Diritto
e bioetica
Il ruolo del diritto, nell’ambito della bioetica, ha subito
negli anni una significativa trasformazione, che si è sostanzialmente
articolata in due fasi:
• La prima fase, tra gli anni ’80 e l’inizio
degli anni ’90, nella quale le argomentazioni filosofiche,
teologiche e morali prevalevano su quelle giuridiche e parevano
non esistere strumenti giuridici idonei ad affrontare i problemi
che l’evoluzione della medicina e, più in generale,
della ricerca scientifica, ponevano. Era, quindi, scarsa la casistica
giudiziaria ed il dibattito che la bioetica sollecitava continuava
a crescere autonomamente e liberamente, diversamente da quanto
è avvenuto, ad esempio, negli U.S.A., dove, invece, le
questioni di diritto che i numerosi casi giudiziari ponevano e
risolvevano, hanno influenzato ed orientato un confronto più
vasto sulla bioetica.
• La seconda fase, dall’inizio degli anni ’90
sino all’epoca attuale, nella quale si è realizzato
un sostanziale allineamento con la bioetica europea. Del 16.3.1989
è la risoluzione del Parlamento europeo sulla fecondazione
artificiale in vivo ed in vitro, (considerata come intervento
a “scopo terapeutico” cioè per vincere la sterilità,
e quindi autorizzata solo su parere medico), nella quale è
sottolineata la “necessità di proteggere la vita
umana fina dal momento del concepimento” ed è individuato
il criterio del “diritto di autodeterminazione della madre
e del rispetto dei diritti e degli interessi del figlio”
per disciplinare la materia, con l’obiettivo di garantire
il “diritto alla vita e all’integrità fisica,
psicologica e esistenziale”, ed altresì il “diritto
alla famiglia, alla cura dei genitori e a crescere in un ambiente
familiare idoneo, al diritto alla propria identità genetica”.
Già da questa raccomandazione emerge la preoccupazione
per lo “spreco” di embrioni, per il rischio che vengano
sottoposti a selezione, commerciati o vengano crioconservati per
fini diversi dall’impianto e troppo a lungo (è prevista
la conservazione per non più di tre anni, dopo di che,
se non è possibile l’utilizzo, per rifiuto, malattia
o morte della donna, devono essere “scongelati e lasciati
morire”).
La fecondazione eterologa “ non è auspicata”,
ma viene ritenuta ammissibile a certe condizioni (come in caso
di sterilità irreversibile o di accertato rischio di malformazioni
gravi, da effettuarsi in centri autorizzati e senza fini di lucro,
con attenzione all’utilizzo dello sperma, per il rischio
di incesto, sulla base dell’accordo e del consenso informato
delle coppie, previo esame di idoneità delle medesime e
dei donatori, con divieto di disconoscimento e di chiedere gli
alimenti al donatore).
Viene ritenuta, invece, “da respingere” la maternità
su commissione ed individuata la punibilità di eventuali
mediatori. Viene, ancora, riconosciuto il diritto di obiezione
di coscienza per i sanitari, mentre è negato il diritto
del figlio a conoscere le proprie origini.
Sorgono e si diffondono Comitati etici, a partire dal Comitato
nazionale costituito con Decreto del Presidente della Repubblica
il 28 marzo 1990, che acquistano una rilevanza formale e sostanziale
crescenti (del 1992 è il Decreto Ministeriale che recepisce
nel nostro ordinamento la Direttiva europea n. 91/507/CEE; del
27.2.1992 è il documento stilato dal Comitato nazionale
per la bioetica nel quale è delineato il quadro istituzionale
generale dei Comitati su tutto il territorio nazionale).
Vengono, inoltre, fondate riviste interdisciplinari, come “Bioetica”
e “L’arco di Giano”; nel 1995 viene approvato
il Codice di deontologia medica (nel quale è ribadita la
censura rispetto a tutte le forme di maternità surrogata,
alla fecondazione artificiale al di fuori di coppie eterosessuali
stabili, alla fecondazione di donne in menopausa non precoce,
alle fecondazione post mortem alla selezione del seme basata su
prerogative di tipo sociale, economico o professionale, e lo sfruttamento
di embrioni o tessuti embrionali o fetali), e, parallelamente
l’intreccio fra bioetica e diritto si intensifica nei casi
giudiziari.
Rimane, peraltro, assente in questo nuovo scenario, divenuto mobile
ed intercomunicante, l’attenzione del Legislatore alla materia
delle nuove tecniche di riproduzione.
L’intervento della Corte Costituzionale, con la sentenza
n. 347 del 26.9.1998, in materia di riconoscimento, nella quale
dichiara l’inammissibilità della eccezione di legittimità
costituzionale sollevata dal tribunale di Napoli il 2.4.1997,
con riferimento all’art. 235 c.c., nella parte in cui non
preclude “l’azione di disconoscimento di paternità
al marito impotente che abbia, prima, prestato il proprio consenso
all’inseminazione artificiale eterologa della moglie, e,
successivamente, dopo la nascita di due figli, a seguito di inseminazione,
denunciati allo stato civile come legittimi, abbia revocato il
consenso, rimanendo legittimato all’azione ex art. 235 c.c.:
l’inseminazione eterologa non costituisce in tal caso adulterio
ai sensi e per gli effetti dell’art. 235 c.c. cit”,
sottolinea ancora la carenza di tutela che il vuoto legislativo
determina nelle situazioni di conflitto che si creano in questa
materia e suscita roventi dibattiti in dottrina in merito al fatto
che l’elemento biologico continui, nonostante la multiforme
realtà procreativa medicalmente assistita, a giocare un
ruolo ed un valore prevalente nell’attribuzione giuridica
della paternità, anche nell’ambito della filiazione
legittima data dal matrimonio, tale per cui il “favor veritatis”
è la regola dominante nella filiazione, prevalente anche
nei confronti del “favor legittimitatis”, con le sole
eccezioni che il Legislatore ha previsto in modo rigoroso (come
in materia di secondo riconoscimento dei figli naturali –
ex art. 250 c.c. -, o di accertamento giudiziale di paternità
– ex art. 269/274 c.c. -, nel cui ambito rileva il preminente
interesse del minore).
