali procedure. Infatti non credo si vada a rompere l'unitarietà della politica estera se un Presidente di Giunta regionale va a Losanna a parlare della possibilità di migliorare il rapporto nel sistema dei trasporti oppure per uno scambio di informazioni nel campo dell'innovazione tecnologica tra regioni confinarie confini che andremo a ridurre di intensità almeno sul piano economico tra alcuni anni.
E' probabile che si possa ottenere un diverso rapporto Stato-Regioni con l'istituzione del Senato delle Regioni, ma se non si ottiene la modifica del bicameralismo italiano, credo che occorra andare a richiedere in forma strutturata, codificata, proceduralizzata diversi e più efficaci rapporti Stato-Regioni, rapporti che trovino nella Conferenza dei Presidenti e nella Conferenza Stato-Regioni un inizio.
Penso solo a quante vicende amare questo Consiglio ha dovuto subire per la mancanza di coordinamento Stato-Regioni, non dico da "libro dei sogni" della programmazione, ma un rapporto minimo tra l'operatività dello Stato centrale e quelli che potevano essere gli orientamenti e le decisioni delle Regioni. Penso alle decisioni delle Partecipazioni Statali (Rai Siderurgia, Eni, ecc.), alle decisioni attuali dell'Azienda delle FF.SS.
per l'ipotizzato taglio di 500 chilometri di linee ferroviarie, ad alcuni comportamenti di Ministeri che sono insensibili alla progettualità, che pur debole, pur non ancora perfettamente legittimata, rappresenta comunque l'aspetto di raccordo più vicino con la società che la Regione può dare.
Con capacità impositiva regionale si potrebbe far giocare alle Regioni un ruolo nuovo e importante, un ruolo che potrebbe anche portarci a trovare delle forme di tassazione di scopo, cioè a delle scommesse: negli anni oscuri della disoccupazione in Piemonte (1982, 1983 e 1984) si sarebbe potuta attuare una tassazione di scopo rivolta a un fondo per l'occupazione ben mirato e raccordato al rafforzamento dell'apparato produttivo in modo che la parte più ricca della società, quella che vedeva crescere insieme al prodotto interno lordo anche il proprio reddito, si sentisse chiamata a rispondere direttamente alla crescita della disoccupazione. E' un'ipotesi di politica economica che il prof. Modigliani ha prospettato: alla crescita della disoccupazione deve accompagnarsi la crescita del prelievo fiscale in modo che quello della disoccupazione possa essere sentito concretamente come un problema generale della società, che tocca anche nella tasca i soggetti che sono beneficiati dallo sviluppo del prodotto interno lordo.
Dobbiamo prestare attenzione in questo ipotizzato processo di revisione istituzionale ad alcuni problemi: la riforma elettorale è molto importante alcuni aspetti del rapporto tra il potere dell'amministratore pubblico e la funzione della burocrazia pubblica sono molto importanti, anche per i riflessi sulla questione morale. In merito a quest'ultimo aspetto dobbiamo togliere dai compiti degli amministratori molte funzioni organizzative e operative. Probabilmente anche per questa strada può migliorare la selezione dei gruppi dirigenti pubblici. Quando alcuni soggetti vedranno che non potranno mettere le mani su alcune trattative, ma solo dare indirizzi e fare controlli, probabilmente vedranno ridursi la propria propensione a questo servizio.
Credo che per la parte relativa a quello che è l'impianto di proposta per fare entrare la Regione Piemonte nel gioco della riforma istituzionale l'Ufficio di Presidenza debba realizzare un quadro di insieme e di comparazione delle proposte emerse dal dibattito odierno ed innestarle su una serie di iniziative concrete. La proposta del Gruppo socialista è quella di una riunione di lavoro ampia, approfondita e di confronto tra questo Consiglio regionale e i parlamentari piemontesi e di ricercare altre iniziative in grado di dare propulsione alle nostre proposte.
