I medici italiani,
nel definire il ruolo del minore nell’ambito delle decisioni
che riguardano il trattamento della sua malattia, devono innanzi
tutto attenersi alle disposizioni contenute nel Codice di Deontologia
Medica, la cui ultima revisione è del 1998.
L’Articolo 29 dice: “Il medico deve contribuire a
proteggere il minore, l’anziano e il disabile in particolare
quando ritenga che l’ambiente, familiare o extrafamiliare
nel quale vivono, non sia sufficientemente sollecito alla cura
della loro salute, ovvero sia sede di maltrattamenti, violenze
o abusi sessuali, fatti salvi gli obblighi di referto o di denuncia
all’autorità giudiziaria nei casi specificatamente
previsti dalla legge.
Il medico deve adoperarsi, in qualsiasi circostanza, perché
il minore possa fruire di quanto necessario a un armonico sviluppo
psicofisico ….
Il medico, in caso di opposizione dei legali rappresentanti alla
necessaria cura dei minori e degli incapaci deve ricorrere alla
competente autorità giudiziaria” .
L’articolo 33, in ambito di informazione e consenso, afferma:
“Allorché si tratti di minore, di interdetto o di
inabilitato, il consenso agli interventi diagnostici e terapeutici,
nonché al trattamento dei dati sensibili, deve essere espresso
dal rappresentante legale.
In caso di opposizione da parte del rappresentante legale al trattamento
necessario e indifferibile a favore dei minori o di incapaci,
il medico è tenuto ad informare l’autorità
giudiziaria”.
E infine, per quanto concerne il capitolo dell’autonomia
del cittadino nei confronti della malattia, della diagnosi e della
cura, l’articolo 34 impone che “Il medico ha l’obbligo
di dare informazioni al minore e di tenere conto della sua volontà,
compatibilmente con l’età e con la capacità
di comprensione, fermo restando il rispetto dei diritti del legale
rappresentante”.
Anche queste regole, come tutte le altre presenti nel Codice Deontologico
sin dalla sua prima stesura, fatta a Sassari nel 1903, sono punti
di arrivo di un “sentire comune” che diviene e si
trasforma nel tempo, di risposte a nuovi quesiti che la realtà
propone in ambito etico ma anche punti di partenza per successive
elaborazioni o, spesso, rielaborazioni.
Se si guarda alla storia della professione medica degli ultimi
trent’anni è innegabile che la società e i
medici siano stati protagonisti di cambiamenti a dir poco epocali:
una fase di transizione che, a partire da una concezione paternalistica
del rapporto con il “paziente” è approdata
al consenso informato con il “malato”, cioè
alla condivisione ragionata e consapevole di qualsiasi percorso
diagnostico, terapeutico, di prevenzione da seguire. Oggi il significato
più profondo della dignità, della libertà
e dell’indipendenza professionale del medico origina proprio
dal confronto con il diritto basilare del malato circa la propria
autonomia di scelta. Questo confronto, attraverso il consenso
informato, alimenta quell’alleanza terapeutica che giustifica
l’atto medico in quanto le decisioni vengono prese con il
malato e non più semplicemente per il paziente. L’aspetto
semantico dell’uso della parola malato al posto di paziente,
non è di tipo formale: anche in questo caso, come affermano
gli esperti di linguaggio, la lingua si dimostra un corpus vivo
di simboli che accompagna qualsiasi cambiamento sociale.
L’atto medico può essere definito anche come un complesso
di alto significato etico e culturale di relazioni interpersonali
tra professionista della salute e malato; le modifiche epocali
introdotte via via in tale relazione sono tuttavia state elaborate
(sarebbe ingenuo affermare il contrario) attraverso le modificazioni
instauratesi in un rapporto tra uomini liberi, informati e consapevoli.
Ma cosa accade quando uno dei soggetti che dà vita alla
relazione non è libero, consapevole o addirittura è
un minore? La lettura del Codice Deontologico in vigore non lascia
molti dubbi: uno dei nuovi obblighi a carico dei medici evidenziati
in quel testo è quello di dotarsi di efficaci strumenti
di comunicazione. Se questo era negli intenti dei colleghi che
hanno stilato quel testo, la realtà si presenta con una
variabilità di aspetti che indicano come un lungo, accurato
e capillare lavoro di formazione debba ancora essere fatto.
Se focalizziamo l’attenzione sul rapporto medico/bambino-malato,
come abbiamo visto dalla riproposta del testo dei tre articoli
del Codice Deontologico citati prima, in linea di massima vi è
un accordo almeno formale sul fatto che nel processo decisionale
della cura della malattia l’adolescente, ed in minore misura
il bambino, debba essere attivamente coinvolto, in relazione alla
sua maturità.
Un problema, questo, che anche a livello internazionale è
stato affrontato da un punto di vista giuridico ed ha già
prodotto importanti documenti: la Convenzione dei diritti del
bambino adottata dalle Nazioni Unite nel 1989 e molti articoli
della Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina
redatta dal Consiglio di’Europa nel 1997 sono stati recepiti
come leggi dello Stato dall’Italia. Nel nostro paese il
problema della tutela e dell’allargamento dei diritti dei
minori sono da tempo, e per fortuna, oggetto di riflessioni che
arricchiscono il panorama sociale e culturale italiano in molte
istituzioni: basta ricordare i pareri del Comitato Nazionale di
Bioetica, la Carta di Treviso elaborata dall’Ordine nazionale
dei giornalisti, la Carta di Perugia su “Informazione e
malattia” concordata dagli Ordini dei medici, dei giornalisti
e degli psicologi dell’Umbria, la stessa Carta di Torino
2001, elaborata dall’Ordine dei medici di Torino e dall’Ordine
dei giornalisti del Piemonte per “la deontologia dell’informazione”
in ambito medico-sanitario.