Già nella sentenza n. 625 del 16.12.1987, la Corte Costituzionale
aveva riconosciuto, in tema di impugnazione del riconoscimento
anche dopo la legittimazione, il “favor veritatis”
prevalere sul “favor legittimitatis”, ritenendo “tangibile”
lo status acquisito di figlio legittimato quando venga privato
“del fondamento della verità della filiazione”;
nella sentenza n. 941 del 20.7.1990 aveva ammesso l’operatività
dell’eccezione a tale prevalenza, riconoscendo, in tema
di azione per la dichiarazione giudiziale di paternità,
che il “favor veritatis” potesse soccombere rispetto
al contrario “interesse del minore” (anche se aveva
ricondotto quest’ultimo, con una sorta di automatismo, all’interesse
ad avere uno “status veritiero”); ed ancora, nella
sentenza n. 158 dell’8.4.1991, aveva ribadito l’eccezionalità,
in tema di impugnazione del riconoscimento di figlio naturale,
imprescrittibile, e di disconoscimento di figlio legittimo, sottoposta
al termine di decadenza di un anno, della prevalenza del “favor
legittimitatis” sul “favor veritatis”nel caso
di filiazione legittima; infine, nella sentenza n. 429 del 20.11.1991,
aveva, ancora una volta, sottolineato la particolarità
della novella del 1975, che aveva riservato ai soli soggetti direttamente
interessati, cioè ai membri della famiglia legittima, il
potere di decidere circa la prevalenza della “verità
legale” o della “verità biologica”.
Anche le successive pronunce della Corte di Cassazione (cfr. sent.
n. 12350 del 18.11.1992 e sent. n. 3793 del 15.3.2002) hanno ritenuto
“esclusivamente decisivo l’elemento biologico e, non
occorrendo anche una cosciente volontà di procreare, nessuna
rilevanza può attribuirsi al ‘disvolere’ del
presunto padre”. Nell’ipotesi di nascita per fecondazione
naturale omologa questo orientamento garantisce da “ripensamenti”,
ma soltanto perché l’accertamento, sempre ammissibile,
porta alla prova biologica della paternità. Non garantisce
in alcun modo il nato rispetto alla fecondazione eterologa, nella
quale il dato biologico, unico rilevante, smentisce “ a
priori” la scelta genitoriale poi ritrattata.
Il 3 ottobre 1998 viene approvato un nuovo Codice di deontologia
medica, nel quale la parte relativa alla riproduzione ripropone
sostanzialmente quello precedente, sottolineando il dovere del
medico di dare una corretta informazione e di intervenire “soltanto
al fine di tutelare la salute”. Ed è coerente con
questa finalità la legittimazione della sperimentazione
solo con “finalità di prevenzione e correzione di
condizioni patologiche”, con valenza di opportunità
diagnostica e/o terapeutica.
Sono stati portati all’esame del Parlamento diversi disegni
di legge in materia, rispetto ai quali, in attesa che l’ultimo
in discussione completi l’iter di approvazione, è
interessante sottolineare l’aspetto di diversa incidenza
da parte dello Stato. Infatti, al di là delle differenze
che ciascun progetto ha evidenziato, esiste una comune scriminante
fra quelli che prevedono il massiccio intervento statale, e la
conseguente dettagliata regolamentazione della casistica e soprattutto
dei divieti, e quelli che, all’opposto, ritengono di lasciare
alla volontà dei singoli soggetti coinvolti, preferendo
orientare l’intervento normativo dello Stato alle regole
di accesso alle pratiche procreative assistite, alle conseguenze
ed alle strutture in cui esse possono attuarsi.
Questo tema, peraltro, rimane ancora “de iure condendo”.,
rimanendo, “de iure condito” un vuoto legislativo
che produce notevoli effetti, con riferimento alla tutela del
nato e dell’embrione.
La tutela del nato
La mancanza di una normativa specifica, cui corrisponde la sempre
crescente richiesta di tutela che viene dalla realtà delle
sempre più frequenti pratiche procreative assistite, ha
determinato una situazione spesso definita “selvaggia”,
nella quale tutto è sostanzialmente permesso e gli sforzi
giurisprudenziali per garantire minime tutele si scontrano con
rigidi limiti di una legge che non contempla la realtà
fattuale generatrice questi nuovi conflitti.
Quali sono i problemi che nascono dalla procreazione assistita?
Chiarisco subito che la fecondazione omologa non pone problemi
giuridici, poiché, per definizione, essa presuppone che
una coppia, formata da un uomo (individuato come padre) e da una
donna (individuata come madre), contribuisca, esattamente come
avviene in natura, alla nascita del suo bambino.
L’unica differenza consiste, in caso di inseminazione in
vitro, nello spostamento fuori dal corpo della donna, del momento
della fecondazione, ma questo non modifica in alcun modo la paternità
e maternità biologiche.
Qualche problema giuridico nasce nel caso di premorienza dell’uomo,
ed al proposito va detto che la paternità del nato, secondo
la legge, si ricollega all’uomo che sia ancora in vita quando
avviene il concepimento (automaticamente in caso di matrimonio,
ovvero con una pronuncia del giudice, che dichiari in una sentenza
la paternità, qualora fra i genitori vi fosse semplice
convivenza, o semplice relazione, e non vi fosse stato riconoscimento
da parte di entrambi).
Questo avviene anche se il padre biologico fosse già morto
al momento della nascita. In questo caso l’alternativa alla
sentenza che dichiari la paternità, nel caso di coppia
non coniugata, può essere il riconoscimento per testamento.
Questo concetto di genitorialità ha rappresentato sinora
la fedele traduzione giuridica di un evento naturale.
E’ ovvio che, essendosi modificata la concezione tradizionale
della nascita, ed essendo ormai possibile che sia distinto il
momento della fecondazione dal momento dell’annidamento
in utero dell’uovo fecondato, possano verificarsi casi in
cui la nascita avvenga in un tempo assai lontano dalla morte del
partner (e comunque superiore al periodo di gestazione).
In ogni caso l’accertamento della paternità biologica
permette la dichiarazione di paternità, e la resistenza
dello status di figlio legittimo alle eventuali impugnazioni;
tuttavia sono ben immaginabili le questioni che possono nascere,
ad esempio in tema di successioni, di natura prevalentemente economica
e riguardanti possibili conflitti fra eredi e “nuovi nati”
che limitino o escludano legittimazioni pregresse. Inoltre, in
presenza di matrimonio, residuano questioni particolarmente delicate.