Per quanto riguarda la questione dell'autoriforma del nostro ente credo siano stati abbondantemente approfonditi tutti gli aspetti. Tra questi importante è il ruolo delle deleghe. Si tratta di un passaggio estremamente delicato che va visto con una identificazione precisa del rapporto tra l'ente delegante e l'ente delegato; l'affermazione e la permanenza di un ruolo programmatorio alla Regione non devono essere solo formali, ma sostanziali, per evitare che alcuni amministratori di Comuni o di Province pensino che la delega non sia altro che l'arrivo di una quantità di risorse da predisporre poi secondo modalità autodeterminate rigidamente all'interno di una dimensione strettamente localistica.
Quello delle Commissioni consiliari è un problema anche di tecnica organizzativa oltre che di volontà: si deve riuscire ad operare in sede redigente e poter svolgere anche in quelle sedi interrogazioni e comunicazioni della Giunta.
Credo che un avvicinamento alla collettività possa avvenire anche attraverso referendum propositivi, anche con la Carta dei diritti dei cittadini, anche con un'esaltazione del ruolo del Difensore Civico, anche con l'introduzione di una forma di difensore dell'ambiente.
Ritengo sia fattibile rivedere concretamente il nostro impianto legislativo per renderlo più snello con testi unici e per blocchi di materia. E' possibile anche attuare un rapporto organico tra i bilanci annuali e pluriennali e il sistema di programmi e di scelte.
Però, colleghi, non credo basti una specie di ingegneria organizzativa o istituzionale per ridare slancio all'istituzione, dipende anche da noi.
Ho l'impressione che alcune opportunità sono state alla nostra portata: ad esempio, una organizzazione diversa della spesa regionale per farla fruttare di più in termini di effetti occupazionali e di benefici per l'apparato industriale. Penso al possibile compattamento di certe iniziative cercando di raggrupparle in blocchi omogenei capaci di farci assumere posizioni contrattuali e propositive con interlocutori privati di peso rilevante.
Ritengo quindi che oltre a problemi di ingegneria organizzativa e funzionale ci sia un problema di precisa volontà politica, di disegni politicamente alti, di obiettivi forti da praticarsi con coraggio politico.
Questi li possiamo fare da oggi. Non sempre abbiamo cercato di muoverci in tale modo, ma dobbiamo procedere ancora su questa strada.
Per quanto riguarda l'autoriforma, per rendere producente questa giornata e non rituale (un po' come quei poeti dilettanti che qualche volta si riuniscono in cenacoli per leggere i propri scritti), dobbiamo evitare di cadere in tale dimensione, di non "leggere" le proposte solo tra di noi.
A tale proposito propongo l'istituzione di un intergruppo per definire i punti di convergenza di questa giornata e arrivare a determinare delle tappe future di azione dirette su tali punti, alcuni dei quali sono rapidamente affrontabili, altri sono di più complessa elaborazione e altri ancora probabilmente non possono nemmeno trovare in questa legislatura un pieno compimento. Si tratterebbe comunque di un lavoro da svolgere con estrema precisione, cercando possibilmente di gerarchizzare i punti d'attacco e quindi da iniziare subito e non in tempi storici, magari già dal prossimo mese, al fine di portare delle iniziative in Consiglio regionale, oppure svolgendo un lavoro preliminare di Commissione, per valutare le prime realizzazioni.
La credibilità di questa giornata ritengo stia in questa proposta per poter cogliere tra alcuni mesi primi significativi risultati. Mentre, sul piano delle riforme istituzionali, occorre dimostrare che il Consiglio regionale ha alcune idee e vuole giocare tali idee agendo nei punti più opportuni del nostro sistema istituzionale e sociale.