Come è stato autorevolmente detto dal Comitato Nazionale
di biotetica, “È osservazione comune (e ben fondata)
che il mondo in cui viviamo ha ormai assunto nei confronti dell’infanzia
un consolidato atteggiamento schizofrenico. Da una parte oggi
i bambini sono desiderati, amati e vezzeggiati in forme assolutamente
sconosciute non solo in altre epoche e in altre culture, ma anche
nel passato più recente; vengono assunti come destinatari
privilegiati di specifiche convenzioni internazionali, nel nome
di diritti fondamentali solennemente riconosciuti come specificamente
loro (…) Dall' altra parte però è impossibile
non prendere atto non solo che gli abusi e le violenze nei confronti
dell’infanzia sembrano costantemente aumentare nel nostro
tempo e assumere le forme più subdole e più crudeli,
tali da rendere non solo auspicabili, ma improcrastinabili da
parte della comunità internazionale interventi penali e
comunque repressivi della massima severità (della cui efficacia,
però e purtroppo, sono in molti a dubitare), ma anche che
noi, che tanto diciamo di amarla, abbiamo costruito un mondo,
abbiamo dato forma ad un ambiente che non è per, ma contro
l’infanzia”.
Da un punto di vista giuridico, in ogni caso, la realtà
italiana considera il minorenne, come avviene dall’epoca
della prima formulazione di quel complesso articolato di norme
che va sotto il nome di Diritto Romano, privo della “capacità
di agire”. Per questo l’esercizio dei suoi diritti
è attribuito al legale rappresentante che esercita il potere
di agire nell’interesse del minore. Di norma, questa prerogativa
spetta ancora ai genitori, anche se il nuovo diritto di famiglia
riconosce ai minori diritti personali ponendo in questo modo le
basi di un rapporto diverso, più dinamico, con l’autorità
dei genitori e tutte quelle figure professionali che devono rispondere
ad un Codice Deontologico custodito da un Ordine.
I minori, quindi, almeno sulla carta ed in funzione dell’età,
sono oggi titolari di nuovi margini di autonomia decisionale anche
in campo sanitario: si pensi ad esempio alla prescrizione di farmaci
contraccettivi, all’interruzione di gravidanza o al trattamento
della dipendenza.
Il medico, quando il titolare di un percorso diagnostico-terapeutico
o di prevenzione è un adulto, ha come interlocutore il
malato e la famiglia entra in gioco nella condivisione delle decisioni
soltanto su esplicita richiesta del malato. Quando il malato è
un bambino, invece, il medico, per motivi giuridici, deve necessariamente
instaurare un rapporto sia con il minore sia con la sua famiglia.
Proprio da questa imprescindibile particolarità nascono
tutte le difficoltà professionali che il medico deve superare:
si pensi al caso in cui egli debba prendere delle decisioni nell’interesse
della tutela della salute del bambino ma in contrasto con i genitori,
all’evenienza in cui egli debba comunicare l’esistenza
di una patologia ad esito fatale…
Proprio per questi motivi anche il Codice Deontologico in vigore
nel nostro paese assegna, di fatto, al medico, come avviene nel
mondo anglosassone, il ruolo di “avvocato del bambino”:
un ruolo di grandissima responsabilità sotto un profilo
umano, morale, giuridico e culturale.
Come ha detto in un recente convegno torinese dedicato a questo
tema il magistrato Amedeo Santosuosso, impegnato da tempo sulle
tematiche del consenso informato, afferma che “quanto dovrebbe
accadere con i bambini rappresenta nel modo più chiaro
il paradigma operativo di un approccio corretto anche per gli
adulti poiché costringe i sanitari ad usare il consenso
informato come uno degli strumenti all’interno della relazione
terapeutica e non come un fine per la necessità di garantirsi
da un punto di vista giuridico”.
In ogni caso mi sembra onesto concludere questo mio intervento,
con un’affermazione che faccio innanzi tutto come Vice presidente
della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi
e Odontoiatri italiani: è inutile negare che nel rapporto
medico-malato, anche in un’epoca come questa, esiste ancora,
e forse sempre esisterà, un’asimmetria dell’informazione
tra le parti. Un’asimmetria che attualmente, e in non pochi
casi, produce soprattutto effetti burocratici: al malato, per
esempio si chiede spesso di firmare un modulo (il consenso informato)
che serve soprattutto a porre il medico al riparo da ricadute
legali. Un’asimmetria che tuttavia si può e si deve,
almeno parzialmente correggere per quanto ci compete.
L’Ordine dei Medici di Torino che ho l’onore di presiedere
da tre anni, ad esempio, si è già fatto promotore
perché ai medici si insegni, sin dall’Università,
l’arte del comunicare.
Dott. Amedeo Bianco
Presidente Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri
della provincia di Torino e
Vice presidente della Federazione Nazionale (FNOMCeO)
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