Infatti, dal punto di vista strettamente giuridico, non è
controverso che il concepimento si abbia soltanto quando l’uovo
fecondato si sia annidato nell’utero e che in tale momento
il padre legittimo, per essere considerato tale (secondo la presunzione
di paternità sui figli nati in costanza di matrimonio),
debba essere in vita. Se non lo fosse, quel bambino, legalmente,
non avrebbe un padre legittimo, quindi, non avrebbe un padre.
E ciò anche se l’uomo fosse stato in vita al momento
della fecondazione in vitro.
E’ immediatamente evidente come vi sia una ridotta tutela
nei confronti di questo figlio nato da genitori coniugati, perché
nato in epoca incompatibile con il concetto temporale di paternità
assunto dal nostro legislatore, rispetto ai figli legittimi nati
da procreazione naturale.
Sempre da un punto di vista giuridico, invece, non ci sono problemi
in caso di mancato riconoscimento del nato (nell’ipotesi
di coppia non sposata, poiché:
• Se entrambi non riconoscono il figlio egli sarà
denunciato all’anagrafe come figlio di (genitori ignoti
e dichiarato adottabile
• Se solo uno di essi non riconosce il nato, chi ha riconosciuto
può chiedere al giudice che dichiari la paternità
o maternità del partner renitente; così come il
genitore che non abbia ancora riconosciuto può chiedere
al giudice di autorizzarlo a riconoscere quando l’altro
genitore, che per primo ha effettuato il riconoscimento, abbia
negato il suo consenso.
Queste ipotesi non generano, ripeto, problemi giuridici, perché
già nella legge attuale trovano una precisa regolamentazione
o, come nel caso della premorienza, possono richiedere un nuovo
intervento del Legislatore che, però, è piuttosto
banale nella sua configurazione (es. il collegamento automatico
della paternità al momento della fecondazione in vitro
in caso di matrimonio)
Enormi ed inquietanti sono, invece, problemi diversi da quello
strettamente giuridico, che queste ipotesi esaminate pongono.
E la loro rilevanza anche sulla disciplina legislativa, quella
attuale che è carente di tutela, o quella futura che abbia
l’obiettivo di sanare questa carenza, mi induce ad introdurli
nel mio discorso.
Porre delle regole, disciplinare una certa materia, infatti, presuppone
sempre, a priori, la soluzione della questione di legittimità;
vale a dire, un concetto più ampio della stretta corrispondenza
alle norme, di accettabilità, anche morale, dei fenomeni
che si intendano regolamentare; cioè pone il quesito fondamentale
della autorizzabilità di quelle condotte che creano le
situazioni richiedenti la disciplina stessa.
Ad esempio, il Legislatore può porre regole precise in
merito al trapianto degli organi, ma prima ancora deve valutare
gli interessi o i diritti ipoteticamente configgenti, per scegliere
se autorizzare , e come, o vietare i trapianti (idem nell’esempio
della clonazione).
Ed allora, ritornando al tema che ci interessa oggi, mi pare di
dover condividere con voi alcune riflessioni.
La possibilità che nasca, a distanza magari di anni dalla
morte dell’uomo, un bambino che abbia il patrimonio genetico
del padre premorto, ma che sia senza padre (e che lo si sappia
ancor prima del concepimento) costituisce una realtà che
vede il nato pericolosamente esposto a tutte le difficoltà
di un orfano. E’ vero che orfano si può nascere o
si può diventare, ma credo sia cosa ben diversa nascere
senza un padre per un fatto accidentale della vita, o perdere,
per la stessa ragione, un genitore dopo la nascita. Tutti siamo
d’accordo nel dire che la perdita di un genitore è
una tragedia, ma va detto che in quest’ultimo caso è
una tragedia non voluta, che si può o deve accettare come
tante altre sofferenze immutabili della vita; mentre nel caso
in cui il concepimento avvenga dopo la morte del padre biologico
la tragedia è premeditata.
Dal unto di vista umano si possono comprendere e rispettare le
motivazioni di colei che compia tale scelta, perché derivano
verosimilmente da una profonda sofferenza, dal bisogno di negare
il vuoto lasciato dalla persona scomparsa attraverso la ricerca
di una sostituzione nel figlio, oppure possono fondarsi su ideali
forti, ma ciò non esime dal valutarne le possibili pesanti
conseguenze, sociali, giuridiche e psicologiche, sul nato.
Inoltre, anche a prescindere dalla premorienza di uno dei genitori,
a ben vedere, la disciplina esistente, che regola l’attribuzione
della maternità e della paternità, pone, in ogni
caso, almeno un problema etico.
La possibilità, infatti, che il nato resti senza genitori,
o senza uno di essi (parlo di genitori viventi ed escludo l’ipotesi
della coppia sposata), stride apertamente con le premesse della
fecondazione assistita (che si fonda su un desiderio particolarmente
intenso della coppia di avere un figlio che non potrebbe generare
altrimenti) e mal si concilia con la procreazione responsabile
che dovrebbe esserne il presupposto.
Infatti, ben più grave mi pare, in questi casi, la successiva
volontà (e possibilità), di entrambi o di uno di
essi, di non riconoscere il nato o di escludere il partner dal
riconoscimento.
E’ vero che esiste la tutela che ho prima richiamato, ma
può apparire quantomeno contraddittorio che proprio in
questi casi il figlio prima così cercato possa avere lo
stesso bisogno di tutela di quello che è nato per “un
incidente di percorso”.
E’ stata una realtà l’abbandono, nella primavera
del 2002, di una neonata affetta dalla sindrome di Down, nata
dopo sette inseminazioni artificiali, per il rifiuto dei genitori
della patologia della figlia e per il loro desiderio, così
è stata verbalizzato, di adottare un bambino sano.
Mi aveva colpito un brano scritto da Peter singer (Direttore del
center for Human Biothics presso la Monash University di Melburne),
nel libro :” Ripensare la vita”, “La vecchia
morale non serve più” (ed. ’94 Saggiatore),
nel quale, in un contesto variamente articolato, l’autore
si interrogava sulle incongruenze di quella che definiva come
“vecchia morale” e sul concetto di sacralità
della vita, per ricercare una “nuova morale”, che
supportasse più efficacemente difficili scelte quali l’interruzione
del trattamento sanitario, l’eutanasia, l’aborto e
perfino l’infanticidio. Egli aveva osservato, testualmente:
“La decisione dipende necessariamente dai desideri dei genitori.