PRESIDENTE

Ha chiesto di intervenire il Consigliere Picco.
Ne ha facoltà.



PICCO Giovanni

Non condivido l'opinione del collega che denuncia atteggiamenti esterni e di contorno negativi all'esito del dibattito. Credo si possa rivendicare la capacità comunque di collocarci rispetto alla dialettica delle idee ed ai confronti indipendentemente dal consenso che può derivare dalla presenza di pubblico in aula.
Certo, anche le manifestazioni di contorno hanno la loro importanza e sarebbe gradito un diverso e adeguato riscontro del dibattito da parte della comunità regionale. Autocriticamente la colpa di questa indifferenza è anche nostra; non sempre riusciamo a stimolare quella capacità di aggregazione sui confronti che meriterebbe l'importanza degli argomenti.
Manifesto soddisfazione per il dibattito perché in tale occasione si possono mettere a frutto gli atteggiamenti critici, più o meno sofferti che ci portiamo dietro.
Vorrei ricordare degli argomenti trattati cinque punti significativi.
Le relazioni presentate (non è certo il mio intervento al livello di questa dignità) sono tutte estremamente interessanti; possiamo semmai lamentare l'insoddisfazione di non averle viste tutte prima per poter vagliare ciò che si ritiene utile estrarre come essenziale.
I cinque punti che voglio evidenziare non si collocano nella omologazione delle posizioni dei partiti che possono trovare consensi unanimi all'interno del Consiglio; ciò nonostante ritengo di esplicitarli perché nodali rispetto alle conclusioni che dovremo trarne.
Primo punto. Le Regioni, come dice giustamente un passo della relazione del Presidente della Giunta, non sono assimilabili ad altri enti locali e di gestione: debbono quindi essere oggetto di una riforma mirata per una completa attuazione dei principi costituzionali e per il rafforzamento della democrazia.
Credo però che su questo il passo debba fare i conti con il tipo di convergenza che si riesce ad ottenere dallo schieramento delle forze politiche democratiche. La proposta avanzata dal Governo che si sta costituendo è un riferimento realistico; è incompleto rispetto a tutto ci che vorremmo immediatamente affrontare, ma i quattro punti oggetto dell'impegno per il 1988 sono un traguardo che approderà certamente ad un nuovo modello di rapporti.
L'insoddisfazione dove nasce? Personalmente guardo ad un modello federativo di aggregazioni delle Regioni che concorrano alla formazione di scelte politiche, non di politiche dello Stato, ma per lo Stato unitario regionale. Questa è una distinzione che vorrei sottolineare. Non dobbiamo pensare nel modello aggregativo federativo di sostituirci ai ruoli propri dello Stato, ma dobbiamo concorrere a rafforzare quelle scelte che in fondo sono rivolte alle nostre comunità. E' in questa direzione che rivendichiamo la capacità di sintesi delle Regioni a sedersi attorno ad un tavolo in una forma aggregativa diversa rispetto a quello che finora ha caratterizzato il rapporto dialettico, a volte pietoso, tra le varie realtà regionali.
In questa dimensione forse dovremo abituarci a cancellare alcune definizioni tipiche della politica nazionale. La parola "Mezzogiorno" tanto per essere chiari, che è ripetutamente citata come giustificativa e come alibi di molte "non scelte" o di molte "non soluzioni", è una parola che deve scomparire come dovrà scomparire il Ministero per il Mezzogiorno perché non si vede come non possano, in una aggregazione federativa contemperare esigenze, sia pure contrapposte, nella direzione del riequilibrio; non mi soffermo su questi argomenti che richiederebbero i dovuti approfondimenti.
Secondo punto. Il ruolo delle Regioni deve mirare ad acquisire spazi di concorso decisionale rivendicando non già la diaspora delle leggine di spesa, ma quella significativa perequazione fra gli squilibri esistenti che è la gestione del Fondo comune. I programmi regionali divengono il punto di riferimento della spesa in termini credibili, rivendicando la capacità di autonomia decisionale che abbiamo finora inutilmente rivendicato.
Anche il nostro esecutivo credo debba su ciò impegnarsi, attuando un diverso confronto tra i Presidenti delle Regioni.