Il fatto che essi desiderino tenere il bambino e gli vogliano
bene può fare una differenza enorme per le sue prospettive
future; al contrario, la qualità della vita di un bambino
abbandonato in un’istituzione senza l’amore dei genitori
può essere molto meno accettabile. L’atteggiamento
del genitore, ossia delle persone più vicine al bambino,
deve pesare moltissimo anche solo per gli effetti che la prosecuzione
della vita del bambino può avere, nel bene e nel male,
per loro e eventualmente anche per gli altri figli”.
Questa osservazione riguardava più strettamente il tema
dell’aborto, dell’infanticidio e dell’interruzione
del trattamento sanitario nei confronti di feti o neonati affetti
da gravissime patologie, cioè si rivolgeva, pur con approdi
che andavano anche in un senso psicologico, a quegli aspetti più
apertamente fisici dell’essere umano (sopravvivenza, salute
del corpo), ma non avevo potuto evitare di associarla anche ad
altri ambiti, quelli di cui trattiamo oggi, nei quali la volontà
degli adulti è già pesante in modo determinante
per le sorti di un bambino, e non mi era stato possibile reprimere
un forte sconcerto per la mutabilità di questa volontà
o del desiderio ( mutabilità che, nel mio lavoro, è
davvero il pane quotidiano) e per gli effetti, certo diversi dalla
morte 8 almeno quella fisica), ma pur sempre rilevanti, che ne
potevano derivare, ad esempio, in un progetto procreativo assistito.
Pur riconoscendo una funzione riparatrice dell’adozione
devo dire che mi sono spesso occupata di bambini che, neonati,
si lasciavano morire perché si sentivano abbandonati dai
genitori; perché non scelti come soggetti da amare ed il
pensiero che una “nuova morale” potesse, in nome di
un miglioramento della qualità della vita ( non so dire
se dell’adulto o del bambino) riporre nella volontà
dei genitori il confine fra la vita e la morte, mi ha lasciata
un profondo, laico, senso di inquietudine.
E’ ben vero che i mutamenti di volontà possono intervenire
anche quando il concepimento e la nascita siano del tutto spontanei,
perché allora, negli altri casi, ci pare che qualcosa strida
maggiormente? Forse l’idea che forzare la natura non possa
o non debba avere ripensamenti, forse perché immaginare
una volontà senza limiti può fare paura, o forse
perché, per l’esperienza di giudice minorile, ho
temuto di prefigurarmi uno scenario in cui, nel conflitto fra
diversi bisogni, potesse essere vincente non quello più
motivato e ragionevole 8 anche in base ad una nuova e più
efficiente morale), ma comunque quello assunto da chi abbia, nei
fatti, più potere, cioè sempre l’adulto.
Riprendendo ad esaminare, dopo questa parentesi, le questioni
giuridiche più propriamente ricollegate allo status delle
persone, va detto che i veri problemi, sotto questo profilo, nascono
a proposito della fecondazione eterologa.
Le possibilità sono diverse e per semplificare chiamerò
moglie e marito la donna e l’uomo che formino la coppia
che vuole un figlio, sapendo però che il matrimonio costituisce
esclusivamente un’agevolazione linguistica per me, un optional
informativo, ma non un requisito, attualmente, per avere accesso
alle tecniche della fecondazione assistita.
Le ipotesi sono:
1. donazione del seme: la moglie riceve un embrione frutto della
fecondazione del proprio ovulo fecondato con il seme di un donatore;
2. donazione dell’ovulo: la moglie riceve un embrione frutto
della fecondazione dell’ovulo di una donatrice con il seme
del marito;
3. affitto dell’utero: una donna estranea alla coppia riceve
un embrione frutto della fecondazione dell’ovulo della moglie
con il seme del marito;
4. affitto dell’utero e donazione dell’ovulo e/o
del seme: una donna estranea alla coppia riceve un embrione frutto
della fecondazione del proprio ovulo, ovvero di ovulo della moglie
o di altra donatrice, con il seme del marito o di altro donatore.
Vediamo di analizzarle singolarmente.
1. donazione del seme: la moglie riceve un embrione frutto della
fecondazione del proprio ovulo fecondato con il seme di un donatore.
Fermiamoci a considerare cosa succede oggi, con la realtà
di una legge che ignora questo fenomeno e, quindi, non lo disciplina.
Il nato ha un padre biologico ( il donatore del seme) ed un padre
legale ( sociale, cioè il marito della donna che partorisce).
Verrebbe spontaneo dire che certamente è padre, fra i due
, colui che ha condiviso con la madre il progetto della nascita
e che si è messo nella condizione di svolgere il suo ruolo
paterno, pur non avendo trasmesso al nato alcun patrimonio genetico;
così come verrebbe spontaneo escludere che il donatore,
per il solo fatto di aver donato il seme, senza più curarsi
dell’utilizzo che altri avrebbero fatto delle sue cellule,
non potrebbe essere ritenuto padre.
Ebbene, nella realtà giuridica attuale avviene questo:
• Se la madre che ha partorito è coniugata automaticamente
( ex lege) viene attribuita al marito la paternità, ma
può essere successivamente intentata l’azione di
disconoscimento ( dal marito stesso), che potrà sfociare
in una pronuncia di disconoscimento della paternità, perché
le analisi che verranno disposte potranno sicuramente escludere
la paternità biologica di quell’uomo. Dato, peraltro,
assolutamente noto e pacifico da sempre.
Quel bambino resterà, quindi, senza padre.
Ma vi è di più, perché se la madre, volendo
dare un padre al suo bambino, potesse risalire al nome del donatore
del seme ( non esiste, come ho già detto, alcuna legge
che ponga il divieto e che garantisca la segretezza in proposito)
lo potrebbe citare in giudizio per veder dichiarata la paternità
dal giudice.
E questo può avvenire perché, ancora una volta,
le indagini ematiche e del D.N.A., porteranno ad accertare un
dato assolutamente pacifico, e cioè che quel bambino ha
il patrimonio genetico anche di quell’uomo.
Il figlio stesso potrà intentare entrambe le azioni, contro
il padre legale e contro il padre “genetico”.
• Se la madre che ha partorito non è coniugata la
sua maternità le verrà attribuita a seguito del
proprio riconoscimento, così come la paternità verrà
attribuita al suo convivente a seguito del riconoscimento di questi.