Sono scettico sull'autonomia impositiva perché tutto ciò che abbiamo finora proposto non ha nei fatti chiarito gli obiettivi di fondo rispetto ai quali si richiede tale autonomia. V'è assenza di strategia e di razionalizzazione dei ruoli, dei soggetti istituzionalmente preposti agli investimenti; per gli stessi soggetti si rivendica in parallelo la capacità di gestione dei servizi. Non è il caso di operare scelte più precise? Ma finché questi obiettivi non saranno chiariti, ho l'impressione che le rivendicazioni rischino di essere addirittura controproducenti.
All'interno dell'autonomia statutaria delle singole Regioni vi è anche la capacità di ricomporre queste contraddizioni, disciplinando con le modalità di spesa l'erogazione dei servizi conseguenti a rigorosi criteri di impostazione della spesa stessa.
Terzo punto. La programmazione come strumento di costruzione strategica delle politiche e di convergenza di obiettivi nella destinazione delle risorse è e deve restare compito della Regione. Non vedo come possa essere posta sullo stesso livello la programmazione rivendicata dalle Province e quella strategica che compete alle Regioni.
La programmazione non deve essere intesa come strumento di centralismo politico nei confronti delle autonomie, ma metodo per una dialettica costruttiva.
Quali strumenti per la programmazione? Colleghi, abbiamo per anni giurato che i piani erano la soluzione dei nostri problemi strategici.
Dobbiamo constatare invece che i piani sono il fallimento degli impegni strategici della programmazione; sarebbe molto più corretto parlare di piani-programmi, ma non di piani. Il determinismo dei piani che ha largamente condizionato le leggi regionali ha ingessato la capacità operativa delle leggi. Mi riferisco alla legge n. 18, ma il discorso riguarda molte altre, quali la n. 56.
Non sfugge a questi limiti il Piano di sviluppo, non nelle singole espressioni ed elaborazioni che potranno ancora subire adattamenti alle singole realtà, ma al piano inteso come filosofia strutturale, che è l'espressione di un determinismo costantemente in contraddizione con la programmazione che, invece, deve ricercare il dialogo con le autonomie locali; una costruzione, sia pure sofferta, ma concorsuale per obiettivi.
Questi purtroppo rigidamente definiti nei piani, vengono messi nel cassetto e dimenticati.
La riflessione si impone come "autodeterminazione riformistica" rispetto a contenuti che sono propri del nostro Statuto: non è qui il caso di scomodare né l'Europa né Roma.
Quarto punto. Componente essenziale delle responsabilità attribuite ai livelli decisionali è la stabilità.
Chiamo in causa il collega Ala per dirgli che non sono d'accordo con lui quando dice che ricordare frequentemente la mancanza di stabilità sia un luogo comune che non ha effetti rispetto ai risultati di credibilità che le istituzioni hanno nei confronti delle popolazioni e della società. Credo invece che la stabilità sia una componente essenziale. Non è pensabile nei meccanismi della democrazia l'improvvisazione o l'immaginazione taumaturgica del cambiamento dei soggetti o del cambiamento dei ruoli. Si deve puntare alla stabilità dei soggetti e degli "istituti" in modo da dare loro la possibilità di esprimersi rispetto ai compiti loro attribuiti.
Purtroppo i frequenti e ricorrenti casi di ingovernabilità hanno consacrato nella prassi amministrativa l'equazione: instabilità dei soggetti uguale diaspora degli oggetti, quindi vuoto di scelte. Non vi è più nessuna possibilità di confronto se un'Amministrazione o un Sindaco o una Giunta hanno fatto bene, per quali ragioni, se hanno corrisposto alle aspettative, ecc., perché l'alibi della rimozione o della crisi è scontato per le conseguenze che ne derivano.
Se vogliamo parlare seriamente di dimensione europea credo che questa non sia segmentata sui livelli di instabilità che purtroppo caratterizzano certe realtà del nostro Paese. Gli stessi Paesi che sono arrivati per ultimi nella Comunità Europea non sono caratterizzati dalla frammentazione decisionale che caratterizza alcune gestioni amministrative italiane.