Ma può succedere che il partner cambi idea, perché
nel frattempo sono sorti conflitti con la sua compagna, e non
voglia riconoscere il figlio.
In questo caso la madre può chiedere al giudice di dichiarare
giudizialmente la paternità, ma si vedrà respingere
la domanda perché, ancora una volta, le indagini ematologiche
escluderanno la paternità biologica di quell’uomo.
Anche lei, allora, potrà intentare la stessa azione nei
confronti del donatore, con l’esito che ho descritto per
la donna coniugata.
Può ancora succedere che il padre riconosca il nato, ma
cambi idea successivamente. Anche in questo caso gli sarebbe facile,
tutto sommato, spogliarsi di questa paternità impugnando
egli stesso il riconoscimento come non veritiero.
E ancora il risultato sarebbe di avere un nato senza padre, o
con un padre solo biologico ( il donatore), che mai nella sua
vita è stato coinvolto in un legame affettivo con lui o
con la madre.
Può essere, invece, la madre a non riconoscere il figlio,
ed il compagno che abbia effettuato il riconoscimento avrà
la possibilità di chiedere al giudice la dichiarazione
giudiziale di maternità.
In questo caso il nato acquisterebbe entrambi i genitori, ma sarebbe
comunque esposto al rischio di perdere il padre, dopo aver acquistato
la madre, perché la donna potrebbe, a quel punto, impugnare
il riconoscimento dell’uomo per difetto di veridicità,
con le conseguenze che ho già descritto.
Può, in ultimo, ancora succedere che il padre, il quale
da solo abbia riconosciuto, non intenda promuovere un’azione
di accertamento della maternità, ma dopo un po’ non
voglia più neppure essere padre: impugnerà il proprio
riconoscimento perché non veritiero ( con l’esito
positivo che si è detto), ed il nato si ritroverebbe ad
essere senza genitori. Gli verrà nominato un tutore, il
quale, essendone legittimato, potrebbe decidere di promuovere
l’azione per la dichiarazione di paternità, per esempio,
nei confronti del donatore, con l’esito che si è
detto.
Ricordo che la legge 149/01 sull’adozione, che pure permette
un limitato accesso all’identità ed alle origini
dei maggiorenni che siano stati adottati, non consente tale accesso
quando il minore dichiarato adottabile sia figlio di ( genitori)
ignoti.
La fine di questo dramma, perché non so con quale altro
nome chiamarlo, sarà che il bambino potrebbe avere come
unico genitore il donatore del seme.
Vale la pena di ricordare che tutte le azioni che ho enunciato
sono in tutto o in parte trasmissibili agli eredi, o esercitabili
dal Pubblico Ministero, o da chiunque vi abbia interesse.
- Le questioni possono essere infinite, sotto questo profilo.
Si pensi, ad esempio, al decesso del padre sociale ed alle possibili
questioni ereditarie sollevabili dai parenti del defunto, i quali
non solo possono essere stati esclusi dall’eredità
in ragione della sua nascita, ma sono pure tenuti ad assolvere,
nei suoi confronti, all’obbligo alimentare. Si immagini,
ancora, la situazione, che concretamente si è già
verificata, in cui la filiazione, nella scelta dei genitori, era
stata programmata attraverso la fecondazione omologa, ma nella
realtà, a loro insaputa, il concepimento sia avvenuto grazie
all’inseminazione eterologa. Nel caso che conosco la verità
era emersa attraverso l’accertamento, nel bambino, di una
gravissima patologia sicuramente ereditaria, ma che nessuno dei
due genitori avrebbe potuto trasmettergli…-
Mi pare che già questi esempi orientino sufficientemente
nella direzione della necessità di una disciplina specifica,
che tenga conto soprattutto del fatto che è davvero il
bambino a pagare le scelte degli adulti e che se non c’è
una precisa tutela a lui diretta ( non necessariamente corrispondente
ad un divieto, che in quanto violabile, crea forse maggiori vuoti
di protezione), qualche volta, o spesso, gli adulti sono anche
disposti a sacrificarlo.
Ma anche rispetto agli adulti il bisogno di una scelta legislativa
appare evidente se solo si pensa al fatto che, da un lato, la
fecondazione eterologa è ignorata dalla legge, quindi ammessa
senza limiti; d’altro lato, il falso riconoscimento è
vietato, ed è anche punito penalmente.
Portando il discorso agli estremi si potrebbe sostenere che nel
caso in cui si sia ricorsi alla fecondazione eterologa la falsità
dolosa ( cioè consapevole e voluta) del riconoscimento
del genitore solo sociale sia lampante e ad essa dovrebbe seguire
un’immediata punizione ( nel senso indicato cfr. sent. Tribunale
di Rjmini del 24.3.1995).
L’art. 74 della L. 184/83 sull’adozione, prevede l’obbligo
per gli ufficiali di stato civile di segnalare ogni riconoscimento
che possa apparire non veritiero, e se costoro fossero informati
del ricorso alla fecondazione eterologa dovrebbero, come la legge
loro impone, segnalare immediatamente al Tribunale per i minorenni,
il quale, a sua volta, oltre a verificare la situazione di fatto
del minore, dovrebbe trasmettere gli atti alla Procura della Repubblica
per l’avvio dell’azione penale contro il genitore
solo sociale.
Ciò porterebbe ad affermare che l’inseminazione eterologa,
non prevista e disciplinata dal diritto civile, essendo punibile
dal diritto penale il falso riconoscimento che essa determina,
sia illegittima, quindi vietata.
Guardandomi intorno non mi pare che questa prospettiva sia sentita
come una realtà doverosamente percorribile.
- Il Tribunale di Roma, con sentenza del 17.2.2000, aveva autorizzato
il medico a procedere all’inseminazione eterologa, previamente
concordata fra il sanitario e la coppia, ma alla quale il medico
si era rifiutato di dare corso dopo che era intervenuto il Codice
deontologico del 25.6.95 ( che la vietava), sulla base della valutazione
della “liceità” e della “meritevolezza
dell’accordo intervenuto fra i due coniugi ed un medico”.
–
Ma allora dovremmo sostenere che gli obblighi ( di segnalazione,
di denuncia penale) che la legge prevede siano relativi, cioè
un po’ operino ed un po’ no…, ma introdurremmo
un principio che mi pare davvero di non poter sottoscrivere.
2. donazione dell’ovulo: la moglie riceve un embrione frutto
della fecondazione dell’ovulo di una donatrice con il seme
del marito.