Su questi temi occorre fare una riflessione; la continuità di governo che si pretende non deve ammettere ricorrenti interruzioni ed archi temporali di gestione di governo abbandonati al caso, come se le scelte potessero realizzarsi senza alcuna paternità. Questo non può essere accettato come fenomeno ricorrente. Naturalmente so di essere controcorrente, ma secondo me l'elezione diretta dei Sindaci è componente essenziale per poter assicurare, al minimo livello di governo amministrativo, la verifica agli obiettivi che ci proponiamo.
E non mi si dica che il ricorso alla continuità voglia dire ipoteca al destino delle democrazie, perché in nessun Paese dove è in vigore questa forma di stabilità amministrativa sono in crisi le istituzioni democratiche.
La logica del continuo ricorso alle elezioni anticipate o alle elezioni "continuate", come qualcuno ammicca, è funzionale ad un modo di governare irresponsabile da una legislatura all'altra; un modo per il "turnover" dei soggetti, ma che certamente non corrisponde agli interessi dei cittadini e alla realizzazione delle aspettative.
Vengo all'ultimo punto. Il disegno riformistico regionale non sfugge alla ricorrente critica di un distacco della Regione dalle autonomie da un lato, ma purtroppo dalle comunità e dalla società che necessitano di riferimenti precisi e non solo procedurali o formali.
Il Consiglio regionale, l'ho già detto più volte nella passata legislatura, deve essere garante di questo rapporto anche attrezzando la propria struttura burocratica e funzionale alle necessità di raccordo con le autonomie locali. L'ha anche detto il collega Petrini, lo ricordo io. In fondo questa grossa macchina di Palazzo Lascaris non è nemmeno funzionale al prodotto legislativo, perché la capacità di aggiornamento sulle materie è in fondo sempre prodotto dell'esecutivo. Non riusciamo a renderlo funzionale ad una elaborazione o anche solo ad una documentazione che nasca da questo palazzo. Quindi, cari colleghi, smettiamola di voler snobbare l'istituto del decentramento regionale tirando fuori causa dal decentramento regionale il Consiglio e le sue strutture. Avevo fatto una proposta all'epoca dei Comprensori: assicurare a ogni Comitato comprensoriale, a ogni Giunta un funzionario del Consiglio.
Purtroppo i Comprensori sono stati soppressi; il problema di una presenza del Consiglio e della sua struttura con l'articolazione della Regione è un problema immanente per tutta una serie di organi che dobbiamo rivisitare e razionalizzare: i Comitati, il CUR. le strutture di consultazione e via dicendo.
Ed a quest'ultimo punto si connette la coerenza tra affermazioni sul ruolo delle strutture della Regione e i comportamenti decisionali ed operativi. Prendiamo, ad esempio, gli enti strumentali. In molti passi delle relazioni trovo affermazioni quali: "...distinguendo compiti di programmazione e legislazione che devono rimanere in capo alla Regione e funzioni gestionali di amministrazione che devono essere integralmente delegate agli enti locali territoriali che le eserciteranno in piena autonomia...". Queste affermazioni, caro Viglione, come si conciliano con la diaspora dei nostri enti strumentali? Non abbiamo ragione di tenere in piedi un'impalcatura che in fondo è solo funzionale a compiti di gestione amministrativa. Già avremo difficoltà a coprire i quattro punti del 616: sviluppo economico, gestione del territorio, servizi all'uomo, servizi amministrativi attribuendo agli enti stessi compiti professionalmente pertinenti al ruolo di supporto sia all'esecutivo sia al Consiglio. Altri ruoli per enti strumentali penso non siano compatibili con le predette affermazioni.
Egregi colleghi, questi cinque punti che ho richiamato richiedono riflessioni che riguardano la responsabilità dei cinque partiti della maggioranza, visto che è loro attribuito un compito trainante in questo momento politico. Ma, è chiaro, sono oggetto di responsabilità e di riconsiderazione anche di altre forze politiche.
Richiamo comunque, come ha già fatto il nostro Capogruppo, la pragmaticità di impostazione dell'ordine del giorno proposto dal nostro Gruppo, come percorso per collocarsi rispetto a queste proposte. Le evidenziazioni che ho fatto, anche a titolo personale, le raccomando come momento di attenzione per integrazioni ai documenti finali sul dibattito.