In questo caso, rispetto all’attribuzione biologica e legale
della paternità non nascono problemi, poiché vi
è corrispondenza fra paternità biologica e quella
legale.
Nascono, invece, problemi, a mio avviso molto gravi, a proposito
della madre.
Infatti, se è pacifico che la madre è colei che
partorisce, secondo l’art. 269 c.c., che recita, testualmente:
… colui che fu partorito dalla donna …”, e se
è pacifico che in questo caso è la moglie a partorire,
è vero però che, di fronte ad un esame genetico,
ella non sia madre, perché il nato non ha il patrimonio
genetico di questa donna, bensì quello della donatrice
dell’ovulo. E questa ipotesi il legislatore non poteva prevederla,
né, quindi, disciplinarla.
Quindi, nel caso in cui venisse contestata la maternità
ci si chiede quale concetto dovrebbe prevalere: cioè se
dovrebbe prevalere quello della maternità da parto ( che,
peraltro, sappiamo non prevedere l’ipotesi che il parto
segua ad un concepimento con embrione non proprio della donna),
ovvero quello della madre genetica, cioè della donna che
ha trasmesso il suo patrimonio genetico.
Ci si chiede, quindi, se il nato avrà come madre quella
cd. gestazionale ( detta anche surrogata o su commissione) o quella
cd. genetica.
3. affitto dell’utero: una donna estranea alla coppia riceve
un embrione frutto della fecondazione dell’ovulo della moglie
con il seme del marito;
Ancora una volta questo caso non pone problemi relativamente
alla paternità, essendovi corrispondenza fra quella biologica
e quella legale.
Inquietanti sono, invece, i problemi riferiti alla maternità.
Secondo la legge, come ho appena detto, la madre sarebbe verosimilmente
colei che ha partorito ( madre gestazionale), anche se chi ha
voluto questo progetto di nascita è la madre genetica.
Ci si chiede, allora, se la madre gestazionale, che non vuole
per sé quel bambino, possa rinunciare alla sua maternità
in favore della madre genetica. E anche ammessa questa facoltà,
ci si domanda che cosa succederebbe se non intendesse rinunciarvi.
In questo caso il nato avrebbe lei come madre e come papà
il marito della madre genetica.
- La giurisprudenza, a parte la sentenza citata che rappresenta
un unicum nello scenario delle decisioni, è orientata a
considerare il patto di rinuncia come illecito, il che significa
che quando sorgano contestazioni non sarebbe invocabile alcuna
tutela giudiziale. In questo senso, il Tribunale di Monza, con
sentenza del 27.10.1989, ha dichiarato la nullità del “cd
contratto (atipico) di maternità, in tutte le sue forme
e quale che ne sia, nei diversi casi, lo specifico contenuto (…)
per impossibilità ed illiceità dell’oggetto,
per illiceità della causa, nonché per frode alla
legge”, concludendo per la mancanza, per la coppia “committente”
di ogni “tutela giudiziaria delle proprie ragioni, di fronte
alla madre surrogata o portante di dare piena esecuzione alle
obbligazioni assunte (…) qualora il marito della coppia
(…) sia il padre biologico (…) vi sarà la possibilità
di riconoscerlo (250 c.c.) come figlio naturale e chiederne l’inserimento
nella famiglia legittima (252 c.c.) (…) tutte cose, peraltro,
che potrà fare contemporaneamente anche la madre su commissione,
nel qual caso scaturirebbero, evidentemente, situazioni conflittuali”
. –
In ogni caso, se la madre è una soltanto, la madre genetica
potrebbe diventare madre cd. sociale solo con un intervento del
giudice. Ma il giudice ha a disposizione unicamente lo strumento
dell’adozione. Però l’adozione, proprio perché
comporta la creazione di un rapporto legale di filiazione completamente
sostitutivo di quello naturale, può essere ritenuta non
applicabile nei confronti di una donna che estranea non sia per
il nato, il quale, infatti, ha il patrimonio genetico proprio
di quella donna.
4. affitto dell’utero e donazione dell’ovulo e/o
del seme: una donna estranea alla coppia riceve un embrione frutto
della fecondazione del proprio ovulo, ovvero di ovulo della moglie
o di altra donatrice, con il seme del marito o di altro donatore.
Qui siamo nel caos più assoluto. Possiamo sommare tutti
i problemi che ho appena accennato ed elevarli all’ennesima
potenza, poiché una simile frammentazione del processo
di nascita esula così radicalmente dalla concezione tradizionale
della maternità e della paternità ( anche biologiche),
che ogni tentativo di adattare la legge ( che alla tradizione
è rimasta) a queste nuove ipotesi fa acqua da ogni parte.
Il nato può avere teoricamente cinque genitori: tre madri
( quella genetica, quella gestazionale, quella sociale) e due
padri ( quello genetico e quello sociale).
Non è detto, inoltre, che i problemi non si complichino
ulteriormente. Infatti, se la coppia dei cd. aspiranti genitori
fosse una coppia di omosessuali ( due donne o due uomini) è
intuibile come, al di là di ogni possibile problema psicologico
o morale, la confusione tocchi limiti sconvolgenti: il nato avrà
genitori vari, fra i quali gli stessi genitori cd. sociali potranno
essere variabili, per così dire, cioè, a seconda
dei casi, potranno essere due madri o due padri.
Più che mai di fronte a questo scenario si pone l’interrogativo
sul quando si possa far ricorso alle cd. tecniche di fecondazione
artificiale.
Se, cioè, come sembra essere l’orientamento prevalente
di chi si sia occupato, a diverso titolo, del problema, possa
essere fatto ricorso alle tecniche di fecondazione soltanto quando
vi sia un impedimento reale alla procreazione, ovvero anche quando
tale impedimento non vi sia.
Pensate, per fare un parallelo, all’allattamento artificiale
del neonato: si era imposto per salvaguardare la salute della
madre e del bimbo nei casi in cui vi era l’impossibilità
o la dannosità dell’allattamento materno.