PRESIDENTE

Al fine di determinare la prosecuzione operativa dei lavori do la parola al Consigliere Bontempi.



BONTEMPI Rinaldo

Il nostro Gruppo assume come base l'intelaiatura del documento presentato dal Gruppo DC e accoglie la proposta del Consigliere Tapparo.
Propongo di distinguere la votazione sui due argomenti. La prima parte che riguarda le riforme istituzionali nazionali, a cui mi sono permesso di apportare alcune integrazioni sulla base dei risultati del dibattito, la sottoporrei ai Gruppi perché sia possibile approvare alcuni impegni, che si potrebbero assumere subito, che riguardano l'Ufficio di Presidenza e che possono già avere un esito domani con la presenza del Presidente della Repubblica.
Per quanto riguarda invece le autoriforme, quindi la possibilità reale di un confronto sui vari documenti che sono stati presentati e le questioni emerse dagli interventi, accolgo la proposta di Tapparo di demandare ad un momento successivo, che però intenderei entro otto o dieci giorni, ogni determinazione. Riconosciamo la titolarità dell'Ufficio di Presidenza e la titolarità della Commissione consiliare competente in ordine al lavoro di approfondimento successivo sulle questioni istituzionali.
Chiedo al Presidente se vuole far distribuire questo testo perché possa essere esaminato e portato al voto.


Argomento: Nomine

NOMINE - Proclamazione degli eletti


PRESIDENTE

Nel mentre si provvede alla distribuzione dell'ordine del giorno proclamo i candidati eletti nella seduta consiliare del 14 aprile 1988.
Consusa S.p.A. - Consiglio di amministrazione (art. 15 Statuto relativo). Proclamo eletti i signori Renato Montabone, Alberto Tommasini Umberto Masset, Massimo Maffiodo, Mario Sicignano e Paolo Catalano.
Consusa S.p.A. - Collegio sindacale (art. 22 Statuto relativo).
Proclamo eletto il signor Roberto Manni.
Commissione provinciale per la determinazione del valore agricolo dei terreni edificabili (art. 14, legge 26/1/1977, n. 10) Provincia di Asti.
Proclamo eletti i signori Italo Zollo e Giuseppe Villero.
Centro piemontese di Studi Africani C.S.P.A. - Consiglio di amministrazione. Proclamo eletti i signori Siro Lombardini e Alberto Antoniotto.
Consorzio di gestione della stazione alpina Sauze d'Oulx e del Centro di addestramento per l'economia montana "Vittorino Vezzani" - Consiglio di amministrazione. Proclamo eletti i signori Pier Paolo Davì e Marco Abbà.
Commissione consultiva per i mercati all'ingrosso - Sezione bestiame (art. 9, L.R. n. 62/79). Proclamo eletti i signori Pio Pironti, Salvatore Vecchio, Bruno Giustetto, Guglielmo Travasino e Giancarla Morre.
Parco naturale delle Lame del Sesia - Consiglio direttivo (L.R. n.
55/78). Proclamo eletto il signor Roberto Reis.
Riserva naturale Garzaia di Valenza - Consiglio direttivo (L.R. n.
51/79). Proclamo eletto il signor Michele Sekawin.
Commissione per la formazione professionale (L.R. n. 8/80). Proclamo eletto il signor Savino Mansi.
Comitato Urbanistico Regionale (CUR). Proclamo eletto il signor Claudio Malacrino.
Commissione tecnico-consultiva in materia di coltivazione di cave e torbiere. Proclamo eletto il signor Angelo Sciandra.
Collegio dei Revisori dei Conti dell'USSL n. 1 di Torino. Proclamo eletto il signor Francesco De Pace.
Collegio dei Revisori dei Conti dell'USSL n. 47 di Biella. Proclamo eletto il signor Ugo Mosca.
Collegi Revisori delle Aziende di Promozione Turistica APT di Torino.
Proclamo eletti i signori Giarcarlo Cordaro, Ernesto Forno e Furio Serra.
Collegi Revisori delle Aziende di Promozione Turistica APT della Valle di Susa. Proclamo eletti i signori Ruggero Ragazzoni, Vincenzo Fiscella e Francesco Petrarulo.
Collegi Revisori delle Aziende di Promozione Turistica APT del Canavese. Proclamo eletti i signori Alessandro Pollono, Alessandro Rosotto e Franco De Amicis.
Collegi Revisori delle Aziende di Promozione Turistica APT del Pinerolese. Proclamo eletti i signori Mario Crovella, Pier Giovanni Sticca e Wanda Lupi.
Collegi Revisori delle Aziende di Promozione Turistica APT di Vercelli. Proclamo eletti i signori Eusebio Bauc', Rita Massa e Giovanni Luparia.
Collegi Revisori delle Aziende di Promozione Turistica APT del Biellese. Proclamo eletti i signori Angelo Maula, Fabrizio Soncina e Silvio Gariazzo.
Collegi Revisori delle Aziende di Promozione Turistica APT della Valsesia. Proclamo eletti i signori Luciano Zanetta, Ornella Baladda e Alvaro Azzacconi.
Collegi Revisori delle Aziende di Promozione Turistica APT di Novara.
Proclamo eletti i signori Giovanni Galeano, Renzo Zampagni e Mario Isola.
Collegi Revisori delle Aziende di Promozione Turistica APT dell'Ossola. Proclamo eletti i signori Sandro Tacca, Agostino Pedullà e Giuliano Subani.
Collegi Revisori delle Aziende di Promozione Turistica APT del Lago d'Orta. Proclamo eletti i signori Roberto Gallarini, Achille Banone e Guido Bosetto.
Collegi Revisori delle Aziende di Promozione Turistica APT delle Valli di Cuneo. Proclamo eletti i signori Angelo Bramard, Mario Toto e Pier Franco Risoli.
Collegi Revisori delle Aziende di Promozione Turistica APT del Saluzzese. Proclamo eletti i signori Aldo Perotti, Stefano Beltritti e Cristina Lanzavecchia.
Collegi Revisori delle Aziende di Promozione Turistica APT delle Langhe e dei Roeri. Proclamo eletti i signori Piero Cirio, Nicolò De Pace e Giovanni Bosticco.
Collegi Revisori delle Aziende di Promozione Turistica APT del Monregalese. Proclamo eletti i signori Giuseppe Lingua, Michele Toso ed Ezio Bertola.
Collegi Revisori delle Aziende di Promozione Turistica APT di Asti.
Proclamo eletti i signori Eva Carni, Mario Luciano Garbarino e Alessandro Boero.
So.Co.Tras. S.p.A. - Consiglio di amministrazione. Proclamo eletto il signor Sergio Astrologo.
Consorzio Acquedotto Monferrato. Proclamo eletto il signor Flavio Lanfranco.
La seduta è sospesa.