La sopravvivenza del nato e la salute della madre erano garantite,
ma con alcuni costi ( ad es. la mancata trasmissione, attraverso
il latte materno, di tutta una serie di coperture immunitarie
verso le malattie; la modificazione del contatto fisico madre-bambino
..) che, ovviamente, parevano accettabili a fronte del bene, sicuramente
più importante, che era in pericolo, e cioè la sopravvivenza
o la salute. Ma se ben rammentiamo, dobbiamo ammettere che si
è ricorsi, per un lungo periodo, anche su suggerimento
medico, all’allattamento artificiale semplicemente per motivi
estetici, cioè per non pregiudicare l’estetica del
seno materno con l’allattamento naturale ( o per motivi
pratici, essendo la madre una figura fungibile solo se l’allattamento
era artificiale), assumendo i costi di cui ho detto senza che
fosse in gioco, come contropartita, la sopravvivenza del nato
o la salute della madre.
Ebbene, tornando al quando poter far ricorso alle tecniche della
fecondazione artificiale, poiché non vi è alcuna
legge che ne vieti l’accesso anche quando non vi sia un
impedimento, possiamo facilmente rappresentarci che ad esse possa
rivolgersi anche chi impedito non sia, ma scelga semplicemente
di non voler portare il peso di una gravidanza o di una paternità
biologica ( ancora per motivi estetici, per svalutazione delle
proprie caratteristiche fisiche o intellettive, per ragioni di
lavoro o per altre ragioni le più varie).
La libertà dell’individuo, anche in rapporto all’ingerenza
dello Stato nelle questioni più personali che riguardano
il cittadino ( e la procreazione rientra certamente fra queste),
rappresenta un argomento molto delicato nel quale non intendo
proporre soluzioni che non ho. Come giurista mi compete soltanto
di sottolineare quali conseguenze si determinano in mancanza di
una legge che disciplini la materia, come si è già
visto; e quali rischi possano derivare da una disciplina più
o meno rigorosa.
Paradossalmente, una legge che preveda l’intervento massiccio
dello Stato nel controllo dell’accesso alla pratiche di
fecondazione assistita, infatti, rischia di produrre una minor
tutela per il soggetto più debole ( il nato), posto che
i divieti possono essere violati ( e certamente non da chi dovrebbe
essere tutelato) e la previsione di rigorosi limiti facilmente
comporta la mancata previsione della tutela di chi si trovi a
nascere perché … qualcun altro quei limiti li ha
violato!
In concreto, se la fecondazione eterologa venisse vietata, per
ragioni psicologiche, etiche o morali anche potenzialmente condivisibili,
ma se, ciò nonostante, il bambino venisse alla luce, quale
tutela egli avrebbe da questo divieto? Nessuna. Sarebbe decisamente
più tutelato da una normativa che, in ogni caso, ne disciplinasse
gli effetti .
La tutela dell’embrione
I problemi che riguardano i cd. embrioni in soprannumero ( o embrioni
residui) sono sconcertanti, non meno di quelli sin qui esaminati,
e delicati, allo stesso tempo.
La notizia della soppressione in massa che è stata operata
anni or sono in Inghilterra degli embrioni congelati e disconosciuti
dalle persone che avevano avviato un progetto di procreazione
assistita credo non sia passata inosservata a molti di voi.
Ho cercato di dare un senso allo sconcerto provato arrivando alla
conclusione secondo la quale qualunque sia la morale che uno Stato
ritenga di seguire, sia di per sé immorale che questi eventi
accadano per il solo fatto che lo Stato non abbia ancora deciso
quale morale abbracciare, come è nella realtà odierna
( anche l’autoregolamentazione dei medici è una scelta
della categoria e non dello Stato che li abbia deputati all’autodisciplina
!).
Credo, infatti, che si possa e si debba discutere sul concetto
etico dell’inizio della vita, e che ogni comunità
civilmente organizzata debba comprendere di quali valori si senta
portatrice, e debba scegliere consapevolmente se privilegiare
il momento della formazione dell’embrione o un altro momento
del processo produttivo, sulla base del quale far scattare la
tutela. Ciò che mi pare criticabile è che sia possibile
l’eliminazione di qualcosa , che non si è ancora
avuto modo di decidere ( seppur convenzionalmente) se sia un essere
umano in divenire o no, se sia importante tutelarlo o no, semplicemente
perché ormai i pretendenti non avevano più pretese
da avanzare ed i responsabili della custodia dovevano liberare
il campo per altro.
Occorre, a tal proposito, considerare che tutti gli Stati che
hanno legalizzato l’aborto, pur in modo differente fra di
loro, hanno però concordemente fondato questa scelta etica
sul diritto della donna a disporre del proprio corpo, ritenendo
la prevalenza di questo diritto su quello del feto alla vita,
mentre tutto ciò non verrebbe in questione nel caso degli
embrioni, che nel corpo della donna non sono, non sono mai stati
e mai vi saranno.
• Si è sostenuto che la tutela dell’embrione
debba essere operare già nelle prime due settimane di vita
( quando si parla del pre-embrione), pur essendo controversa,
in ambito scientifico, la presenza dell’identità
somatica, in tale epoca, che, secondo la regola aurea, impone
il rispetto verso ciò che prelude a divenire uomo. Meritevoli
di tutela sarebbero, quindi, gli interessi di chi nascerà
( questa posizione è stata contestata sostenendo che anche
i gameti, sulla base di tale assunto, dovrebbero trovare la medesima
tutela).
• Da altri si è sostenuto, invece, che la tutela
dell’embrione debba essere ricondotta al significato procreativo
che assume l’embrione e, secondo questa concezione, tutelabili
sarebbero gli interessi delle persone da cui l’embrione
proviene. Secondo questa ottica non si potrebbe escludere la liceità
della sperimentazione, ma essa richiederebbe il consenso di coloro
che hanno conferito i gameti ( si è obiettato che sarebbe
eccessiva la rilevanza del consenso, in mancanza del quale sarebbero
precluse sperimentazioni importanti, ovvero in presenza del quale
dovrebbero essere impiantati anche embrioni portatori di difetti
genetici)
Oggi, l’acquisizione della capacità giuridica ,
su cui si innesta il riconoscimento dei diritti e la conseguente
tutela rispetto alle possibili violazioni, è subordinata
alla nascita ( anche quando il momento del concepimento è
giuridicamente rilevante, come nel caso, ad esempio, del diritto
successorio), e si propone di spostarla al concepimento, ma si
è obiettato che l’embrione è una spes vitae
e non ancora una persona, che può anche non nascere per
cause naturali (I.N.G.) o per scelte successive (I.V.G.).
- I dati statistici che vengono riportati dagli obiettori a questa
proposta evidenziano cinque aborti spontanei precoci per ogni
gravidanza accertata –
Il riconoscimento della personalità giuridica all’embrione
comporterebbe il divieto di ucciderlo ( cioè il divieto
di abortire in qualsiasi momento e per qualunque ragione, ed il
divieto di utilizzarlo per ragioni di ricerca), ma anche il dovere
di soccorrerlo, impiegando le tecniche mediche conosciute per
garantirne la sopravvivenza, anche quando essa sia minacciata
da gravissime malformazioni ( cioè nei casi in cui si verifica,
di regola, l’aborto spontaneo)
Successivamente al diffondersi della nuova pratica della fecondazione
extracorporea, con la formazione dei pre-embrioni in vitro, la
questione ha assunto ancor maggiore rilevanza perché, da
un lato, è nota la posizione dei ricercatori, i quali sostengono
che proprio la sperimentazione su questi embrioni è necessaria
a far progredire la ricerca, permettendo l’acquisizione
di nuovi orizzonti, che possono portare incalcolabili benefici
all’umanità; d’altro lato, è altrettanto
nota l’esigenza di limitare i prelievi degli ovociti nella
donna che si sottoponga a fecondazione assistita, tenuto conto
del fatto che rientra nella fisiologia di questo progetto procreativo
l’esistenza dei cd. pre-embrioni in soprannumero, quando
non si realizzi la necessità ( o la semplice opportunità)
di nuovi impianti.
- in Francia, alla fine del 1994 i pre-embrioni soprannumerari
erano 60 mila; in Gran Bretagna, nello stesso anno, erano ca.
100 mila
Si è proposto di applicare la normativa relativa all’aborto,
anche ai pre-embrioni, ma subito è stato obiettato che
le leggi sull’aborto avevano, tutte, un obiettivo di tutela
diverso, come si è già ricordato, cioè la
salute della donna, quando l’aborto ne poneva a rischio
la sopravvivenza ( cfr. Legge dello Stato di New York del 1828,
che mirava a tutelare l’elevato numero di donne che morivano
a causa della gravidanza o del parto); ovvero, il superiore interesse
dello Stato ai figli; oppure, ancora, per tutelare la sanità
e l’integrità della stirpe. In ogni caso, in tema
di aborto, si pone una teorica situazione di conflitto fra il
diritto ( o interesse) della donna a gestire il proprio corpo,
secondo la concezione più moderna della legge sull’aborto,
e l’interesse del feto a vivere. Conflitto che non si realizzerebbe,
neppure teoricamente, nel caso di pre-embrioni in vitro.
Le questioni, sono:
• perché il pre-embrione merita tutela? Anche non
ritenendo il pre-embrione equiparabile alla persona ciò
non esclude che esso sia meritevole di una qualche tutela per
ragione diverse dal ritenerlo “come se” fosse una
persona.
• Quale intensità di tutela merita? Quantomeno il
Legislatore si dovrebbe pronunciare in merito alla possibilità
di farne oggetto di commercializzazione, o in merito alla possibilità
di distruzione ( come possa avvenire, dove possa avvenire, cioè
solo in strutture pubbliche o anche in strutture private; in quale
numero …); ovvero, in merito alla possibilità, ad
esempio, di creare nuovi embrioni quando sia già esclusa
una concreta possibilità di nascita, e così via.
Certo, la tutela della salute dell’embrione riguarda non
soltanto il nato, ma anche i suoi genitori.
Ricordiamo tutti la notizia della mancanza di controlli sui donatori
del seme che, presso un centro medico privato , non ha potuto
accertare tempestivamente, ed impedire, la diffusione di gravi
patologie nei bambini nati con fecondazione eterologa ( trasmissione
dell’H.C.V. o dell’H.I.V.).
Oltre alle ovvie considerazioni in merito alla tutela civilistica
dei genitori e del nato, mi paiono interessanti alcune considerazioni
sul versante penale.
I responsabili di questi centri, per così dire, incriminati,
potrebbero essere denunciati, ad esempio, per lesioni colpose
( posto che non si deve presumere, o non si provi, la volontarietà
nel produrre la malattia) – ai sensi dell’art. 590
c.p. – e condannati ad una pena che, nel caso di lesioni
nei confronti di più persone, non potrebbe comunque superare
i cinque anni di reclusione, se vi fosse la presentazione della
querela da parte della persona offesa.
Ebbene, la stessa norma penale citata prevede, invece, quando
si tratti di lesioni colpose, gravi o gravissime ( e di lesioni
gravi o gravissime si tratta nei casi delle infezioni richiamate)
provocate in violazione delle norme che tutelano la prevenzione
degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene all’igiene
sul lavoro ( o che producano una malattia cd. professionale),
la procedibilità sia d’ufficio – perché
vi è un interesse pubblico alla punizione ( che, evidentemente,
non sarebbe riconosciuto nel caso del nato che sia leso nella
sua integrità fisica) -, cioè a prescindere dalla
volontà della vittima. E se in questa norma vi è
un’intuibile scelta politica di tutelare con maggiore vigore
la parte più debole in un rapporto di lavoro, molto meno
comprensibile è quella oggettiva minor tutela della vittima
8 il bambino), che debole è per definizione, nei casi di
contagio che ho richiamato.
Certo, il codice penale non poteva disciplinare queste situazioni
per la semplice ragione che non poteva conoscerle, ma oggi, quando
esse sono divenute da tempo realtà, pare ancora accettabile
che restino prive di una specifica scelta legislativa?
Infine, si pone seriamente il problema dell’identificazione,
seppur tutelata, del donatore del seme, perché ricordiamo
tutti il caso di quel centro con riferimento al quale era emerso
che il titolare era stato pressoché unico donatore ed aveva
fatto nascere tanti fratelli che non sapranno mai di esserlo,
con tutti i problemi che possono seguire alla consanguineità.
In conclusione, credo debba essere viva l’attenzione al
problema più generale della necessità di tutela,
quale che essa sia ( attraverso divieti, attraverso limitazioni
o attraverso la disciplina degli effetti, come ad esempio la proposta
dell’adozione degli embrioni in soprannumero ha cercato
di prospettare), dell’embrione di per sé, con riferimento
alla sperimentazione, all’utilizzo, alla conservazione,
alla produzione, e così via.
Anna Maria Baldelli
Giudice presso il Tribunale per i minorenni di Torino
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