(La seduta, sospesa alle ore 18,20 riprende alle ore 18,30)


Argomento: Problemi generali - Problemi istituzionali - Rapporti con lo Stato:argomenti non sopra specificati

Dibattito sulle riforme istituzionali (seguito)


PRESIDENTE

La seduta riprende.
A conclusione di questa giornata che reputo positiva, nella quale sono state espresse le opinioni dei Gruppi, è stato redatto un ordine del giorno firmato dai Consiglieri Bontempi, Brizio, Rossa, Marchini, Ferrara Mignone, Bara e Majorino, il cui testo recita: "Il Consiglio Regionale del Piemonte riunito in seduta straordinaria per discutere sul tema delle riforme istituzionali vista la relazione del Presidente del Consiglio della quale si condividono l'impostazione e le linee considerata la rilevanza dell'ampio e articolato dibattito che ne è seguito con la partecipazione di tutti i Gruppi e del Presidente della Regione a nome della Giunta constatato che nel merito sono emerse due esigenze distinte ma connesse: la prima circa l'opportunità che il Piemonte fornisca la propria opinione ed il proprio originale contributo al processo di riforma istituzionale nazionale la seconda circa la necessità e l'urgenza che il Piemonte proceda ad alcune riforme interne impegna l'Ufficio di Presidenza: a predisporre, entro il mese di maggio, un documento sintetico rappresentativo delle varie e possibili proposte del Piemonte in ordine a quegli aspetti delle riforme istituzionali nazionali che riguardano le Regioni in relazione alla piena assunzione del ruolo politico centrale nell'ordinamento costituzionale da parte della Regione, e segnatamente: la riforma del Parlamento la riforma della Presidenza del Consiglio dei Ministri e degli organismi di rapporto tra Stato e Regioni la riforma dell'art. 117 della Costituzione la riforma elettorale la riforma del sistema delle autonomie la riforma della finanza regionale e locale ad assumere le iniziative ulteriori di tipo politico ed istituzionale nei confronti del Governo, dei Presidenti delle due Camere, del Presidente della Commissione bicamerale per le questioni regionali, dei parlamentari piemontesi e delle altre Regioni, a cominciare dalla trasmissione del presente ordine del giorno e del documento di sintesi della Presidenza ad assumere infine le necessarie iniziative di elaborazione ed approfondimento, anche attraverso la esplicita richiesta di collaborazione ad esponenti della cultura giuridico-istituzionale piemontese, sulle linee definite nel documento, assumendo come riferimento la Commissione consiliare competente per i problemi istituzionali".
La parola al Consigliere Majorino per dichiarazione di voto.



MAJORINO Gaetano

Abbiamo firmato l'ordine del giorno sul presupposto dell'interpretazione autentica del passo principale. Interpretazione autentica che mi è stata fornita dai colleghi Brizio e Marchini, secondo la quale (e lo dico perché noi non facciamo parte dell'Ufficio di Presidenza per la nota discriminazione) il documento di sintesi, in ogni caso, terrà conto di opinioni dissenzienti su alcuni punti che possono venire manifestati dai Gruppi e segnatamente dal nostro. Abbiamo firmato sul presupposto di questa interpretazione: noi, cioè, non deleghiamo in bianco l'Ufficio di Presidenza. Ad esempio, sul punto "riforma elettorale" mi sono espresso in una certa maniera quindi, su quel punto, si dirà "il Gruppo MSI dice no a qualsiasi riforma" motivando con un documento scritto ad hoc.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Rossa.



ROSSA Angelo

Prendo la parola per esprimere il voto favorevole del Gruppo socialista a questo documento che riflette alcuni percorsi che sono stati fatti.
Riflette anche quella prevedibile conclusione che nella riunione dei Capigruppo avevo suggerito, cioè un documento che si attesti su alcun punti demandandolo all'Ufficio di Presidenza. Intendo sottolineare questo aspetto positivo della conclusione.
A proposito dell'impegno ad avviare iniziative in ordine alle riforme istituzionali, entro il mese di maggio, abbiamo richiamato il nostro impegno specifico circa l'abolizione del voto segreto. Il Consiglio regionale ha già fatto un'esperienza positiva al riguardo. Abbiamo anche posto l'accento sulla nomina del Presidente della Repubblica a suffragio universale, perché dallo stesso Presidente discende la nomina di altre responsabilità a livello più generale.



PRESIDENTE

La parola al Consigliere Staglianò.



STAGLIANO' Gregorio Igor

Signor Presidente, voterò a favore di questo ordine del giorno perch mi pare utile, contrariamente a quanto è stato detto da diverse forze politiche nelle ripetute riunioni dei Capigruppo sull'argomento, concludere con un'agenda di lavoro ulteriore.
Voglio anche precisare, per la lealtà che debbo ai colleghi, in particolare a quelli che mi si rivolgono, che non ho firmato il documento in quanto lì siamo alla definizione dei titoli. Si rimanda cioè ad un approfondimento della materia nell'Ufficio di Presidenza, nel quale non avremo la possibilità di partecipar (per ovvie ragioni istituzionali, non facendo parte di questo organismo).
Con questa differenziazione intendo segnalare la necessità che il lavoro preparatorio dell'Ufficio di Presidenza venga riportato in quest'aula, di modo che ciascun Gruppo possa entrare nel merito di un lavoro che in quella sede potrà solo essere istruito.



PRESIDENTE

Questo è l'impegno che assumiamo.
Pongo quindi in votazione il documento conclusivo.
Chi è favorevole è pregato di alzare la mano.
L'ordine del giorno è approvato con 45 voti favorevoli e 2 astensioni.


Argomento:

Annunzio interrogazioni, interpellanze, mozioni e ordini del giorno


PRESIDENTE

I testi delle interrogazioni, interpellanze, mozioni e ordini del giorno pervenute all'Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale verranno allegati al processo verbale dell'adunanza in corso.
La seduta è tolta.



(La seduta ha termine alle ore 18.40)



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